La scomparsa del paesaggio del Mezzogiorno di A. Battista Sangineto
Il paesaggio del Mezzogiorno è scomparso almeno due volte: la prima alla fine della civiltà antica e la seconda durante questo dopoguerra. La prima sparizione avviene per un regresso in termini di civiltà conseguente alla fine del mondo antico, nello abbandono delle coste e delle pianure divenute malsane ed insicure, nella risalita degli insediamenti verso l’interno, nella miseria conseguente alla poca disponibilità di territorio agrario in un contesto geomorfologico difficilissimo, nell’enorme fatica che una conformazione montuosa e silvestre imponeva agli uomini per le coltivazioni.
Gli insediamenti antichi, distribuiti in prevalenza lungo le coste e nelle pianure, dopo il VI secolo d. C. vengono abbandonati e gli uomini e le loro abitazioni risalgono, lontano dalle malattie e dalle incursioni, verso l’interno, verso le montagne. Le coste del mezzogiorno si spopolano, si impaludano e i siti delle città di origine magnogreca e romana vengono abbandonati e, poi, cancellati dalle intemperie. Le rovine dei monumenti e delle abitazioni vengono inghiottite da una rigogliosa vegetazione spontanea che ne ha occultato, fino agli inizi del ‘900, l’ubicazione, forse più in Calabria che nelle altre regioni del mezzogiorno d’Italia[1]. La natura, con i suoi impetuosi sconquassi, ha sottratto per molti secoli le antiche grandezze dell’uomo rendendole indisponibili, soprattutto in Lucania e Calabria, allo sguardo ed alla percezione dei meridionali e dei forestieri, fin quasi agli inizi del XX secolo. Nel resoconto di un viaggio in Calabria, compiuto da Bertarelli nel 1897, il paesaggio della media valle del Crati, per fare un solo esempio, appare disabitato, selvaggio e paragonabile ad una giungla amazzonica:
Uscendo da Cosenza la strada […] attraversa un paese curiosissimo, interessante in sommo grado, selvaggio del più riposto angolo delle maremme toscane. Immense macchie totalmente deserte che coprono la larga valle dove dappertutto, come nelle jangade brasiliane, l’acqua c’è o corrente, o stagnante, o visibile, o nascosta. Non una casa, non una persona nel lungo tragitto. […] Dalla melma emergono teste colossali di bufali, che se ne stanno a ruminare, il corpo nascosto nella mota, teste sciocche e spaventose che si direbbero di bisonte, corpi neri, gibbosi e glabri, che paiono di ippopotami[2].
Fino al XVIII secolo la memoria dell’antico paesaggio della Magna Grecia e di Roma si era persa anche fra gli eruditi di tutta Europa e se in Campania, già nel corso del ‘700, gli scavi borbonici riportarono parzialmente alla luce le città di Ercolano (1738), Pompei (1748) e i templi di Paestum, nelle altre regioni dovette, invece, passare almeno un secolo prima che venissero effettuate scoperte archeologiche di un qualche rilievo. In Calabria ci vollero gli scavi di Paolo Orsi per riportare alla luce i resti delle città antiche di Locri, di Reggio Calabria, dei templi di Crotone e di Cirò Punta Alice la cui esistenza, fino ai primi decenni del secolo scorso, era stata solo probabile, ma non provabile. La formazione preistorica ed empirica dell’archeologo trentino consentirono di portare, in Calabria, la moderna scienza dell’archeologia relegando l’erudizione fine a se stessa, e le fantasie dei tanti localismi mitopoietici, nei recessi delle storie locali[3].
L’eclisse di quel paesaggio antico profondamente umanizzato nelle regioni meridionali sembra aver impedito che, nelle popolazioni che le hanno abitate, si formasse quella peculiare percezione delle rovine che ha informato di sé la civiltà occidentale[4]. Il dissolvimento del paesaggio agrario romano, il ritorno a modi di produzione più arretrati, l’affievolimento e la regressione della civiltà urbana insieme alle invasioni ed alle dominazioni straniere, dovevano aver di nuovo inselvatichito le genti, tanto che, in particolare, i calabresi potevano, agli occhi dei forestieri, esser identificati con i discendenti, geneticamente autentici, degli indomiti pastori e guerrieri Bruzi di IV e III secolo a.C[5].
