Mese: febbraio 2019

No alla frammentazione del Paese. Sì a un nuovo Mezzogiorno di Massimo Veltri

No alla frammentazione del Paese. Sì a un nuovo Mezzogiorno di Massimo Veltri

Dopo un inizio in sordina si è affacciato con insopprimibile impatto mediatico e politico la questione del regionalismo differenziato. Fino ad arrivare alla lettera con cui Piero Bevilacqua si è rivolto negli ultimi giorni al presidente Mattarella sottolineandone, con sobrietà di modi e impeccabile rispetto istituzionale, il ruolo di garante dell’unità del Paese. Iniziative si sono svolte dappertutto, nel Mezzogiorno: tanto in Calabria quanto in Campania e in Puglia a sottolineare l’urgenza del problema e la partecipazione popolare.

Pare, dopo la soluzione del no-impeachment di Salvini, che sia subentrata una tregua per cui non si avverte quella concitazione trafelata e incontrollata con la quale quasi in sordina e alle spalle del Parlamento si voleva correre verso la disgregazione dell’Italia. Perché di questo si tratta: qualcosa di ancora più grave della secessione, visti anche i disegni che prevedono, nei decreti giacenti presso il ministero dell’Interno, il ruolo residuale assegnato a Roma, capitale del Paese. Una tregua, appunto, dovuta certamente al clima di do-ut-des che regna fra i due partner di governo, soprattutto dopo il salvataggio dei 5Stelle nei confronti di Salvini, ma anche e in misura significativa alla forte pressione esercitata da coloro i quali, nelle università, sui giornali, in alcune Regioni, nelle sedi più disparate hanno opposto, spesso con toni argomentati e convincenti (malgrado posizioni sguaiate e infondate affermate o ribadite da esponenti governativi del Veneto) la loro forte opposizione. Non per ultimo è da segnalare l’atteggiamento forte e responsabile di ambienti ministeriali – centri studi e uffici – che hanno prodotto veri e propri rapporti nei quali è evidenziata la insostenibilità, la non praticabilità del progetto frantumatore del Paese.

Non è peregrino però ritenere che l’argomento riprenderà vigore e richiesta di prima pagina, con tempi e modalità al momento non facilmente prevedibili, e pertanto non guasta qualche riflessione e proposta supplementare. A partire da due tipi di atteggiamenti differenti fra loro emersi nelle ultime settimane. Il primo fa capo a Piero Bassetti – politico e imprenditore di chiara matrice democratica- e Valerio Onida – presidente emerito della Corte Costituzionale -, e insieme a loro a esponenti del nord dello schieramento democratico. Il secondo si riferisce ad alcune iniziative soprattutto di matrice campana volte ad accettare la sfida dell’autonomia e addirittura rilanciare.

Bassetti e Onida, da due versanti diversi denunciano, in buona misura, la insostenibilità della situazione attuale, minimizzando per di più l’intendimento frantumatorio della Lega di Salvini, ma soprattutto suggerendo che il rapporto Regioni-Stato centrale deve essere rivisto e riscritto. In ciò trovando immediati alleati non rappresentanti del centrosinistra che a vario titolo e senza troppe circonlocuzioni pongono più d’uno accento sul sud che però “…non può continuare con la sua inefficienza”; che “… gli sprechi sono insostenibili”; che “… c’è un’Italia, perlomeno, a due velocità”. Sentirlo dire da Onida e Bassetti è in buona misura una novità, dagli altri un pò di meno, viste le posizioni del Presidente della Regione Emilia Romagna Bonaccini, da Vinicio Peluffo, segretario regionale lombardo del Pd, tempo fa da Pietro Folena. Per non ritornare sulle sciagurate modifiche costituzionali e altrettanto sbagliati accordi fatti nel passato. Siamo in presenza, così, di una spia rossa che si è accesa, o riaccesa, e la cui intensità acquista sempre più maggior vigore: non solo in ambienti governativi ma pure nel centrosinistra l’unità del paese non è più un valore condiviso.

La questione meridionale, una sorta di feticcio più evocato che frequentato, proprio per vacuità di contenuti e condivisione di proposte e prospettive, si riaffaccia prepotentemente sotto altre spoglie neanche tanto mascherate ma appesantite oltre misura dal pericolo più che reale della dissoluzione dello Stato unitario. Perciò le iniziative di cui si diceva volte ad accettare la sfida e rilanciare non convincono ma sconcertano. Perché gli imprenditori, intellettuali e politici napoletani, nello stilare il loro decalogo di buoni propositi per dialogare con Roma e definire l’autonomia al di sotto del Volturno, le intrepide proposte di chi vuol far nascere la macroregione meridionale, devono fare i conti con una realtà che rischia di far soccombere miseramente non solo il bluff di cui trattasi ma pure lo spirito di responsabilizzazione e di carico di buone intenzioni che pure potrebbe essere sotteso. Com’è pensabile, infatti, avviarsi verso un autogoverno dopo decenni, o secoli, di assistenza e in presenza di classi dirigenti, e non solo politiche, che finora hanno mostrato d’essere la vera palla al piede del Sud? D’emblée nasceremmo come territorio autocentrato e autosufficiente? Il quadro dentro il quale ci muoveremmo quale sarebbe?

Perciò sopra si parlava di bluff, mentre e invece oltre al no fermo e forte alla frantumazione quello che serve è un’idea di Stato diverso, di Mezzogiorno nuovo. Un’idea che deve partorire dai tanti incontri di questi giorni, dalle moltissime prese di posizione pubblicate, dalle riflessioni articolate che si susseguono, e che devono sfociare com’è storicamente prassi comprovata dall’urlo di un no alla condivisione di un sì. Un sì nuovo e diverso che non può nascere dai tanti occhiolini strizzanti al Movimento 5Stelle, per alcuni individuato come unico salvatore della patria contro i trinariciuti salviniani, bypassando il movimento democratico e i suoi rappresentanti-partiti e sindacati- dati invece, frettolosamente?, per defunti o inservibili. Una partita, in qualche misura (solo) apparentemente minore, dentro quella che si sta giocando ormai alla luce del sole, e per la quale vale la pena per davvero impegnarsi. Le Regioni, e quali Regioni, sono utili e funzionali alla crescita del Paese e ad accrescere il suo tasso di condivisione? La cornice istituzionale nazionale contempla prerogative e funzioni diverse: quali mantenere dentro una matrice centrale e quali devolvere? Il Sud è possibile situarlo all’interno di un quadro unitario fatto di solidarietà certamente ma pure, e non in un secondo momento, di virtuosità per quanto riguarda progettualità, capacità di gestione, spesa virtuosa?

A chi compete una riflessione siffatta se non alla politica, e quanto è utile, necessaria, piuttosto di un semplice no che è facile da pronunciare quanto inefficace nei risultati?

 

 

Quotidiano del Sud

26.2.2019

Masochismo meridionale di Tonino Perna di Tonino Perna

Masochismo meridionale di Tonino Perna di Tonino Perna

 La vittoria del centro-destra in Sardegna non è una novità, lo è invece il fatto che a diventare governatore sia un senatore della Lega. Nessuno ci avrebbe scommesso un euro solo qualche anno fa.

Non riesco a capacitarmi del fatto che, secondo tutti i sondaggi, la popolazione meridionale voterà in massa per la Lega alle prossime scadenze elettorali. Se il trend in atto continuerà il PdS (Partito di Salvini) sarà con buone probabilità il primo partito nel Sud a dispetto del fatto che proprio lui sta sostenendo con determinazione la cosiddetta “autonomia finanziaria differenziata” che comporterà per il territorio meridionale il crollo della sanità, delle Università, scuola e servizi essenziali.   E’ difficile accettare che i cittadini meridionali possano votare in gran numero per chi li ha insultati fino a pochi anni fa, per chi ha detto che i giovani meridionali sono parassiti, nullafacenti e delinquenti, per chi persegue con determinazione e costanza la secessione del Nord. Eppure è così, e varrebbe la pena tentare di capire che cosa è successo in questi anni, perché il leader verde-nero non è un fungo velenoso nato per caso, ma è il frutto di un terreno di coltura, di un humus culturale che abbiamo ignorato.

Pertanto, la domanda è: perché i meridionali si vogliono fare del male con le proprie mani?   Sono diventati masochisti o lo sono sempre stati? Oppure, dobbiamo indagare in maniera più approfondita, capire cosa è successo in quest’ultimo ventennio.

Ci sono delle ragioni strutturali e delle matrici culturali nell’improvviso, incredibile, successo del PdS che si è determinato in soli tre anni. Di certo è stata una mossa elettoralmente geniale cancellare con un colpo di spugna la parola “Nord” e sostituire i “terroni” con gli immigrati. Chapeau! Non c’è che dire. Condizione necessaria, ma non sufficiente per prendere i voti nel resto del paese. Anche la crisi economica ha giocato la sua parte nel diffondere tra i lavoratori precari, tra gli operai dell’industria e dell’edilizia, l’idea che gli immigrati concorrevano sul mercato del lavoro peggiorando le loro condizioni. In assenza di un sindacato capace di unire le diverse fasce del mercato del lavoro, il Nord col Sud, i lavoratori più esposti alla concorrenza sul mercato del lavoro, sia interno che internazionale (leggi: decentramento delle unità di produzione), hanno cominciato a vedere nella “globalizzazione” dei mercati e nei flussi migratori la ragione del loro impoverimento e marginalizzazione. Sono le stesse ragioni che hanno portato la classe operaia statunitense a votare per Trump.

C’è ancora un altro fattore che spiega il successo del PdS: l’alleanza con la borghesia mafiosa.   E’ una alleanza ovviamente non scritta, né dichiarata, ma che fa parte integrante del programma della Lega e si basa su una proposta concreta: la messa all’asta dei beni confiscati alle mafie. Si tratta di decine di miliardi di euro di beni immobili che verrebbero facilmente riacquistati. Indovinate da chi? Soprattutto, si tratta di un recupero di prestigio e potere territoriale che la legge La Torre, con la confisca del patrimonio mafioso, ha colpito nel cuore.

Se queste sono le ragioni “strutturali” non bisogna sottovalutare la matrice culturale che sta portando al successo del PdS nel Mezzogiorno. Sicuramente c’è una colpa nostra, di non sapere spiegare bene, in maniera semplice, che cosa comporti questa proposta di autonomia finanziaria. Se facessimo capire che con l’autonomia regionale differenziata, la scuola e la sanità passerebbero dallo Stato alle Regioni, costringendole ad adeguare gli stipendi al reddito pro-capite, forse la Lega perderebbe una parte del consenso. Infatti, dato che il reddito pro-capite del Mezzogiorno è di circa 19.000 euro e quello della Lombardia di 37.000 gli stipendi dei dipendenti pubblici regionali dovranno adeguarsi di conseguenza. Dato che la Grecia ha lo stesso reddito pro-capite della Calabria (17.500 euro) e poco più basso della media meridionale, non andremo molto lontano dalla realtà pensando che nei prossimi anni un insegnante al Sud guadagnerà più o meno intorno a 900 euro al mese, e un medico ospedaliero intorno ai 1.200. Mentre in Lombardia, Veneto ed Emilia gli stipendi dei dipendenti pubblici si avvicinerebbero a quelli della Germania. Ugualmente, anche nel settore privato si andrebbe a questa netta divaricazione portando quello che è l’attuale differenziale salariale del 20 per cento a quasi il 100 per cento! Altro che gabbie salariali degli anni ’50 del secolo scorso!

Non ci sarebbe bisogno di referendum, come voleva il padre della Lega Nord, per arrivare alla Secessione. L’obiettivo era e resta economico e verrebbe per questa via raggiunto. Va detto che quello che ci impedisce di bloccare questo cammino nefasto è anche una profonda ignoranza sulle conseguenze della “autonomia finanziaria” e una mitologia del Sud che è stata creata in questi ultimi vent’anni.

<< L’autonomia finanziaria di Napoli>> proposta da De Magistris ( che ha stupito molti a sinistra) non è tanto una “sparata elettorale”, ma è in linea con un sentimento molto diffuso nel Mezzogiorno : la nostalgia. Il rimpianto di un fantomatico passato glorioso che è stato distrutto dall’avvento dell’Unità d’Italia. Circola da una decina d’anni sui social, ma anche in tutte le occasioni di incontro dove assistiamo a fugaci battute su Garibaldi che si è venduto il Mezzogiorno ai Savoia, sullo sfruttamento del Sud da parte del Nord cinico e violento. L’incredibile successo dei libri di Pino Aprile (Terroni ha superato il mezzo milioni di copie) e di altri autori minori, è passato inosservato, mentre andava visto come un segnale preciso del sentiment prevalente tra le popolazioni meridionali.    Non che non ci siano delle verità in questa narrazione: il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del Sud dopo l’Unità d’Italia è ampiamente documentato, la subalternità del Mezzogiorno all’interno del modello di accumulazione capitalistica del nostro paese è stato denunciato da decine di intellettuali di alto profilo, da Dorso a Salvemini a Gramsci. Ma altra cosa è inventarsi un paradiso terrestre sotto i Borboni, un eden che il Mezzogiorno non ha mai vissuto, e sottovalutare la fase di decadenza progressiva del Regno delle Due Sicilie a partire dagli anni ’20 del XIX secolo (come ben documenta il saggio di Pino Ippolito, Quando il Sud divenne arretrato, Guida, 2019).

