Mese: aprile 2020

Città come solidarietà.-di Giancarlo Consonni Non possiamo rischiare che tutto torni come prima

Città come solidarietà.-di Giancarlo Consonni Non possiamo rischiare che tutto torni come prima

“I piani regolatori sono problemi di solidarietà umana, di coerente valutazione delle possibilità e degli ostacoli. Essi devono rappresentare la condanna delle ambizioni egoistiche, il ritorno nell’ora critica alla solidarietà e alla comprensione, la manifestazione di una volontà tesa verso scopi coerenti, costruttivi, creativi”1. Dopo tre quarti di secolo siamo a un’altra ora critica per l’umanità intera e ciò che Luigi Cosenza affermava nel 1944 dalle pagine de «La Rinascita» può essere riproposto pari pari in questi giorni tragici.

Per le coscienze vigili di questo nostro bellissimo e martoriato Paese, quelle affermazioni non hanno mai cessato di essere attuali. Non lo sono mai state, invece, per la stragrande parte degli amministratori della Cosa Pubblica. Il ruolo che essi si sono scelti (con il supporto compiacente dei “tecnici”) è stato quello di “facilitatori”: di creatori di opportunità per chi, disponendo di capitali, ha potuto fare delle operazioni immobiliari un affare redditizio come pochi altri. E questo in una impressionante continuità dal 1945 ad oggi, che fa impallidire le differenze di schieramento partitico; una continuità che a Milano si estende fino alle stesse politiche aggressive del ventennio fascista: lo spirito della Ricostruzione è stato ben presto tradito e negli anni ‘50 e ‘60 si è portato a termine ciò che il regime aveva iniziato.

Unica mitigazione: una politica della casa popolare che ha retto fino agli anni ’70. Ma questa apprezzabile opera di difesa dei lavoratori e dei meno abbienti è franata miseramente a partire dagli anni ‘80 quando si apriva il quindicennio di smobilitazione dei complessi industriali cresciuti nelle periferie urbane. Con la dissoluzione dell’industria urbana consumatasi nell’indifferenza di governo e opposizione veniva soffocato anche il lungo respiro delle politiche riformistiche sulla casa.

La questione non è tanto, e solo, l’impennarsi della rendita immobiliare (che avrebbe potuto e potrebbe essere arginata da adeguate politiche fiscali), ma il vuoto di idee, di visione strategica e di capacità di guidare i processi dimostrato da chi ha avuto e ha responsabilità di governo a tutti i livelli.

La politica non è stata in grado di elaborare un pensiero sulla convivenza civile e sulle interdipendenze fra questa e gli assetti insediativi. Ha lasciato che rendita e operatori immobiliari disegnassero a piacimento le configurazioni fisiche e funzionali degli insediamenti. Le bastava il “fare tanto per fare” (quand le bâtiment va…), con una irresponsabile soddisfazione per le entrate da oneri di urbanizzazione viste come il modo per rimpinguare i conti pubblici (irresponsabile perché, in assenza di bilanci credibili sul medio-lungo periodo, ha reso possibile un ingente travaso di denaro dal pubblico al privato). Così la questione del fare città, ovvero di come organizzare e attrezzare al meglio la convivenza civile, è stata totalmente disertata dalle politiche urbanistiche, come anche, in larga parte, dalle discipline che dovrebbero nutrirle in consapevolezza e strumenti.

Su quale sia la posta in gioco il cardinale Carlo Maria Martini ha detto l’essenziale nel 2002, nel suo discorso di congedo dalla città di Milano. Da laico voglio riportare alcuni passaggi: “[…] in forza della sua complessità localizzata, la città permette tutta una serie di relazioni condotte sotto lo sguardo e a misura di sguardo, e quindi esposte al ravvicinato controllo etico, e consente all’uomo di affinare tutte le sue capacità”2.

Martini aveva ben compreso l’uso strumentale della questione della sicurezza da parte degli imprenditori della paura e la causa prima di questa involuzione: “le nostre città […] non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore, e scambiano questa loro insicurezza di fondo con una insicurezza di importazione”. E indicava una possibile via: “La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno ad occupare attivamente il proprio territorio e ad occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione”.