La seconda scomparsa del paesaggio, l’occultamento e la cancellazione dei luoghi nativi avviene nel secondo dopoguerra con la cementificazione del territorio, con le case non-finite che invadono le campagne, le periferie delle città, le coste e, addirittura, i corsi dei fiumi del Mezzogiorno d’Italia. E che dire della dilagante stradomania che ha sfigurato vallate, sventrato montagne, squadrato dolci colline, trasformato in corsi cittadini, asfaltati ed illuminati a giorno, sentieri di campagna che collegavano, e collegano, sparse case coloniche? Attraverso le strade, una volta placata l’atavica fame di vie di comunicazione, sono passate e passano, ormai, solo il degrado dei paesaggi agrari, l’avvilimento a merce di poco prezzo dei boschi e dei monti, la speculazione edilizia, ma non il progresso e i flussi turistici di qualità. Molte campagne meridionali hanno assunto l’aspetto precario, sporco e disperato delle periferie metropolitane in cui si avverte, forte, la sensazione di spossessamento e di estraneità rispetto ad un paesaggio rurale che sembra sempre sul punto di potersi dispiegare, in tutta la sua trionfante pienezza, dietro l’angolo, ma che viene inevitabilmente sconfitto da un’altra sparsa moltitudine di case non-finite disseminate per i campi mal coltivati [6]. È quasi ovunque assente il decoro non solo delle strade, delle piazze, degli spazi verdi, della proprietà pubblica insomma, ma addirittura anche della proprietà privata, perché sarebbe impossibile spiegarsi altrimenti l’incuria con la quale sono tenute le facciate delle case, la sporcizia dei giardini e la vivissima impressione di disordine che suscitano molte campagne meridionali, anche quelle coltivate. Il pubblico decoro è un concetto che viene ripetuto quasi ossessivamente nei documenti dei Comuni del Duecento e del Trecento. Il decoro della città era perseguito dai governanti non solo per mezzo di leggi che regolamentavano l’altezza, l’aspetto esterno, le imposte degli edifici privati, ma anche attraverso la costruzione di edifici pubblici, fontane, piazze e tutto quello che si riteneva necessario per l’abbellimento ed, appunto, il decoro[7]. Sembra che, nel succedersi dei paesaggi rurali attraverso il tempo, in vaste aree del meridione si siano saltati alcuni passaggi presenti nella storia dello sfruttamento della terra nel nostro paese, trasformando in brevissimo tempo il paesaggio ridiventato quasi naturale e poco umanizzato, come era ancora pochi decenni or sono, in uno squallido paesaggio postindustriale.
Questo paesaggio non è stato, quasi mai, ridisegnato dalla fatica dell’uomo che altrove ha raddolcito la natura, smussato gli angoli, arrotondato i contorni delle cose di modo che lo sguardo non s’impigliasse in nessuna asperità, ma scivolasse leggero e veloce sulle vigne, sui campi segnati dai canali e dai passaggi, sugli orti fioriti, sui boschi sapientemente arginati da strade e sentieri in sterrato[8]. A questo paesaggio, nel quale tutto è opera dell’uomo, ma niente, o poco, è stato illecitamente sottratto alla natura, fa riscontro quello contemporaneo meridionale nel quale la natura è stata, in molti territori, brutalmente violentata e cancellata dalla mano dell’uomo che è stato capace di sostituirle solo un angoloso ed irto groviglio di asfalto e di cemento, provocando, come unico e profondo mutamento della condizione dell’uomo, la perdita della dimensione di spazio e di tempo.