E’ chiaro che il maggiore alleato del PdS è chi punta a fare la Lega del Sud, chi non vuole fare i conti con la realtà e “vende” una immagine del Mezzogiorno che non esiste. L’unica via d’uscita da questa catastrofe economica, sociale e politica è quella di ritornare a pensare in termini di alleanze Nord-Sud, rilanciando la Carta di Teano dove sindaci e movimenti sociali, provenienti da tutta l’Italia, avevano tentato di rifondare il nostro paese su una base di valori e obiettivi condivisi.

Quotidiano del Sud

26.2.2018

Così la “secessione” leghista distruggerà il patrimonio di Tomaso Montanari

Così la “secessione” leghista distruggerà il patrimonio di Tomaso Montanari

Se c’è qualcosa che ci fa italiani, differenziandoci da tutte le altre nazioni e unendoci tra noi al di là delle infinite diversità della Penisola, ebbene, quel

“qualcosa” è il legame tra pietre e popolo che dà il nome a questa rubrica. Una identità affermata nell’unico tra i principi fondamentali della Costituzione – l’articolo 9 – a pronunciare la parola “nazione”, rendendola inseparabile dalla “tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico”. Non il sangue, non il colore della pelle, non la lingua, non la fede: è invece l’appartenenza reciproca tra umani e territorio (un’appartenenza che non si acquista per nascita, ma per cultura) a farci italiani.

Ma oggi, mentre grida “prima gli italiani”, la Lega di Matteo Salvini è impegnata a scardinare proprio questo: cioè l’Italia. Presto, forse anche prima delle Europee, il Parlamento sarà chiamato a ratificare l’intesa tra lo Stato e le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per la loro “autonomia differenziata”: si voterà, ma il testo non sarà modificabile. “Come avviene per i trattati tra stati stranieri”, ha detto Salvini intervenendo ad una puntata di Agorà.

Stati stranieri: ecco il ritorno, esplicito, della secessione. La secessione dei ricchi, per riprendere il titolo dell’utile libro (scaricabile gratuitamente dal sito di Laterza) in cui l’economista Gianfranco Viesti spiega quali saranno le conseguenze dell’autonomia differenziata delle tre regioni che producono il 40% del Pil italiano, e che mirano a tenersi i soldi delle loro tasse: la fine di ogni solidarietà nazionale e l’abbandono delle regioni più povere, quelle del Sud.

“Un’operazione – ha scritto lo storico Piero Bevilacqua in una lettera aperta al presidente Mattarella – di aperta eversione dello Stato repubblicano, tenuta sotto silenzio per mesi dalle forze politiche promotrici, nella disinformazione generale dell’opinione pubblica”.

Moltissime sono le competenze oggi statali che le tre regioni rivendicano (ben 23 Lombardia e Veneto, 15 l’Emilia). Tra di esse, la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale. Le regioni con il consumo di suolo più alto del Paese chiedono ora le mani definitivamente libere sul loro territorio. Evidentemente per finire il lavoro. E che l’ispirazione di questa indipendenza di fatto sia sviluppista, e non certo ecologista, lo testimonia il fatto che la Lega, contemporaneamente, impedisce l’autodeterminazione del popolo della Val di Susa sul Tav: l’autonomia va bene solo se porta più cemento.

Il paradosso è che esiste già una regione in cui l’ambiente dipende in toto dalla Regione: la Sicilia. L’autonomia concessale addirittura prima della Costituzione ha creato nell’isola uno stato parallelo, in cui le sorti delle coste, delle foreste e del patrimonio culturale dipendono da soprintendenze nominate e controllate dal potere politico regionale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le mani della politica (e non solo) sul territorio; e dunque lo sfascio pluridecennale di un ambiente e di un patrimonio culturale tra i più importanti del mondo. Ma, dice la Lega, le regioni del Nord hanno una classe dirigente diversa da quella della Sicilia: tesi difficile da sostenere nei giorni in cui entra in galera il celeste Formigoni, per 18 anni alla guida della Lombardia. O anche solo rammentando che l’onnipotente doge veneto Galan è egualmente agli arresti.

Sempre ad Agorà, Salvini ha detto esplicitamente: “Che male c’è se il direttore di Brera o il soprintendente di Milano saranno nominati dalla regione Lombardia invece che dal ministero per i Beni culturali?” Accanto ai mali evidenti in Sicilia – quelli che verrebbero dal corto circuito tra un potere locale vicinissimo e chi dovrebbe tutelare valori (culturali e ambientali) non negoziabili sul piano del consenso immediato – ce ne sono anche altri. È chiaro che con Brera ai lombardi e l’Accademia di Venezia ai veneti si inizierebbe a costruire una cultura etno-nazionale, cioè proprio quella che la nostra Costituzione (e prima la nostra storia comune) hanno escluso. Fondamento visibile e riconosciuto della Nazione, e dunque della sua unità, il patrimonio storico e artistico non può essere diviso in base a sotto-appartenenze locali. La Repubblica tutela non solo il patrimonio in sé, ma la sua appartenenza alla nazione: ogni cittadino, membro della nazione e sovrano, è così proprietario dell’intero patrimonio nazionale, senza altre limitazioni. È per questo che un napoletano possiede il Palazzo Ducale di Venezia, o le Dolomiti, non meno di un veneto.

Quel che stiamo ora preparando è invece un tribalismo escludente: che è lo stesso rischio della scuola regionale, in prospettiva dialettale, prevista dalla stessa “riforma”. Un’idea contro cui gli studenti sono già scesi in sciopero venerdì scorso, dimostrando più senno dei loro padri.

Il paradosso è che ora Salvini e i suoi “sparano” all’unità nazionale con una “pistola” forgiata dalla riforma del Titolo V della Costituzione imposta dall’Ulivo (2001), e “caricata” dalle pre-intese firmate dal governo Gentiloni. Come in quasi tutto il resto, dunque, anche in questo caso nessun cambiamento: perfetta continuità con il peggio della nostra storia recente. Ma c’è una novità: le conseguenze di questo “sparo” rischiano di essere letali.

 

Fatto Quotidiano
 25 Febbraio 2019
La Calabria, il lavoro, il pericolo di rottura dell’Unità nazionale di Massimo Covello di Massimo Covello*

La Calabria, il lavoro, il pericolo di rottura dell’Unità nazionale di Massimo Covello di Massimo Covello*

 In questo primo scorcio di 2019 due grandi questioni concrete, che condizionano e condizioneranno la vita in primo luogo dei calabresi , sono state occultate o messe in ombra dalla propaganda politica: il perdurare della crisi economica e il rischio secessione del Nord per effetto della cosiddetta “autonomia differenziata”, richiesta da alcune regioni. Nonostante ciò ad occhi attenti ed interessati al bene comune non è potuto sfuggire che le politiche economiche agite in questi mesi dal governo vanno in una direzione sbagliata. Nessuno dei nodi strutturali che da anni sono la vera causa del declino dell’intero paese è stato aggredito. Invece di politiche per il lavoro, di investimenti pubblici mirati e qualificati si sono definite misure estemporanee e sgravi fiscali alle imprese che non creano lavoro stabile e con diritti. Invece del contrasto alle disuguaglianze, si è pensato alla flat tax che favorisce le classi più ricche. Invece di politiche industriali si persiste nella fiducia cieca al mercato . Invece di sviluppo sostenibile, si eludono i più importanti obiettivi di una riconversione ecologica dell’economia. L’unica misura nuova nella forma, sia pur piena di contraddizioni ed equivoci messa in campo, è il cosiddetto “reddito di cittadinanza” di cui vedremo gli sviluppi e gli impatti, non si può dire altrettanto di “quota 100” che lascia inalterata la Fornero rispondendo solo ad una nicchia di aspettative. La legge di bilancio, il principale provvedimento economico per il 2019- si presenta quindi come un’occasione mancata, un testo contraddittorio. Tra poche luci e molte ombre si è persa un’occasione per cambiare pagina e determinare scelte coerenti con un nuovo modello di sviluppo fondato sul lavoro, la lotta alle diseguaglianze, i diritti sociali. Come suggerivano inascoltati, non solo la CGIL ma economisti accorti e non asserviti al neoliberismo imperante, sarebbero serviti investimenti pubblici per le tecnologie e le produzioni di beni e servizi “verdi”, in grado di aumentare la sostenibilità dell’economia, di ridurre il consumo di energia e materie prime non rinnovabili così come l’impatto sul cambiamento climatico e il consumo di suolo, di favorire lo sviluppo di energie rinnovabili e di sistemi di trasporto sostenibili; la diffusione e applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione; l’espansione delle conoscenze e della produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare pubblico. A queste scelte sbagliate si aggiunge il dato che è una legge di bilancio dove tra l’altro i conti non tornano, tanto da prospettarsi, senza voler essere cassandre, una manovra correttiva nei prossimi mesi, magari dopo l’elezioni europee. Intanto si registrano pesanti battute d’arresto sui consumi e la produzione industriale. In questo scenario il Mezzogiorno e la Calabria in particolare continuano a perdere pezzi come dimostrano la crisi del porto di GioiaT. con conseguenze drammatiche sull’occupazione e gli annunciati 833 licenziamenti della SIRTI con un impatto di circa 100 unità tra la Calabria e la Sicilia, solo per stare alle ultime vertenze aperte. Su questo quadro drammatico di crisi economica ed occupazionale potrebbe abbattersi come una mannaia, qualora non venisse fermata, la cosiddetta “ secessione dei ricchi” per come l’ha giustamente definita il Prof. G.Viesti. Per troppo tempo, tanti governi hanno compiuto scelte nefaste a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione.

Oggi siamo al fatto , molto pericoloso, che tre Regioni come il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno definito, senza nessun dibattito pubblico ne parlamentare, col governo un accordo di “autonomia rafforzata” apparentemente nell’alveo del dettato costituzionale. Si tratta di un inganno evidente per come è stato più volte scritto dall’ on. Loiero e da tanti insigni studiosi: una devoluzione che spaccherebbe l’Italia. Le questioni centrali sono due: La prima riguarda le risorse finanziarie. L’obbiettivo è di trattenere sul territorio i 9/10 del gettito fiscale. La seconda e che si richiedono le attribuzioni di 23 aree di competenze su 23 ,cioè su tutte quelle previste dall’art 117 della Costituzione. Una devoluzione totale di potestà quindi, compreso fisco, demanio e istruzione e che si pone tra l’altro di introdurre la contrattazione regionalizzata, o per meglio dire regolamentare le “gabbie salariali”. La mobilitazione di tante forze, politiche, sociali, culturali, ecclesiastiche, anche Istituzionali , finalmente più attente ed accorte, ha rallentato questo disegno, ma non l’ha scongiurato. Serve continuare con l’azione di informazione, acquisizione di conoscenza e mobilitazione anche di piazza se necessario. E’ quello che CGIL-CISL UIL hanno fatto con la straordinaria manifestazione del 9 Febbraio scorso a Roma. In essa la CGIL tramite il suo neosegretario generale compagno Maurizio Landini ha manifestato tutta la sua contrarietà a questo disegno, sostenendo che :” i cittadini devono avere tutti gli stessi diritti fondamentali, sanità, istruzione, lavoro, mobilità a prescindere da dove nascono, altrimenti è messo in discussione il concetto stesso di unità del Paese. Tenere unito il Paese significa ridurre le diseguaglianze e le ingiustizie sociali”. Non sarà una Primavera tranquilla, ma è chiara la “ Via Maestra” .

 

Casali del Manco 21 Febbraio 2019

*segretario regionale Fiom Cgil

 

 

Autonomia, i conti non tornano e lo Stato si dissolve di Massimo Villone di Massimo Villone

Autonomia, i conti non tornano e lo Stato si dissolve di Massimo Villone di Massimo Villone

 Per il regionalismo differenziato diamo il benvenuto al capitano Salvini sulla “nave ‘e Francischiello” della regia marina borbonica. I testi ci sono ma non ci sono, i nodi sono sciolti ma rimangono aggrovigliati, il parlamento è centrale e stiamo pensando come ma alla fine non potrà modificare nulla, in ogni caso avanti tutta, anzi mezza, a pensarci meglio pianissimo e ci si vede dopo le europee.

Se non fosse una vicenda che in prospettiva rivolta il paese come un calzino e fa strame della Costituzione, e in specie dei diritti degli italiani e dell’unità della Repubblica, ci sarebbe da ridere. Soprattutto due sono i punti che turbano.

Il primo è nelle cifre, che secondo gli attori in campo dimostrano tutto e il contrario di tutto. Nel suo ultimo proclama/diffida/appello/lettera ai meridionali il governatore Zaia vorrebbe addirittura argomentare che al Sud vanno più soldi e risorse pubbliche che al Nord. Non volendo qui sprecare spazio e tempo, rinviamo alla lettera di risposta di un cittadino che il 22 febbraio su Basilicata24.it con fatti e cifre gli consiglia di tornare alle scuole serali. Per noi, la secessione dei ricchi non è affatto fake news.

