Il Mezzogiorno in gabbia: come uscirne? di Tonino Perna

Il Mezzogiorno in gabbia: come uscirne? di Tonino Perna

Avevo poco più di vent’anni quando arrivarono  50.000 operai  delle fabbriche grandi e medie del nord Italia. Venivano a Reggio Calabria per solidarizzare con chi si sentiva accerchiato dai boiachimolla, con chi lottava contro il neofascismo montante , con chi , malgrado la sinistra (Pci e Psi) avesse sbagliato tutto in questo territorio,  restava ancora di sinistra.  Il corteo iniziò la mattina alle 11 e si  concluse la sera: molti treni erano stati bloccati dalle bombe e alcuni compagni arrivarono dopo una intera giornata di viaggio quando ormai la manifestazione era finita.  Era il 22 ottobre del 1972.   Un altro secolo, un altro mondo.

La solidarietà tra nord e sud era una cosa concreta, era fatta di ideali comuni e di sacrifici condivisi, ed aveva una valenza biderezionale.  Oggi sarebbe assolutamente impossibile organizzare una manifestazione di quel tipo, con quella passione e a rischio della vita .  Ma, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, eravamo in pieno clima post-’68 che aveva di fatto unificato il nostro paese , forse come non mai nella sua storia. Era ormai superata la storica alleanza auspicata da Gramsci , tra contadini del sud ed operai del nord, in quanto nel ventennio 1951-71 si erano svuotate le campagne meridionali e chi era rimasto era spesso entrato, per sopravvivere, nella rete tentacolare dei sussidi e sovvenzioni della Comunità Europea.  Ma, il  ’68 aveva coinvolto una intera generazione, attraversando le classi sociali e seminando una visione del mondo aperta, solidale , internazionalista e pacifista, in cui non c’era più spazio per la contrapposizione tra “terroni” e “polentoni”, anche grazie al fatto che gli neo-nordisti (immigrati meridionali al nord) avevano costituito una avanguardia nelle lotte di fabbrica  di quegli anni e si erano guadagnati il rispetto di tutto il movimento operaio e della sinistra, parlamentare ed extra.

Come sappiamo, dagli anni ’80 inizia quel processo di normalizzazione politica e di frantumazione sociale che ha portato alla disintegrazione delle grandi organizzazioni politiche e sindacali che avevano giocato un ruolo di primo piano nel mantenere una visione unitaria dei problemi del nostro paese.  Ancor più, sul piano economico, il Mezzogiorno perdeva progressivamente di ruolo nel modello di sviluppo italiano.  Se negli anni ’50 aveva funzionato da <<serbatoio>> di manodopera a basso costo per le industrie del nord, se negli anni ’60 e ’70 aveva giocato un ruolo importante come mercato di sbocco per la nascente piccola e media impresa della Terza Italia (centro-nord-est), alla fine degli anni ’80 era diventato superfluo, un peso, una escrescenza di cui liberarsi.   La globalizzazione, infatti, aveva reso marginale, per il sistema industriale del centro-nord il mercato meridionale. Basti pensare che, come è stato dimostrato in uno studio dell’inizio anni ’90, un incremento di un punto percentuale nella domanda dei consumatori tedeschi era più importante, per il sistema industriale italiano, che dieci punti di aumento del Pil nel Mezzogiorno!

Senza cadere in un approccio deterministico, non è un caso che proprio in quella fase storica sia nata la Lega Nord di Bossi.  Non un fenomeno folcloristico, come qualcuno aveva pensato e scritto, bensì la traduzione politica sul territorio italiano di un fenomeno mondiale : il delinking, lo sganciamento delle aree ricche del pianeta.   La <<secessione dei ricchi>> come è stata definita  ha prodotto tragedie, come quella della ex-Yugoslavia, o si è conclusa pacificamente, come nel caso della ex- Cecoslovacchia.   In ogni caso è un fenomeno con cui fare i conti.

