Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017. – di Gianfranco Viesti Una forte riduzione con crescenti disparità territoriali
L’emergenza coronavirus sta mettendo in luce le conseguenze del grave sotto-finanziamento del sistema sanitario nazionale (SSN), documentato da molte fonti; da ultimo, con semplicità e chiarezza da Reforming (2020). Sono da tempo disponibili molte analisi economiche del SSN, anche nelle sue articolazioni territoriali: si vedano per tutte quelle, recenti, dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB 2019) e della Fondazione Gimbe (2019). Esse si concentrano particolarmente sull’analisi della spesa corrente, che in sanità è della massima rilevanza sia per il personale sia per gli acquisti di beni (farmaci) e servizi. Convergono nel sottolineare il progressivo definanziamento del SSN; ricordano i meccanismi di riparto territoriale delle risorse e i bilanci sanitari regionali, sottolineando la più difficile situazione delle regioni del Sud, in termini finanziari e di esiti delle cure. In molti casi esse comprendono anche analisi sulle dotazioni strutturali del SSN e delle sue articolazioni regionali, in particolare in termini di posti-letto; anche da questo punto di vista vengono sottolineate crescenti differenze territoriali, soprattutto per gli effetti di riduzione della spesa indotti dai Piani di Rientro (ad esempio Aimone Gigio et al., 2018).
Può essere utile affiancare a questo vasto corpo di analisi una riflessione specifica sulla spesa in conto capitale in sanità, nell’insieme del paese e nelle Regioni. Questa analisi è possibile grazie al sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), che rende disponibili dati di cassa sulla spesa per investimenti pubblici in sanità, dal 2000 in poi, in valori costanti e consolidati per livello di governo (la spesa finale è effettuata per la quasi totalità dalle Aziende Sanitarie Locali). La figura 1 mostra il totale nazionale degli investimenti pubblici in sanità, a prezzi del 2010, fra il 2000 e il 2017; essi sono ammontati complessivamente a 47 miliardi di euro.
Il profilo della spesa è costante fino al 2007 intorno a 2,8 miliardi; crescente per un breve periodo fino al 2010, anno in cui tocca i 3,4 miliardi. Poi fortemente decrescente, fino al valore minimo di 1,4 miliardi nel 2017, che è del 60% più basso rispetto al 2010. Dal 2012 la spesa è inferiore a quella dell’anno 2000. Un vero e proprio tracollo. Stando al rapporto annuale della Corte dei Conti (2019, p. 244) sulla finanza pubblica, che analizza i
bilanci delle ASL, si tratta di un livello molto inferiore, nel 2016, a quello degli altri paesi europei. “In Italia solo lo 0,3% del Prodotto è destinato ad accumulazione, contro importi più che doppi nelle principali
economie europee: lo 1,1 della Germania, lo 0,6 della Francia. Superiori anche Spagna e Portogallo con rispettivamente lo 0,7 e lo 0,6”.
Ma di che parliamo? Dallo stesso Rapporto si può calcolare (dalla pagina 243, medie quadriennali 2015-18 a prezzi correnti), la composizione tipologica degli investimenti, che appare piuttosto qualificata in senso scientifico-tecnologico, e quindi di grande rilevanza per la qualità delle cure. Infatti, se per il 40% si tratta di terreni e fabbricati e per il 17% di mobili, automezzi e altri beni materiali, quasi un terzo della spesa (32%) è per attrezzature scientifiche e sanitarie, il 7% per impianti e macchinari e il 5% per immobilizzazioni immateriali.
La spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente.
Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno; in particolare in quest’ultima area, che nella media del periodo pesa per il 35% della popolazione italiana, gli investimenti sono stati pari al 17,9% del totale. In termini pro-capite, a fronte di una spesa nazionale media annua di 44,4 euro, quella nel Nord-Est è pari a 76,7 (cioè di ben tre quarti più alta), mentre quella nelle Isole è pari a 36,3 euro e nel Sud Continentale a 24,7: poco più della metà della media nazionale. Al Centro e al Nord-Ovest si è stati molto vicini alla media. La tabella 1 mostra il dettaglio regionale, interessante anche per le sensibili differenze interne alle macroaree territoriali.
Sono evidenti grandissime differenze. Colpiscono i valori straordinariamente alti del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta, i cui cittadini hanno una disponibilità di strutture e servizi sanitari molto maggiore di quello degli altri italiani. Molto più alti della media nazionale sono anche i valori degli investimenti in Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. Diverse regioni hanno valori simili a quelli medi, anche se un po’ inferiori in Umbria, Abruzzo e Sicilia. Vi è invece un gruppo di regioni con livelli di investimento intorno alla metà della media nazionale: sono, come si vede, Puglia, Molise, Campania e Lazio. Impressionante, infine, il dato della Calabria: i suoi meno di 16 euro pro-capite significano una intensità di investimento nella sanità che è stata quasi 12 volte inferiore a quella della Provincia Autonoma di Bolzano e quasi tre volte inferiore alla media nazionale. Per quanto si può vedere dalla media dell’ultimo quadriennio sulla composizione tipologica degli investimenti, non paiono esservi grandi differenze territoriali: elaborando i dati della tabella a pagina 243 di Corte dei Conti (2019), si può calcolare che nel Mezzogiorno (Sud e Isole) è maggiore rispetto al valore nazionale il peso delle attrezzature sanitarie e scientifiche (38%) e un po’ inferiore quello dei macchinari (5%) e delle immobilizzazioni immateriali(4%).
