Mese: giugno 2018

Autonomia fiscale delitto per il Sud di Gianfranco Viesti

Autonomia fiscale delitto per il Sud di Gianfranco Viesti

Presto il nuovo governo si troverà ad affrontare alcuni temi molto importanti. Fra di essi, l’accordo fra lo Stato e tre regioni del Nord per la concessione di forme di “autonomia differenziata”.

La vicenda è decisiva per il futuro dell’Italia. Da sempre la Lega ha fra i suoi principi l’”egoismo territoriale”: trattenere al Nord la maggior parte possibile del gettito fiscale. Dato che al Nord i redditi sono maggiori della media nazionale, l’ammontare delle tasse raccolte è maggiore di quanto viene speso per i servizi pubblici, e quindi si genera un “residuo fiscale”.

Ma questo accade in ossequio ai principi fondanti della nostra Costituzione, come di quelle degli paesi europei. I cittadini più ricchi devono contribuire più che proporzionalmente (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, recita la nostra Carta all’art. 53); allo stesso tempo tutti i cittadini godono, almeno in teoria, del diritto all’istruzione o alla salute indipendentemente dal loro reddito. Da ciò discende un’azione redistributiva dello Stato.

L’obiettivo del mettere le mani sulle tasse non è stato mai abbandonato. Nell’ottobre scorso si è votato in Lombardia e in Veneto per un referendum “per l’autonomia”, per ottenere per le due regioni maggiori competenze ai sensi dell’art. 116 della Costituzione. Una consultazione inutile da un punto di vista legale, ma importante politicamente.

La richiesta di spostare le competenze, infatti, era motivata dal fatto che in questo modo si sarebbero potute trattenere più risorse fiscali di quanto accade oggi; sono motivazioni che si leggono in tutti i documenti ufficiali dei Consigli Regionali veneto e lombardo e che sono riecheggiate con forza prima del voto. Dopo il referendum è stata conclusa una prima intesa interlocutoria fra governo e regioni.

Ma ora la materia è nelle mani del nuovo ministro competente, un’esponente veneta della Lega, che ne ha discusso negli scorsi giorni con il Presidente veneto della Lega. Il quale ha rilanciato, in un’intervista molto determinata ad un quotidiano nazionale, tutti i suoi obiettivi. La questione tocca diversi aspetti importanti, ad esempio il funzionamento del sistema scolastico nazionale. Ma il punto chiave sono i soldi.

Lo spostamento di competenze dovrebbe semplicemente comportare che quanto oggi spende lo Stato in quei territori venga domani speso dalle Regioni (che ritengono di saperlo fare con maggiore efficienza).

Invece, insieme alle nuove competenze le regioni richiedono di trattenere quote predeterminate dei gettiti erariali riferiti ai propri territori, cioè più risorse, più residui fiscali, rispetto a prima. In questo modo con la maggiore autonomia si raggiungono gli obiettivi leghisti, a danno di tutti gli altri cittadini italiani.

E’ evidente che non si può trattare di una questione locale, di una trattativa tra veneti; ma di un grande tema per tutti. Della questione si è occupata ieri su queste colonne la neo-Ministra per il Sud, che ha ricordato che nel contratto di governo “non c’è scritto che il surplus fiscale debba essere trattenuto al Nord”.

Così è, infatti (punto 20); ma il testo è ambiguo: non c’è nemmeno scritto che si tratti delle attuali risorse.

Si dice: “Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”. Ma quanto debbano essere queste risorse, e chi e come lo stabilisce è proprio la materia del contendere. Questo avverrà presto, nelle prossime settimane: nel contratto c’è scritto che questo è un tema “prioritario” per l’azione di governo.

Il nostro paese viene da una lunga e infelice storia, specie negli ultimi anni, di decisioni fondamentali sul riparto territoriale di servizi e finanziamenti pubblici prese nell’oscuro di commissioni tecniche, sulla base di criteri discutibili, nascosti in documenti impenetrabili alla comprensione; tant’è che il Parlamento, alla fine dell’ultima legislatura, ha chiesto una relazione su quanto avvenuto nell’applicazione del federalismo fiscale.

La Ministra ricorda che ogni intesa deve essere approvata dalle Camere, e quindi che i 5 Stelle possono bloccarla; ma chissà quale sarà la loro posizione: nei Consigli Regionali di Veneto e Lombardia i pentastellati avevano votato insieme al centro-destra per richiedere il referendum.