Finché il Mezzogiorno ha funzionato da serbatoio di voti per le maggioranze di governo, la secessione è stata scongiurata.  Quando la Sicilia ha dato l’ein plein dei voti a Forza Italia, involontariamente ha condizionato il premier a fare i conti con le esigenze dell’isola e della sua classe politica.  Oggi, anche questo ruolo del Mezzogiorno si sta esaurendo.  La crisi economica , da un parte, il federalismo fiscale, dall’altra, hanno messo in ginocchio il territorio meridionale. Nel periodo 2008-2013 l’impatto della crisi sul Mezzogiorno è stato doppio rispetto al Centro Nord, con una perdita del  Pil  di ben 8 punti percentuali ed un tasso di disoccupazione che è schizzato al 22%! Ed ancora una famiglia su due è oggi a rischio di povertà nel Mezzogiorno, contro una su quattro nel Centro-Nord, e potremmo continuare con questi numeri per dimostrare una cosa che aveva già intuito negli anni ’80 Paolo Sylos Labini: la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno.  Un taglio “lineare” della spesa pubblica produce nel territorio meridionale un effetto doppio che al Nord per via del moltiplicatore keynesiano che opera, ricordiamolo sia verso l’alto che verso il basso.

 

Nei prossimi anni, quando i decreti attuativi del federalismo fiscale diventeranno realtà, le regioni meridionali dovranno trovare qualcosa come 20 miliardi di euro per coprire i costi del Welfare e fare funzionare al minino la pubblica amministrazione. Anche i famosi POR , fondi europei per le regioni arretrate ,  finiranno nel prossimo quinquennio, e non ci saranno altre risorse aggiuntive. Ed i giovani del Mezzogiorno che in quest’ultimo decennio sono emigrati “definitivamente” (cioè con il cambio di residenza) nel centro-nord (oltre settecentomila ) avranno sempre più difficoltà a farlo: per la prima volta le regioni ricche avranno un serio problema di disoccupazione che tenteranno di risolvere in parte con un assorbimento nella pubblica amministrazione.

La Crisi Globale che stiamo attraversando non è una crisi congiunturale : il milione di operai ed impiegati nel settore privato che sono usciti dalla produzione difficilmente ci ritorneranno.  I giovani laureati meridionali non saranno più chiamati a colmare i vuoti , non avranno più spazio nel settore pubblico, che ha funzionato da spugna occupazionale.  Risultato: il Mezzogiorno si sta trasformando in una gabbia da cui è difficile uscirne, ma da cui chi può scappa. Se prendiamo in  considerazione il flusso emigratorio “reale”, vale a dire quello di chi parte ma mantiene nel Sud la residenza per un lungo periodo, scopriamo che 2 giovani su 3 tra i 18 e i 32 anni hanno lasciato il Mezzogiorno!  Se questo trend dovesse continuare nel 2030  la popolazione meridionale over 65 raggiungerebbe la metà della popolazione presente, vale a dire che un meridionale su 2 sarebbe un anziano, pensionato, bisognoso spesso di cure e badanti, dato che i figli sono andati via.  Una situazione penosa che  sembra inevitabile se non cambierà la politica economica nazionale.

 

S’impone, pertanto, un nuovo ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza. Se pensiamo che il solo blocco del turnover ho causato la perdita di 600mila posti di lavoro in Italia, di cui quasi 400mila nel Mezzogiorno si capisce come serve una netta inversione di tendenza. Lo Stato deve riprendere una politica per l’occupazione nella sanità, scuola, alta formazione, ricerca scientifica, Università.  Serve, inoltre, una ripresa di investimenti pubblici in settori strategici quali la difesa del suolo, la messa in sicurezza di scuole e edifici pubblici, un riassetto idrogeologico. Ancora: servirebbe urgentemente un piano di rinascita per aree interne, una Seconda Riforma Agraria che riguarda tutto l’Appennino meridionale e che mettere a frutto qualcosa come il 30% delle terre incolte ed abbandonate.

Per questi obiettivi occorrerebbe una nuova solidarietà nord-sud, una visione nazionale della questione meridionale, una prospettiva diversa del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.  Un sogno ? Probabilmente sì, ma ci serve per vivere e guardare avanti.

 

 

pubblicato su “il Manifesto” nel marzo 2017

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