È vero quello che dice Sciascia [9] “…Una campagna ben coltivata è immagine della ragione: presuppone in colui che la lavora l’effettiva partecipazione alla ragione universale, al diritto … Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di un uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo … “. Una campagna ben coltivata, un paesaggio gentilmente umanizzato è l’immagine, lo specchio, della ragione e come tale presuppone, in coloro che lavorano la terra, ne modificano e ne addolciscono il volto, un’intima partecipazione alla ragione universale, al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza. Credo che sia un’altra manifestazione di quel radicato sentirsi “altro”, “diverso” che continua a rendere le campagne meridionali così particolarmente brutte e disordinate. È come se la mano dell’uomo avesse avuto come compito primario quello di arruffarle, di scompigliarle e non di ordinarle, di renderle piacevoli a vedersi e redditizie da coltivare. La devastazione della gran parte del paesaggio è la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che presuppongono la comprensione profonda di quanto circonda gli uomini e, forse, i meridionali non hanno avuto la possibilità di introiettare questi modelli per troppo tempo.
Il paesaggio meridionale, in specie quello calabrese, è ormai, un paesaggio senza memoria. È angoscioso pensare che, solo nel 1897, lungo la valle del Crati “non una casa, non una persona…” si potevano scorgere [10]. Questa brutale e rapida trasformazione del territorio sembra essere complementare a quella, recentissima, di un strato sociale di provenienza contadina in terziario avanzato e in piccola borghesia di recente inurbazione[11]. Ne risulta un impasto sociale ed economico fatto di arcaicità e di post-modernità che sembra essere il terreno di coltura della violenza, e della perdita di punti di riferimento etici, ormai endemica nella regione.
Non tutta la colpa è attribuibile, però, alle amministrazioni locali e nazionali[12], buona parte è rintracciabile nella mancanza di identità e di solidi referenti culturali da parte di quei meridionali, nel Mezzogiorno è la norma, che, accanto all’avito palazzotto o alla bella casa in mattoni e tegole rosse, costruiscono un imponente quanto inutile palazzo a tre, quattro, cinque piani (dei quali di frequente solo il primo e/o l’ultimo sono completati) in cemento armato, foratini non intonacati, tetto in lamiera e imposte in alluminio anodizzato “realizzato” in sfumature che vanno dal bronzo all’argento. La ragione profonda dell’incompiutezza delle migliaia di case-palazzi meridionali finite solo per un piano o due e prive d’intonaco all’esterno è che la casa, per gli abitanti del Mezzogiorno e per i calabresi sopra tutti, è il centro del centro del mondo che è il paese. L’interno della casa è, innanzitutto, un luogo d’accoglienza, introiettato come un rifugio dopo tanta storia di precarietà e miseria mentre l’esterno è non-finito, incompiuto perché non riguarda noi, riguarda gli altri che sono esterni a noi, trasformando, così, la casa anche in un luogo d’esclusione[13]. Questo rapporto interno/esterno -che non riguarda solo la casa- rappresenta, forse, la piega più riposta dell’anima degli abitanti del sud, fa parte delle ombre e di quell’inconscio collettivo non rimosso che andrebbe analizzato, riportato alla luce del conscio ed in qualche modo assorbito, dopo averne sterilizzato la carica negativa. Si può aggiungere che le abitazioni rurali ed urbane meridionali spesso non permettono, a causa della loro pochezza architettonica e funzionale, restauri ed interventi paragonabili a quelli dell’Italia centro-settentrionale e che la miseria e le sofferenze patite in quelle abitazioni sembrano porre un blocco psicologico al loro riuso da parte della grande maggioranza dei vecchi abitanti, ma si dovevano e si devono trovare le soluzioni e approntare piani di risanamento e di recupero: e la responsabilità, in questo caso, è tutta delle Istituzioni.
Con la cementificazione del territorio i meridionali, per ironia della sorte o forse per una qualche nemesi metastorica, hanno fatto crollare un altro dei capisaldi della loro identità quale si era stratificata nell’anima: il rapporto natura/primitività. Un tipo di rapporto che è quasi certamente ricalcato, su quello molto antico, di matrice romana, che era costituito da natura/barbarie nel quale si stabiliva un nesso armonico fra il barbaro -interno o esterno che fosse all’impero non ha importanza- e la natura insidiosa che lo proteggeva[14].