E la Ministra sa benissimo che quel che conta è il lavoro tecnico-istruttorio che avviene prima del voto: potrebbe ad esempio richiedere di avere tecnici di propria fiducia presenti in via ufficiale in tutte le sedi tecniche. I diritti di tutti i cittadini italiani vanno difesi oggi ancor più di prima.

Tutti i contenuti del contratto di governo lasciano prevedere un forte calo delle risorse fiscali statali (con la flat tax) contemporaneamente a nuovi assai impegnativi capitoli di spesa (revisione pensioni, reddito di cittadinanza). In questo quadro, una autonomia regionale ben disegnata garantirebbe ai cittadini delle regioni più ricche risorse comunque sufficienti, e scaricherebbe solo sugli altri italiani tutti i problemi delle minori disponibilità per la scuola o i servizi sociali. Un delitto perfetto.

 

Gianfranco Viesti

 

Articolo pubblicato su Il Messaggero, Il Mattino, Quotidiano di Lecce 18.6.2018 

L’Osservatorio del Sud nella sede della Fondazione Premio Sila49

L’Osservatorio del Sud nella sede della Fondazione Premio Sila49

L’Osservatorio del Sud è nato, su ispirazione ed impulso di Piero Bevilacqua, pochi mesi or sono con lo scopo principale di porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale i gravi problemi dell’Italia meridionale. L’Osservatorio vuole provare a rimettere al centro del dibattito pubblico il Mezzogiorno non con le retoriche recriminazioni, a volte persino neoborboniche, del passato, ma con una serie di analisi circostanziate e multidisciplinari che traggano il Sud fuori dalla coltre degli stereotipi che lo deformano, mostrandolo così com’è: piagato dalle disuguaglianze estreme, dalla disoccupazione endemica, dalla fuga inarrestabile delle intelligenze, dalla devastazione del territorio e dei paesaggi rurali ed urbani, dalle infiltrazioni strutturali delle organizzazioni criminali, dalle nuove povertà, ma che contiene anche qualche elemento di opposizione, di imprenditoria sana e dinamica, di nuove correnti culturali, di passione politica e civile, di generosi amministratori, di figure straordinarie che progettano e perseguono un nuovo mondo possibile. L’Osservatorio vuole dare voce a queste forze, vuole risvegliare le coscienze, un po’ assopite, della cosiddetta società civile, vuole parlare, insomma, a tutta la società meridionale provando a darle rappresentanza culturale e ideale.

L’Osservatorio -che ha anche un sito web con gli scritti degli Associati e dei membri del Comitato scientifico (ricordo, fra gli altri, Salvatore Settis, Gianfranco Viesti, Tomaso Montanari, Vito Teti, Tonino Perna ed Enzo Scandurra)- vuole non solo mettere insieme le intelligenze meridionali disperse nella Penisola ed in Europa, ma ha anche l’ambizione di elaborare idee, progetti e proposte, che aiutino le forze migliori a trovare la strada di un impegno corale di trasformazione sociale ed economica e di emancipazione civile.

L’occasione di stamani, e ringrazio Enzo Paolini per avercela data, è l’insediamento dell’Osservatorio presso la Fondazione Premio Sila49 che ospita, come ha già detto Paolini, una delle più importanti raccolte librarie sul Mezzogiorno. Una sede, questa di Via Salita Liceo, che è orgogliosamente incastonata nel cuore antico e délabré della città capitale dei Brettii e della Accademia cosentina e non di Alarico. La devastazione delle città e del paesaggio meridionale, nel secondo dopoguerra, ha scardinato l’indispensabile elemento identitario della stabilità dei luoghi e dei paesaggi che garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità. L’Osservatorio, con il concorso della Fondazione Premio Sila49, si propone anche di stimolare ed aggregare le forze e le energie intellettuali del territorio nell’analisi delle forme e nella individuazione di metodi da usare per la ricomposizione armonica delle città, dei paesaggi meridionali e delle loro identità. L’Osservatorio del Sud si propone di stimolare e di favorire, tramite la più larga partecipazione attiva dei cittadini, la piena consapevolezza che il diritto alla città ed al paesaggio è un diritto fondamentale degli individui e delle comunità perché la forma delle città, e dei loro paesaggi, è intrinseca all’idea stessa di cittadinanza e di democrazia.

