Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

 

Secondo gli ultimi dati Istat in Italia nel 2011 l’11,1 per cento delle famiglie si trova in condizione di povertà relativa per un totale di 8,1 milioni di persone, di cui il 5.2% vivono in condizioni di “povertà assoluta” per un totale di 3,4 milioni di persone.   Ancora più grave è la situazione nel Mezzogiorno: quasi una famiglia su quattro vive in condizione di povertà relativa, di cui l’8% in condizioni di povertà assoluta. Le regioni meridionali più colpite sono la Sicilia (27,3%), la Calabria (26.2%), la Campania (25.6%).   Si conferma il fatto che le famiglie più colpite siano le famiglie numerose, con almeno tre figli, che passano in soli due anni (dal 2009 al 2011), dal 37 al 50 per cento. Vale a dire che oggi una famiglia numerosa su due che vive nel Mezzogiorno è relativamente povera!   Non si era mai arrivati a toccare una situazione così grave.

Questi i dati, ma cosa intende l’Istat per povertà assoluta e relativa e come la calcola ? La risposta è semplice : una famiglia viene definita “relativamente” povera quando il suo consumo medio pro-capite mensile è inferiore alla metà del consumo medio pro-capite delle famiglie italiane; mentre una famiglia è in una condizione di povertà assoluta quando il suo consumo medio pro-capite è meno di 1/3 del consumo medio pro-capite nazionale.   Prima di capire che cosa ha determinato la crescita della “povertà” nel Mezzogiorno val la pena soffermarsi su questa categoria.

 

  • La povertà nella/della teoria economica.

Come diceva Keynes, gli uomini del nostro tempo sono spesso schiavi delle idee di qualche economista defunto, sicuramente questo è vero nel caso della teoria maltusiana.   Infatti, a livello dei non addetti ai lavori si è spesso attribuita la povertà all’eccesso di popolazione, al fatto che le famiglie- analfabete e religiose- facessero troppi figli. Quante volte si è detto e scritto che la povertà nel Terzo Mondo, la fame che uccide migliaia di bambini ogni giorno, sia il frutto dell’eccesso di popolazione, la cosiddetta “bomba demografica”! Come è noto, questa era la tesi dell’abate Malthus , il quale riteneva, in base ai dati in suo possesso, che la popolazione stesse crescendo in ragione geometrica, mentre le risorse alimentari crescevano in ragione aritmetica. Risultato: la popolazione raddoppiava ogni venticinque anni.   Se non si fosse fermata la crescita demografica l’umanità sarebbe stata condannata al collasso o alla guerra permanente.  Per questo Malthus attaccò come pochi le leggi sui poveri che davano un sussidio alle famiglie disagiate.   Malgrado vedesse di buon occhio l’aborto e l’infanticidio (memorabili le sue pagine su questa pratica in Cina), non poteva ammetterlo ufficialmente come rappresentante del clero e quindi trovò una soluzione geniale per combattere la povertà: l’astinenza. Sposarsi il più tardi possibile e fare meno figli che si può.   “L’unico modo conforme alle leggi della morale e della religione-argomentava Malthus- per procurare ai poveri la più grande partecipazione ai beni del ricco, senza precipitare nella miseria tutta quanta la società, consiste da parte del povero nella prudenza in tutto ciò che riguarda il matrimonio e nell’economia prima di averlo contratto”[1]

Pochi decenni prima, sulla sponda francese, la scuola dei fisiocratici proponeva un altro approccio alla povertà, in particolare delle masse contadine :   <<   Le vessazioni, il basso prezzo delle derrate ed un guadagno insufficiente per stimolarli a lavorare li rendono oziosi , bracconieri , vagabondi e ladri. La povertà forzata non è dunque il mezzo per rendere laboriosi i contadini: non vi è che la proprietà ed il sicuro godimento del guadagno che possano dotarli di coraggio e di attività>> [2]

A circa vent’anni dalla pubblicazione del “Tableau” di Quesnay , esponente prestigioso della scuola fisiocratica, il padre dell’economia politica moderna riprendeva un concetto simile nella sua famosa “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” :

<< I salari del lavoro sono l’incoraggiamento dell’operosità che, come ogni altra qualità umana, progredisce nella misura in cui riceve un incoraggiamento. Una sussistenza abbondante aumenta la forza fisica del lavoratore, e la confortante speranza di migliorare la propria posizione e di finire forse i propri giorni nell’agio e nell’abbondanza, lo incita ad esercitare al massimo questa forza. Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svelti di quando i salari sono bassi : in Inghilterra per esempio, più che in Scozia, nei dintorni delle grandi città più che nelle zone remote della campagna>>[3]

