Consentia e le sue forme di A. Battista Sangineto
Le città, soprattutto quelle italiane, sono diverse le une dalle altre perché hanno forme urbane, avvenimenti storici, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano molto differenti fra loro. Ogni città è il risultato unico ed irripetibile di una enorme quantità di variabili storiche, sociali, religiose ed economiche.
La città è la forma ideale e peculiare delle società degli esseri umani e quelle italiane hanno rappresentato un modello per la gran parte del mondo, per molti secoli. Nell’Italia delle “cento città” la forma urbana è cambiata molte volte: dalla città greca a quella italica, da quella romana a quella medioevale e, poi, rinascimentale e barocca con una straordinaria e, ogni volta, originale capacità di mescolare evoluzione e conservazione, rinnovamento e riutilizzazione delle forme, delle strutture e dei monumenti preesistenti (Settis 2014). Cosenza è una delle “cento città” italiane e leggendo il racconto storico-archeologico delle sue origini e del suo sviluppo potrete scoprire quanta ricchezza, quanta bellezza, quanta varietà di forme nel tempo e nello spazio contenga il cuore antico di questa città.
Le fonti letterarie sulla capitale dei Bruttii: Consentia
Il nome di Cosenza è, nel mondo antico, indissolubilmente legato ai Brettii dei quali la città viene presentata, dagli scrittori antichi, come la capitale. Strabone (VI 1, 5) definisce la città come “capitale dei Brettii” avente come data di nascita il 356 a.C. I “Brettii”, italici discendenti dei Lucani, nel costituirsi in un’entità socio-politica autonoma, sembrano scegliere, come luogo per edificare la loro capitale, la collina, il Pancrazio, che domina dall’alto la confluenza del Crati con il Busento, forse già abitata, come le colline circostanti, da nuclei sparsi di pastori pre-italici.
La posizione nella quale viene fondata la città (fig. 1) è di grande importanza geografica, militare e commerciale, sita come è all’inizio della media valle del Crati, una via naturale di comunicazione, e che costituisce lo snodo fra la media valle del fiume, alla cui foce era Thurii, e la valle del Savuto alla cui foce sorgeva, probabilmente, Temesa. Altrettanto facilmente intuibile è la sua posizione strategica riguardo allo sfruttamento degli abbondanti pascoli e del legname della Sila, già molto famosa nell’antichità.
Cosenza la ritroviamo citata da Tito Livio (VIII, 24, 2-17) quando lo storico parla dell’impresa di Alessandro d’Epiro, zio di Alessandro Magno, accorso in aiuto, nel 335 a.C., delle colonie magnogreche contro le popolazioni italiche che le minacciavano sempre di più. Alessandro sconfigge Lucani e Brettii più volte e conquista anche Cosenza, pur non riuscendo a tenerla per molto tempo. Dal racconto di Livio (VIII, 24, 2-17) sulla sorte toccata ai resti del re sconfitto e ucciso dagli italici, si evince che la città era diventata, già intorno al 330 a.C., l’entità politica, economica ed urbanistica più rilevante dell’area tanto che una metà del corpo di Alessandro fu mandata proprio a Cosenza per esporla al pubblico ludibrio. Della città non abbiamo più notizie dirette dagli autori antichi fino alla fine della seconda guerra punica nel corso della quale sappiamo, sempre da Livio (XXIII 30, 1-9), che si arrende a Annibale. Sempre da Livio (XXV 1, 2-3) apprendiamo che la città si era alleata ora con l’uno ora con l’altro contendente tanto che, delle dodici popolazioni dei Brettii, tornano, in fidem populi romani, solo Cosenza e Tauriana che prima si erano date ad Annibale. Cosenza potrebbe avere subito saccheggi e distruzioni a causa delle battaglie che infuriarono, proprio nei Brettii, per più di un decennio. Livio (XXVIII 11, 12-14) dice che nel 206 a.C. i consoli Q. Cecilio e L. Veturio fanno una incursione nel territorio di Cosenza e lo saccheggiano fino a che non vengono fermati dai Brettii, ma nel 204 a.C. la città e altri centri si arrendono alla potenza romana (Livio, XXIX 38, 1). Cosenza ha la sfortuna di trovarsi, in quel momento, alleata di Annibale quando, nel 203 a.C., deve combattere contro i romani, guidati dal console Cn. Servilio, che la costringono alla resa definitiva (Livio XXX, 19, 10).