Testo del breve discorso tenuto, il 20 giugno 2018, dal vicepresidente Battista Sangineto in occasione dell’insediamento dell’Osservatorio presso la Fondazione Premio Sila 49, sita in Via Salita Liceo a Cosenza.

Per il Sud lo Stato è ancora fondamentale di Luigi Pandolfi

Per il Sud lo Stato è ancora fondamentale di Luigi Pandolfi

L’ultimo Rapporto della Svimez ha offerto un quadro meno catastrofico sulle prospettive economiche del Mezzogiorno. I ritardi e i problemi rimangono, ma qualche spiraglio di luce incomincia a intravedersi, sembra voler suggerire il documento. Tutto a posto, allora? Neanche per sogno.

A dieci anni dagli eventi americani che hanno innescato la più grave crisi economica mondiale dopo quella del 29′, anche il Sud “aggancia” la ripresa, facendo registrare nel 2016 una crescita addirittura maggiore rispetto al resto del paese (Campania sul podio con un +2,2%). Dietro questa performance c’è una leggera crescita dei consumi e degli investimenti, ma soprattutto la ripartenza dell’export. Il segnale, tuttavia, è stato molto più vistoso che altrove perché negli anni che vanno dal 2008 al 2014 la caduta della domanda interna, sia pubblica che privata, e dei livelli occupazionali, al Sud era stata più marcata, più rovinosa.

Ma poi, quale sud? Ci sono regioni come la Puglia e la Campania che presentano maggiori segni di ripresa e regioni come la Calabria e la Sicilia, per fare degli esempi, che continuano ad arrancare, per la debolezza delle loro strutture produttive, per lo sfascio delle amministrazioni pubbliche.

Parlare di “consolidamento” della ripresa sarebbe pertanto azzardato: già nel 2017 si è assistito ad un rallentamento della stessa e questo farà sì, come la stessa Svimez riconosce, che il Mezzogiorno (forse) recupererà i livelli pre-crisi soltanto nel 2028, dieci anni dopo il Centro-nord. Livelli pre-crisi, beninteso, quelli che facevano del Sud, comunque, un’area economica periferica e a ritardo di sviluppo. Valgano a tal riguardo i dati, molto indicativi, che afferiscono al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione (numero di occupati in rapporto alla popolazione) in Italia si attesta al 58,1% (undici punti in meno rispetto alla media europea), nel Mezzogiorno al 46% (dodici punti in meno rispetto alla media italiana). Intanto, l’emorragia di giovani – per studio e lavoro – continua, interi territori e borghi interni rischiano spopolamento ed estinzione, bassa rimane la qualità dei servizi pubblici essenziali e delle infrastrutture di base. Niente di nuovo, potremmo dire, ricordando che il divario nord-sud non è un prodotto dell’ultima crisi.

Imputabili alla crisi, e alla sua gestione (austerità, nuove norme sul lavoro, riduzione di tutele e diritti), sono invece i mutamenti intervenuti nella struttura e nella qualità dell’occupazione. Si è accentuato il divario generazionale e, soprattutto, è cresciuto il lavoro precario. In percentuale, dall’inizio della crisi, la contrazione del tempo pieno e del tempo indeterminato è stata più marcata al Sud che nel Centro-nord. Più contratti part-time, più lavoro a chiamata, più sfruttamento, meno reddito. È anche per questo che la piccola ripresa, e lo stesso miglioramento del dato occupazionale, non hanno inciso significativamente su alcune emergenze sociali, a cominciare dalla povertà. Anzi: ancora nel 2016, circa il 10% dei meridionali era in condizione di povertà assoluta, contro il 6% dei cittadini del Centro-Nord (nel 2007 erano rispettivamente il 5 e il 2,4%). Percentuale che schizza al 46% se si considerano tutti quelli che rischiano di scivolare nella povertà assoluta.

Aumenta complessivamente la ricchezza (crescita del Pil), insomma, e al tempo stesso la povertà e l’esclusione sociale. Sono i segni di un modello di sviluppo strutturalmente imperniato sulle disuguaglianze: bassi salari e precarietà da un lato, competitività e massimizzazione del profitto dall’altro. Il contributo del Sud alla bilancia commerciale italiana è stato importante nell’ultimo periodo, per intenderci, ma i meridionali non ne hanno beneficiato. In verità, anche per i cittadini del Nord il dividendo è stato magro, ma al Sud questo ha significato accumulare altro ritardo.

Un modello insostenibile, per il paese e per il Mezzogiorno.