Secondo Adam Smith per combattere la povertà e l’indigenza bisognava elevare il livello culturale della nazione (con un importante intervento dello Stato per l’istruzione pubblica primaria)[4],ma soprattutto bisognava eliminare le forme di “sfruttamento “ del lavoratore sancite dalla tradizione o dalle leggi. Il nemico fondamentale da battere era- secondo Smith- lo “Statuto dell’apprendistato”, cioè quelle norme corporative che regolavano il lavoro nelle “manifatture” e nei laboratori artigianali: << Non conosco alcuna parola greca o latina che esprima l’idea che noi associamo alla parola “apprendista”, cioè di un servo costretto a lavorare in un dato mestiere per un dato numero di anni a beneficio di un maestro, a condizioni che questo glielo insegni>>.[5]

I bassi salari, la povertà, la miseria hanno comunque per Smith una matrice sociale. La Natura non ha colpa se un uomo è povero o muore di fame. Ma, la sua visione della povertà, così come la sua visione del ruolo dello Stato nel settore dell’istruzione e della lotta ai contratti di lavoro “iniqui”, venne emarginata dal pensiero maltusiano che divenne un forte punto di riferimento di tutto il pensiero dei classici dell’economia politica.   Da Ricardo a Stuart Mill l’idea che la povertà fosse dovuta essenzialmente all’imprevidenza dei poveri, ai loro matrimoni precoci, alla troppa prole che producevano, alla scarsa capacità di fare economia, cioè di risparmiare.   David Ricardo non aveva dubbi in proposito : <<la perniciosa tendenza della legge sui poveri non è mistero, perché è stata pienamente delineata dalla mano esperta del signor Malthus; ed ogni amico dei poveri deve desiderare ardentemente la loro abolizione(…).   Queste leggi hanno reso superfluo ogni freno ed incoraggiato l’imprevidenza, offrendo ad essa una parte dei salari propri della previdenza e dell’operosità>>. [6]   Qualunque tipo di soccorso è abrogato: il dole è un cancro che colpisce l’economia alla radice. Qualunque “vincolo “ deve essere rimosso per il pieno funzionamento del mercato del lavoro: << Come tutti gli altri contratti, i salari dovranno essere lasciati alla determinazione della libera concorrenza del mercato, ed il legislatore non dovrebbe mai interferire>>.[7]

“Può l’economia politica – si domandava J. Stuart Mill – non fare nulla, muovere soltanto obiezioni, e dimostrare che non si può fare niente per combattere la povertà? “ E proponeva una serie di misure quali: a) l’istruzione di massa,; b) l’emigrazione verso le colonie ; c) privatizzare le “terre comuni” per creare una massa di piccoli proprietari. Ma, concludeva, tutte queste misure sarebbero state insufficienti se non fosse intervenuto un radicale mutamento culturale[8].  Ed è su questo terreno che J. Stuart Mill scaglia le sue invettive più virulente contro la religione, la morale e la politica che “hanno gareggiato nell’incitare al matrimonio ed alla moltiplicazione della specie, purché col vincolo matrimoniale…Finché il generare numerosa prole non sarà considerato allo stesso modo con cui si considera l’ubriachezza o qualunque altro eccesso fisico, pochi miglioramenti si possono aspettare …”[9]

In breve, anche per le menti più illuminate, la causa della povertà sono i poveri, con la loro dissipatezza, lo scarso senso del risparmio e della previdenza, il loro cedere ad istinti bestiali (procreazione). Sembra di sentire le sentenze della troika (BCE,FMI, Commissione Ue) rispetto ai paesi indebitati del sud Europa. I mass media occidentali hanno dipinto il popolo greco, durante questi anni di crisi finanziaria, come un popolo di fannulloni, che ha dissipato le risorse comunitari, che non ha saputo risparmiare, e –come ha sostenuto più volte la Merkel e C. – gli aiuti alla Grecia fanno solo del male, aggravano la loro situazione, mentre una bella punizione può riportarli ad atteggiamenti virtuosi.  Ieri come oggi, la colpa è sempre dei poveri, che si tratti di eccesso di popolazione o di debito pubblico il capro espiatorio è sempre lo stesso.