La natura intesa come scaturigine di vitalità e di primitività positiva dello spirito umano, ma che crea un altro equivoco in cui aspetto naturale è uguale ad aspetto antico o, addirittura, l’equivoco in cui la natura stessa si sostituisce e surroga i monumenti antichi, e le loro rovine, perduti per i cento flagelli naturali -si sarebbe tentati di dire che la natura è invidiosa dell’opera dell’uomo- prendendo essa stessa “atteggiamenti d’architettura”[15].
L’aspetto antico del territorio, sia quello greco che quello romano, era di sicuro più civilizzato di quello che appariva naturale e selvaggio fino agli inizi del ‘900 e di quello alvariano, che pure stava cambiando, degli anni ‘30. Antico non è necessariamente uguale a naturale e, quindi, primigenio, come non è primitivo, neanche nell’accezione illuministica più positiva, lo spirito che accompagnerebbe questa condizione di naturalità. Antico, sicuramente almeno nelle sue espressioni greche e, soprattutto, romane, è complessità di organizzazione politica, sociale, religiosa, economica ed anche grande capacità di trasformazione dei territorî. Le fonti letterarie ed archeologiche permettono di ricostruire, per alcune delle aree del meridione, un paesaggio completamente e profondamente umanizzato nel quale niente è consapevolmente ed infruttuosamente lasciato allo stato naturale. Anche le foreste, come quelle della Sila, dell’Aspromonte o del Pollino, con la loro selvaticità, e le paludi ai margini delle poche pianure, diventano parte integrante, complementare di questo paesaggio che in esse trovava le risorse del legno, della pece, dei pascoli estivi per le mandrie, delle ghiande per l’allevamento dei maiali. Se maggiori rapporti e contiguità esistono fra aspetto antico ed aspetto naturale non passano attraverso la semplicità, ma, piuttosto, attraverso la complessità, la positività e la fecondità del rapporto uomo/natura. L’equivoco sta tutto nel credere, o nel voler far credere, che l’aspetto selvaggio del Mezzogiorno e della Calabria – una regione che più delle altre è stata condannata dalla storiografia, a dispetto della documentazione letteraria ed archeologica, alla prevalenza della pastorizia transumante e del latifondo improduttivo e parassitario- sia rimasto immutato nel tempo e senza alcuna soluzione di continuità sia arrivato a noi con la sola, e graziosa, aggiunta di alcune città magnogreche, o romane, fornite di maestosi templi, fastosi teatri e ricche necropoli.
La Calabria contemporanea non è più neanche “una bellezza di pura geologia, di conformazione del terreno e di storia della terra”, non è più il magnifico risultato della “elaborazione della natura e il suo rivolgimento e il suo cambiar positura e aspetto”. L’uomo non vive più “ in mezzo alla natura ancora sottomesso, come presso una bestia di cui non conosce la forza ma sa che è potente”[16] perchè non avendone più paura ne ha sfigurato il volto, pur continuando a non conoscerne la forza, se le frane portano via le case ed i torrenti senza più argini travolgono le costruzioni alzate nei loro alvei. Se il paesaggio può essere inteso come un prodotto sociale sulla base dei sistemi di relazione che intercorrono nel gruppo sociale preso in considerazione, il paesaggio costituisce l’inquadramento geografico di un sistema sociale determinato, costituisce il contenitore all’interno del quale si struttura una società[17]. Tutte le società sono composte di luoghi e di corpi che vivono, operano, interagiscono, trasformano certi luoghi. Le società, composte di corpi, occupano uno spazio, lo articolano, lo organizzano costruendo un nesso, non solo fisico, fra luoghi e corpi tanto che i corpi si muovono o risiedono in alcuni luoghi dei quali non possono fare a meno, mentre i luoghi, a loro volta, sono destinati ad accogliere dei corpi [18]. Questa reciprocità determina una attribuzione di valori simbolici molto intensa ai luoghi, con una inevitabile attribuzione d’identità. Le attività umane imprimono sul terreno non solo un’impronta materiale, ma anche la loro specifica denominazione che spesso ha nel tempo una permanenza di lunga durata: i miti[19].