Comunque, dalla confusione si esce non con i dati di Zaia, ma con un confronto serio su dati scientificamente solidi, elaborati e discussi in una sede autorevole e non sospetta.

Inoltre, è indispensabile che non si riduca tutto a un problema di spesa pubblica. Tanto meno in chiave di presunta inefficienza e predisposizione al malaffare degli amministratori del Sud, come suggerisce Zaia. Anzitutto, gli ricordiamo Formigoni e Galan. E di sicuro i cittadini del Sud non hanno alcun interesse a difendere carrozzoni maleodoranti. Probabilmente, avrebbero poco o nulla in contrario alla soppressione delle regioni come tali, se mai fosse possibile.

Ma qui c’è un dissolvimento dello Stato attraverso il ritaglio di quote della potestà legislativa statale di dettare principi fondamentali in settori cruciali.

È un ruolo che va difeso, a tutela dell’eguaglianza dei diritti e dell’efficienza del sistema paese, che nel mondo di oggi non si perseguono con le piccole patrie. Questo è evidente in settori chiave come scuola, sanità, ambiente, beni culturali, infrastrutture. Ad esempio, leggiamo su queste pagine che le tre regioni richiedenti hanno il primato del consumo di suolo e della cementificazione. Regioni virtuose?

Per questo, il secondo punto che molto preoccupa è il perdurante tentativo di comprimere il ruolo del parlamento, di sicuro il luogo appropriato per affrontare i temi anzidetti. Invece, pare che si discuta per definire il percorso parlamentare. Ma non c’è proprio niente da definire. Vanno applicati integralmente l’art. 72 della Costituzione e i regolamenti. Si richiama ancora la prassi seguita per i culti acattolici per l’inemendabilità del ddl governativo recante le intese. Come ho già scritto su queste pagine, è inapplicabile.

Anzi, a voler essere precisi, nella specie non c’è alcuna prassi, trattandosi di una prima assoluta, senza precedenti. Il percorso va disegnato ex novo. E allora qualunque limitazione si voglia introdurre nel lavoro parlamentare si mostra arbitraria, e contraria al chiaro dettato della Costituzione e dei regolamenti. Quale motivazione può mai essere idonea a comprimere il ruolo del parlamento, quando innegabilmente si tocca tutto il paese, tutte le persone che in esso vivono, la capacità dello stato di provvedere ai loro bisogni, la stessa unità della Repubblica? Dunque, o pieno ruolo dei parlamentari, o – come ho già scritto – conflitto in Corte costituzionale per quelli che ne fossero impediti.

Non interessa la generica rassicurazione offerta nei talk show o sulla stampa da questo o quell’autorevole personaggio. Basta alla trattativa privata tra leghisti e governatori. Vogliamo le carte, tutte e non solo le parti generali e concordate delle intese da ultimo disponibili sui siti del governo.

È sempre nei dettagli che si trova il peggio.

È bene che dopo l’Abruzzo a M5S venga il segnale che le iniziative di immagine – come ora in Sardegna il taglio dei vitalizi agli ex consiglieri – non risollevano le sorti elettorali. Si deve tenere il campo nelle partite cruciali, e tale è il regionalismo differenziato. Quindi, si parli chiaro. E soprattutto basta con gli spot della serie “facimm’ ammuina”.

L’’impossibile tregua/Spacca-Italia, il pericolo non è ancora superato di Gianfranco Viesti

L’’impossibile tregua/Spacca-Italia, il pericolo non è ancora superato di Gianfranco Viesti

 

Questa settimana ha segnato una tappa importante nelle vicende del provvedimento che a buona ragione è stato definito “spaccaitalia”. E cioè la concessione di larghissime forme di autonomia differenziata, con tutte le relative conseguenze finanziarie, a Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.

Nelle dichiarazioni degli esponenti del Governo, il 15 febbraio avrebbe dovuto essere un giorno cruciale: con la definizione da parte dell’esecutivo dei testi delle Intese con le tre regioni, la loro firma da parte del Presidente del Consiglio e l’invio alle Camere della legge di ratifica. Che il Parlamento avrebbe potuto solo votare a maggioranza qualificata, senza la possibilità di emendarle, secondo una l’interpretazione della prassi applicativa della Costituzione. Voto che, è bene ricordare anche questo, avrebbe comportato decisioni irreversibili, dato che i testi si sarebbero potuti eventualmente cambiare in futuro solo con l’assenso delle Regioni interessate. Una strategia ben studiata, con una forte accelerazione del processo in vista di una sua rapida conclusione.

Le comunicazioni alle Camere di giovedì scorso da parte del Premier Conte e della Ministra Stefani disegnano un quadro diverso. Secondo Conte, “ci vorranno ancora mesi”, perché quella svolta finora è solo un’istruttoria; Stefani spiega di non avere il dono divino per arrivare subito ad una soluzione. Per Conte, il Governo è disponibile ad aprire un confronto con il Parlamento sul contenuto delle Intese, nel rispetto delle sue prerogative. Ed egli si fa garante che verrà pienamente realizzata e rispettata la solidarietà nazionale, e che non è previsto in alcun modo il riferimento ad indicatori collegati all’introito fiscale. Nelle stesse ore riappaiono sul sito del Dipartimento per gli Affari Regionali le bozze ufficiali dei primi articoli delle Intese, in cui non figura quella correlazione fra il livello di finanziamento dei servizi e il gettito fiscale regionale, richiesta a gran voce dal Veneto e già concordata nella Pre-Intesa siglata nel febbraio 2018 – da tutte le tre regioni – con il governo Gentiloni.

Perché questo mutamento tattico? Forse perché nei due partiti di governo è cresciuta la percezione del possibile costo politico-elettorale del percorso che avevano immaginato, poche settimane prima delle Europee. La Lega sta provando – con successo, a guardare i risultati in Abruzzo – a sfondare nel Mezzogiorno: e una discussione che mettesse in chiaro la sua volontà di premiare le regioni del Nord-Est a danno di quelle del Centro-Sud avrebbe ostacolato questo disegno. Gli elettori si sarebbero potuti rendere conto, carte e fatti alla mano, che il tanto decantato “Prima gli Italiani” è sempre stato e sarà “Prima gli Italiani del Nord”. Nel Movimento 5 Stelle, in declino elettorale, può darsi sia divenuto evidente il pericolo di perdere ulteriormente consenso fra un elettorato già perplesso da tante recenti decisioni. Forse perché le resistenze di alcuni Ministeri guidati da esponenti pentastellati hanno impedito di chiudere i testi integrali delle Intese nei tempi previsti. Forse anche perché la campagna di informazione realizzata da alcuni organi di stampa, avviata quando la politica tutta sul tema taceva, ha accresciuto di molto la conoscenza e la sensibilità dei cittadini su questi argomenti. E’ forte l’attenzione nella scuola, e tutti i sindacati si stanno unitariamente mobilitando; nel mondo della sanità, con tutte le organizzazioni delle professioni sul piede di guerra; in quello degli esperti di ambiente e di beni culturali, in cui si moltiplicano le prese di posizione.

Apparentemente il progetto della “secessione dei ricchi” è davanti ad ostacoli rilevanti. Sembrerebbe impossibile conciliare le richieste regionali di maggiori risorse con il mantra di questi giorni, ossessivamente ripetuto, che non ci saranno spostamenti all’interno del paese; che, magicamente, tutti staranno meglio. Sembrerebbe impossibile che l’enorme mole di competenze e di risorse umane e finanziarie richieste dalle regioni possa passare indenne l’esame parlamentare.

Ma non è così: se il mutamento tattico è certamente un’ottima notizia, non deve lasciar pensare che i pericoli dello “spaccaitalia” siano stati superati. Ce lo dice chiaramente Stefani sul suo profilo social (coronato dalla bandiera di San Marco): “il percorso ormai è tracciato e non si può tornare indietro. Il giusto confronto con il Parlamento va assicurato, ma non ci sarà spazio per strumentalizzazioni, per discussioni fondate su dati falsi, su allarmi inesistenti”. Non dice come il Presidente della Lombardia Fontana che quanti si oppongono sono dei “cialtroni”, ma i toni sono ugualmente decisi.

E un’attenta analisi delle bozze dei primi articoli delle Intese lo conferma pienamente: si mira alle risorse, anche se indirettamente; si vuole scardinare l’attuale organizzazione dei grandi servizi pubblici. L’articolo 5 ci conferma che la tanto decantata invarianza delle risorse vale solo per il primo anno. Dal secondo dovranno scattare i nuovi indicatori, i “fabbisogni standard”. Vista anche l’esperienza di quelli definiti negli anni scorsi per i Comuni, non c’è nulla di cui stare tranquilli; essi implicano scelte politiche, e possono determinare grandi cambiamenti: non vi è alcuna garanzia che la Commissione che dovrebbe definirli in tempi da record sia esente da pressioni politiche e di forti interessi territoriali. Si noti anche che questi indicatori sono solo dei coefficienti di riparto dell’insieme delle risorse nazionali fra le regioni: l’affermazione ripetuta, che essi produrrebbero efficienza e risparmi è pura retorica. Ma c’è di più: le stesse bozze prevedono che per le regioni firmatarie vi sia una clausola di garanzia per cui – se non si arrivasse ai nuovi indicatori – sarebbe comunque disponibile una somma “non inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale”. Se è la spesa pro-capite è superiore nessun problema; se è inferiore deve aumentare. Per Lombardia e Veneto un guadagno netto garantito; naturalmente a spese delle altre regioni, dato che la spesa pubblica totale non può aumentare. Allo stesso modo, se il gettito fiscale regionale cresce, va alla regione; se diminuisce, se la devono vedere ancora una volta gli altri italiani. La tanto decantata invarianza impallidisce ancor più davanti all’articolo 6, che promette alle regioni firmatarie la determinazione di un ammontare delle risorse fiscali in riferimento al fabbisogno per investimenti pubblici, da “attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese”: cioè, per alcuni ci sono risorse garantite per le infrastrutture, per gli altri si vede quel che resta. Altrimenti perché inserirla?

Forti restano le conseguenze per gli assetti dell’intero paese. Si dice che “detto schema sarà quello adottato per ogni regione che chiederà l’autonomia”. Ma se tutti trattengono una parte garantita del proprio gettito fiscale, con quali e quante risorse il governo può manovrare la finanza pubblica e far fronte al nostro enorme debito nazionale? E poi, sempre nelle bozze ufficiali restano enormi i poteri per la Commissione Paritetica (nove esperti nominati dal Ministro per gli affari regionali e nove dalla Regione), che opererebbe senza controllo parlamentare. Essa nei suoi primi quattro mesi di vita “determina le risorse finanziarie, umane e strumentali” necessarie, e le modalità per la loro attribuzione; monitora e verifica l’attuazione del tutto. Così come per i Consigli Regionali, che individuano “le disposizioni statali delle quali cessa l’efficacia nella regione”. E entro i primi quattro mesi si provvede al “riordino delle amministrazioni statali”: esse sono ridimensionate in proporzione alle funzioni e alle risorse trasferite.

E tutto questo non è che l’antipasto. La sostanza del provvedimento è nei circa 50 articoli delle Intese di cui sono disponibili solo bozze ufficiose. Lì c’è la regionalizzazione della scuola, dei dirigenti scolastici e degli insegnanti, la scomparsa del servizio sanitario nazionale, la fine delle normative e degli standard nazionali in materia di ambiente, la parcellizzazione delle norme di tutela e sicurezza del lavoro, l’attribuzione di poteri sulla ricerca scientifica e tecnologica così come sull’urbanistica e sul territorio, la regionalizzazione della previdenza complementare, il potere di veto delle regioni sulle nuove infrastrutture e il passaggio gratuito al loro demanio di strade e ferrovie esistenti (pagate, nel tempo, da tutti gli italiani); e molto altro.

La Lega si è spinta troppo oltre nelle promesse ai suoi sostenitori del Nord-Est. Una parte delle classi dirigenti di quelle regioni ha puntato con decisione su una sostanziale secessione dal resto dell’Italia. Non demorderanno così facilmente, e, appena le condizioni politiche lo consentiranno, torneranno con maggior forza all’attacco.

 

MESSAGGERO e IL MATTINO

23.2.2019

Il Bel paese in frantumi Il patrimonio ed i paesaggi smembrati dalla secessione del Nord di Battista Sangineto

Il Bel paese in frantumi Il patrimonio ed i paesaggi smembrati dalla secessione del Nord di Battista Sangineto

L’Italia è il paese che vanta la più antica e rigorosa tradizione giuridica nel campo della tutela e della valorizzazione del Patrimonio culturale, una tradizione che risale ai primi editti dello Stato Pontificio, nel ‘400 ed arriva al D.L 42 del 2004. La valorizzazione ha, però, assunto un valore particolare a partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione, voluta e fatta approvare dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001. La modifica ha attribuito, fra le tante altre cose, potere legislativo concorrente tra Stato e Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali. Le attuali richieste di “autonomia differenziata” avanzate da tre regioni -Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna- sono conseguenza diretta di quella sciagurata modifica fatta dal Governo Amato. Le tre Regioni, soprattutto Lombardia e Veneto, hanno proposto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.