Delle vicende successive alla conquista romana non sappiamo quasi nulla, anche se siamo abbastanza sicuri che la via Annia Popilia, costruita nel 132 a.C., passasse per la città come ci è testimoniato dal Lapis Pollae, dalla Tabula Peutingeriana e dall’Itinerarium Antonini. Cosenza viene, poi, citata anche da Orosio (Hist. Adv. Pag., V 24, 2) quando, nel 72 a.C., le schiere di Spartaco la raggiungono forse anche perché convinte di trovarvi molti servi disposti a ribellarsi e ad unirsi a loro.Appiano (V, 56, 58) ricorda che la popolazione, soprattutto quella servile di origine bruzia, potrebbe esser stata usata in senso eversivo tanto che M. Celio Rufo tentò di sobillarla contro Cesare nel 48 a.C. Secondo un’ipotesi credibile potrebbe esservi stato un coinvolgimento di questa popolazione servile da parte di Sesto Pompeo, alleato di Antonio, contro Ottaviano in occasione del suo assedio di Thurii e di Cosenza. Nel 40 a.C. (Appiano V, 56, 58) Pompeo le assediò tutte e due e ne devastò i territori, ma, cionondimeno, fu respinto da entrambe le città che, in tal modo, dimostrarono la loro fedeltà ad Ottaviano. Una fedeltà che potrebbe esser stata premiata, in epoca augustea, con un programma di riurbanizzazione e di monumentalizzazione
Dopo quest’ultima vicenda, Cosenza non viene quasi più menzionata, per circa quattro secoli, dalle fonti letterarie. Sembra vivere una tranquilla vita di provincia tanto che solo alcuni sporadici, pur se significativi, accenni sono rivolti alla vita economica della città e del suo “ager”. Varrone (De Re Rustica, I 7, 5-6) racconta che i meli del “Consentino” producevano un doppio raccolto rispetto ad altri, mentre Plinio il Vecchio (N.H., XVI 115) dice che, addirittura, il raccolto dei suddetti meli poteva essere triplo. In un altro passo Plinio (N.H., XIV 69) aveva già detto che i vini del territorio di Consentia – al pari di quelli di Taranto, di Tempsa e di Thurii– non mancavano di fama. La ricerca archeologica a Cosenza ha avuto -come è usuale in una città pluristratificata e con successive superfetazioni, ricostruzioni, abbandoni, riutilizzi e programmi edilizi di piccolo o grande respiro- un andamento altalenante, imposto dalle ristrutturazioni, dai lavori pubblici e privati effettuati nel corpo urbano e nelle sue immediate periferie. Nel corso degli ultimi tre decenni, grazie all’impulso di Silvana Luppino, sono stati compiuti numerosi interventi archeologici anche se, quasi tutti, di carattere emergenziale.
Le élites cosentine e i ritrovamenti della città antica dal ‘500.