Lo spazio è, secondo Halbwacks[20], la sola dimensione capace di permanere, perché i luoghi cambiano più lentamente degli uomini che li hanno abitati. La stabilità dei luoghi e dei paesaggi, in altre parole, garantisce alle società un senso di perpetuità in grado di conservare l’identità[21]. Con la scomparsa del paesaggio della Calabria è stato scardinato un altro nesso psicologico di identità, anche se quasi nessuno se ne accorge o vuole accorgersene. I calabresi non possono più sentirsi neanche selvaggi, fieri ed ombrosi se il rapporto paesaggio naturale/primitività che garantiva, sia pure surrettiziamente, questa identificazione è stato trasformato in paesaggio post-industriale/inadeguatezza culturale, nel quale per inadeguatezza si intende l’incapacità di affrontare la complessità della trasformazione culturale, sociale, economica e politica della regione e del paese. Credo che molti meridionali siano colti, consciamente o inconsciamente, da quella che Ernesto De Martino chiamava “angoscia territoriale” che altro non è che il disagio, la vertigine, l’angoscia, appunto, di chi è sottratto ai propri punti di riferimento indigeni o, peggio, di intimo rifiuto estetico di questi ultimi. Il riconoscimento della bellezza è, per la psicanalisi, la comprensione profonda della varietà e interdipendenza di ciò che ci circonda: affetti, legami parentali, case e, quindi, anche il paesaggio. L’incapacità di distinguerla è, dunque, una condizione patologica della psiche, quella individuale e quella collettiva.
L’inadeguatezza al riconoscimento della bellezza e l’abitudine alla bruttezza generano disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche e morali; genera un’immoralità diffusa e, quasi, impalpabile, ma, purtroppo, profondamente radicata nell’anima dei meridionali. La bruttezza genera mafia, ‘ndrangheta e camorra.
Il Mezzogiorno ed i meridionali appaiono del tutto privi, nel complesso, di quello elemento fondante della coscienza collettiva di un popolo che è rappresentato dalla memoria, quella memoria che permette di riconoscersi e di riconoscere. Assenza che fa, delle regioni del sud, regioni sempre più popolate da individui smemorati. Individui che non abitano quasi più nei loro centri storici, che non restaurano le loro antiche case, ma preferiscono costruirne di nuove e che, quindi, non sono più educati alla continua, quotidiana frequentazione con la bellezza delle forme, con l’eleganza dell’architettura, con l’armonia degli spazi che si sono depositati nella successione dei secoli. Forse anche per questo si compiono tanti scempi edilizi, forse per questo la cosiddetta edilizia spontanea è così particolarmente brutta ed anonima in tutto il Mezzogiorno.
Il paesaggio – che costituisce il tessuto connettivo, il supporto vivente dei beni edificati nel corso della nostra plurimillenaria storia e, quindi, elemento identitario indispensabile- è, purtroppo, irrimediabilmente perduto in larghissime porzioni del Mezzogiorno. L’ottimismo della volontà, ciononostante, mi spinge a dire quanto sia urgente -pur temendo, a causa del pessimismo della ragione, che non sia più sufficiente- un immenso, capillare restauro dei territorî che provi a restituire integrità, senso ed armonia al nostro sistema insediativo rurale ed urbano. Per avviare questa opera ciclopica non bastano più, credo, le singole e frammentate competenze degli organi periferici dei Ministeri e degli Enti locali e regionali. Propongo che venga creata una struttura, una sorta di “Magistratura interregionale del paesaggio storico e naturale” che sia espressione delle Soprintendenze, degli Enti territoriali, delle Università e dei centri di ricerca meridionali, nazionali ed internazionali. Una struttura che sia capace di incanalare i finanziamenti ordinari e straordinari, nazionali e comunitari, che elabori e che sovrintenda al restauro ed alla tutela non più rinviabili delle regioni del sud. Si provi ad immaginare quante competenze, quante intelligenze, quanto e quale immane lavoro sarebbero necessari per portare a compimento un progetto di questo respiro, con i conseguenti riflessi occupazionali. Si provi ad immaginare anche quante e quali ricadute economiche, sociali e culturali avrebbe, nel lungo periodo, l’avvenuto restauro del nostro enorme patrimonio culturale sedimentatosi per più di trenta secoli nel tessuto armonico delle nostre città antiche, dei nostri musei, delle chiese, delle grotte preistoriche, dei palazzi dei nostri centri storici incastonati nel paesaggio meridionale.