Quale artista non ha provato in Italia quella virtù armonica tra tutti gli oggetti delle arti e il cielo che li illumina; e il paese che serve loro quasi da sfondo […] Il vero museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti d’ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, etc. etc. ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni della città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni fra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso” scriveva Quatremère de Quincy nelle sue lettere (II e IV) a Francisco de Miranda, nel 1796. Il filosofo e archeologo francese, già alla fine del ‘700, aveva elaborato il concetto di contesto storico-culturale di cui l’Italia, tutta, era l’esempio più evidente e fulgido.

Nella Bozza di pre-intesa già stipulata fra Veneto e Governo si legge, nel testo già approvato dai diversi Ministeri, tranne quello dell’Economia, all’art.46 si legge “Nel rispetto dei principi fondamentali fissati dal D.L. 2004/42 […] alla Regione sono attribuite la potestà legislativa e le funzioni amministrative in materia di valorizzazione dei seguenti istituti e luoghi della cultura appartenenti allo Stato e dei beni culturali ivi presenti […]” (manca una lista a noi ancora ignota). E se al comma 4 dell’art. 46 si legge la rassicurante affermazione che “La tutela dei beni culturali e delle collezioni museali presenti negli istituti e luoghi della cultura appartenenti allo Stato e dei beni culturali ivi presenti e le determinazioni afferenti al prestito delle opere d’arte e la concessione in uso, continuano ad essere esercitate dal Mibac”, al comma 6 dell’art. 46 si trova lo spaventevole “[…]al fine di assicurare l’esercizio delle funzioni di cui ai commi precedenti sono trasferite alla Regione Veneto le funzioni esercitate dalle Soprintendenze ABAP e della Soprintendenza archivistica e bibliografica, presenti sul territorio regionale, con le attribuzioni delle relative risorse umane, finanziarie e strumentali”.

Sul paesaggio e sulla sua tutela, invece, non c’è alcuna bozza di pre-intesa, ma, al momento, solo le richieste del Veneto che vuole attribuirsi, all’art. 47 comma 1, la potestà legislativa e amministrativa sui piani paesaggistici, sui veicoli vecchi e nuovi e al rilascio dei vincoli sono agghiaccianti. Al comma 2, art. 47 la pietra tombale sia sul Patrimonio culturale sia sui paesaggi: “In attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo, sono trasferite alla Regione Veneto le correlate funzioni delle Soprintendenze in materie di paesaggio presenti sul territorio regionale, con l’attribuzione delle relative risorse umane, finanziarie e strumentali”.

Non deve sfuggire, però, che proprio le tre regioni secessioniste -la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna- sono fra quelle che non hanno ottemperato all’obbligo, come da D.L. 2004/42, di elaborare i piani paesaggistici regionali. Analizzando l’ultimo rapporto dell’Ispra, si scopre che se il consumo di suolo medio in Italia è del 7,63, la percentuale più alta è in Lombardia, 12,99%, seguita dal Veneto, 12,35%, e, poi, l’Emilia-Romagna, 9,99%, ai primi posti. Se ne può dedurre che sono proprio le Regioni che più cementificano i paesaggi, quelle che vogliono mano libera sul Patrimonio e sul paesaggio e non gli organi periferici dello Stato, le Soprintendenze. Vogliono avere, quantitativamente e qualitativamente, la libertà di cementificare a casa loro.

La Lombardia, invece di perdersi in troppe chiacchiere sui beni culturali e sui paesaggi, ha chiesto, ed ottenuto all’articolo 33 della pre-intesa con Conte, tutta l’autonomia che potesse desiderare: “Alla regione Lombardia sono attribuite ulteriori competenze legislative e amministrative volte a consolidare il proprio sistema di governo del territorio; a tal fine la regione può disapplicare le disposizioni di principio delle leggi dello stato, successive alla data di approvazione della presente intesa, aventi incidenza sulla disciplina regionale relativa al contenimento del consumo del suolo […] d) la disciplina del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici di cui all’art. del dP.P 380/2001, nel rispetto delle norme igienico, sanitarie e di sicurezza stabilite in base alla normativa statale e regionale”.

Le richieste dell’Emilia-Romagna sono meno radicali, ma ricalcano, in buona sostanza, quelle delle altre due Regioni sopracitate.

In sintesi le tre Regioni vogliono la manovrabilità sui tributi regionali e locali chiedendo – ed il larga parte ottenuto dall’attuale Governo- il trasferimento delle funzioni delle Soprintendenze ABAP, violando in questo modo persino l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica (non le Regioni) promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, -non solo politiche, ma anche storico-culturali- la tutela e la valorizzazione del Patrimonio italiano, su cui si fonda il nostro comune sentire, verrebbero sminuzzate. Il Bel Paese ne risulterebbe frantumato, e perderebbe definitivamente “…quella virtù armonica tra tutti gli oggetti delle arti e il cielo che li illumina…” cantata da Quatremère de Quincy, alla fine del ‘700.

Nel 1960 Ranuccio Bianchi Bandinelli, forse il più importante antichista italiano del ‘900, scriveva: “L’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e tale distruzione […] è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana […] perché è l’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”. L’autorità in questa materia è prerogativa della Repubblica, del Ministero, dello Stato, dunque, e non delle Regioni, tre delle quali chiedono, ora, il trasferimento delle funzioni delle Soprintendenze, organi periferici del Ministero per i Beni culturali, violando in questo modo persino l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A distanza di quasi 50 anni dalla istituzione delle Regioni possiamo affermare che esse non hanno funzionato perché non sono legate alla storia della nostra Penisola e perché sono diventate solo carrozzoni clientelari, inefficienti ed autocentrate. Dobbiamo, invece, dare maggiore autonomia, soprattutto economica, alle nostre antiche città, ai Comuni. I cittadini devono riacquisire il loro plurimillenario e democratico diritto alle città.

Il Manifesto

23.2.2019

Caro Presidente, il suo silenzio, la nostra solitudine di Piero Bevilacqua

Caro Presidente, il suo silenzio, la nostra solitudine di Piero Bevilacqua

Caro Presidente Mattarella, spero non le appaia troppo irriverente e irrituale inviarle una lettera pubblica. Avrei potuto chiamare a supporto di quanto sto per scrivere autorevoli firme. Per togliere il carattere apparentemente personale alle mie parole. Non l’ho fatto, non perché non creda alla funzione degli appelli – la democrazia vive anche di routine, specie quando funziona – ma perché anche simbolicamente voglio qui interpretare la figura del singolo cittadino e prendermi l’esclusiva responsabilità di quanto scrivo.

Seguo da mezzo secolo le vicende del mio Paese, sia come partecipe osservatore delle dinamiche politiche quotidiane , sia come storico dell’età contemporanea.

E dunque credo di poter affermare con drammatica sicurezza che mai si era verificata in Italia, fino ad oggi, un’operazione di aperta eversione dello Stato repubblicano, tenuta sotto silenzio per mesi dalle forze politiche promotrici, nella disinformazione generale dell’opinione pubblica, nel silenzio dei partiti, nella sordina di quasi tutta la grande stampa, nella totale disattenzione della televisione pubblica.

Il progetto di legge sulla cosiddetta “’autonomia differenziata”, riguardante le regioni del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia, arrivato alla discussione ufficiale nel Consiglio del ministri del 14 febbraio scorso, è infatti questo: un progetto di disarticolazione dell’unità nazionale, affidato alla diseguale redistribuzione delle risorse fiscali e alla attribuzione di speciali potestà, alle regioni suddette, in ben 23 materie.

Non entro nel merito analitico del costrutto giuridico e del suo carattere eversivo, benché abilmente camuffato come un normale percorso di rafforzamento delle autonomie amministrative. Studiosi della materia con ben maggiori competenze delle mie, l’hanno ampiamente fatto su questo giornale e su altri organi di stampa. E del resto, in prossimità del Consiglio del ministri, anche i media nazionali si sono profusi in informazione quotidiana, quando l’argomento si prestava al corrivo gossip giornalistico sulle difficoltà e i contrasti che la legge apriva all’interno del governo e nei partiti.

Si tratta di una informazione drammaticamente tardiva, anche se oggi appare preziosa, ma che sarebbe stata vana se l’iter legislativo non si fosse momentaneamente inceppato.

E infatti questo è l’altro aspetto inquietante dell’operazione semiclandestina di secessione padana camuffata da routine amministativa. Il fatto cioè che essa è realizzabile – grazie a una disposizione prevista dalla riforma del Titolo V della Costituzione – senza dibattito parlamentare, vale a dire tramite la completa marginalizzazione dell’organo legislativo, destinato a rappresentare la volontà del popolo italiano.

Tre regioni possono stravolgere la Costituzione e disfare l’ordito unitario dello stato nella completa disinformazione, ma anche nell’ impotenza dei cittadini.

E allora, caro Presidente, com’è stata possibile questa allarmante falla? Debbo ricordare che il disegno eversivo è stato solitariamente denunciato, contribuendo non poco al suo momentaneo arresto, soltanto da pochi, sparuti studiosi che da mesi sono impegnati allo stremo nella più scoraggiante solitudine.

Si tratta di quegli intellettuali, in gran parte docenti universitari, che Matteo Renzi e il suo governo hanno cominciato a dileggiare come “professoroni,” facendo ormai scuola e senso comune. Il sapere e le competenze specialistiche derisi come vecchiume libresco, da sostituire con la fresca improntitudine “popolare” del politico che sa adattarsi alle circostanze.

Ma come è stato possibile tutto questo? E’ cosi fragile oggi il nostro organismo costituzionale, l’architettura dei nostri ordinamenti civili, da dovere essere puntellata, in un momento così grave della vita nazionale, da un pugno disperso di cittadini?

E allora, caro Presidente, siamo in un frangente delicato della nostra storia che può decidere dell’unità o della frantumazione avvenire della comunità nazionale, della sua riduzione a un mosaico di statarelli regionali in rissa e competizione perpetua. E non posso non chiederle che posto conserveremo in Europa se una gran parte del Paese, il Mezzogiorno, verrà messo ai margini della vita economica e sociale.

Lei incarna l’unità dell’Italia. Sono rispettoso e consapevole dei suoi limiti operativi e dei suoi obblighi istituzionali. Ma può la sua azione, in tale circostanza, limitarsi a una eventuale diniego di apporre la sua firma alla legge?

Può ancora rimanere in silenzio, caro Presidente, mentre l’Italia corre un rischio così grave, destinato a pesare in maniera tanto rilevante sulla nostra vita e su quella dei nostri figli?”

 

Il Manifesto
 22.02.2019

La secessione leghista (e sudista) ci avvicina al caso cecoslovacco di Massimo Villone

La secessione leghista (e sudista) ci avvicina al caso cecoslovacco di Massimo Villone

Apprendiamo dal sindaco de Magistris che entro l’anno ci sarà a Napoli un referendum per la «totale autonomia» della città, con l’obiettivo di avere «più risorse economiche, meno vincoli finanziari, più ricchezza, più sviluppo, meno disuguaglianze». Quindi, «è finita la pacchia per voi politici antimeridionali… al Sud dopo anni di ingiustizie, discriminazioni, depredazioni e saccheggi delle nostre risorse – umane, naturali e materiali – ci stiamo riscattando raggiungendo risultati incredibili ed abbiamo tutto da guadagnare con l’autonomia totale».

Successivamente «proveremo a realizzare, se lo vorranno anche le altre popolazioni del Sud, un referendum per l’autonomia differenziata dell’intero Mezzogiorno d’Italia».

Certo, De Magistris è già in campagna elettorale, e una tara va fatta. Ma cosa è una «totale» autonomia, da chi e per cosa? Come può dare più ricchezza e sviluppo? Colpiscono le assonanze con l’iniziativa del centrodestra, lanciata dall’ex governatore della Campania Caldoro, per un referendum su una macroregione del sud. A che fine, dopo il regionalismo differenziato in sala leghista? Con quali poteri e risorse? In quale rapporto con il resto del paese? Quanto al governatore De Luca, prima censura senza appello il progetto di autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, poi presenta una richiesta della Campania per 13 materie. Se avesse voluto emblematicamente far scoppiare le contraddizioni avrebbe dovuto se mai presentare una richiesta per 23, copia conforme di quella del Veneto. Così, segnala una disponibilità alla trattativa. Ma su cosa? Sulle briciole lasciate da chi giunge al traguardo prima di lui? Tutto perché la prospettiva del regionalismo differenziato già prima dell’approvazione ha destabilizzato il quadro politico e istituzionale. Sono due i punti dirompenti: da un lato la iniqua ripartizione delle risorse e la crescita delle diseguaglianze bene sintetizzata nella formula di Viesti della “secessione dei ricchi”.

Dall’altro, il radicale indebolimento dello Stato centrale che viene anche dalle richieste relativamente più soft. L’unità del paese diventa un valore recessivo e aggredibile. Non è più una scommessa pagante. Il ceto politico scommette invece che comunque ci si muoverà verso una frammentazione, e si posiziona per il day after. Così si spiega la corsa alla autonomia differenziata anche di regioni che in astratto avrebbero l’interesse opposto. Negli anni ’90 la spinta secessionista della Lega fu contrastata da soggetti politici ancora effettivamente nazionali nel radicamento e nel progetto politico. Ma ora l’unico vero partito sopravvissuto è proprio la Lega. Il Pd è largamente dissolto, e persino nelle sue roccaforti di un tempo si sgretola. In Emilia-Romagna si teme il sorpasso leghista nelle prossime regionali. La sinistra che fu non ha più la massa critica necessaria.