Prima di passare ad una rassegna ragionata degli scavi effettuati nel centro storico di Cosenza negli ultimi trenta anni, siamo convinti che valga la pena di ricordare i rinvenimenti che sono menzionati nella letteratura precedente anche se sono, nella maggior parte dei casi, perduti. (fig. 2). Siamo convinti che sia importante perché l’attenzione nei confronti delle cose antiche è, a Cosenza, piuttosto remota e radicata al punto che, già nel ‘500, Leandro Alberti, nella sua “Descrittione di tutta Italia”, rileva con grande compiacimento e un po’ di stupore, che l’élite cittadina coltiva in maniera non rapsodica gli studi antiquari. La città appare agli occhi dei viaggiatori, come Alberti o Tiraboschi, non solo come la capitale dell’antiquaria in Calabria, ma anche una delle più importanti del Mezzogiorno in questo campo di studi. Studi coltivati da personaggi appartenenti alla classe dirigente come Prospero Parisio, Bernardino Bombini -autore di una storia manoscritta dei Bruzi -, Sertorio Quattromani -autore anch’egli di una Istoria della città di Cosenza manoscritta – e Adriano Guglielmo Spatafora. La ragione di questo interesse risiede nell’importanza che l’élite cittadina attribuisce all’ ”antiquaria” come elemento indispensabile alla costruzione della propria identità.
I primi rinvenimenti sembrano esservi già nel ‘500 quando Bernardino Bombini racconta, nel suo sopracitato manoscritto, di aver trovato, nel 1561, presso casa sua un idoletto bronzeo che, secondo l’erudito cosentino il bronzetto raffigurava Ercole, ritenuto essere il mitico antenato dei cosentini. I ritrovamenti proseguono nel XVII se è vero che, secondo un altro manoscritto, si dice che, nel 1607, “al pian terreno dell’imponente palazzo di Pompeo Sersale si trova una petra di marmore con certe imagini antique”. Del XVIII secolo sembra essere il rinvenimento, ancora nella zona delle Cappuccinelle, di una lastra bronzea che, secondo l’Aceti, recava l’iscrizione: “Valerio Flacco ricostrui a sue spese la rocca dei Bretti”.
In un’epoca più recente, rispettivamente nel 1812 e nel 1842, furono scoperte due porzioni di una medesima necropoli, la prima volta nel sito dell’Episcopio e della Giostra Nuova e la seconda nel giardino dell’Episcopio medesimo. Manfredi racconta, pure, che nel 1824 furono rinvenuti, in contrada “li Pettini”, alcuni resti di colonne in granito rosso ed altri in porfido, forse resti di un edificio templare. Nel 1826, durante dei lavori per l’abbassamento di quota della strada della Giostra Vecchia, in prossimità di Palazzo Grisolia, si scoprì una struttura antica che sembra aver avuto un rivestimento pavimentale in mosaico. Ancora secondo il Manfredi, nel 1832, nella zona del palazzo De Nicola in contrada S. Lucia, furono rinvenuti altri resti di colonne, architravi e triglifi. Anche nel quartiere dei Rivocati, nel 1840, furono rinvenuti, a seguito di lavori per una strada, alcuni pavimenti a mosaico. Tra gli anni 1876-77, e poi dopo nel 1879, sono stati effettuati degli scavi attorno al piazzale della Stazione ferroviaria di Cosenza che portarono alla luce una necropoli, forse, ellenistica.
Nel corso del XIX secolo sono stati rinvenuti anche alcuni ruderi sia in contrada “Villanello”, sia in contrada “Tenimento” dalle quali provenivano alcuni reperti numismatici, ormai perduti, ed una statuetta in bronzo raffigurante Ercole, ora al Museo dei Brettii. Nel corso di alcuni scavi effettuati agli inizi del XX secolo per una riqualificazione edilizia della zona, sono venuti alla luce alcuni settori di una o più necropoli, dalle quali fu recuperata una serie notevole di materiali: un elmo in bronzo, un capitello ionico lavorato nel tufo, ora al Museo dei Brettii, forse pertinente ad un sepolcro di IV-III secolo d. C., ed altri materiali la maggior parte dei quali è andata perduta.
Nel 1933, in contrada Mojo, durante i lavori per lo scavo delle fondamenta dell’Ospedale Civico dell’Annunziata, furono portate alla luce settanta tombe alla cappuccina, con coperture in tegole e corredi funerari databili tra la metà del IV ed il III secolo a. C.