Come è noto, a questa visione del mondo si oppose chiaramente e lucidamente il pensiero di Karl Marx. << Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia>> (p.82). Con queste lapidarie parole Marx stronca l’approccio degli economisti classici e affronta la questione della povertà all’interno delle dinamiche del modo di produzione capitalistico.  Innanzitutto, Marx distingue tra “pauperismo” e “povertà”.    Il primo, il pauperismo, viene analizzato all’interno della “legge generale dell’accumulazione capitalistica” e definito come “ il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa”, composto da tre categorie:

  1. persone capaci di lavorare ma espulse dal processo produttivo (quelli che oggi potrebbero essere i “cassaintegrati”) . La sua massa s’ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari;
  2. orfani e figli di poveri ; sono i candidati dell’esercito industriale di riserva che , in epoche di grande slancio (per es. il 1860) vendono arruolati in massa nell’esercito operaio attivo;
  3. gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce col crescere del macchinario pericoloso.[10]

Se il “pauperismo” costituisce una fascia dell’esercito industriale di riserva , la “povertà” è in Marx una categoria più ampia che va oltre il livello del salario ed il tenore di vita.   “Il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero”. Pertanto, sostiene Marx nei Grundrisse, tutti i lavoratori sono “potenzialmente “poveri”: sia che essi siano esclusi dal processo produttivo, sia che vendano la propria forza-lavoro, essi non hanno i mezzi per “autodeterminare” la soddisfazione dei propri bisogni, essi non possono che vivere in funzione del processo di “auto valorizzazione del capitale” [11])

Questo non significa che i lavoratori siano rimasti a guardare, a piangersi addosso. Le loro lotte hanno, a partire dalla prima metà dell’800, determinato una serie di interventi dello Stato a tutela dei loro diritti, a sostegno dei più poveri, handicappati, svantaggiati e disoccupati. La nascita del Welfare State è il frutto di queste lotte che hanno attraversato due secoli e che oggi sono messe seriamente in discussione, tentando di riportare indietro le lancette della storia.

  • La gestione della povertà: poveri buoni, falsi poveri e disoccupati

Nella prima metà del XIX secolo i governi europei reagirono in maniera estremamente articolata rispetto al fenomeno del “pauperismo” . In alcuni paesi prevalsero le politiche maltusiane: in Baviera, ad esempio, le persone che non possedevano un reddito adeguato non potevano sposarsi senza il permesso dell’Amministrazione dei poveri, come a Berna dove i poveri “assistiti” dovevano avere il permesso del Municipio.   Nei paesi scandinavi prevalse il ruolo del “volontariato” regolato ed incentivato dallo Stato con alcuni eccessi che suscitarono il malcontento delle classi agiate. In Olanda e Danimarca venne riconosciuto il “diritto al soccorso” e si sviluppò un primo embrione di legislazione sociale ed un ricco dibattito politico.

Bisogna riconoscere che i primitivi “sistemi assistenziali” funzionarono decentemente solo in quelle aree dove esisteva una consolidata tradizione di solidarietà sociale unitamente ad una, fortemente interiorizzata, ideologia del lavoro come dovere sociale.   Ma, l’obiettivo di fondo delle politiche contro il pauperismo non era l’eliminazione delle diseguaglianze sociali, non sottendeva un progetto di società più “giusta” e più “garantista”, bensì era il controllo di quel “ potenziale sovversivo” presente nella miseria di massa.   Come ha notato acutamente G. Procacci[12], il pauperismo faceva paura per le sue caratteristiche sociali : il pauperismo è mobilità, vale a dire disordine, vagabondaggio, ecc; il pauperismo è indipendenza, cioè trasgressione di un codice di comportamento dettato dalle leggi di mercato; il pauperismo è dissipazione, cioè rifiuto a trasformarsi in “consumatore razionale” che sa ripartire il proprio reddito tra consumi immediati e consumi dilazionati nel tempo; infine il pauperismo è ignoranza ed insubordinazione , che si possono leggere anche come ozio, immoralità, sporcizia ecc.

L’insieme delle misure adottate dai vari paesi europei nel corso del XIX° secolo rispondevano ad una esigenza prioritaria per il potere: sterilizzare il potenziale sovversivo contenuto nel fenomeno. D’altra parte, la stessa Speenhamland Law del 1795[13] – la legge che riconosceva il diritto al minimo vitale ! – può essere letta come una sorta di <<assicurazione contro la rivoluzione>>, essendo stata fortemente condizionata dalla paura della rivoluzione francese del 1789. Solo quando questo timore venne meno si poté passare in Inghilterra alla gestione della povertà – con la Legge dei poveri del 1834 ed il conseguente ritorno delle workhouses– più corrispondente ai bisogni di accumulazione del capitale ed alle leggi del mercato capitalistico.   E qui sta il nodo cruciale del dibattito economico e politico sul “pauperismo”: come controllare e gestire “i poveri” in modo tale da non influire negativamente sui meccanismi dello sviluppo.