Nella visione di Martini era ben presente quale ruolo fosse chiamata a svolgere l’urbanistica: “Per funzionare, la città abbisogna di gesti di dedizione, non di investimenti in separatezza”. Il suo sguardo era tanto acuto da restituire in sintesi quanto, nel contesto milanese e non solo, si era verificato nei vent’anni precedenti, ma anche da intravedere quanto si sarebbe verificato in seguito: “E così può nascere uno spirito di fuga dalla città, verso zone limitrofe protette, verso zone franche, per avere i vantaggi della città come luogo di scambi fruttuosi e l’eliminazione degli svantaggi di un contatto relazionale ingombrante. È allora la città destinata a disperdersi in un nuovo feudalesimo, compensato magari dalle impersonali relazioni mediatiche? È destinata a diventare un accostamento posticcio tra una city, identificata dal censo e dagli affari, e molte diversità a cui si concede di accamparsi in luoghi privilegiati o degradati, a seconda dei casi? E però se l’antidoto alla città difficile diventa una piccola città monolitica assediata dalle mille città diverse, la città perde il suo ruolo di identità-apertura e si originerà una faglia di insicurezza che metterà a repentaglio gli insiemi”.

In queste parole c’è, credo, un ritratto della Milano attuale, anche nella sua dimensione metropolitana. Ci dobbiamo arrendere? No. La città ambrosiana si troverà ad affrontare nei prossimi anni passaggi decisivi – il recupero degli ex scali ferroviari in primis – da cui dipenderà il suo futuro. Siamo a un bivio, e l’alternativa tra le due strade è quanto mai limpida: Milano è chiamata a decidere se incamminarsi verso una esasperazione della frantumazione o operare una svolta decisiva verso l’integrazione e la coesione sociale.

“La rinascita è un problema di uomini” scriveva Luigi Cosenza nell’articolo citato all’inizio. La rinascita, sarà possibile solo a partire da “un tessuto comune di valori” sembra fargli eco Carlo Maria Martini. Due affermazioni quanto mai veritiere dopo la tragedia del Coronavirus. Occorre “trovare le modalità di una traduzione civile partecipata e corretta delle emergenze umane del nostro tempo”, nella consapevolezza – sono sempre parole di Martini – che “la città evidenzia le differenze e stimola la politica al suo ruolo principe di promozione dei diversi, in modo particolare dei più umili fino a che possano raggiungere una uguaglianza sostanziale”.

1 Luigi Cosenza, Premesse per una rinascita dei centri urbani, in «La Rinascita», a. I, n. 2, luglio 1944, pp. 25-27
2 Carlo Maria Martini, Paure e speranze di una città, in «Città dell’uomo», a. XXV, marzo-aprile 2002, Appunti 2_2002, passim.

fonte:https://www.arcipelagomilano.org/archives/55723

Foto di Mirko Bozzato da Pixabay

Ma i rientri possono essere ‘sicuri’.- di Battista Sangineto

Ma i rientri possono essere ‘sicuri’.- di Battista Sangineto

Il governo nazionale, Presidente Santelli, ha opportunamente previsto che possano tornare a casa tutte le persone bloccate, lì dove si trovavano per lavoro o per studio, a causa delle restrizioni delle libertà personali determinate dall’emergenza sanitaria. Spero che non abbia in animo di opporre a questa decisione governativa, di nuovo, una chiusura dei ‘confini’ della Calabria che, ora più di ieri, avrebbe il sapore di una misura medioevale.

L’autorizzazione a tornare nella propria terra, giustamente concessa nel DPCM ai cittadini che vi risiedono, attenua, anche se solo in parte, la privazione del diritto di libera circolazione su tutto il territorio nazionale statuito dalla Costituzione, come hanno rilevato i costituzionalisti Cassese, Baldassarre e Zagrebelsky.

Sono sicuro, Presidente, che non si opporrà, da donna delle Istituzioni e di Legge, all’esercizio di questo diritto fondamentale da parte dei cittadini calabresi che, altrimenti, rimarrebbero lontani dalla Calabria per chissà quanti altri mesi, a giudicare dalle ultime -forse troppo caute, soprattutto per il Mezzogiorno- disposizioni governative. Potrebbe accadere, e sarebbe peggio, che, grazie al DPCM, ritornerebbero comunque, ma senza alcun controllo, come è già avvenuto.