Il Soprintendente Edoardo Galli ricorda che durante la realizzazione dell’attuale Corso Vittorio Emanuele II, in un orto, si vedeva, e del resto si vede ancora, un lacerto di muro romano in “opus reticulatum”. Anche Paolo Orsi ricorda sulle pendici del Colle Pancrazio, i resti di alcune strutture a grandi massi nella parte inferiore e a reticolato in quella superiore, di probabile età romana. Sappiamo che questi resti erano ancora ben visibili agli inizi del secolo scorso, soprattutto nella zona ad occidente del convento di S. Francesco d’Assisi, ed in prossimità del convento delle Cappuccinelle, al di sopra della fontana detta di “Messere Andrea” e fino quasi alla riva del Crati, alla fine del vicolo “Pusterla”, nel lato orientale di palazzo Campagna.
Nel 1904 nelle adiacenze dell’Episcopio, durante i lavori di fondazione del Seminario Arcivescovile (oggi Biblioteca Nazionale), fu rinvenuta una lastra sepolcrale, immediatamente trafugata, ma poi venne recuperata in Sicilia, quando Edoardo Galli ne decise l’acquisto per lo Stato nel 1927 da un antiquario di Taormina. Nel 1933, sulla sponda destra del Crati, in contrada Cannuzze, è stata rinvenuta una tomba, databile nel III d.C., che aveva come corredo un “oinophoros” con soggetti a rilievo a tema dionisiaco, forse di importazione dall’Asia Minore, una sonda a cucchiaio e un contenitore cilindrico in bronzo, che fanno pensare alla sepoltura di un medico. È possibile che nel 1952, a Porta Piana, sia stata individuata una necropoli databile fra il IV ed il V secolo d. C. della quale, purtroppo, non rimane alcunché.
Per terminare questo elenco, in ordine cronologico di rinvenimento, fra gli anni ’10 e gli anni ’50 del secolo scorso furono rinvenute numerose, e in alcuni casi, consistenti tracce di alcune necropoli di epoca ellenistica e romana nell’area dell’allora costruenda città nuova. Negli anni’60, infine, fu rinvenuta nei pressi di Santa Maria, vicino alla collina dei Lattari, un’altra iscrizione funeraria, attribuibile forse al III d.C., di una donna della “gens Ummidia” dedicatale dal figlio “Plaetorius Primus”.
Gli interventi archeologici effettuati negli ultimi tre decenni. (fig. 3)
Gli interventi archeologici effettuati nel corpo vivo della città antica sono stati effettuati negli ultimi tre decenni e sono stati, nella maggior parte dei casi, pubblicati nel catalogo del Museo dei Bretti e degli Enotri, edito nel 2014 da Rubbettino e curato da M. Cerzoso e A. Vanzetti.
Il primo di questi interventi fu effettuato, nel 1984 e nel 1987 – a Palazzo Sersale che si affaccia sia su Corso Telesio, sia su Piazza XV Aprile- a seguito di lavori effettuati da una banca per la costruzione di un “caveu”. Sono venute alla luce strutture della fine del IV a.C. riutilizzate fino all’età repubblicana (fig. 4). Le strutture bruzie sembrano essere tagliate, nel corso del I a.C., da un canale risultato pertinente ad alcuni ambienti termali che sembrano essere restaurati e rinnovati in età augustea. Nel Vano 4 sono stati riportati alla luce il calidarium con i relativi tubuli, mentre nel Vano 1 sono stati rinvenuti due grandi lembi di pavimento a mosaico bianco e nero databili fra la fine del I a.C. e gli inizi del I secolo d.C.