La storia degli ultimi due secoli ci insegna che tutte le conquiste sociali, dalle otto ore di lavoro fino al più avanzato Welfare State, sono state ottenute quando era forte e combattivo il movimento dei lavoratori e, soprattutto, il potere aveva paura della “rivoluzione”.   Quando questo timore scomparve –definitivamente dopo la caduta del muro di Berlino- allora è stato possibile, in tutto l’Occidente, passare alle controriforme, smantellare il Welfare State.   Ma, per un lungo periodo si trattò di gestire la povertà e la miseria di massa. Su questo piano un contributo fondamentale, sul piano della politica economica, lo dette Alfred Marshall. Il noto economista inglese intervenne più volte nel dibattito su quale forma di assistenza dovesse essere offerta dallo Stato che non intaccasse le fondamenta del mercato del lavoro capitalistico. La scelta su cui si incentrerà il dibattito, fino alla crisi degli anni ’30, verteva essenzialmente su due forme di assistenza: quella “interna” (vale a dire internamento dei poveri, handicappati, disadattati, ecc.) e quella “a domicilio”. << La prima –notava Marshall- è impopolare; assomiglia alla prigionia e appare una sorte troppo dura per coloro che non hanno colpa della loro miseria. Quando uno finisce nella “workhouse “ la sua casa si sfascia, così non è facile lasciare la “workhouse” e riprendere una nuova vita. L’assistenza esterna è preferibile …ma anche fonte di vari mali …Essa spesso finisce nelle mani del pigro, dell’imprevidente, del furbo e dell’ipocrita(…). Nel complesso si è riscontrato che, ovunque l’assistenza esterna è stata erogata con liberalità, gran parte della popolazione è divenuta pigra, scialacquatrice e disonesta: in una parola pauperizzata>>[14] . Bisogna, pertanto, trovare un criterio per distinguere tra poveri “buoni” e falsi poveri, ed evitare che l’intervento assistenziale generi abusi ed una tendenza all’ozio che distruggerebbe le basi di quella che Pigou, allievo di Marshall, chiamerà “Economia del Benessere”.   Dentro questo nuovo paradigma la “povertà” verrà vista in base al principio che ogni “trasferimento di reddito” in favore dei meno abbienti è positivo solo se non incentiva all’ozio ed allo spreco e , soprattutto, non produca una contrazione del “dividendo nazionale”, quello che noi oggi chiamiamo Pil.

L’economia del Benessere di Pigou e “l’ottimizzazione paretiana” fu l’ultima parola della scienza economica occidentale, prima che la crisi del 1929 sconvolgesse tutto il quadro sociale e politico. Negli anni successivi al crollo di Wall Street, molte potenze occidentali tremarono per la paura che la massa dei lavoratori disoccupati ( un quarto dei lavoratori statunitensi, un terzo dei lavoratori europei) potesse impossessarsi del potere, scatenare una rivoluzione. Come sostenne una volta Hungthinton “le riforme sono un antidodo alla rivoluzione”, e gli anni ’30 del secolo scorso lo confermano. Alcuni paesi, come l’Italia, Germania, Spagna e Portogallo, furono travolti dalle rivoluzioni nazionalsocialiste o fasciste, altri come gli Usa, la Francia, l’Inghilterra ed i paesi scandinavi vararono importanti riforme sociali. In tutti i paesi occidentali la lotta alla disoccupazione divenne una priorità, sia nella versione nazionalsocialista (Hitler riuscì a creare in sette anni quasi 6 milioni di posti di lavoro!) sia in quella socialdemocratica (Roosevelt ne creò oltre 10 milioni nella seconda metà degli anni ’30).

Come è noto, è stato Keynes che ha influito decisamente su questo approccio, dimostrando che esisteva un fenomeno di “disoccupazione involontaria” che non era concepibile nella teoria economica ortodossa.   In sostanza, per gli economisti classici e neoclassici bastava fare funzionare il mercato che le cose si sarebbero messe a posto in quanto- in base alla legge di Say – l’offerta crea la domanda e non vi può essere una disoccupazione che non fosse volontaria.    Keynes dimostrò che il sistema macroeconomico raggiungeva l’equilibrio senza utilizzare tutte le risorse disponibili, a partire dal lavoro, e nessun aggiustamento automatico del mercato era possibile. Era necessario, pertanto, l’intervento dello Stato, il deficit spending, per sostenere la domanda aggregata e salvare il capitalismo, come lui stesso affermò senza infingimenti.