Gentile Presidente, non aspetti il Governo, prenda l’iniziativa di stringere un accordo con il Ministero dei Trasporti e con le Ferrovie dello Stato per organizzare, come mi ero già permesso di suggerirle, treni dedicati solo a quei poveri calabresi emigrati che sono stati licenziati dalle aziende del nord, a coloro i quali hanno perso un lavoro precario o in nero, agli studenti che, civilmente, sono rimasti nei luoghi in cui studiavano e, ormai, a tutti quei calabresi che vogliano tornare nella Regione in cui risiedono.

Predisponga, inoltre, almeno tre squadre di sanitari che -a Paola, Lametia e Reggio Calabria, per esempio- conducano, su tutti i passeggeri, gli esami necessari e faccia sistemare gli eventuali positivi, per una quarantena in sicurezza, in alcuni dei tantissimi alberghi vuoti della nostra Regione.

Con uno sforzo organizzativo ed economico non smisurato -facendo gli stessi controlli anche per l’autostrada e per gli aeroporti- si possono far tornare, Presidente, in totale sicurezza questi poveri disoccupati, studenti, precari e lavoratori in nero ponendo fine alla loro sofferenza economica, psicologica e sentimentale.

Sarebbe un’azione di rilievo non solo politico ed amministrativo, ma anche di rilevanza umana e morale, non in contraddizione con la nostra naturale e costitutiva disposizione, della quale meniamo gran vanto, all’accoglienza degli altri che, in questo caso, sarebbero nostri conterranei.

da “il Quotidiano del Sud”, 28 aprile 2020

Foto di OyeHaHa da Pixabay

Covid, dopo tanti errori Firenze diventi una casa.-di Tomaso Montanari

Covid, dopo tanti errori Firenze diventi una casa.-di Tomaso Montanari

Durante la celebrazione di un matrimonio fiorentino del 1976, il sacerdote (che era David Maria Turoldo) disse agli sposi (che erano il figlio del presidente del Tribunale dei Minori Giampaolo Meucci, amicissimo di don Milani, e la figlia di Raffaello Torricelli, allievo di Calamandrei e membro delle giunte di Giorgio La Pira): «fate una casa, non un appartamento». Cioè: non appartatevi, non pensate di salvarvi da soli. Costruite una casa: aperta, accogliente, condivisa. Ecco, se Firenze oggi vuole davvero voltare pagina e ricominciare, deve tornare a pensare se stessa come una casa comune, non come un appartamento da noleggiare. Non sarebbe una svolta da poco: si tratta di invertire un’involuzione che dura da oltre un secolo, e che negli ultimi tre decenni ha accelerato fino a diventare, negli anni del renzismo, una precipitosa corsa verso l’abisso.

Fino a due mesi fa, una simile prospettiva apparteneva solo a una piccola minoranza di associazioni, comitati, cittadini, consapevoli, intellettuali. I poteri (investitori stranieri, bottegai, albergatori, massoneria, Curia…) che hanno interesse a conservare lo status quo professavano il più spinto negazionismo: ogni documentata denuncia dello spopolamento della città storica veniva respinta come il vezzo di radical chic fuori dal mondo. Ora, invece, lo svuotamento immediato dei oltre 10.000 appartamenti votati agli affitti brevi, i quasi 50 milioni spariti dalle casse comunali a causa del crollo della tassa di soggiorno (ed è solo l’inizio) e la prospettiva di un lunghissimo blocco del turismo torrenziale pre-Covid hanno aperto improvvisamente gli occhi ai padroni di Firenze.

Preso dalla infelicissima metafora del ‘siamo in guerra’, Nardella (che ancora non ha peraltro aggiunto un euro comunale agli aiuti del Governo) si è detto pronto ad imbracciare un «bazooka urbanistico»: poiché «non possiamo scommettere più sul solo turismo – ha detto –: voglio un pool di esperti anche internazionali che ci aiuti a ripensare un nuovo Rinascimento della città su altre basi». È la stessa ‘sindrome Colao’ che ha colpito il presidente del Consiglio: la commissione di esperti come salvezza di una politica che non sa più cosa pensare della polis.