Nel 1990 a seguito di un intervento di restauro e di riutilizzazione dei locali situati al pianterreno dell’ex Seminario della Curia di Cosenza, ora Biblioteca Nazionale, i lavori furono interrotto perché in uno degli ambienti affiorava materiale archeologico. Lo scavo archeologico rimuovendo strati di riempimento e obliterazione sotto i quali è apparso l’ambiente antico delimitato dai muri US 6, 7 e 9 che era interamente coperto da un crollo di tegole e coppi molto potente, risultato della caduta della copertura dell’ambiente medesimo (fig. 6)
L’omogeneità, lo spessore e la concentrazione dello strato ci hanno fatto pensare che il crollo della copertura sia avvenuto in un unico momento, forse a seguito di un evento traumatico, probabilmente un terremoto. Nel contiguo ambiente moderno 11, dopo aver rimosso uno strato che era, forse, il piano di calpestio relativo ad un giardino o un orto di epoca rinascimentale o post-rinascimentale, furono messi alla luce alcuni muri antichi. Rimosso lo strato US 12 si mette in evidenza uno strato contenente coppi, tegole e pietre che costituivano il crollo dei muri. Nello strato sottostante si rinvengono resti ossei, fra i quali il cranio di una mucca che fu sorpresa, ed uccisa in situ, dal crollo improvviso della copertura e delle strutture(fig. 7).
Lo scavo di Piazzetta Toscano è stato effettuato, fra il 1998 ed il 1999, a seguito di un intervento di recupero e riqualificazione voluto dal Comune di Cosenza. L’area, lasciata in gran parte libera dopo il crollo di un palazzo, (fig. 9) era piuttosto estesa, circa 1800 mq. (fig. 11). Quello che emerge dalla pubblicazione già citata è che, oltre alle strutture medioevali e postmedioevali sovrapposte, la maggior parte delle strutture antiche portate alla luce sia pertinente ad una importante “domus”, (fig. 12) articolata in diversi ambienti, alcuni dei quali di rappresentanza e quindi mosaicati, ed altri utilizzati come vani di servizio, alcuni dei quali adibiti alla conservazione delle derrate alimentari, depositate in grossi “dolia” ancora in situ. L’impianto della “domus”, o almeno dei suoi rivestimenti pavimentali, sembra essere databile intorno alla fine del I secolo a.C. o, al più tardi, agli inizi del secolo successivo. Le sue strutture sembrano aver obliterato una porzione dell’abitato ellenistico del quale rimangono labili tracce negli strati più profondi.
Un cenno merita l’imbarazzante costruzione che si è ritenuto di voler sovrapporre alle antiche rovine (fig. 13). L’intenzione manifestata dall’Ente attuatore era, ovviamente, quella di preservarle, ma il risultato incontrovertibile è, invece, sotto gli occhi di chicchessia: una colata di cemento, ferro e vetro sull’intera area con inevitabili, e irreversibili, inserzioni di cemento armato e di putrelle nei muri antichi (figg. 14 e 15)).
La costruzione, per sovraprezzo, impedisce non solo la visione d’insieme del monumento, ma anche, a causa della prevedibilissima opacizzazione dei cristalli adoperati, la possibilità di apprezzare il complesso e i dettagli degli ambienti antichi portati alla luce dallo scavo archeologico; ostacola la pulizia del sito sia dalle erbacce, sia dal butto periodico, ma costante, di spazzatura rendendo quest’area della città antica infrequentabile (figg. 16 e 17)
Un’altra importante area archeologica è stata individuata nel quartiere di Santa Lucia, in via San Tommaso, all’interno di un palazzo del ‘400 oggetto di un progetto di recupero da parte del Comune che ne è anche l’Ente proprietario. Lo scavo, effettuato fra il 2003 ed il 2004, ha messo alla luce un serie di strutture antiche associabili ad una struttura termale di epoca romana, ma anche alcune strutture, databili al III a.C., con i relativi crolli di epoca ellenistica, riconducibili alla città bruzia (fig. 18).