Ma, con Keynes cambia anche l’approccio alla povertà che viene identificata con la disoccupazione. Era in gran parte vero nel periodo in cui lui scriveva, ma non lo è stato più a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. In quel decennio emerge, per poi consolidarsi successivamente, la figura del “working poor” del lavoratore povero o impoverito. Un fenomeno che oggi è sempre più diffuso, per cui pensare di combattere la povertà solo con più posti di lavoro è falso, se non si precisa di quale lavoro e salario stiamo parlando.  E’ questo un equivoco che coinvolge anche chi guarda al Mezzogiorno senza conoscerlo.

 

  • Le diverse facce della povertà nel Mezzogiorno oggi.

Si possono stimare in circa 800.000 i giovani del Mezzogiorno che possiamo inserire nella categoria degli “Workings poor”. Lavorano nelle piccole imprese locali,nel commercio,nelle imprese subappaltatrici, ma anche in catene nazionali di supermercati dove firmano buste paga regolari e ne incassano la metà. Se si sposano e fanno due figli cadono sotto la soglia della povertà,se la moglie non lavora scendono della categoria della “povertà assoluta”.   Naturalmente, la loro condizione è diversa se vivono in un piccolo centro, in casa di proprietà e con un orto ed animali da governare.   In molte aree interne del Mezzogiorno, le forme di autoproduzione e di dono/reciprocità hanno ancora un loro peso [15] che contribuisce all’integrazione del basso reddito.   Ma, la maggior parte dei giovani meridionali vive in centri urbani con scarsa possibilità di trovare forme integrative di reddito, di vivere fuori dal mercato.

La maggioranza dei giovani meridionali sono diventati “formalmente liberi” di vendere la loro forza –lavoro, ma non sanno più a chi venderla.   Come Marx aveva intuito e denunciato, nel mercato del lavoro capitalistico la condizione più disperante è quella di chi non riesce a farsi sfruttare. Ed è questa la condizione dei giovani meridionali. Chiusa la macchina della spesa pubblica, ridotte le attività produttive, i giovani non hanno altra via che quella dell’emigrazione. Gli appartenenti ai ceti medi, partono per studiare nelle più prestigiose Università del Centro-Nord : Roma, Bologna,Forlì, Milano, sono le mete più ambite e frequentate. Non perché nel Sud non ci siano delle Università, qualcuna anche ben funzionante, ma perché sperano di inserirsi in un circuito migliore, di conseguire lauree più prestigiose e che, in ogni caso, vengono valutate di più. La maggioranza degli studenti universitari parte dopo la Triennale, sia perché le Specialistiche sono carenti nelle Università del Mezzogiorno, sia per i motivi soprarichiamati. Insomma, si tratta di un pre-inserimento nel mercato del lavoro, di mettersi nelle condizioni migliori per entrare nel mondo del lavoro. Gli appartenenti al ceto medio-alto ed alle elite vanno a studiare o a specializzarsi all’estero (Inghilterra, Usa , Germania, Francia), mentre i figli dei ceti popolari si iscrivono nelle Università meridionali senza molta convinzione, ma solo per la necessità di trovare un “parcheggio”.

Complessivamente, per motivi di studio o di lavoro tra i giovani nati nel Mezzogiorno e che si collocano nella classe di età tra i 20 ed i 35 anni, oltre il 60 per cento vive fuori dal territorio meridionale anche se, in gran parte, conservano la residenza nei luoghi di origine. Per questo i dati sull’emigrazione meridionale enunciati dall’Istat o dalla Svimez sono decisamente sottostimati. C’è un grande flusso di giovani che vanno e vengono dal Sud al Nord ed in senso inverso, che tentano di trovare un lavoro, spesso falliscono o trovano solo lavoretti sottopagati nel settore privato. Infatti, il taglio della spesa pubblica, anche nel Nord, impedisce di trovare quei lavori precari nella Pubblica Amministrazione a cui era possibile accedere in passato: una supplenza nelle scuole, un trimestre alle Poste, ecc.   Paradossalmente, la gran parte dei giovani emigrati nel Centro-Nord –per motivi di studio o di lavoro- sono mantenuti dai genitori e nonni.  Ovvio per gli studenti, molto meno per chi lavora. Il problema è che si tratta in gran parte di lavori sottopagati che non riescono a coprire gli alti costi (casa, trasporti, ecc.) della nuova residenza.   Non era mai successo in passato! La grande emigrazione degli anni ’50 e ’60 aveva una matrice inversa : erano gli emigranti che mandavano i soldi a casa per sostenere le famiglie. Sono stati i nostri emigranti all’estero che, attraverso le rimesse, hanno sostenuto la lira negli anni difficili precedenti la prima guerra mondiale e successivamente nel periodo 1946-1958.   Oggi, invece sono le famiglie meridionali che mantengono, in parte, questa forza-lavoro emigrata nel Centro-Nord. Si tratta di una forza-lavoro che rientra in quello che Marx definiva come “sovrapopolazione stagnante” : << La terza categoria della sovrapopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. (…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario>>.  Questa “sovrappopolazione stagnante”oggi, oltre ad essere composta da extracomunitari, è composta da giovani meridionali , sostenuti dalle famiglie di provenienza per resistere allo sfruttamento selvaggio, scommettendo su un futuro migliore.