Nel centrodestra la Lega è ormai egemone, e i vagoni di scorta non hanno la forza di portare una linea alternativa. M5S è un non-partito, e la carenza non è sanata dalla piattaforma Rousseau. Per dirne una: se si sottoponesse al voto online l’autonomia differenziata, come verrebbe assicurata una equilibrata distribuzione territoriale dei votanti in rete? Potrebbero essere tutti lombardi o veneti e per di più lo saprebbe – forse – solo Casaleggio. Comunque, basterebbe mai il voto dei 52.000 che hanno coperto Salvini a legittimare una scelta che spezza l’Italia la sua storia? Potremmo trovarci, tra qualche tempo, a studiare il caso cecoslovacco. Il velvet divorce venne con un voto parlamentare del novembre 1992, e il paese fu diviso senza alcuna partecipazione della volontà popolare. In sostanza, la separazione – su un crinale ricchezza-povertà – fu voluta e decisa dal ceto politico, e in particolare dai leader dell’epoca. Avvertiamo i primi refoli di un leghismo sudista, e il regionalismo differenziato messo in campo può avvicinarci alla ex Cecoslovacchia. Per evitare impazzimenti e difendere la Repubblica, la Costituzione, la nostra storia bisogna bloccarlo o correggerlo radicalmente qui e ora, nel paese, in parlamento, in corte costituzionale. Può un paese dare di matto? Sì, e nessuno può imporre un trattamento sanitario obbligatorio. Per noi, l’unico protocollo terapeutico è la Costituzione, e il solo medico abilitato a somministrare il trattamento risolutivo è il popolo sovrano.

 il Manifesto, 20 febbraio 2019

Rottura dell’unità e ritorno all’Italia come espressione geografica di Paolo Favilli di Paolo Favilli

Rottura dell’unità e ritorno all’Italia come espressione geografica di Paolo Favilli di Paolo Favilli

Lo Stato nazione in cui vivono gli italiani ha il momento fondante nel Risorgimento. Lì si trovano le basi della loro storia in comune, almeno fino ad oggi. Lì lo «spazio delle figure profonde» (l’espressione è di Alberto Banti e Paul Ginsborg) trova la propria articolazione tra i lineamenti lunghissimi di una identità che ha precedenti culturali tra i più alti della storia europea, e le nuove necessità della costruzione di una nazione moderna.
Lo Stato nazione in cui vivono gli italiani ha il momento fondante nel Risorgimento. Lì si trovano le basi della loro storia in comune, almeno fino ad oggi. Lì lo «spazio delle figure profonde» (l’espressione è di Alberto Banti e Paul Ginsborg) trova la propria articolazione nel progetto di coniugazione tra i lineamenti lunghissimi di una identità che ha precedenti culturali tra i più alti della storia europea, e le nuove necessità della costruzione di una nazione moderna. La necessità di superare quella «mancanza di società», per dirla con Giacomo Leopardi, ostacolo principale ad un rinnovamento dei «costumi» impossibile, senza la volontà, il faticoso sforzo di risorgere, di «rigenerarsi», secondo una parola largamente circolante nella letteratura del primo Risorgimento.
Lo sforzo di risorgere e rigenerarsi unisce strettamente l’obiettivo dell’unità nazionale a quello della costruzione di una società profondamente riformata tramite la costruzione di rapporti giuridici e sociali «democratici», cioè tendenti all’«uguaglianza», tra tutte le sue componenti. L’uno e l’altro aspetto sono coessenziali.
Nelle condizioni dell’Italia «espressione geografica» questa concezione del Risorgimento si presenta come una vera e propria «rivoluzione». Ed infatti l’espressione «rivoluzione italiana» ebbe largo corso nel Risorgimento, usata tanto da coloro che furono i protagonisti più conseguenti di quel processo che da coloro lo temevano e, in vari modi, vi si opponevano.
E partecipi di una «rivoluzione» si sentivano i democratici mazziniani, i democratici garibaldini, i democratici-socialisti alla Pisacane. Anche se non furono le loro prospettive, le loro speranze, quelle vincenti nel 1861, diventarono carne e sangue di culture, movimenti sociali, partiti politici per i quali l’Italia unita era l’essenziale precondizione per lo svolgimento della tensione egalitaria insita nella democrazia.
La storiografia di ispirazione gramsciana, sulla base di rigorosissimi studi tutti calati nelle cose, è stata critica degli esiti del Risorgimento, non certo del movimento risorgimentale in sé. Ha messo in luce le vischiosità degli svolgimenti storici, anche di quelli che si vogliono più radicali, ed ha proiettato altre tappe della «rigenerazione» risorgimentale nel corso della storia post unitaria. Ed in questo senso non ha niente di retorico e di storicamente improprio l’espressione di «secondo Risorgimento» utilizzata per definire la lunga continuità di alcune delle «figure profonde» nel contesto della Resistenza.
Fu un reale Risorgimento dalla necrosi progressiva che aveva portato la patria a morire l’8 settembre 1943. Fu la rigenerazione in una patria diversa che si voleva erede della «rivoluzione italiana» dell’Ottocento. «Redenzione», altra parola che, nel dopo 8 settembre, prospettava «semplicemente riattivazione di una storia d’Italia sottostante al fascismo. Niente tutti a casa! e niente morte della patria» (M. Isnenghi, 1999), ma Resistenza.
La Costituzione italiana rappresenta l’esito coerente della tensione verso una rinascita radicale dello stato/nazione italiano in grado di coniugare veramente processi di liberazione e giustizia sociale nel complesso della sua dimensione unitaria.
Sebbene in maniera non lineare ma attraverso durissimi conflitti, anzi in virtù di quei durissimi conflitti, cominciano ad innervarsi nel corpo della legislazione italiana, tramite vere «riforme di struttura», aspetti fondamentali della tensione egalitaria della Costituzione. Servizio sanitario nazionale, istruzione pubblica, impronta complessivamente progressiva del sistema fiscale, sono pensati ed attuati come funzioni di una più profonda unità dello stato/nazione nei primi trentacinque anni della storia repubblicana.
Dopo cominciano i prodromi del «grande balzo all’indietro», relativamente lento nella fase iniziale e poi progressivamente rovinoso verso la disgregazione del livello di coesione sociale raggiunto tra tutte le parti del paese. Livello, peraltro, non ancora soddisfacente.
La regressione che, dagli anni Ottanta del Novecento, ha trasformato in profondità lo stato della democrazia in Italia, è aspetto della più generale regressione globale neoliberista. Tratto distintivo della ragione neoliberista e delle sue costruzioni istituzionali è la messa in concorrenza di tutti i fattori che direttamente o indirettamente producono plusvalore: aree geopolitiche ben comprese. L’Europa di Maastricht, dove uno spazio formalmente unito è in realtà concepito e praticato come luogo di Stati messi in concorrenza, dove le vittorie di alcuni sono sconfitte per altri, ne è un esempio perfetto.
Se l’intesa sulle Autonomie differenziate percorrerà indenne l’iter parlamentare, cosa che nell’attuale congiuntura politica sembra probabile, l’Italia che ne uscirà avrà incorporato Maastricht al suo interno. La storia del Risorgimento, del primo e del secondo, sarà davvero finita, ed i lombardo-veneti, gli emiliani saranno definitivamente aggregati, in un sistema integrato di fornitura subalterne, all’area economica tedesca; in inevitabile concorrenza con altre sistemi-regione per l’ottimizzazione delle proprie risorse. Il tutto nell’ambito di un ordinamento fiscale sempre meno capace di fare fronte ad esigenze che in tempi diversi erano considerate universalistiche.
La combinazione tra la concezione della finanza pubblica alla base della flat-tax ed i contenuti della intesa sulle Autonomie differenziate, non possono avere che effetti dirompenti su una società la cui coesione è già stata abbondantemente logorata e sullo Stato nazionale che di tale coesione dovrebbe essere il garante. La flat-tax, infatti, altro non è che la riproposizione della ottocentesca tassazione proporzionale, contro la quale si sono battuti, in nome della «finanza democratica», i protagonisti del Risorgimento come rivoluzione italiana. Un altro gigantesco passo verso l’Italia come «espressione geografica».
Ma il piccolo filisteo governatore del Veneto, nelle vesti di un redivivo austriacante, potrà prendersi una rivincita storica sui grandi veneti: Ugo Foscolo e Ippolito Nievo.

Il Manifesto

16.2.2019

Federalismo differenziato Qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato di Mariella Volpe

Federalismo differenziato Qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato di Mariella Volpe

 

  1. Condizioni particolari di autonomia

L’articolo 116, comma 3, della Costituzione prevede che la legge ordinaria possa attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119.

I recenti referendum di Veneto e Lombardia sono stati seguiti da ulteriori iniziative e valutazioni da parte di altre regioni ordinarie, anche del Mezzogiorno, e si inseriscono nel quadro di un rilancio dei temi dell’autonomia e della sussidiarietà, al fine di conseguire nuovi equilibri tra le varietà e le specificità territoriali.

Importante sottolineare, tuttavia, la necessità di mantenere una adeguata coerenza tra l’articolo 116 e l’articolo 119 che, come noto, fissa i principî generali delle modalità di finanziamento delle Autonomie territoriali, ma soprattutto di far si che il percorso di attuazione dell’art. 116 continui ad essere guidato, in un‘ ottica di sistema, dalla tutela dell’ unità giuridica ed economica del Paese, dalla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, dal principio di leale collaborazione.

  1. I residui falso problema

Tutto il dibattito politico attuale si fonda sulla tesi del diritto alla restituzione del gettito fiscale generato nelle aree forti del Paese, altrimenti destinato a finanziare un flusso eccessivo di spesa pubblica a favore del Mezzogiorno e adotta, a supporto di tale assioma, i risultati del calcolo del cosiddetto residuo fiscale.

Ora, al di là dell’esistenza di problemi metodologici – che sconsigliano la realizzazioni di saldi, (soprattutto utilizzando la banca dati CPT[1]) o che ne propongono una serie di revisioni[2] per tener conto, ad esempio, della distribuzione territoriale degli interessi – riteniamo che il saldo tra individui (entrate pro capite – spese pro capite) sia un indicatore troppo opaco in quanto prescinde dai fabbisogni e dalla situazione economica. All’interno delle varie componenti della redistribuzione tale indicatore coglie essenzialmente la redistribuzione tra individui, configurandosi soprattutto come una misura della diversa distribuzione della ricchezza sul territorio. Se si rimane nel mondo degli individui appare più utile mantenere i due indicatori separati, analizzando separatamente e in tutta la loro complessità entrate e spese.

Più in dettaglio:

  • Il prelievo fiscale è commisurato alla capacità contributiva, mentre la spesa pubblica dovrebbe realizzarsi in modo che i cittadini ricevano da essa benefici tendenzialmente uguali, indipendentemente dalla loro capacità contributiva e dalla loro residenza.
  • Di conseguenza, i residui fiscali dei contribuenti con basi imponibili più elevate sono naturalmente positivi e la loro ampiezza fornisce una misura dell’entità della redistribuzione interpersonale (tra ricchi e poveri) operata dal settore pubblico.
  • In altri termini, il segno negativo dei residui del Mezzogiorno null’altro è che il rovescio della medaglia del dualismo italiano, che porta la redistribuzione interpersonale a tradursi, meccanicamente, in redistribuzione interregionale.

Posto in questi termini il problema dei residui, il tema della autonomia differenziata si pone quindi non come una questione amministrativa o di calcolo tecnico, ma come un chiaro problema politico. Le modalità della sua realizzazione andranno ad influenzare e modificare tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, poiché:

  1. a) Il prelievo riguarda gli individui, non i territori e i residui fiscali per una regione sono semplicemente la somma dei residui fiscali degli individui che risiedono in quell’area.
  2. b) I diritti di cittadinanza non possono variare in base alla residenza. Proposte di modifiche costituzionali che conducano ad offerte differenziate dei diritti civili e sociali e dei beni di merito, istituzionalizzerebbero le disuguaglianze interregionali: lo Stato, in tal caso, perderebbe la sua funzione costituzionale di bilanciamento degli interessi che vale in uno Stato unitario e, ancor più, in uno Stato che si avvia ad essere federale.
  3. c) E’ necessario mantenere la coerenza tra art. 116 e art.119, cioè un contesto di organica e solidale valorizzazione dell’intero sistema delle autonomie, oltre che di salvaguardia dei fondamentali valori costituzionali di unità giuridica ed economica del Paese.

Tale assunto ha evidenti implicazioni sul piano fiscale e finanziario. L’articolo 116, comma 3, stabilisce che le forme e le condizioni particolari di autonomia devono essere coerenti con l’articolo 119 che, come noto, fissa i principî generali delle modalità di finanziamento delle Autonomie territoriali. Esiste quindi un esplicito richiamo alle esigenze perequativo-solidaristiche dell’intero sistema di finanza pubblica multilivello, incluse anche le eventuali forme di federalismo differenziato: anche le Regioni che assumono competenze rafforzate devono partecipare al sistema di redistribuzione interregionale delle risorse attivato dal governo centrale.