Molti dei muri in vista sono in “opus reticulatum” (fig. 19) e almeno in un ambiente la pavimentazione è in “opus signinum”. La sequenza stratigrafica e delle strutture è composta da una prima fase edilizia ellenistica di fine IV-inizi III a.C., cui si sovrappone una fase di strutture termali di epoca tardo-repubblicana in “opus reticulatum”. A partire dal II d.C., forse anche in questo caso a causa del terremoto, si assiste al declino e poi all’abbandono con una frequentazione sporadica di epoca tardo antica, fino alla costruzione del palazzo signorile nel XV secolo. Anche nel caso del Liceo Telesio l’occasione dello scavo archeologico è stata offerta dalla ristrutturazione e rifunzionalizzazione dell’edificio da parte dell’Ente proprietario e cioè la Provincia. Nel corso del 2013 sono state effettuate indagini archeologiche d’emergenza che non sono state ancora pubblicate (fig. 20). All’interno dell’edificio, adibito a Liceo ginnasio dopo l’Unità d’Italia, lo scavo ha portato alla luce alcune strutture, sotto le più superficiali strutture ottocentesche, che erano relative, probabilmente, ad un convento dei Gesuiti. Queste strutture obliterano un teatro che fu abbattuto, intorno alla metà del XIX, a causa del ritorno dei Gesuiti sul sito del loro collegio e della loro Chiesa precedenti. Questi edifici, costruiti fra la fine del XVI e gli inizi del XVII, hanno lasciato traccia nelle strutture che sono ancora visibili sotto i pavimenti delle vecchie aule del Liceo (fig. 21).
Negli strati più profondi, sotto gli strati e le strutture postmedioevali e medioevali, sono stati rinvenuti frustuli di muri ellenistici e romani associati a piccole porzioni di stratigrafie coeve. Anche nel Duomo di Cosenza sono stati effettuati scavi archeologici nell’area presbiteriale della cattedrale. Gli scavi, non ancora pubblicati, hanno portato in luce, per quello che ci è dato sapere, una complessa stratigrafia che partendo dalle più profonde strutture brettie, passando da quelle romane e paleocristiane (fonte battesimale del IV d.C.) arriva fino alle più tarde fasi normanne e post-medioevali. Dello scavo effettuato presso la chiesa di S. Francesco d’Assisi nel 2013 possiamo solo dire, perché non è stato pubblicato, che anche in questo caso sono stati rinvenuti importanti ambienti e strutture di epoca romana, alcune delle quali in “opus reticulatum”.(fig. 21 bis)
La forma della città: per la ricostruzione dell’antica Cosenza.
Può essere che il Pancrazio, così come gli altri colli cosentini, sia stato abitato prima del 356 a.C. che comunemente, ormai, si usa come data di nascita dell’emersione dei Bruttii. Il Colle Pancrazio (fig. 22), che è anche il più alto ed il più difficilmente attaccabile, potrebbe esser stato il primo sito dell’insediamento umano in quest’area, forse anteriore a quello di epoca ellenistica. Non abbiamo elementi concreti neanche per poter dire che vi fosse istallata una fortificazione di metà IV a.C., ma quel che sappiamo di sicuro è che è stato occupato e fortificato sin dal primo medioevo, forse già agli inizi del XII d.C.. È probabile che per costruire l’attuale Castello siano stati usati materiali di reimpiego come i blocchi di calcarenite che, ancora oggi, si riconoscono nell’ordito dei muri.
Quale era, dunque, la consistenza urbana di Cosenza in epoca ellenistica? La serie di tombe rinvenute sulle sommità dei colli circostanti ha restituito corredi funerari piuttosto poveri relativi, forse, a piccoli villaggi o a fattorie sparse nel territorio che, nel caso di pericolo o di svolgimento di funzioni religiose o civili, potevano avere un legame, come in altri casi già noti (Castiglione di Paludi e Vibo Valentia), con l’ “oppidum” di Cosenza, munito di una cinta muraria che al suo interno conteneva, forse, non molte abitazioni, ma che poteva accogliere la popolazione della campagna in caso di guerra, ma anche caserme per i soldati di guarnigione e, forse, edifici pubblici per lo svolgimento di funzioni civili e religiose. Quel che sembra sicuro è che le pendici settentrionali, la riva sinistra del Crati, siano state occupate da abitazioni a partire dalla metà del IV a.C.