Invece, Nardella potrebbe ascoltare tutti coloro che da anni dicono la verità: cominciando da un prete di quella periferia che è tutto il contrario della cartolina della Firenze del lusso: Alessandro Santoro, guida e servitore della Comunità delle Piagge. Per ridare a Firenze un’anima ci vuole qualcuno che tenga insieme una visione diversa della città (e la Comunità delle Piagge ha, per esempio, appena ripubblicato Gli zingari e il Rinascimento di Antonio Tabucchi: manifesto di un’altra Firenze) e la pratica quotidiana di quell’anima. E in queste settimane in cui i poveri sono ancora più poveri, don Santoro è il coordinatore, l’ispiratore, il simbolo dell’impegno per chi non ce la fa: le famiglie che non hanno nulla, le donne del carcere di Sollicciano, i rom senza acqua né luce.

Per dimostrare che questa volontà di conversione non è solo lo strumentale frutto della necessità, e dunque che non evaporerà come lacrime di coccodrillo quando milioni di turisti torneranno ad essere vomitati da pullman e aerei, bisogna tenere insieme questione urbanistica e questione sociale.

Cominciando subito, perché la Firenze del futuro prende forma nelle scelte fatte per fronteggiare l’emergenza: saremo dopo quel che scegliamo di essere ora.

E siccome tutti i problemi di Firenze ruotano intorno alla casa e all’abitare, il Comune dovrebbe usare le norme del Cura Italia che consentono di requisire immobili per far restare a casa chi casa non ha, e per ospitare i contagiati. Tutto lascia purtroppo immaginare altre ondate di epidemia: bisogna attrezzarsi subito, per esempio requisendo gli Student Hotel e una parte degli appartamenti di Airbnb, cominciando da quelli che appartengono a multinazionali travestite da singoli cittadini. Una misura estrema? Per dare un tetto agli sfrattati lo fece nel 1953 Giorgio La Pira: non esattamente un comunista.

E poi ancora lo spazio, quello pubblico stavolta. Rinunciare all’ampliamento dell’aeroporto, pura chimera dell’overtourism: salvando ambiente e qualità della vita dei residenti. Smettere di alienare immobili pubblici (e nemmeno impegnarli per far cassa, come Nardella annuncia ora, contraddittoriamente): e convincere i grandi ricchi privati (come i Lowenstein che hanno preso il complesso di San Giorgio alla Costa, quello da raggiungere con la teleferica che passerebbe da Boboli…) a destinare a residenza popolare, e non al turismo, gli spazi già pubblici di straordinario pregio che hanno comprato. Invece del bazooka, basterebbe fare una radicale revisione del regolamento urbanistico (il cui aggiornamento è stato invece appena rinviato sine die) che fissi regole, e orienti i servizi a favore delle fasce più deboli dei residenti, e un’altrettanto radicale inversione della narrazione di Firenze: non più città del lusso, ma della solidarietà. E poi un segno: subito la moschea in centro, per una nuova stagione di felice meticciato culturale.

C’è, insomma, un modo immediato e concreto per dimostrare che si è capito davvero, che si vuol cambiare davvero: smettere di pensare Firenze come un appartamento, e cominciare a costruirla come una casa. Subito: ora.

Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 27 aprile 2020

Foto di djedj da Pixabay

Primo bilancio in chiaroscuro sull’effetto del virus.-di Tonino Perna Se si prende per buona la proiezione del Fmi, si può stimare per il 2020 un calo del Pil al Nord del 12 per cento, al Centro del 9 per cento, e nel Mezzogiorno del 7 per cento.

Primo bilancio in chiaroscuro sull’effetto del virus.-di Tonino Perna Se si prende per buona la proiezione del Fmi, si può stimare per il 2020 un calo del Pil al Nord del 12 per cento, al Centro del 9 per cento, e nel Mezzogiorno del 7 per cento.

Nel tracciare un primo bilancio, sul piano della diffusione del virus si registra un netto vantaggio del Mezzogiorno come di tutte le aree periferiche del mondo. Le più colpite sono le zone al centro della globalizzazione, dei processi di modernizzazione più avanzati.