Si può parlare ancora di “questione meridionale”? Non nei termini in cui se n’è parlato in passato (la crisi ha modificato anche il paesaggio sociale e, in parte, l’economia del Nord), ma, in linea generale, certamente sì. Intanto, perché la forbice tra Nord e Sud non si è ridotta, ma, addirittura, si è allargata in questi anni, complice anche la crisi. Dagli indici di povertà e di esclusione sociale, dai livelli occupazionali e di reddito pro-capite, fino alla qualità dei servizi (sanità, scuola, trasporti), in tutti i rapporti più recenti continuano a emergere (almeno) due tipi di Italia. Poi, perché quella del Sud continua ad essere una gigantesca questione nazionale: fino a quando non ci sarà un sostanziale, apprezzabile, riequilibro tra Nord e Sud in termini economici, a risentirne sarà l’economia nazionale nel suo complesso.

Ma che fare?

Negli ultimi anni, gran parte del mondo accademico e della politica, economisti, storici, giornalisti, si sono detti d’accordo sull’improponibilità di una strategia improntata allo spirito del vecchio “intervento straordinario”. Eppure, la straordinarietà della situazione del Mezzogiorno, richiederebbe, ancora, interventi mirati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari (E’ questo che si propone il nuovo Ministero del Sud?). Di più. Nonostante il fallimento (il divario non è stato colmato), almeno su grande scala, delle strategie e degli interventi posti in essere fino agli inizi degli anni Novanta, alcune intuizioni contenute nell’ultima legislazione in materia andrebbero addirittura riprese e rilanciate. Tra queste, il concetto di “programmazione partecipata”, richiamato nella legge n. 64 del 1986, per una nuova politica industriale e di coesione. Un nuovo protagonismo dello Stato e dei territori, dei cittadini. Anche perché l’alternativa allo sviluppo calato dall’alto non può essere l’abbandono a se stessa della parte più debole del paese, spacciando tutto questo per “sviluppo autocentrato” (viene in mente la retorica speciosa sugli “imprenditori di se stessi”).

Programmazione e partecipazione degli attori locali ai processi decisionali, dunque. A maggior ragione oggi, questa sembra l’unica via perseguibile per invertire la rotta nel Mezzogiorno e far tesoro delle esperienze positive che si riscontrano nei vari territori. Cambiando radicalmente l’agenda degli ultimi trent’anni (privatizzazioni), il Mezzogiorno dovrebbe diventare il laboratorio di un nuovo intervento pubblico in economia, che non escluderebbe, insieme al sostegno verso iniziative autonome, la creazione d’industrie statali in settori innovativi e ad alto valore aggiunto (es: robotica, software, componentistica), capaci di reggere la concorrenza internazionale. Un piano industriale, senza giri di parole.

Parallelamente, coinvolgendo gli attori locali, si dovrebbe puntare sulle filiere produttive legate alla natura, al paesaggio, all’ambiente e alla cultura, incrociando, valorizzando, potenziando le esperienze già attive e di successo sviluppatesi in questi ambiti. Rigenerazione urbana, recupero del degrado ambientale e del dissesto idrogeologico, agricoltura di qualità, turismo sostenibile, accoglienza, solo per citarne qualcuna, coniugando sostenibilità ambientale delle attività poste in essere e sostenibilità economica dei percorsi d’intrapresa, grazie alla mano pubblica. Inutile ricordare, poi, che il sostegno alla domanda interna e la creazione di nuova occupazione nel Mezzogiorno avrebbero effetti positivi sull’intera economia nazionale, rendendo stabile e duratura la ripresa, trainando, ben oltre l’export, l’industria del Nord, imperniata sul capitale privato. Un tema da sviluppare.

Si potrebbe obiettare: ma questo è incompatibile con i vincoli di finanza pubblica imposti dall’Europa e, probabilmente, anche con le regole a tutela della concorrenza nel mercato unico! Sì, ma proprio qui sta la sfida. È ormai evidente che la disciplina del Patto di bilancio europeo e l’intera architettura pro-mercato dell’Unione sono in contrasto con la nostra Costituzione, che invece subordina l’iniziativa privata al principio della “utilità sociale” e impegna lo Stato a perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini. Applicare la Costituzione significa mettere in mora i Trattati. O viceversa. E questo vale anche per la “questione Sud”.