La Cosenza antica, soprattutto romana, che abbiamo rinvenuto nel corso degli scavi, con tutti i muri in “opus reticulatum” che emergono in più punti dell’attuale centro storico (fig. 22. 1, 2 e 3) sembrerebbe essere entrata, a pieno titolo, nel programma di monumentalizzazione, romanizzazione e “augustalizzazione” delle regioni meridionali. Il fervore edilizio che sembra concentrarsi in città, fra la fine del I a.C. e gli inizi del I d.C., potrebbe essere uno dei modi usati dall’imperatore Augusto per romanizzare in maniera definitiva anche questa porzione della penisola.
L’estensione della città in quest’epoca, sulla scorta delle notizie più antiche e degli scavi più recenti, sembra essere abbastanza ampia. Nella cartina che presentiamo (fig. 23) abbiamo ipotizzato che essa occupasse la sommità e le pendici orientali e settentrionali del Pancrazio, quasi come la città medioevale e rinascimentale. Abbiamo ipotizzato anche che le mura corressero lungo la riva sinistra del Crati e poi risalissero il colle a sud, lungo l’attuale linea del Cafarone, e a nord lungo una linea che comprendesse al suo interno le Cappuccinelle e la chiesa San Francesco, fino a comprenderne anche la sommità sulla quale era stato, forse, costruito un “castrum” dai Brettii.
Un elemento sembra emergere con una certa evidenza dalle stratigrafie di tutti gli scavi effettuati: fra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C. è molto probabile che si sia verificato un terremoto, come, del resto, abbiamo già ipotizzato che sia avvenuto sul Tirreno cosentino a San Lucido, a Paola, a Tortora, ma anche a Copia-Thurii. Dopo l’evento sismico, in coincidenza, peraltro, della più generale e profonda crisi del II secolo d.C., la città viene, in più punti, abbandonata e sembra restringersi al punto di spingerci a dire che, allo stato attuale della ricerca, non abbiamo traccia di strutture che –escludendo, forse, quelle rinvenute all’interno del Duomo- siano rimaste in vita.
Un elemento che ci spinge a dire che la città, seppure mal ridotta, non doveva esser del tutto abbandonata e spopolata viene fornito dalla prima notizia certa dell’esistenza di una Diocesi, retta dal vescovo Palumbo, databile, grazie all’epistolario di Gregorio Magno, già nel 599 d.C. Poche e frammentarie sono le notizie che possediamo, allo stato della ricerca, riguardo all’alto medioevo: alcune fonti, per esempio, riportano notizie di altri terremoti verificatisi nel XI e nel XII secolo. Per una rivitalizzazione e per un recupero pieno dell’impianto urbano -dopo un lungo periodo di restringimento, abbandoni e riusi- sembra che si debba aspettare il XIII secolo. In quell’epoca viene redatta la Platea di Luca, arcivescovo di Cosenza fra il 1203 ed il 1227, dalla quale si riesce, parzialmente, ad evincere il rinnovato assetto urbano della città: strutture religiose, perimetro murario e accessi interni.