Così anche sul piano economico ne uscirà meglio il Mezzogiorno perché qui la Pubblica Amministrazione ha un peso doppio, sia come contributo al Pil che all’occupazione. Anche il crollo del turismo investirà di più il Centro-Nord: su 100 stranieri che mediamente visitavano l’Italia solo l’11 per cento si recava al Sud.

Complessivamente, se si prende per buona la proiezione del Fmi, si può stimare per il 2020 un calo del Pil al Nord del 12 per cento, al Centro del 9 per cento, e nel Mezzogiorno del 7 per cento. Ovviamente, la crisi sanitaria e economica peserà diversamente per fasce sociali, territoriali e anagrafiche.

Anziani, case di cura e badanti. Nel Sud, a parte alcuni tragici esempi di diffusione della pandemia nelle case per anziani (in Sicilia in modo particolare), il fenomeno è stato circoscritto. Gli anziani rimangono spesso in casa, e con una badante nelle famiglie di ceto medio (andare in una Rsa un anziano è considerato quasi un disonore). Queste lavoratrici non possono più uscire nei giorni liberi, per incontrare altre donne, spesso della stessa nazionalità. Murate senza la possibilità di tornare nei loro paesi, vittime invisibili di questa pandemia (circa 1,2 milioni in tutta Italia).

Giovani, emigrazione, precariato. Sul piano economico i più penalizzati dal Covid-19 sono i giovani, soprattutto i precari, senza coperture assistenziali. Particolarmente in difficoltà le migliaia di stagionali presso le strutture ricettive delle località turistiche invernali del Nord (alberghi chiusi, come i B&B, e hanno il problema di un posto dove dormire, a casa non possono tornare). Anche nella stagione estiva dovranno rinunciare ai contratti stagionali perché nelle città d’arte e i luoghi di vacanza del Centro-Nord è crollato il turismo straniero. Ugualmente colpiti, al Nord come al Sud, i giovani studenti all’estero, compresi gli Erasmus.

Operai dell’industria e della grande distribuzione. E’ ormai nota, dopo le proteste operaie che hanno indotto i vertici sindacali a pressare il governo, la condizione dei lavoratori esposti ad un alto rischio anche in produzioni non essenziali. Al Sud sono rimasti in attività i petrolchimici, centrali termoelettriche e raffinerie del petrolio (in particolare in Sicilia) anche se la domanda di benzina e gasolio è crollata. E poi c’è sul tappeto la grande questione di Taranto, di cui al momento non si parla…

Essendo l’industria manifatturiera poco presente, sono soprattutto gli operai dell’edilizia ad affrontare la disoccupazione. In particolare i lavoratori in nero, stimati intorno al 30-35 per cento del totale degli addetti. Sono rimasti al lavoro i commessi e operai della Gdo (grande distribuzione organizzata), spesso senza offrire ai dipendenti una protezione sanitaria adeguata.

Immigrati. Scomparsi dalla scena politica come “grande emergenza “ , gli immigrati non sono fuggiti dall’Italia perché debbono lavorare a tutti i costi. Grazie ai Decreti (In) Sicurezza sono state trasformate in clandestini più di 400 mila persone che possono lavorare solo in nero e nemmeno muoversi dalle zone del Sud dove per la raccolta di agrumi, kiwi, ecc. Così le moderne aziende agricole del Nord rimangono senza manodopera proprio nel momento clou della raccolta della frutta e della mietitura. Gli immigrati che perdono il lavoro hanno un problema in più rispetto agli italiani.

Non possono mandare i soldi a casa, essenziali per la sopravvivenza delle loro famiglie.
Lavoro nero. Ambulanti, piccoli artigiani, manovali, muratori, millemestieri, sono ancora fortemente presenti nel Mezzogiorno e sono quelli più toccati dalla crisi perché non possono accedere ai benefici previsti dal governo. Bisognerebbe istituire un reddito di cittadinanza, senza condizionalità, aumentando l’assegno mensile e estendendolo fino alla fine dell’anno in corso. E dovrebbe essere sufficiente un’autodenuncia senza conseguenze giuridiche.