Un progetto strutturale di “Restauro dei paesaggi storici e naturali del Mezzogiorno” avrebbe il senso di ribaltare tutti i luoghi comuni sui meridionali incapaci di ideare il proprio futuro. Un progetto nel quale la “redditività” del nostro patrimonio non risieda nella sua commercializzazione e neanche nel turismo che esso produce, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che ne scaturirebbe. Il compito vitale che deve svolgere il patrimonio culturale è quello di risvegliare nell’anima dei meridionali la consapevolezza del proprio passato ed i valori simbolici ad esso collegati. Un mondo, quello antico, che non deve essere mitizzato e neanche negato, ma reinterpretato e riguadagnato alla nostra vita contemporanea come indispensabile elemento identitario e di ricchezza psicologica individuale e collettiva.
Bisogna che le classi dirigenti di queste regioni abbiano, insomma, un’idea del Mezzogiorno. Il plebiscitario consenso che le attuali, pur se diverse fra loro, maggioranze hanno ottenuto le obbliga a scegliere: i beni paesaggistici e culturali o la cementificazione, una rete di paesi disposti all’accoglienza o gli anonimi e spaesanti villaggi turistici, una tardiva industrializzazione oppure uno sviluppo basato sulle vocazioni naturali del territorio come l’agricoltura e quel che resta del paesaggio storico e naturale.
Il governo di centrodestra in carica ha poco, o nessun, interesse per il patrimonio culturale, ma mi addolora costatare che quanti dovrebbero opporsi allo svilimento della nostra eredità culturale a mero valore economico, ad esclusione di poche eccezioni, stiano zitti o balbettino per tema di apparire anti-moderni o, dio non voglia, ideologici. Sono ideologicamente contrario alla svendita dei valori costituzionali della tutela dei beni culturali ed alla loro trasformazione a risorsa simile a tutte le altre. Sono contrario alla mercificazione del passato ed alla svendita della memoria e dell’identità degli italiani e contrari dovrebbero essere anche quelli che dicono di volersi opporre alla cultura di centrodestra. Contrari allo svuotamento dell’art. 9 della Costituzione ed ai tagli al Ministero ed al personale, voluti da questo governo, e che, come è già accaduto per altri settori dell’Amministrazione statale, giustificheranno una prossima privatizzazione con il conseguente ricorso al mercato. Se lo Stato in Italia funziona poco e male, non bisogna surrogarlo col privato, ma occorre farlo funzionare bene e questo anche la sinistra sembra averlo dimenticato.
È sul piano dei valori, dei servizi e dei beni inalienabili che la sinistra deve dimostrare di essere diversa, profondamente, dalla destra, imboccando, finalmente, la strada maestra della socialdemocrazia. Quel che più colpisce, in questi ultimi anni, è, invece, la “capitulation sans conditions” della sinistra italiana al dio-mercato. L’organizzazione della società in cui la sinistra si è sempre riconosciuta, statuiva che alcuni settori dovessero essere, come ancora avviene in tutti i paesi europei, di esclusiva pertinenza dello Stato: la sanità, l’istruzione, i trasporti, l’energia elettrica, le risorse idriche, il patrimonio dei beni culturali. Una sinistra che, con i suoi governi, ha già privatizzato, trasformandoli in oligopoli, l’energia elettrica, le ferrovie, le autostrade e le telecomunicazioni, che ha dato finanziamenti alle scuole private, con D’Alema, e che ha inserito elementi di privatizzazione nell’Università, con Berlinguer (Luigi), e nel campo dei beni culturali, con Veltroni e Rutelli, che ha precarizzato il mercato del lavoro, con Treu, ora deve invertire la rotta e ritrovare le ragioni fondanti, identitarie di se stessa.