  1. Cosa dicono i dati 

Ai fini di un dibattito informato e consapevole su tutte le tematiche citate, e al fine di misurare gli effetti potenziali della autonomia differenziata su ciascuna regione, è fondamentale eliminare luoghi comuni e dare alla riforma federale basi più solide, soprattutto facendo buon uso di buoni dati. Solo basi informative molto disaggregate e finalizzate consentono il necessario lavoro di approfondimento, ancor più in una realtà complessa come quella italiana (più complessa di quella che l’analisi dei residui fiscali consente di ricostruire).

CPT e i suoi dati, fanno storicamente da baluardo soprattutto all’art. 119 della Costituzione, ponendo il problema della sperequazione territoriale, della sostituzione tra risorse ordinarie e risorse aggiuntive, della necessità di una corretta perequazione; ma, al tempo stesso, possono contribuire al percorso dell’art. 116, il cui presupposto è che al trasferimento di competenze dal centro alla periferia segua sia una maggiore efficienza relativa nella gestione dei servizi che un trasferimento di risorse proporzionale[3].

I modelli di comportamento tra macroaree rimangono profondamente sperequati non solo nella spesa ma nella erogazione dei più rilevanti servizi collettivi.

Il 70.7 per cento della totalità della spesa del Settore Pubblico Allargato in Italia continua ad essere concentrato nel 2016 nelle regioni del Centro-Nord, il 29,3 per cento per cento nel Mezzogiorno, a fronte di una popolazione pari rispettivamente al 65,7 per cento e al 34,3 per cento.

Si confermano sostanzialmente gli storici modelli di comportamento per macro area: quello del Mezzogiorno che dispone di una quota di spesa pubblica totale superiore rispetto alla quota di PIL ma inferiore rispetto alla quota della relativa popolazione; quello del Centro-Nord che registra invece una percentuale di spesa pubblica totale inferiore a quella del PIL, ma superiore a quella della popolazione.

Non a caso il raggiungimento di una quota di spesa in conto capitale nel Mezzogiorno superiore o almeno pari alla rispettiva quota di popolazione rappresenta da molti anni uno degli obiettivi espliciti di politica economica, a parziale correttivo di una spesa pubblica complessiva squilibrata (ora art. 7bis L. 18/2017).

Se si aggiungono le entrate si vedrà che solo all’inizio del periodo il confronto tra entrate e PIL è a favore del Nord; si riallinea a metà periodo; si inverte nel 2016. Lo sforzo fiscale del Mezzogiorno cresce e il contributo del Mezzogiorno nel 2016 risulta essere superiore rispetto al relativo PIL.

 

INDICATORI DELLA DISTRIBUZIONE TERRITORIALE DI POPOLAZIONE, PIL, SPESA TOTALE NETTA ED ENTRATE TOTALI

(anni 2000, 2008 e 2016; percentuale su totale Italia)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

In termini monetari, ogni cittadino del Centro-Nord si è avvalso mediamente, a prezzi costanti 2010, di circa 15.408 euro pro capite rispetto ai 11.948 euro del cittadino del Mezzogiorno. Nelle due aree l’andamento della spesa totale pro capite appare simmetrico in tutto l’arco temporale considerato, con un tasso di crescita omogeneo e un divario medio di 3.460 euro pro capite tra Centro-Nord e Mezzogiorno.

Anche tenendo conto di una più ridotta capacità di spesa delle amministrazioni meridionali nell’influenzare tale divario, l’ampiezza dello stesso si traduce in un circolo cumulativo che aggrava la persistenza di condizioni di offerta meno vantaggiose per il cittadino del Mezzogiorno, sia con riferimento ai servizi alla persona che con riferimento ai servizi destinati a creare condizioni favorevoli allo sviluppo.

 

SPA- SPESA PRIMARIA AL NETTO DELLE PARTITE FINANZIARIE (anni 2000-2016; valori in euro pro capite costanti)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

Anche la spesa in conto capitale, che prima degli anni 2000 aveva mantenuto un andamento favorevole alle regioni meno sviluppate, in linea con gli obiettivi di riequilibrio, si è andata man mano riducendo, risultando inoltre la componente che si è deteriorata maggiormente durante gli anni della crisi. Il suo rapporto sul PIL passa dal 5,8 per cento del 2009 al 4,3 del 2016; gli investimenti in particolare si riducono nel 2016 del 35 per cento rispetto al 2009, passando, in termini percentuali, dal 4,3 al 2,7 per cento del PIL.

 

SPA – SPESA PUBBLICA IN CONTO CAPITALE AL NETTO DELLE PARTITE FINANZIARIE (anni 2000-2016; euro pro capite costanti 2010)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

Anche per la spesa in conto capitale il divario medio tra il cittadino meridionale e quello del Centro Nord è di 148 euro pro capite.

La leggera ricomposizione dei livelli di spesa a favore del Mezzogiorno nel 2015 non ha modificato la distribuzione delle risorse verso alcuni settori rilevanti per l’erogazione di servizi collettivi. I livelli di spesa destinati all’investimento in settori fondamentali risultano nel Centro-Nord sempre nettamente superiori a quelli del Mezzogiorno e, nella maggior parte dei casi, in forte riduzione, evidenziando con forza il divario tra individui. Significativo notare che le differenze più rilevanti tra le due macro aree riguardano i servizi essenziali: Politiche sociali, Sanità, Reti infrastrutturali, Mobilità.

La strutturalità del divario in termini di spesa è confermata dalla disparità in termini di dotazioni effettive e di servizi offerti: i treni sono più vecchi, più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6 per cento della rete complessiva; il numero di presenze turistiche per abitante è pari nel 2015 a 3,7 nel Mezzogiorno contro i 7,9 del Centro-Nord; l’irregolarità nella distribuzione dell’acqua riguarda ancora il 18,3 per cento delle famiglie del Mezzogiorno a fronte del 4,9 per cento del Centro-Nord; i Comuni del Mezzogiorno che dispongono di strutture per l’infanzia (asilo nido, micronidi o servizi integrativi e innovativi) sono meno della metà di quelli del Centro-Nord (67,5 per cento nel Centro-Nord a fronte del 32,7 per cento del Mezzogiorno); la percentuale di Anziani trattati in assistenza domiciliare integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione anziana è pari al 4,7 per cento nelle regioni centrosettentrionali, contro il 3,3 per cento delle regioni meridionali.

 

SPA – TOTALE SPESA NETTA PER MACRO SETTORE E PER MACRO AREA

(anno 2016; euro pro capite costante 2010)

 

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

 

La leggera ricomposizione dei livelli di spesa a favore del Mezzogiorno nel 2015 non ha modificato la distribuzione delle risorse verso alcuni settori rilevanti per l’erogazione di servizi collettivi. I livelli di spesa destinati all’investimento in settori fondamentali risultano nel Centro-Nord sempre nettamente superiori a quelli del Mezzogiorno e, nella maggior parte dei casi, in forte riduzione, evidenziando con forza il divario tra individui. Significativo notare che le differenze più rilevanti tra le due macro aree riguardano i servizi essenziali: Politiche sociali, Sanità, Reti infrastrutturali, Mobilità.

Questo scenario, se enfatizza il ruolo delle risorse aggiuntive che nel Mezzogiorno sostengono pesantemente la spesa in conto capitale, rende tuttavia irrilevante la politica ordinaria, che giunge a rappresentare, in termini pro capite nel 2015, meno di un terzo del totale delle risorse in conto capitale e circa la metà di quelle aggiuntive.

Ciò vuol dire che, in assenza delle risorse aggiuntive, i 759 euro pro capite, di cui ha usufruito il cittadino del Mezzogiorno nel 2015, si ridurrebbero a 213, pari a meno di un terzo, mentre i 551 del cittadino del Centro-Nord rimarrebbero sostanzialmente invariati.

La consapevolezza del pesante effetto sostitutivo della politica aggiuntiva e della sostanziale irrilevanza della politica ordinaria nel Mezzogiorno hanno fatto ritenere necessaria la reintroduzione nella L. n. 18/2017[4], di principi per il riequilibrio territoriale (art. 7bis).

La norma dispone che le Amministrazioni Centrali si conformino all’obiettivo di destinare agli interventi nel territorio meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) un volume complessivo annuale di stanziamenti ordinari in conto capitale proporzionale alla popolazione di riferimento a decorrere dalla Legge di bilancio per il 2018.

Le risorse ordinarie vengono quindi orientate al rispetto del principio di equità, finalizzato a far sì che il cittadino, a qualunque area del Paese appartenga, possa potenzialmente disporre di un ammontare di risorse equivalente, mentre le risorse della politica aggiuntiva, prevalentemente destinate al Sud, hanno la funzione di garantire la copertura del divario ancora esistente, dando attuazione al co. 5 dell’art. 119 della Costituzione.

  PA – SPESA IN CONTO CAPITALE E RISORSE AGGIUNTIVE

(anni 2013-2015; euro pro capite costanti 2010)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

 

  1. Fabbisogni e costi standard: molteplici tentativi ma senza risultati

Per consentire a tutti gli italiani di godere degli stessi diritti di cittadinanza, ed in particolare dello stesso livello essenziale delle prestazioni pubbliche più importanti, la Costituzione prevede all’articolo 117.II.m che lo Stato abbia l’onere della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP. L’articolo 120. II della Costituzione, richiede poi che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. L’importanza dei LEP e dei conseguenti costi standard è ribadita con forza anche nella legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale.

Tale determinazione non è però mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, nonostante la costituzione di numerose Commissioni e Gruppi di Lavoro[5]. Infatti il passaggio da un sistema di finanziamento basato sulla spesa storica ad uno basato su parametri oggettivi di fabbisogno e di costo è tuttora assai complesso, soprattutto tecnicamente, ma anche perché esso richiede un’azione politica di mediazione degli interessi delle diverse comunità e parti coinvolte. L’uso di diversi indicatori tecnici può infatti produrre esiti assai differenti.

La scelta di fondo dei vari Gruppi di lavoro istituiti è stata quella di orientarsi verso la determinazione di livelli minimi, intesi come quelli che il sistema pubblico riesce a garantire in presenza di una dotazione di risorse limitata, piuttosto che verso la determinazione di livelli essenziali, intesi come quelli che soddisfano obiettivi di benessere e di equità sociale.

L’approccio – sostenuto soprattutto dalla RGS – sembra essere pertanto un approccio top down che, partendo dai vincoli finanziari e utilizzando parametri di “realismo e fattibilità”, arriva ad un riparto basato su parametri proxy del fabbisogno (età, genere, indicatori demografici,…) moltiplicati per la popolazione residente in ciascun territorio; ad un riparto quindi non dissimile da quello attuali.

In tali condizioni il costo standard non potrà che essere approssimato dal costo medio, avendo come benchmark la media della spesa delle regioni più efficienti in termini finanziari e di equilibrio di bilancio.

La determinazione invece dei livelli essenziali implicherebbe, anche alla luce di altre esperienze internazionali, un approccio bottom up, finalizzato a ricostruire non tanto le prestazioni che l’ente territoriale può offrire, quanto piuttosto quelle idonee al soddisfacimento di specifici bisogni, in grado di garantire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e, al tempo stesso, la loro erogazione in condizioni di efficienza e appropriatezza uniformi su tutto il territorio nazionale.

La questione è certamente annosa e complessa, anche alla luce del fatto che la dottrina e la normativa in materia non sono particolarmente avanzate e che la costruzione statistica di indicatori su livelli essenziali e costi standard richiede tempi molto lunghi, oltre ad una adeguata condivisione tra tutti i soggetti coinvolti.

Se però la determinazione delle risorse diviene un vincolo esogeno, allora non si tratta più di risolvere un problema di determinazione di un fabbisogno standard, ma più propriamente si ricade nell’ambito di un problema di riparto tra le regioni di un ammontare complessivo di risorse predeterminato per via esterna.

In tal modo, di fatto, verrebbero determinati dei Livelli essenziali di assistenza (LEA) che esprimono solo quello che si può fare con le risorse disponibili al fine di evitare l’insorgere di disavanzi di gestione.

Non a caso i vari GdL sono giunti alla determinazione che nel breve periodo la base sulla quale consolidare un ragionamento per definire i LEP e i costi standard sia la spesa storica che “certamente non può rappresentare un target, ma che è comunque indice dell’ esistenza di un grado di servizio seppur non definito con appropriatezza ed efficienza”.

Anche per le Regioni si è ritenuto opportuno valutare la spesa media ipotizzando un percorso dinamico di avvicinamento ad un costo standard determinato inizialmente dalla media della spesa delle Regioni e/o gradualmente dalla media della spesa delle regioni più efficienti ed efficaci (cfr. Corte dei Conti, Audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali, Bilancio, Finanze e Tesoro).

 

  1. Se si usasse il costo medio…

In assenza del costo standard, la spesa pro capite di lungo periodo può allora costituire una buona proxy a supporto di alcune valutazioni e forse anche al lancio di qualche provocazione.