 

Il Mezzogiorno, la Calabria e la Grande Recessione: una occasione perduta di Tonino Perna

Il Mezzogiorno, la Calabria e la Grande Recessione: una occasione perduta di Tonino Perna

   La Grande Recessione ha trasformato il divario storico tra Nord e Sud Italia in un baratro da cui il Mezzogiorno non sembra più riuscire a riprendersi.   La paventata uscita di Draghi dalla BCE e la fine del Quantitative Easing che teneva lontana la speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato, ci fa pensare seriamente che dal prossimo autunno le cose si potrebbero mettere male per tutto il nostro paese e, come avviene sempre in questi casi, soprattutto per le aree e le fasce sociali più deboli.  

Dallo scoppio che della Grande Recessione nel 2008 sono passati dieci anni e in questo lasso non breve di tempo abbiamo perso un’occasione per cambiare modello di società e di economia, per capire che una storia era finita, un ciclo storico, iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, aveva esaurito la sua spinta vitale.

Qui di seguito vi riproponiamo un editoriale uscito sul Quotidiano del Sud otto anni fa e che, a mio modesto avviso, ci pone ancora oggi delle domande a cui non sembra che la classe politica al potere sia in grado di rispondere.

Malgrado le rassicurazioni di rito di esperti e governanti l’Occidente si trova di fronte alla Grande Recessione, la più grave crisi –economica, sociale e politica- dal tempo della Rivoluzione Industriale. Molto più grave di quella del ’29, che si protrasse fino al 1933 e poi sfociò nella seconda guerra mondiale. La grande novità sta nel fatto che questa volta non si tratta di una crisi globale, ma specificamente occidentale. Infatti, in Asia, Africa ed America Latina molti paesi continuano a crescere a tassi sostenuti (dal 6% dei paesi sub sahariani al 10% della Cina, solo per fare degli esempi), mentre in Occidente la “crescita del Pil” è finita, con la sola eccezione della Germania che, stando agli ultimi dati, si sta spegnendo. In breve, se ci va bene Usa ed UE si stanno omologando al modello giapponese, un paese che non cresce più dal 1990 e mantiene un buono standard di vita grazie ad un poderoso indebitamento, il più grande del mondo : rapporto Debito/Pil pari al 200 per cento. Ma, oggi la strada dell’indebitamento infinito, che ha consentito alla popolazione giapponese di sopravvivere al disastro finanziario, non è sostenibile per gli Usa e la UE, semplicemente per il fatto che i paesi creditori (a cominciare dalla Cina) non sono più disponibili a continuare a comprare i titoli di stato dei paesi occidentali.

Da questo schematico scenario emerge una semplice verità: siamo di fronte ad una redistribuzione di ricchezza e potere tra l’Occidente ed il resto del mondo, in particolare a favore delle nuove potenze emergenti, i cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). La Cina, in particolare, è diventata la prima potenza industriale del mondo, il paese con il più grande surplus nella bilancia commerciale, ed il più grande mercato al mondo per i prodotti industriali (dall’auto agli elettrodomestici ai mezzi di comunicazione, ecc.).

Purtroppo, noi occidentali non siamo preparati ad affrontare questa nuova situazione. Siamo nati e pasciuti con l’idea della <<crescita infinita del Pil>> che stentiamo a guardare con lucidità a quello che ci sta accadendo. Non vogliamo arrenderci al fatto che una più equilibrata distribuzione della ricchezza a livello planetario sia giusta e necessaria, e continuiamo ad illuderci con le vecchie ricette ed il linguaggio del secolo scorso.   Abbiamo per trent’anni <<drogato>> l’economia reale con un immissione sconsiderata di dollari –grazie alla funzione di banca mondiale della Fed- abbiamo moltiplicato i nostri debiti – di imprese, famiglie e Stati- portandoli mediamente a tre volte il Pil, continuando a consumare ed inquinare senza ritegno. Ed adesso, il crac delle Borse, la sfiducia che colpisce i nostri titoli azionari, ci sbatte in faccia il nostro fallimento.

Di fronte al crac finanziario dell’autunno 2008 gli Stati occidentali hanno cercato di salvare Banche ed Istituti finanziari dal fallimento aumentando ancora il Debito Pubblico, convinti che col tempo tutto si sarebbe messo a posto. Invece, le Borse occidentali sono tornate a crollare questa estate e il panico ha colpito consumatori, imprenditori e risparmiatori. I governi occidentali, Usa ed UE, stanno cercando di rispondere al crac con una drastica riduzione del welfare e con la compressione dei salari, a partire dai dipendenti pubblici. E queste scelte di politica economica non potranno che fa aumentare la recessione. Ma, le popolazioni europee ( e domani nordamericane) non ci stanno: non capiscono perché debbono essere i lavoratori dipendenti o i pensionati a pagare i costi del fallimento finanziario. Da qui il moltiplicarsi di lotte sociali, rivolte anche violente e crisi di governi che erano all’apice del consenso (come nel caso di Zapatero e non solo).