La sinistra dovrebbe, finalmente, esser capace di avere e di proporre un’idea, una visione complessiva della società e del mondo. Il restauro e la valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale può essere un’utile occasione per iniziare a riaffermare che è la politica che deve guidare il mondo, il mercato, l’economia e non, come per quindici anni hanno cercato di farci credere, il contrario.
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[1] Sulla fine del mondo antico in Calabria vedi: A. B. Sangineto, Trasformazioni o crisi nei Bruttii fra il II a.C. ed il VII d.C.?, in E. Lo Cascio-A. Storchi Marino, (a cura di), Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, Bari, Edipuglia, 2001, pp. 203-246 ed Idem, Il vino e l’armonia dei paesaggi agrari dei Bruttii, Vibo Valentia, Monteleone, 2006.
[2] L. V. Bertarelli, Diario di un cicloturista di fine Ottocento da Reggio Calabria a Eboli, ,ora ripubblicato a Castrovillari, TEDA, 1989, pp. 47-48. Il piacevolissimo libretto è il resoconto di un viaggio attraverso la Calabria intrapreso in bicicletta nel 1897 da Bertarelli, industriale milanese che diventerà presidente del Touring Club. Queste pagine furono pubblicate, a puntate, nel giugno dello stesso anno sul periodico «La Bicicletta» e vennero subito raccolte in un libretto dal giornalista del «Corriere della Sera», Augusto Guido Bianchi. Anche Gissing e Douglas attraversano, in quegli stessi anni, alcuni paesaggi calabresi e li descrivono come se fossero luoghi selvaggi e incantati delle foreste africane o amazzoniche, ma la pagina, meno prevenuta e più fresca, di Bertarelli ci è parsa la più degna di citazione.
[3] Per le scoperte e gli scavi di Paolo Orsi in Calabria cfr. U. Zanotti Bianco, Paolo Orsi, in “ArchStCalabria”, V, III-IV, 1935, pp. 1-39; R. Spadea, Ricerca archeologica in Calabria tra Unità e Paolo Orsi, in, S. Settis, (a cura di), Storia della Calabria. Età italica e romana, 2 voll., Roma-Reggio Calabria, Gangemi, 1994, II vol., pp. 799-819; C. Turano, L’attività di Paolo Orsi in Calabria, in «Rivista Storica Calabrese», n. s., VI, 1995, pp. 15-33. M. Paoletti, Paolo Orsi:“la dura disciplina” e “il lavoro tenace” di un grande archeologo del Novecento”, in Magna Grecia. Archeologia di un sapere, (Catalogo Mostra: Catanzaro 2005) a cura di S. SETTIS- M.C. PARRA, Milano Electa 2005, pp 192-197; IDEM, Introduzione, in M. A. Romano (a cura di), L’archeologia di Paolo Orsi a Monteleone Calabro (1912-1925), Vibo Valentia, Monteleone, 2006, pp. 11-21.
[4] Cfr. S. Settis, Futuro del classico, Torino, Einaudi, 2004, pp. 82-91.
[5] Sull’identificazione dei calabresi con i Bruzi cfr, A. B. SANGINETO, L’anima allo specchio, Vibo Valentia, Monteleone, 2006, passim.
[6] Sui problemi riguardanti l’aspetto recente del territorio cfr. P. Bevilacqua, Uomini, terre economie, in P. Bevilacqua-A. Placanica (ed.), La Calabria, Einaudi, Torino 1985, pp. 117-362.
