Siamo uomini o caporali ? di Tonino Perna

Siamo uomini o caporali ? di Tonino Perna

Dopo l’ennesima strage nel foggiano che ha causato la morte di altri braccianti africani, in tutto sedici in sole 48 ore, si è aperta la caccia ai “caporali”, ovvero a quelle figure di intermediari tra proprietari terrieri e braccianti da secoli presenti nell’agricoltura meridionale.    Sia al livello politico che mediatico si è scatenata una gara su chi attacca in maniera più dura i “caporali”, individuati come origine dello sfruttamento e della stessa morte dei lavoratori immigrati. Il cliché è esattamente lo stesso di quanto avviene da ormai troppo tempo rispetto alle stragi di migranti nel mar Mediterraneo: è tutta colpa dei mercati di carne umana. Pertanto, lotta dura e senza paura contro i mercanti di carne umana, sul mare e a terra, che siano i trafficanti che guidano le carrette sul Mediterraneo o i “caporali” dell’agricoltura meridionale. L’attuale governo ha le idee chiare in proposito: eliminiamo “trafficanti e caporali” e il fenomeno immigratorio si spegnerà da solo così come le migliaia di braccianti che raccolgono pomodori nel foggiano o arance nella piana di Rosarno troveranno finalmente un lavoro regolare e pagato a tariffa sindacale. L’immaginario collettivo che si sta costruendo è il seguente: trafficanti di carne umana rapiscono i giovani dell’Africa sub-sahariana e li costringono a lasciare la loro terra per venire in Europa, o nel migliore dei casi li ingannano con promesse di lavoro e ricchezza. Così come i “caporali” sfruttando i braccianti africani li costringono a lavorare per quattro soldi: scompare il ruolo dei proprietari terrieri, delle multinazionali del food, della grande distribuzione.

Chi conosce le dinamiche che hanno investito in questi ultimi decenni le strutture agricole del Mezzogiorno, sa bene che finora quasi nulla si è fatto per affrontare seriamente il fenomeno dei braccianti africani, ridotti in condizioni di semischiavitù, che vagano da un posto all’altro seguendo il ciclo della raccolta in agricoltura. I “caporali”, figura odiosa come un’ampia letteratura ha mostrato, sono solo un anello di una filiera di sfruttamento che si è intensificata in agricoltura da quando son venuti meno, per le piccole e medie aziende agricole, i contributi della Ue. Infatti, fino agli inizi di questo secolo la Comunità Europea erogava, ad esempio per agrumi e pomodori, un contributo rilevante alle aziende di trasformazione in base alle fatture che presentavano. In breve tempo si è creato un cortocircuito illegale: le aziende agricole fatturavano alle imprese di trasformazione che presentavano a Bruxelles il conto per prendersi l’incentivo, indipendentemente da ogni controllo. Ovvero, se c’erano dei controllori venivano facilmente aggirati e/o corrotti. Nel caso delle arance questo sistema, come si dimostra nel volume di Fabio Mostaccio “La guerra delle arance”, è stato spinto all’estremo: nella piana di Gioia Tauro-Rosarno si producevano sulla carta quantità di succo di arancia superiori a quelle prodotte da Brasile e Spagna messe assieme, mentre le arance restavano sugli alberi e poi marcivano a terra nella bella stagione. Quando i contributi della Ue son venuti meno ed è caduto l’incentivo diretto alle aziende di trasformazione, allora i proprietari agricoli hanno dovuto ritornare sul mercato e tentare di vendere questi prodotti che subiscono una concorrenza spietata a livello internazionale, ma ancora di più subiscono i dictat della grande distribuzione che fa i prezzi ed affama chi produce. Quando un chilo di pomodoro viene pagato a meno di dieci centesimi o un chilo delle arance di Rosarno a 12 centesimi, piccole e medie imprese agricole sopravvivono solo grazie allo sfruttamento selvaggio della manodopera africana. Se non ci fossero questi immigrati che lavorano dall’alba al tramonto per venti euro al girono, non avremmo più arance, pomodori e altri beni agricoli made in Italy.  Questa è la realtà con cui dobbiamo fare i conti.   C’è una sola alternativa credibile anche se non immediata: la trasformazione della filiera agro-alimentare. Abbiamo decine di casi di aziende agricole che hanno assunto regolarmente dei braccianti italiani e stranieri e li pagano rispettando i contratti nazionali grazie all’inserimento in reti di economia solidale (Gruppi di acquisto solidali, botteghe del Commercio equo, le associazioni e gruppi di “fuori mercato”, ecc.), che acquistano ad un prezzo anche cinque volte maggiore e vendono ai loro acquirenti e soci a prezzi spesso inferiori a quelli dei supermercati. Come è possibile ? Semplice saltano tutte le intermediazioni parassitarie. Più volte le inchieste della rivista “Altreconomia” ne hanno dato conto, mostrando la sostenibilità e l’efficacia di queste relazioni sinergiche, tra produttori e consumatori “consapevoli”, del Nord e del Sud del nostro paese, dove prezzo “giusto” e tutela ambientale (valorizzazione del bio, recupero essenze antiche, ecc.) vanno a braccetto.

 

9 agosto,   Manifesto

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