Il Mezzogiorno, anche per questa via- oltre quella più nota del “risparmio”[16]– ha accresciuto il trasferimento di risorse nel Centro-Nord, continuando ad impoverirsi.  Un meccanismo micidiale che accentua decisamente il divario Nord-Sud e che produce una “triste” condizione esistenziale per i giovani meridionali. Infatti, la domanda è: chi non parte che fa? Non abbiamo dati precisi, ma solo qualche inchiesta sul campo condotta in questi anni in Sicilia e Calabria. Va detto, che c’è una piccola parte di giovani che rimangono nel Sud perché ereditano una qualche “rendita professionale”. Sono i figli dei professionisti affermati (avvocati, ingegneri, commercialisti,notai, ecc.) o di ricchi commercianti o i rampolli della nuova borghesia mafiosa che con i proventi dei mercati illegali aprono ipermercati, resort, grandi alberghi, centri benessere, ecc. Ma, la maggioranza dei giovani che restano nel Mezzogiorno lo fa non per scelta, ma per mancanza di alternative, per mancanza di risorse o poco spirito di intrapresa, più spesso dopo aver tentato la via dell’emigrazione uscendone con le ossa rotte. E’ quella parte della forza-lavoro, che Marx collocherebbe oggi nella sfera del “pauperismo”, ed esattamente nella terza categoria del pauperismo che abbiamo prima richiamato : <<gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare>>.   Ma, con una grande differenza rispetto al passato. Questi giovani che non studiano, non lavorano, né cercano più il lavoro vivono in una condizione esistenziale inedita. Sono i cosiddetti NEET ( Not in Education, Employment or Training) che Bankitalia stima in 2,2 milioni in Italia, e che nel Mezzogiorno sono più del 30% dei giovani.  Non muoiono di fame e di stenti, come avveniva in passato in condizioni simili, ma muoiono lentamente sul piano della vita civile, si ritirano in sé stessi ed in una cerchia ristretti di amici, per lo più in condizioni simili.  Non praticano il “volontariato” che, come sappiamo, è positivamente correlato all’attività, per cui ci troviamo in una situazione, apparentemente paradossale, che si trovano più facilmente “volontari” nelle aree a più alta occupazione e ricchezza che in quelle a basso reddito ed alti livelli di disoccupazione. Questi giovani, specie quelli che vivono in piccoli centri urbani, hanno a disposizione due risorse rare nella società dei consumi: lo spazio ed il tempo. Due risorse fondamentali per la vita, che gli abitanti delle metropoli inseguono disperatamente, e che questi giovani hanno in abbondanza ma non sanno che farsene.

 

  • Giovani, povertà e Mezzogiorno: che fare ?

Tutte le forze politiche, o quasi, denunciano da anni la gravità della disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, con una retorica stucchevole, senza indicare soluzioni, nella maggioranza dei casi.   Ogni possibilità di dare un futuro alle nuove generazioni, di contrastare la disoccupazione/ emigrazione di massa, viene ricondotto ad una formula magica: la crescita.   Peccato che la “crescita”, la ripresa, o come la si vuole chiamare viene rimandata di anno in anno. E’ come uno studente bocciato un anno dopo l’altro che non desiste.   Certo, a furia di crolli e cadute il Pil potrà un giorno lontano anche segnare un piccolo segno positivo, ma il trend di fondo è segnato.   Ci siamo incamminati in quella fase che già gli economisti classici avevano previsto – la lunga stagnazione- e che il ricco, e tecnologicamente avanzato, Giappone sta sperimentando da vent’anni. Il tema è dunque il seguente: come creare lavoro che abbia un senso- sul piano sociale ed ambientale- in una fase storica di <<lunga stagnazione>>.