[7]Cfr. per esempio il caso di Siena dove già dal 1295 le autorità avevano regolato le costruzioni e le alterazioni della città fino a controllare la forma e le dimensioni delle finestre e gli intervalli fra gli edifici: D. Balestracci-G. Piccinni, Siena nel Trecento, Firenze 1977.
[8] La formazione dell’idea di paesaggio come un luogo così intensamente lavorato e plasmato dalla mano dell’uomo da assumere peculiarità estetiche è stata analizzata, nella letteratura, da P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano, 1992 e idem., Dal paese al paesaggio, in R. Zorzi (ed.), Il paesaggio. Dalla percezione alla descrizione, Venezia, 1999, pp. 21-44.
[9] L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Torino 1963, p.127.
[10] Vedi il già citato Bertarelli 1989, p. 47.
[11] Un processo analogo è, forse, avvenuto nel dopoguerra con l’ingresso nella politica come mestiere, nella burocrazia parassitaria e nelle professioni da parte di uno strato di piccola borghesia. Quest’ultima vedeva, e vede, nella politica e nella burocrazia solo un mezzo di auto-promozione sociale ed ha trasformato i partiti e la pubblica amministrazione in perversi meccanismi di ascesa sociale ed economica per sé e per i propri familiari. Cfr. L.M. Lombardi Satriani, Intervista sulla Calabria, Cosenza 1985, passim; V. Cappelli, Politica e politici, in Bevilacqua-Placanica, Calabria, Einaudi, 1985, pp. 561-573. Sulla piccola borghesia e sulla formazione della classe dirigente calabrese vedi anche A. B. Sangineto, Alarico e la piccola borghesia, in P. Vereni ( a cura di), Passato, identità, politica, Roma, Meltemi 2009, pp. 65-80. Se ciò è accaduto con la piccola borghesia, quali sconvolgimenti sociali e produttivi comporterà l’ingresso nel terziario avanzato dei figli di quei contadini che ancora coltivano la terra con strumenti arcaici? Di quale cultura sociale, politica e produttiva sono portatori questi programmatori, questi operatori di computer che dalla zappa sono arrivati, senza soluzione di continuità, al mondo del silicio?
[12] La frattura più profonda con il paesaggio precedente si è venuta a creare, forse, intorno alla metà degli anni ‘60 quando, invocate e giustificate dalla sete di qualunque novità che potesse rompere l’isolamento precedente, furono realizzate alcune grandi opere pubbliche. Queste opere, fra le quali l’Autostrada del Sole, ebbero il merito di spezzare quello isolamento che si era trasformato in arretratezza, ma diedero il via al sacco del territorio reso, proprio da quelle stesse opere, più appetibile turisticamente e commercialmente. Per uscire dalla barbarie di un millenario isolamento si è innescato un meccanismo che conduce ad un altro tipo di barbarie: la perdita della memoria.
[13] V. Teti, Il senso dei luoghi, Roma 2004, passim.
[14] Su questo argomento vedi, fra gli altri: A. Giardina, Uomini e spazi aperti, in Storia di Roma. Caratteri e morfologie, vol. 4, Torino, pp. 71-84 con relativa bibliografia.
[15] Ancora una volta è Alvaro a codificare, nel 1933, questa idea di Calabria in: Calabria. in Itinerario Italiano, ora nell’edizione Milano 1962, p. 282.
[16] Alvaro cit. 1962., pp. 282-283.
[17] C. Levi-Strauss, Antropologia strutturale, ediz. it. Milano 1966; G. Condominas, L’espace social. Á propos de l’Asie du sud-est, Paris. 1980.
[18] F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Torino.1993.
[19] Un esempio di mito è quello di Scilla per il quale cfr. G. Sole, Scilla. Interpretazioni di un mito, Rende (CS),.2000.
[20] M. Halbwacks, La memoria collettiva (1950), (trad. it. Milano 1997)
[21] Vedi A. Carandini, Archeologia del mito. Emozione e ragione fra primitivi e moderni, Torino, 2002, pp. 152-153.