Le informazioni disponibili da CPT consentono di ricostruire una proxy del costo medio e dei suoi differenziali fra aree e livelli di governo. È evidente che, trattandosi di un valore di spesa effettivamente erogata, si è lontani dal concetto costo minimo, inglobando potenzialmente tale valore le inefficienze locali o molteplici altre determinanti della variabilità (fattori strutturali, fattori istituzionali,…), ma si tratta di serie talmente lunghe e con un grado di dettaglio talmente spinto da rappresentare una proxy adeguata.

Il par. 3 (Cosa dicono i dati) racconta in dettaglio le varie sfaccettature della sperequazione territoriale; il dato principale, certo e incontrovertibile, è che la spesa pro capite nel Mezzogiorno, sia totale che in conto capitale, per i principali servizi pubblici e per tutti i livelli di governo, è storicamente più bassa che nel Centro Nord, certamente anche a causa di inefficienze locali, ma anche a causa dei minori finanziamenti, come costantemente rilevato nei Rapporti annuali CPT e come finalmente anche il dibattito giornalistico ormai assume.

 

Estratto da M. Esposito “Zaia: Nord mai favorito. Ma i numeri dicono altro”, Il Mattino, 22.1 2019

Allora, laddove l’art. 116 venisse applicato anche alle regioni del Mezzogiorno potrebbe rappresentare un contributo al riequilibrio della spesa?

Certamente se il principio di autonomia venisse integralmente applicato così come definito dalla Costituzione (art. 116. art. 119. ma anche art. 120 II e 117 II.m) e secondo i principi ribaditi nella L.42/2009, risulterebbe garantito il rispetto del principio di equità, cioè dell’indifferenza del luogo di residenza rispetto al diritto a pari prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, così come al dovere di contribuire al prelievo in base alla diversa posizione economica.

Se in attesa della definizione di LEP e costi standard si adottasse come proxy di spesa equa pro capite il costo medio, si genererebbe probabilmente un incremento della spesa a favore del Mezzogiorno, riequilibrandola di fatto al di là di ogni ipotesi di riserva (vedi 34 per cento).

A maggior ragione, sterilizzando la politica di coesione, potrebbe generarsi un auspicabile aumento della spesa ordinaria, riportando le risorse aggiuntive al ruolo ad esse attribuito dall’art. 119 della Costituzione.

 

****

[1] Per approfondimenti sui problemi metodologici cfr. Guida ai Conti Pubblici Territoriali (CPT), UVAL – DPS, e quanto riportato sul sito http://old2018.agenziacoesione.gov.it/it/cpt/index.html

[2] Cfr. Giannola Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul “federalismo differenziato”, Rivista Economica della Svimez, n.1-2 2018

[3] Tutti i temi che costituiscono aspetti fondamentali di qualsiasi modello di federalismo fiscale e che incidono sul conferimento delle funzioni conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione e sull’attuazione dei principi contenuti negli articoli 119 e 116 dello stesso Titolo V in materia di finanza degli enti territoriali, sono indagabili attraverso CPT.

Già da qualche anno è stata infatti ricostruita e costantemente monitorata (oltre che utilizzata da tutte le istituzioni: UPB Senato, Commissione Bilancio Camera, …) una batteria di indicatori relativi a :

  • livello di decentramento della spesa pubblica consolidata;
  • livello di decentramento del gettito tributario;
  • ruolo delle entrate tributarie nel finanziamento corrente degli enti territoriali;
  • autonomia di entrata degli enti territoriali ;
  • equalizzazione della capacità fiscale;
  • ruolo delle regioni nel finanziamento degli enti locali.

[5] – Alta Commissione di Studio per la definizione dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale (ACoFF) – 2002;

– Ministero per la semplificazione Normativa . Gruppo di lavoro per l’attuazione del disegno di legge sul federalismo fiscale – 2008

– Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (COPAFF). – Gruppo di Lavoro COPAFF “Fabbisogni/costi standard, LEP e funzioni fondamentali” – 2010

– Spending review (Cottarelli) – Gruppo di lavoro “Fabbisogni e costi standard” – 2014

 

 

 

“Questo regionalismo rischia di smontare la Costituzione” Intervista a Enzo Paolini

“Questo regionalismo rischia di smontare la Costituzione” Intervista a Enzo Paolini

Il regionalismo differenziato sarà una riforma che coinvolgerà diversi settori della via pubblica, fra cui la sanità. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Enzo Paolini.  

Lei è intervenuto – anche in virtù della sua lunga esperienza al vertice nazionale del comparto ospedaliero privato – sul dibattito in corso sulla autonomia differenziata, sul disegno di legge del governo dicendo che in realtà è una riforma costituzionale mascherata. Parole forti, una provocazione?

  “Mica tanto. A me sembra un dato di fatto. Uno dei principi fondamentali sui quali poggia la nostra legge suprema, cioè la Costituzione è l’unità nazionale. Che non è solo un fatto territoriale o amministrativo, non può esaurirsi nella assenza di barriere fisiche tra regioni o nel cantare insieme l’inno quando gioca la nazionale. Unità nazionale vuol dire soprattutto identità di diritti tra cittadini indipendentemente dalle loro origini, dalla residenza o dal censo”.

  E ciò viene messo a rischio dalla richiesta di alcune ragioni di gestire in proprio determinati settori?

“Sì, perché gestire autonomamente comporterebbe – secondo il disegno di legge all’esame del Parlamento – disporre senza condizioni del gettito fiscale alimentato dai propri cittadini. Principio giusto e logico in superficie ma iniquo se si ha ben presente il principio, appunto costituzionale dell’unità nazionale che, sul tema fiscale è declinato mediante tassazione proporzionale. Chi è più ricco paga di più e contribuisce ad assicurare assistenza sanitaria, istruzione, sicurezza, servizi a chi ha di meno”.

  E cosa succederebbe – secondo lei – nel campo del servizio sanitario?

“Sempre secondo il disegno di legge della maggioranza di governo, le Regioni ad autonomia differenziata avrebbero la possibilità di stabilire in proprio i LEA (livelli essenziali di assistenza) di fissare proprie tariffe, di pagare e assumere i medici come vogliono, di gestire e organizzare la rete ospedaliera con le propri risorse ed anche in difformità dai vincoli di bilancio che devono osservare le altre regioni. E tutto ciò per assicurare assistenza solo ai propri residenti.

Ciò vuol dire che un calabrese potrà contare su una assistenza sanitaria sostenuta solo dalle risorse fiscali prodotte dai calabresi, così che la forbice della diseguaglianza, già ampia nei fatti, si allargherà ancora di più per legge.

E se un calabrese vorrà curarsi a Milano dovrà pagare.

Verrà, così, cancellata una delle grandi conquiste di civiltà del nostro paese e cioè il Servizio sanitario nazionale basato su principi solidaristici e universali, cioè cure uguali per tutti, e con oneri a carico dello Stato.

Se passa l’altra concezione – quella contenuta nel disegno di legge – non ci sarà più alcuna unità nazionale sul piano del diritto all’assistenza sanitaria uguale per tutti.

E sarà disarticolata la Costituzione in un modo obliquo e subdolo”.

Però c’è di dice che alimentare la sanità nel sud, con i suoi disservizi e le sue ruberie è come gettare soldi in un buco nero.

“Ma è proprio questo il punto. Un governo molto superficiale privo del senso profondo della comunità agisce sull’effetto e non sulla causa. Invece di impiegare tutte le risorse per contrastare il malaffare, ad esempio la grande evasione fiscale, alza uno steccato senza considerare che le ruberie – e tante – ci sono anche a Torino o a Modena e che la nostra classe medica è eccellente.

La verità è che governare è un’arte affascinante e difficile e non si può fare se non si hanno competenze, se non si studia. Il resto sono slogan malamente applicati, garganismi demagogici ed autoreferenziali da una parte e dall’altra”.

Come se ne esce?

“Con la buona politica. Ma il silenzio della sinistra, l’indifferenza di una classe dirigente intenta solo a regolamenti di conti interni è imbarazzante ed allontana le giovani generazioni.

I partiti e le istituzioni – senza più il fascino delle idee, se non delle ideologie – attrarranno solo coloro che vedono nella politica una fonte di guadagno. Ed in questo modo si imbarbarisce la società civile”.

Allora il problema – nel Paese ed in Calabria – è tutto a sinistra?

“No, ho fatto l’esempio perché mi piacerebbe una rinascita degli ideali in cui ho creduto e credo e per i quali continuo a battermi. D’altra parte non penso che sia un segreto che non sia entusiasta di una città perennemente appaltata per opere in parte inutili e distratta, ubriacata, da un perenne movida e dalla costruzione artificiale di brand poco credibili.

Ieri sono passato su Viale Mancini, l’opera simbolo di una stagione di vero e proprio rinascimento della nostra città, e l’ho visto divelto, letteralmente stuprato e con amarezza ho riflettuto sul fatto che l’idea di chi aveva realizzato, per via urbanistica, una grande opera pubblica sul piano sociale, è stata soppiantata dalla violenza di un braccio meccanico che dice, con prepotenza, che li si fa un’altra cosa e non ha importanza se è inutile, costosissima e non piace a tanti cittadini. Un po’ come il TAV. Un’idea verticistica di quello che si autodefinisce, a Roma come a Cosenza, il governo del fare.

Ma la storia insegna che, in questo modo, prima si ha un consenso acritico e poi si asfaltano anche i diritti. E mi lasci dire, anche così un po’ muore la Costituzione”.

Quotidiano del Sud

12.2.2019

Prima gli italiani. Ricchi Ida Dominijanni

Prima gli italiani. Ricchi Ida Dominijanni

 Il governo sovranista, che straparla di sovranità nazionale un giorno sì e l’altro pure e novantanove volte su cento a sproposito, sigla una cosiddetta intesa con le regioni più ricche dell’Italia del nord che fa letteralmente a brandelli lo stato nazionale. Il medesimo governo sovranista, che straparla di sovranità popolare un giorno sì e l’altro pure e cento volte su cento a sproposito, pretende di varare la suddetta intesa alla chetichella, scavalcando il parlamento ed evitando, con la complicità della maggior parte dei media mainstream, qualunque interferenza del parere del popolo e dell’opinione pubblica.

La Lega di Matteo Salvini, che tanti osservatori si sono affannati a benedire come un partito finalmente nazionale che archivia l’arcaica Lega nord di Umberto Bossi e i suoi folcroristici riti con l’ampolla, sta per realizzare quella secessione del nord che Berlusconi e Fini non consentirono a Bossi di realizzare. Lo scellerato “contratto di governo” – un pezzo di carta privato del quale avremmo dovuto solo ridere se fossimo ancora la patria del diritto come si continua a dire – si rivela per quello che è: un patto per unire con la colla del rancore un paese non più solo storicamente, bensì istituzionalmente diviso, soldi al nord e sussidi al sud, senza nemmeno la retorica unitaria che ha coperto un secolo e mezzo di rapina capitalistica del nord ai danni del sud.
Infine, il movimento che ha fatto dei “cittadini” il suo brand e il suo target si appresta a dare il suo placet a una cittadinanza gerarchizzata, di serie A al nord e di serie B al sud (senza contare quella di serie Z negata ai migranti), che fa strame una volta per tutte del principio costituzionale di uguaglianza e dello stato sociale, e ha l’unico merito di ridicolizzare definitivamente lo slogan “prima gli italiani” correggendolo in “prima gli italiani ricchi”.
È questo il succo delle bozze fin qui clandestine sulla cosiddetta “autonomia differenziata” del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia-Romagna che arrivano oggi in consiglio dei ministri. Le quali bozze, per dirlo in due parole e senza perdersi nella nebbia depistante dei tecnicismi, fanno due cose. Primo, conferiscono alle tre regioni interessate il profilo di altrettanti stati, dando loro piena sovranità su tutte le materie fin qui concorrenti fra stato centrale e regioni: fisco, istruzione, ambiente, salute, ricerca, beni culturali, infrastrutture, protezione civile, energia, comunicazione, previdenza complementare. Secondo, demoliscono in radice l’impalcatura dello stato sociale, sostituendo il criterio dell’accesso universale ai diritti fondamentali con l’erogazione di servizi parametrati al gettito fiscale di ciascuna regione.
In altri termini: a gettito fiscale più alto, standard più alti dei servizi dovuti ed erogati, e viceversa. I diritti non sono più beni universali ma performance relative, disponibili a chi ha di più e chi ha di meno si arrangi. Scuole, programmi scolastici, insegnanti, ospedali, medici, treni, autostrade: dipende da dove abiti e da quante risorse fiscali il tuo territorio può vantare e gestire in proprio. La trentennale e infinita transizione italiana arriva finalmente al punto, che è lo stesso da cui a ben guardare era partita: la secessione dei ricchi, come titola il prezioso libro di Giancarlo Viesti scaricabile gratuitamente sul sito della casa editrice Laterza.
Preparato nell’ombra, non è detto che il marchingegno trovi la luce nei tempi fulminei vagheggiati dalla Lega e dai suoi ministri. Per altrettanto ignobili ragioni, la transizione entrerà più probabilmente nel gioco di ricatti, veti, moratorie e scambi incrociati che regge, si fa per dire, l’alleanza gialloverde.
Per l’intanto, si segnalano tre effetti collaterali della vicenda. Il primo: si deve alle tanto innominabili e denigrate élite intellettuali (economisti, giuristi, centri studi come il Centro per la riforma dello stato e l’Osservatorio per il sud) se l’argomento è uscito dall’ombra, ha penetrato la cortina di ferro dei media, e sta diventando oggetto di discussione pubblica e di mobilitazione. Le regioni meridionali si svegliano da un sonno colpevole (la Campania scende sul piede di guerra, la Calabria chiede almeno un dibattito parlamentare, la Puglia, inizialmente sedotta da un supposto “buon uso” dell’autonomia, ci ripensa e dice no) e in parlamento spunta un fronte di opposizione targato LeU e, a quanto pare, incoraggiato dal futuro segretario del Pd nonché governatore del Lazio Zingaretti. Anche se va detto che nel tempo lungo dell’incubazione della secessione dei ricchi è appunto il Pd quello che va come al solito ringraziato. Non solo per la sua acquiescenza di oggi ai desiderata dell’Emilia-Romagna, o per i preliminari delle “intese” siglati ieri l’altro dal governo Gentiloni. Ma per le sue oscillazioni, approssimazioni e confusioni trentennali sulle questioni del federalismo e della sussidiarietà, nonché per la sciagurata riforma del 2001 del titolo V della costituzione fatta già allora (e per giunta a maggioranza, come le riforme costituzionali non vanno mai fatte) per inseguire la Lega e i suoi elettori.