Può essere interessante comparare i flussi degli investimenti con il livello delle dotazioni e dei fabbisogni infrastrutturali delle diverse regioni. Anche questo è un terreno molto complesso, data la difficoltà di stabilire con precisione indici di dotazione infrastrutturale. Ad esempio la Corte dei Conti (2019) segnala che nella comparazione internazionale delle dotazioni di attrezzature sanitarie italiane non vanno considerati solo i livelli ma anche l’obsolescenza; che naturalmente tende ad aumentare in periodi di calo complessivo degli investimenti.
Un confronto di massima può essere compiuto utilizzando l’indicatore sintetico di divario di fabbisogno infrastrutturale delle regioni italiane calcolato per il 2006 dalla Fondazione CERM su dati Health for All, elaborando 19 diverse variabili (Banca Intesa, “Il mondo della salute fra governance federale e fabbisogni
infrastrutturali, Milano, 2010, pag. 74). Il quadro al 2006 mostrava una dotazione maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud, con le regioni del Centro su livelli simili a quelle del Nord. Tale quadro può essere confrontato con l’intensità degli investimenti pubblici (espressi in pro-capite) per il 2007-17. Da questa comparazione vengono esclusi il Molise, che aveva al 2006 un indicatore di dotazione molto più alto delle altre regioni e Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, che, come appena visto hanno potuto realizzare investimenti in misura molto maggiore rispetto al resto del paese. La Figura 2 mostra in istogramma le dotazioni 2006 (posta pari a 100 la regione meglio dotata e cioè l’Umbria) e in linea continua gli investimenti pro-capite 2007-17 (in numero indice, posta pari a 100 la regione con il flusso maggiore e cioè la Toscana).
Appare evidente che, in linea generale, l’intensità di investimento è stata maggiore nelle regioni che avevano già una maggiore dotazione. Vi è tuttavia l’eccezione rappresentata da Umbria e Lazio, con alte dotazioni e bassi investimenti, e quindi con un deterioramento della posizione relativa: una sorta di “scivolamento verso Sud” di due regioni centrali. Colpiscono i dati particolarmente negativi di Calabria e Campania, e l’andamento leggermente migliore, nel quadro meridionale, di Basilicata e Sardegna.
Agli specialisti del settore e agli esperti dei complessi meccanismi di finanziamento della sanità, spetta dire quanto ciò dipenda dai criteri di riparto delle risorse e quanto da scelte delle amministrazioni regionali, o dalla difficoltà di realizzare investimenti pur avendo disponibili le relative risorse. Vale naturalmente ricordare che diverse regioni italiane, prevalentemente nel Mezzogiorno, sono state sottoposte negli ultimi anni ai meccanismi finanziari determinati dai “Piani di rientro”, con conseguenze molto serie sulle capacità complessive di spesa (Aimone Gigio et al., 2018).
L’obsolescenza delle strutture, il sottodimensionamento e l’invecchiamento delle apparecchiature di diagnosi e trattamento ha ricadute sull’attività e sulla spesa corrente: erogare gli stessi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) con una minore dotazione strutturale costa di più a qualità inferiore. Non a caso nella legge 42/2009 sul federalismo fiscale, la perequazione infrastrutturale (poi non attuata, neanche nella misurazione delle dotazioni) era strettamente legata alla capacità di erogare servizi con fabbisogni standard. Appare verosimile poi che queste tendenze, avendo aggravato le disparità di dotazioni fra le regioni, abbiano concorso a ridurre l’efficacia dei sistemi sanitari di alcune grandi regioni del Sud, contribuendo alla mobilità in uscita dei pazienti; mobilità che, rappresentando un costo per le regioni di provenienza, può a sua volta renderne più stringenti i vincoli finanziari.
Vale ricordare che la Corte dei Conti (2019) segnala che “diverse iniziative sono state assunte nell’ultimo biennio per procedere ad un potenziamento delle dotazioni tecnologiche ed infrastrutturali del sistema sanitario”, di cui il Rapporto dà conto. Tuttavia sono emersi con chiarezza notevoli fabbisogni di investimento ancora senza copertura. Una analisi del 2018 del fabbisogno di edilizia sanitaria lo quantifica in 32 miliardi di euro nell’arco temporale 2019-2045; il fabbisogno di investimenti in tecnologie sanitarie per il solo triennio 2018-20 ammontava a 1,5 miliardi, principalmente per sostituzioni di macchinari. Le necessità di investimenti in tecnologie appaiono (Corte dei Conti 2019, pag. 250) non a caso molto maggiori della media nazionale in Basilicata, Calabria e nelle Isole, oltre che in Friuli Venezia Giulia e Umbria.
Appare naturalmente auspicabile, anche – ma non solo – alla luce della drammatica diffusione epidemica che stiamo vivendo in questi giorni, che nei prossimi anni vengano dedicate risorse molto maggiori per gli investimenti nel SSN; e che essi mirino a potenziare le strutture in tutte le regioni ma con una attenzione particolare per quelle meno dotate: che come si è visto, sono state particolarmente penalizzate quantomeno nell’ultima decade.