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di mostrare quanto sofisticato fosse il tentativo di costruzione dell’identità da parte della classe dirigente della città, a partire sin dal ‘500, non solo per mezzo della scoperta e della raccolta degli oggetti, ma anche attraverso il tentativo di interpretazione delle strutture antiche rinvenute. A distanza di un secolo a Cosenza -a partire dal 2010, anniversario della morte di Alarico, forse avvenuta sulle rive del Busento si è ritenuto di voler, invece, celebrare il re visigoto. In particolare quella attualmente in carica vuole, addirittura, dedicargli un Museo abbattendo un edificio, costruito negli anni ‘50 (fig. 24) ai piedi del centro storico, ed edificandone un altro al suo posto (fig. 25) per la “modica” cifra di 7 milioni di euro. Viene spontaneo chiedersi cosa spinga le attuali classi dirigenti cosentine a celebrare un re barbaro che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C., muore, per caso, nei pressi di Cosenza e vi viene seppellito con il frutto delle razzie compiute. Ci si chiede, pure, in quale modo tanta attenzione nei confronti di un episodio leggendario, del quale non si ha la menoma traccia materiale, possa contribuire alla creazione di un Museo e di una positiva identità cittadina. Pur volendo prender per buono il testo della leggenda propalata da Jordanes che, peraltro, scrive ben 150 anni dopo i fatti che racconta, vien fatto di chiedersi cosa spinga a voler celebrare il re di quei visigoti che – “raccolgono una schiera di uomini”, per deviare e seppellire nell’alveo del fiume Busento Alarico ed il suo tesoro e, poi, “li seppelliscono tutti” per evitare che rivelino il luogo della sepoltura. Sembrerebbe, dunque, che non vi sia alcuna ragione per celebrarlo soprattutto perchè gli assassinati in catene di cui parla Jordanes, erano certamente antichi cosentini in quanto quei barbari, per esser più liberi di combattere, non avevano di certo attraversato l’Italia portandosi dietro prigionieri.
Alla luce della quantità e della qualità delle strutture, delle “domus”, delle terme pubbliche e della grande importanza dei reperti archeologici sopra illustrati ci si può fondatamente chiedere se tutte queste monumentali strutture antiche già rinvenute e scoperte non potrebbero, più fondatamente della leggenda dell’invasore Alarico, rappresentare e ravvivare l’identità e l’anima antica, medioevale e rinascimentale della città e dei suoi abitanti. Perché spendere energie e finanziamenti per una leggenda che può, forse, suscitare fremiti di orgoglio presso lontani popoli centroeuropei e non rivolgere, invece, la propria cura e i propri progetti ad un Patrimonio che è stato già parzialmente portato alla luce, un Patrimonio che appartiene alla città, ai suoi cittadini e, storicamente, alla loro identità?
Ogni città, soprattutto se di antica origine, è non solo il risultato della propria storia, ma anche il volto e la traduzione in pietra e mattoni del popolo che la abita, la conserva e la trasforma (Settis 2014). Cosenza ha una sua pluristratificata e originale storia che deve essere raccontata con la maggiore accuratezza possibile tanto da esaltare la complessità, il fascino e la ricchezza delle sue vicende materiali ed immateriali e indurre i cittadini a viverla e ad amarla. Cosenza è ancora ben lungi dall’essere, come dovrebbe, pienamente reinterpretata e riguadagnata alla vita contemporanea come naturale scaturigine di storia e identità individuale e collettiva, ma è la mia città e sono orgoglioso di essere cosentino.
Bibliografia essenziale:
- Burgarella, Dalle origini al Medioevo, in F. Mazza (a cura di), Cosenza. Storia, cultura, economia”, Rubbettino 1991, pp. 15-70
- Cerzoso-A. Vanzetti (a cura di), Museo dei Brettii e degli Enotri, Rubbettino 2014.
- B. Sangineto, Roma nei Bruttii. Città e campagne nelle Calabrie romane, Ferrari, 2012.
- Terzi, Cosenza. Medioevo e rinascimento, Pellegrini 2014.
- Settis, Se Venezia muore, Einaudi 2014
Il testo è tratto e rielaborato dalla relazione presentata dall’autore nel corso di un Convegno di studi in onore di Silvana Luppino, tenutosi presso l’Istituto Nazionale di Archeologia di Roma.
[In allegato il pdf uscito in Riasa] “Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni”