Beni confiscati: opportunità o rovina per l’economia calabrese ? di Tonino Perna
Grazie alla legge Rognoni- La Torre ( n.646/1982) che ha permesso il sequestro e la confisca dei beni ai clan mafiosi, e all’impegno di Libera che nel 1996 raccolse oltre un milione di firme perché i beni confiscati avessero una destinazione di utilità sociale, abbiamo in Italia uno strumento di contrasto alle mafie che è stato studiato e, alle volte copiato, in altre aree del mondo. Uno strumento fondamentale di redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente che oggi è un punto di riferimento a livello internazionale per tutti coloro che, a vario titolo, tentano di opporsi alla criminalità organizzata.
Dopo oltre trent’anni dall’approvazione della legge Rognoni-La Torre è necessario fare alcune considerazioni. 27.000 i beni confiscati dal 1982 ad aprile 2017 ( di cui solo 13.000 restituiti alla società civile e alle istituzioni), per un valore complessivo che si aggira secondo le stime più attendibili a più di venti miliardi. In non pochi casi, è stato lungo e complesso l’iter che porta alla assegnazione dei beni immobili e/o delle imprese a fini sociali, ma non di rado è stata fallimentare la gestione di “imprese confiscate” da parte dei consulenti nominati dal Tribunale. Per diverse ragioni. La prima è che spesso questi consulenti, pur essendo validi professionisti (avvocati, commercialisti, ecc.) non sono imprenditori e quindi non hanno le capacità per gestire un’impresa. In secondo luogo l’impresa mafiosa ha una serie di rapporti e legami sociali che le consentono spesso di avere canali privilegiati di sbocco per le sue merci e/o servizi. Risultato: sono pochi i casi in cui le “imprese confiscate” sono sopravvissute a questo passaggio di gestione, e quando è successo è stato grazie ad una rete di economia solidale che ha sostenuto questa “rinascita” legale dell’impresa. Infatti, è molto difficile anche per un bravo imprenditore rimettere in piedi un’impresa confiscata, dopo mesi di chiusura e di perdita di rapporti e relazioni sociali, perché il mercato capitalistico è spietato e non ti sta ad aspettare. Inoltre, nella maggior parte dei casi la piccola impresa ha oggi difficoltà di sopravvivere, specie nell’agroindustria, se non trova un mercato di sbocco che gli consente di ottenere un “prezzo equo” che la grande distribuzione normalmente non le garantisce (anzi!… ti paga male e in ritardo). I dati non lasciano scampo: secondo l’ANBSC (Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati) su 876 imprese “confiscate” ben 813 sono andate in liquidazione (sic!), 59 sono state vendute e solo 3 date in affitto.
Morale della favola: nella maggior parte dei casi le imprese confiscate vanno in liquidazione e poi falliscono e i lavoratori rimangono fregati. Sono migliaia i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro perché l’impresa mafiosa per cui lavoravano è stata confiscata e poi è fallita. Basti pensare che nel solo 2016 le imprese confiscate contavano 2.973 addetti. Questa conseguenza o “effetto collaterale”- ovviamente non voluta né dal legislatore, né dai magistrati- comporta una perdita di fiducia nelle istituzioni e nelle forze che lottano contro le organizzazioni mafiose. In tutto il territorio meridionale si sta perdendo quel consenso alla lotta contro la borghesia mafiosa e al suo braccio armato, che aveva coinvolto anche le nuove generazioni. E’ un dato di fatto che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore il futuro di questa terra.
In secondo luogo, da quando la magistratura sta attaccando duramente i beni appartenenti ai clan, i capitali mafiosi non vengono investiti più nel territorio meridionale. Pertanto, dato che in un sistema capitalistico sono gli investimenti che determinano il tasso di crescita economica e di occupazione, molte aree del Mezzogiorno, e particolarmente la Calabria, si sono andate impoverendo in questi ultimi anni, ben al di là degli effetti della recessione a livello nazionale. In sostanza assistiamo a una beffa: prima le mafie hanno desertificato con la violenza il tessuto produttivo del Sud, poi, appena lo Stato e le sue istituzioni hanno cominciato a combatterle seriamente, hanno portato fuori i capitali e dismesso gli investimenti che avevano fatto grazie all’accumulazione proveniente dai mercati illegali.
Che fare? dunque. La risposta non è semplice né univoca, ma uno sforzo bisognerebbe farlo. Anche se va detto che nel marzo di quest’anno il Consiglio dei Ministri ha adottato un provvedimento legislativo in favore dei dipendenti delle imprese confiscate e delle agevolazioni finanziarie per la gestione di queste imprese, la traduzione nella pratica stenta a emergere e, in ogni caso, si tratta di un provvedimento utile ma insufficiente. Innanzitutto, ci vorrebbe una ricerca seria su questi oltre venti anni di imprese “mafiose” confiscate: studiare la loro vita, spesso breve, e far emergere anche i casi di successo che servano da modello per costruire una risposta adeguata. Non si parte da zero perché esiste già qualche ricerca significativa, come quella condotta da Federica Cabras e Ilaria Meli, ma sono poco conosciute e andrebbero ampliate e approfondite. Inoltre, occorre uno sforzo di tutte le forze sociali e culturali che sono impegnate a trovare una alternativa a questo modello di “inviluppo” per far pressione sull’ANBSC perché velocizzi le procedure e migliori la gestione di questi beni, soprattutto, lo ribadisco, delle imprese confiscate. Se un bene immobile confiscato rimane inutilizzato per molti anni rappresenta certamente un danno economico, ma se si tratta di una impresa confiscata il danno è ben maggiore e colpisce direttamente i lavoratori dipendenti che già soffrono nel nostro Sud per le attuali pessime condizioni del mercato del lavoro.
Quotidiano del Sud 10.5.2018