Come è facilmente comprensibile, la Grande Recessione in Europa non colpisce tutti allo stesso modo. Sono in particolare i paesi del sud Europa quelli che stanno pagando di più questa crisi e dove più forti sono state finora le lotte/rivolte sociali.   E naturalmente, tra i paesi del sud Europa sono le aree marginali quelle che pagheranno ancora di più.   Sono le aree come il Mezzogiorno d’Italia che non hanno approfittato del tempo delle vacche grasse quelle che oggi si trovano nella più grande disperazione. Il caso calabrese è emblematico. L’aver mal utilizzato o non utilizzato i <<fondi strutturali europei >> per creare una struttura produttiva solida e diffusa ci porta oggi dritti al disastro sociale. L’aver permesso che la ricchezza regionale dipendesse per il 65% dalla spesa pubblica e dai “trasferimenti netti” dello Stato, ci pone oggi in una condizione di estrema debolezza di fronte al taglio drastico della spesa pubblica ed ai costi del federalismo fiscale .   Molti enti locali sono a rischio di fallimento , a cominciare dai Comuni, piccoli e grandi, con tutto quello che ne consegue in termini di servizi sociali e quindi di “qualità della vita”.

Cosa fare di fronte ad uno scenario realisticamente a tinte fosche ? Credo che la prima cosa è capire che nessuno si salva da solo. Cominciando dal livello macro : i governi dei paesi del sud Europa dovrebbe riunirsi per affrontare insieme la crisi del Debito Pubblico e fare fronte comune rispetto a Bruxelles. Se non sono capaci i governi perché i sindacati dei lavoratori non lo fanno, non propongono un grande incontro dell’Europa mediterranea per trovare una strada comune per rispondere ai tagli del welfare e dei diritti dei lavoratori ?   Ed anche a livello micro : perché le regioni del Mezzogiorno, al di là dei differenti colori politici, non si uniscono per trovare una piattaforma comune da presentare al governo ?   Se non lo fa la politica dovrebbero essere i rappresentanti dei lavoratori a prendere l’iniziativa, a riunire tutte le forze sociali ed istituzionali per tagliare gli sprechi, i privilegi, e valorizzare chi lavora e produce bene e servizi utili alla comunità.   Una grande, anche dura e dolorosa, opera di pulizia morale ed istituzionale, insieme alla promozione delle risorse intellettuali che sono ancora presenti su questa terra, ad un grande piano energetico ed ambientale, ad accordi di cooperazione con i consumatori del nord Italia per dare un “prezzo equo” ai nostri prodotti agricoli (come stanno facendo i Gruppi d’Acquisto Solidale ed la CTM di Bolzano), alla costruzione complessiva di una economia sostenibile sul piano sociale ed ambientale. Diciamolo con chiarezza: più che inseguire la chimera di Grandi Opere –spesso inquinanti e inutili- bisogna adoperarsi per un Grande Piano di piccole opere di recupero diffuse su tutto il territorio. L’edilizia bioenergetica, la messa in sicurezza delle nostre colline, la rete idrica da risanare, lo straordinario patrimonio archeologico da salvaguardare, ecc. costituiscono la base della ricostruzione di un “patrimonio comune” che è fondamentale per assicurare un futuro alle nuove generazioni. Il settore edile, rinnovato e ripensato, può rappresentare uno dei motori di questo processo.

Il collasso di questo modello di sviluppo lascia sul campo molte macerie: sul piano economico (imprese che chiudono), sociale (fine del welfare state), sul piano ambientale (dai rifiuti tossici alla cementificazione delle coste, ecc.).   Bisognerebbe ritrovare lo spirito che animò gli italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dovremmo trovare quella voglia di ricostruire un paese “in macerie”, sul piano morale innanzitutto, con una rinnovata spinta positiva   verso una società più equa, più rispettosa della natura, meno stressata dalla corsa alla massimizzazione dei profitti, più forte sul piano della solidarietà e della cooperazione sociale.