Non vi è, ovviamente, una formula magica o un’unica ricetta.   Quello che deve essere chiaro è che non vi può essere nessuna risposta che non preveda un cambiamento nelle politiche nazionali, in quello che si chiama “modello di sviluppo”.   Non vi è certamente alcuna risposta dentro le attuali politiche di austerità, di taglio indiscriminato della spesa pubblica, nella presunzione di pagare un “debito pubblico” che è insostenibile e dovrà essere, insieme agli altri paesi europei, rinegoziato.   E’ questo un nodo centrale che nei limiti di queste note non possiamo approfondire, ma non possiamo ignorare.

Ammesso e non concesso, che la ragione prevarrà e usciremo fuori dal ricatto dello “spread” , resta il fatto che la Nuova Divisione Internazionale del Lavoro ci offre pochi spazi per pensare di puntare ancora sull’aumento delle esportazioni, mentre dovremmo pensare a ridurre alcune importazioni che hanno a che fare con la nostra “sovranità energetica ed alimentare”. [17]   Questo significa che abbiamo bisogno di promuovere il risparmio energetico e le energie rinnovabili, per ridurre l’importazione di combustibili fossili, migliorare la nostra bilancia commerciale e renderci meno dipendenti dalle montagne russe del prezzo del gas e del petrolio. Ugualmente, nei prossimi anni, la speculazione finanziaria ed il mutamento climatico, renderanno sempre più preziosa la produzione agricola e zootecnica di qualità ed il ruolo imprescindibile dell’agricoltura contadina, come ha sostenuto recentemente il presidente della Commissione Europea.   E’ evidente che nel campo delle energie rinnovabili e dell’agricoltura biologica il Mezzogiorno ha un grande ruolo da giocare, che si può tradurre in migliaia di nuovi posti di lavoro con una evidente utilità sociale ed ambientale.   Gli ultimi dati Istat ci dicono che il solo settore dove è cresciuta l’occupazione è il settore primario, ma potrebbe crescere molto di più solo se cambiasse il modo in cui funziona il mercato agro-alimentare e si utilizzassero le terre incolte (nell’ osso del Mezzogiorno ormai siamo vicini al 30%).   Ancora grandi spazi di manovra ci offrono gli investimenti in campo culturale, nella valorizzazione del patrimonio archeologico, storico, ecc. , nella ricerca applicata alle energie rinnovabili, alla bio-agricoltura, ai nuovi materiali ecologici, al risparmio di materie prime, ecc.

Questa è la riconversione ecologica del nostro modello che non è più un’idea astratta di ambientalisti utopisti, ma è diventata una necessità. Ma, questo cambiamento potrà avvenire solo nel medio-lungo periodo, mentre i giovani, soprattutto nel Mezzogiorno, hanno bisogno di una risposta hic et nunc. Per questo , in maniera schematica, formuliamo alcune proposte per il breve periodo:

a ) l’introduzione di un reddito di cittadinanza per tutti i giovani dai 18 ai 32 anni che non studiano, né lavorano;

  1. b) distribuzione, anche in comodato d’uso ventennale, delle terre incolte, degli immobili non utilizzati o confiscati alle mafie, a cooperative, imprese individuali, ecc. costituite preferibilmente da giovani meridionali ed immigrati extracomunitari (in particolare, indiani, pachistani, eritrei, etiopi, ecc.)[18]
  2. c) introduzione a livello di enti territoriali di una moneta locale complementare. Si tratta di una moneta di scopo che serve a ridare fiato all’economia locale-dato che può circolare solo in un ambito territoriale ristretto- e permettere agli enti locali (in primis i Comuni) di occupare i giovani in varie attività sociali e culturali di interesse comunitario.

 

Non abbiamo qui lo spazio per approfondire queste proposte. Possiamo solo dire che il reddito di cittadinanza per i giovani è una misura urgente per bloccare la fuga di massa dal Mezzogiorno, mettendo ovviamente dei vincoli di godibilità. Potrebbe essere agganciata a Lavori Ecologicamente Necessari ed essere prevista all’inizio solo per il Mezzogiorno, nella misura in cui non si ripetono gli errori fatti in passato per gli LSU ed LPU.   E questo può essere fatto solo con i “contratti di responsabilità territoriale” , che il sottoscritto –nella qualità di presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte- ha potuto implementare e dimostrarne l’efficacia nella lotta agli incendi e nella raccolta dei rifiuti. [19] Dove trovare le risorse finanziarie? E’ la solita obiezione a cui si può rispondere facilmente: attraverso una tassazione adeguata della rendita finanziaria, immobiliare, e dei redditi alti.