 

L’Internazionale

14.2.2019

Un centralismo regionale con il vestito di Arlecchino di Massimo Villone  di Massimo Villone 

Un centralismo regionale con il vestito di Arlecchino di Massimo Villone  di Massimo Villone 

 Silenzi e menzogne: così nasce l’Italia di domani. A partire dal famigerato accordo, che per colpa o dolo, fu stipulato con i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, a pochi giorni dal voto, dal governo Gentiloni, benché limitato agli affari correnti. A seguire con la trattativa privata e segreta tra la ministra – leghista e veneta – Stefani e i governatori. A seguire, ancora, con la sostanziale accettazione di tutte le richieste. Per finire con la pretesa che l’accordo sia solo ratificato in consiglio dei ministri, e poi tradotto in ddl governativo da approvare in parlamento senza modifiche. Dopo il voto in Abruzzo la Lega ha spinto gli accordi finalmente svelati in consiglio dei ministri a gran velocità.
In senso contrario ora un documento M5S antepone a ogni scelta i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e si pronuncia contro l’inemendabilità. Meglio tardi che mai. Vedremo. Gli accordi si mostrano anche peggiori di quel che si temeva. Sono nella sostanza confermate le ormai diffuse analisi di una “secessione dei ricchi”. Ma non è solo questione di soldi. C’è di più.
Siamo allo Stato che si dissolve. Non è solo un trasferimento alle regioni di qualche funzione amministrativa, in chiave di efficienza. Come è scritto negli accordi, si trasferiscono potestà legislative. Ciò avviene in materie di potestà legislativa concorrente – le 23 materie elencate dall’art. 117 Cost., co. 3 – in cui allo Stato competono le leggi di principio mentre le regioni già hanno la titolarità per quelle di dettaglio. Quindi, rimane possibile solo il trasferimento di una quota della potestà legislativa statale di principio.
Sulle censure giuridiche e politiche abbiamo già scritto, e torneremo. Qui conta segnalare un effetto inevitabile: per il numero e l’ampiezza delle materie coinvolte lo Stato si priva della capacità di formulare obiettivi e politiche nazionali in settori cruciali. Un prezzo inaccettabile non solo per l’eguaglianza e i diritti fondamentali, ma anche per il sistema-paese, così ridotto a miraggio irraggiungibile. Ancor più perché, se il disegno lombardo-veneto-emiliano non viene fermato o almeno radicalmente corretto, la rincorsa di altre regioni verso un modello analogo diventerà nei fatti politicamente necessitata e irresistibile. Un paese frantumato in un vestito di Arlecchino.
Si pensi, poi, alla regionalizzazione richiesta in più o meno ampia misura per strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie (al centro anche della richiesta da ultimo avanzata dalla giunta ligure). Con l’ovvio scenario futuro di potenziare un sistema di accordi tra le regioni del Nord e tra queste e le regioni limitrofe di stati esteri che agganci tutto il Nord all’Europa, lasciando il resto come appendice dell’Africa.
Cosa sarebbe accaduto nell’Italia di ieri se la novità gialloverde fosse stata già applicabile al paese? Nel 1978 il servizio sanitario nazionale non sarebbe nato, come anche l’autostrada del sole tra Nord e Sud, e l’alta velocità da Milano a Napoli. Mentre nell’Italia di domani vedremo la morte del Ssn e del sistema nazionale dell’istruzione. Non vedremo asili nido, refezione scolastica, cure mediche comparabili tra Nord e Sud. E nemmeno l’alta velocità fino a Reggio Calabria, o un decente sistema stradale e ferroviario in Sicilia.
Da altro punto di vista, la regionalizzazione di larga parte del pubblico impiego, e di materie come la tutela e sicurezza del lavoro, la retribuzione aggiuntiva, la previdenza integrativa, gli incentivi alle imprese, darà un colpo mortale al sindacato nazionale che oggi conosciamo. E l’iper-centralismo regionale soffocherà il governo locale molto di più di qualsiasi centralismo statalista. Lo ha capito Sala, lo capisce ora De Magistris.
In compenso, con la regionalizzazione dei beni culturali magari potremo ammirare meglio l’Ultima Cena di Leonardo, purché rigorosamente in fila dopo i cittadini lombardi. E almeno finirà il tormentone su quota 100. Con la previdenza integrativa regionale nei territori più fortunati si potrà anche andare in pensione prima. Poco male se al Sud si andrà dopo, e in aggiunta, si morirà anche prima per la minore aspettativa di vita. Anzi. Siamo o non siamo per l’uso efficiente delle risorse e contro ogni spreco di denaro pubblico?
Questa è l’Italia che alcuni vorrebbero per domani. È un’Italia in cui non ci riconosciamo. Non è quella che ci hanno consegnato i nostri padri, dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituente, passando per guerre, lutti e infiniti sacrifici.
«Si vuole dissolvere l’unità nazionale», De Magistris all’attacco del governo
Autonomia differenziata. La protesta del sindaco di Napoli in piazza Montecitorio: «Bisogna concedere forme di opportuna autonomia alle città. Invece quella attuale sembra la secessione dei ricchi»
Il Manifesto
15.2.2019
Una grande manifestazione contro la secessione del Nord

Una grande manifestazione contro la secessione del Nord

L’Osservatorio del Sud – constatata la grande e positiva partecipazione e condivisione suscitate dagli articoli sul sito, dalle iniziative, dagli articoli a stampa e online, dai dibattiti, dagli interventi e dagli appelli promossi dalla Associazione- ha in animo di proporre una grande manifestazione di tutti i meridionali che si oppongono alla secessione del Nord.
Una manifestazione, da tenersi in una delle città del Sud, che coinvolga tutti i cittadini, le associazioni, i partiti, i sindacati ed i movimenti che vogliono opporsi allo smembramento dell’unità del paese e che sono pronti, invece, ad essere parte attiva nella ricostruzione della classe dirigente del Mezzogiorno, delle sue città e dei suoi paesaggi.
Appello per un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica

Appello per un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica

Rivolgiamo un appello a donne e uomini liberi, alle soggettività politiche e sindacali, al mondo dell’associazionismo, ai movimenti che si riconoscono nei principi di uguaglianza e nell’universalità dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione.

Un appello per incontrarci e costituirci in un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica, dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale contro il federalismo differenziale.

Va avanti l’approvazione “dell’autonomia regionale differenziata”, nel silenzio generale mentre l’opinione pubblica viene distratta dall’assordante propaganda razzista e xenofoba. Senza discussione politica diffusa e all’insaputa di milioni di cittadine/i si sta per determinare nel giro di poche settimane la mutazione definitiva della nostra architettura istituzionale, la destrutturazione della nostra Repubblica.

La vicenda è partita con i referendum svolti in Veneto e Lombardia nel 2017,cui ora si vuole dare seguito senza tenere alcun conto dei principi di tutela dell’eguaglianza, dei diritti e dell’unità della Repubblica affermati dalla Corte Costituzionale

La Lega che ha voluto i referendum in Lombardia e Veneto oggi è al Governo e pretende che il governo dia risposte interpretando le norme costituzionali sull’autonomia in modo eversivo per l’unità nazionale e l’universalità dei diritti. La maggioranza politica giallo verde non può consegnarsi alle istanze secessionistiche della Lega. Il Pd farebbe bene ad opporsi non solo a questa richiesta targata Lega ma anche all’autonomia differenziata posta dalla maggioranza PD dell’Emilia Romagna, in forme solo in parte dissimili. Dal 2017, durante il governo Gentiloni, ad oggi sulla scia di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna anche altre Regioni si stanno attivando per ottenere maggiori poteri e risorse grazie alla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione del 2001.

Di fronte al rischio di una “secessione dei ricchi” è necessario un coordinamento delle forze che si oppongono a questo processo per dare vita a una mobilitazione efficace per bloccarla.

Un coordinamento che chieda anche una commissione di inchiesta parlamentare, ai sensi dell’art. 82 della Costituzione, sull’attuale stato delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali in ciascuna Regione Italiana, in modo da fotografare la situazione attuale già fortemente compromessa. Da una seria inchiesta parlamentare, tenuta anche a informare adeguatamente i cittadini, risulterebbero infatti gravi disparità fra Regione e Regione (soprattutto fra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario, fra regioni del nord e del sud del Paese).

La gestione e l’attribuzione delle risorse deve restare in un ambito nazionale condiviso da tutte le regioni e dai comuni

Questa verifica aprirebbe finalmente un dibattito consapevole, basato su dati oggettivi, sullo stato dei diritti in Italia e non favorirebbe ulteriori fughe in avanti, destinate ad aggravare ancora di più le disparità fra i cittadini residenti nelle diverse regioni italiane, che nel caso della sanità sono già al limite per il SSN.

Non sono stati nemmeno definiti e garantiti in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali di prestazione (LEP) nei diversi campi, rispetto ai quali dal 2001, a seguito della riforma del titolo V° della Costituzione, esiste un vuoto normativo, come denunciato più volte dalla Corte Costituzionale. Ogni scelta deve inoltre essere definita con il consenso di tutte le regioni e i Comuni, perché non è accettabile che diritti fondamentali vengano riservati ad alcune regioni e ad altre no, che le risorse vengano differenziate a danno delle aree più deboli e in difficoltà del nostro paese.

Per il sistema d’ istruzione, non si tratta di prevedere i livelli essenziali di prestazione, essendo una funzione dello Stato che deve garantire il diritto allo studio fino ai massimi livelli ed è equiparabile ad altre istituzioni della Repubblica.

Riteniamo necessario che non vi debbano essere ulteriori trasferimenti di poteri e risorse alle regioni su base bilaterale e che i trasferimenti sulle materie a loro assegnate debbano essere ancorati esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.

L’Autonomia regionale differenziata non può avvenire a scapito anche delle autonomie locali, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi carrozzoni centralizzati e inefficienti a livello regionale.

In questo contesto di grandi egoismi verrebbe soppressa l’universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre a seconda del reddito dei loro residenti; per poterne usufruire nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca, in aperta violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione.

In questo quadro vi sarebbe una ricaduta negativa prioritariamente sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutt’ Italia con la progressiva privatizzazione dei servizi. Il Mezzogiorno viene condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia. L’autonomia regionale differenziata negherebbe così la solidarietà nazionale, la coesione e i diritti uguali per tutte/i che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese.

Di fronte a tutto questo, vi sono le nostre ragioni, l’esigenza di un’opposizione e di una lotta politica e sociale in difesa dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale.

Promotrici/ori:

Paolo Berdini, Piero Bernocchi, Piero Bevilacqua, Marina Boscaino

Loredana De Petris, Gianni Ferrara, Eleonora Forenza, Loredana Fraleone

Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Silvia Manderino, Loredana Irene Marino

Roberto Musacchio, Rosa Rinaldi, Giovanni Russo Spena, Guido Viale

Massimo Villone, Vincenzo Vita

hanno già aderito:

Mauro Beschi, Gaetano Rivezzi, Giulia Venia, Antonio Pileggi, Antonio Di Stasi
Fiorenzo Fasoli, Giulia Rodano, Maurizio Acerbo, Francesco Di Matteo, 

Moreno Biagini, Maria Paola Patuelli, Mari Agostina Cabiddu, Maria Ricciardi, Fabrizio Bellamoli, Luigi Pandolfi, Antonio Caputo, Alfonso Gianni, Daniela Caramel, Raffaele Tecce, Claudia Berton, Miria Pericolosi, Beppe Corioni, Cristina Stevanoni, Francesco Baicchi, Dino Greco, Silvia Chiarizia, Enzo Camporesi, Maria Longo, Battista Sangineto

Per aderire inviare a:

adesioni.coord.noautonomiadiff@gmail.com