Sull’uso delle terre incolte, nonché sul sostegno alla piccola e media proprietà contadina sta diventando sempre più importante l’estensione delle reti di economia solidale, di cui i Gruppi di Acquisto Solidale sono una delle espressioni più importanti e conosciute. L’ente locale può favorire questi processi, come sta già avvenendo in alcuni Comuni della Lombardia, Toscana, Emilia, ecc. Si tratta di trovare le forme alternativa al mercato attuale gestito dalla grande distribuzione che fa il bello ed il cattivo tempo, imponendo ai produttori prezzi iniqui ed insostenibili, che generano ribellioni e tensioni sociali, che si scaricano spesso sull’anello più debole dello sfruttamento: gli immigrati. [20]

Infine, sulle monete locali complementari, questa misura –che si sta sperimentando in varie parti del mondo – fa parte di quel processo di recupero di una parte della “sovranità monetaria” che abbiamo perso.   Il fenomeno è ormai esploso in importanti città come Londra o Monaco ed è presente in varie forme anche in Italia, ma ancora allo stato embrionale e, purtroppo, senza l’intervento di una autorità pubblica, la sola che può dare valore ad una nuova moneta.[21]

Vorrei concludere dicendo che se non si interviene immediatamente per bloccare la fuga di massa dei giovani dal Mezzogiorno, qualunque intervento futuro sarà inutile perché mancheranno i soggetti sociali che possono produrre il cambiamento necessario. Non c’è più tempo.

[1] Cfr. T.R.. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Utet, Torino, 1965, pag 323

[2] Vedi F. Quesnay, Il “Tableau économique” ed altri scritti di economia, Isedi, Milano, 1973, p. 37

[3] Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973 (ed. or.

[4] <<Con una spesa molto piccola lo Stato può facilitare, incoraggiare ed anche imporre a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere le parti più essenziali dell’educazione>> , A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973, p. 772

[5] Ibidem, p. 122

[6] Cfr   D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Isedi, Milano, 1976, pp. 70-71

[7] Ibidem pag. 70

[8] Cfr. J. Stuart Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1953, pp.350-52

[9] Ibidem pag. 355

[10] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro primo3, cap. XXIII°, Ed. Riuniti, Roma, 1956, pp 94-95

[11] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II° p. 268

[12] Vedi Giovanna Procacci, L’economia sociale ed il governo della miseria, in Aut-Aut, n° 167/68, La Nuova Italia, Firenze, 1978. Nello stesso numero della rivista vedi anche l’articolo di Manuel Castel, “La guerra alla povertà negli Stati Uniti e lo statuto della miseria nella società dell’abbondanza”.

[13] Sull’importanza e gli effetti di questa legge, nonché in vivacissimo dibattito politico e teorico, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1980, in particolare il capitolo settimo.

[14] Cfr. Alfred Marshal e M.P. Marshall, Economia della produzione, Isedi, Milano, 1975, pp. 48-49

[15] Sull’autoconsumo ed il dono come forme di integrazione del reddito abbiamo condotto un’indagine sul campo, nel 2001 nei paesi collinari e montani della provincia di Reggio Calabria, vedi “Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 2002

[16] A partire dagli anni ’60 del secolo scorso il rapporto “risparmio/impieghi” degli istituti bancari ha visto un continuo deficit a sfavore del Mezzogiorno ed a vantaggio del Nord. Vale a dire: una parte consistente del “risparmio delle famiglie meridionali” è stato utilizzato ed investito fuori dal territorio meridionale.

[17] Sulla necessità per tutti i paesi di riprendersi la sovranità energetica ed alimentare, come risposta alle “fluttuazioni giganti” della Borsa ed al mutamento climatico, vedi T. Perna, Eventi Estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste climatiche e finanziarie, Altreconomia Ed., Milano, 2011.

[18] Nella nostra esperienza sul campo, a partire dal noto progetto di Badolato e Riace, abbiamo potuto verificare gli extracomunitari, provenienti dai paesi sovra citati , sono i soggetti più adatti a coltivare le terre incolte e renderle produttive, fermo restando che abbisognano di una filiera virtuosa come quella dei Gruppi di Acquisto Solidale

[19] Vedi su queste esperienze e sul “contratto di responsabilità territoriale” T. Perna, Aspromonte…., op. cit.

[20] Vedi il caso della rivolta di Rosarno del gennaio 2010, oggi approfondito all’interno della filiera agrumicola nel saggio di F. Mostaccio, La guerra delle arance, Rubettino ed. Soveria Mannelli, 2012

[21] Sul piano teorico, vedi il saggio di Bernard Lietaer, The Future of Money . Creating New Wealth, Work, and a Wiser World, Random House Group, London, 2001.

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