Commercio al dettaglio e zone rurali e interne. Il commercio al dettaglio, già in crisi profonda per via della concorrenza della Grande distribuzione e di Amazon, rischia adesso di fallire definitivamente. Il post-Covid-19 potrebbe farci ritornare nelle strade delle nostre città con saracinesche abbassate, luci spente, una perdita di identità che farà assomigliare i nostri centri urbani a quelli nordamericani, con un downtown, come centro commerciale e degli uffici, e il resto quartieri dormitorio.

Fanno eccezione le botteghe di generi alimentari con un boom di vendite dovuto alla preferenza dei consumatori per i piccoli esercizi alimentari di prossimità. Le zone rurali e quelle interne hanno in generale goduto di una migliore qualità della vita potendo usufruire di spazi, qualità dell’aria e dell’acqua, di beni essenziali spesso misconosciuti da questo modello di mercificazione.

Il Covid ha rappresentato una sorta di nemesi storica tra centro e periferia della globalizzazione. Ma popoli ed aree marginali pagheranno dopo, alla ripresa che si concentrerà ancora di più nelle aree più forti del mondo. Così i programmi di ricostruzione penalizzeranno il nostro Sud, come era già successo all’indomani della seconda guerra mondiale quando si decise di ripartire dal Nord. Spero di sbagliarmi, ma non vedo all’orizzonte un programma che colga l’occasione storica per un riequilibrio tra Nord e Sud che converrebbe a tutti. O quasi.

da “il Manifesto”, 26 aprile 2020

Il virus sulla piaga del disastro della Lombardia.- di Piero Bevilacqua

Il virus sulla piaga del disastro della Lombardia.- di Piero Bevilacqua

Cominciamo dal nome. Perché dirigenti politici, parlamentari, intellettuali, giornalisti, perfino di alto rango, come Eugenio Scalfari, si ostinano a chiamare governatori i presidenti di regione? Per attribuirgli maggiore solennità, per far sentire il Paese Italia, che essi governano in parte, più importante e stimato nel mondo?

Tale analfabetismo istituzionale in realtà è erroneo e infondato nel primo caso, e reca danni nel secondo. In grandissima maggioranza i presidenti di Giunta regionale – come vanno chiamati, ricorda Sabino Cassese – mostrano da anni. A essere benevoli, una sperimentatitssima inadeguatezza al loro compito.

Perché innalzarli di rango? Governatori sono quelli degli Usa, a capo di veri e propri stati di una repubblica federale. Noi siamo uno stato unitario con autonomie regionali solo da 70 anni. Forzare l’immaginario istituzionale degli italiani, fa male all’Italia come dovrebbe apparire ormai evidente.

Paradossalmente, la pandemia che ancora ci sovrasta ha avuto la funzione di una sorta di sperimentazione storica vissuta in anticipo. La gestione dell’emergenza sanitaria è stata, e continua ad essere, una drammatica simulazione in vivo di cosa accadrebbe all’Italia se venisse riconosciuta l’autonomia differenziata pretesa da alcune regioni del Nord.

Se lo spettacolo di caos istituzionale a cui assistiamo, da Nord a Sud, avviene in condizioni di estremo pericolo e necessità – quelle di oggi – è lecito immaginare che in tempi normali avremmo le guerre per bande regionali. E l’Italia, dilaniata dalle contese territoriali, sarebbe finita.

Per verità storica andrebbe ricordato che la condotta erronea ( e forse anche criminale) di chi ha affrontato l’emergenza sanitaria in Lombardia è responsabile della diffusione del virus in tutta Italia e del disastro in cui versa l’intero paese.

Lo diciamo non per ingenerosa rampogna e neppure solo per consigliare a chi dirige quella regione maggiore umiltà di comportamento e spirito unitario. Ma perché la diffusione del virus dalla Lombardia all’Italia raffigura tutto il portato di scelte politiche e di modello di sviluppo che hanno fatto di quel territorio il focolaio epidemico più catastrofico d’Europa.

Non ci sono solo le scelte del presidente Fontana e dei suoi assessori, ma anche quelle di chi ha privatizzato la sanità, smantellato i presidi territoriali, concentrato le risorse in pochi centri eccellenti, accelerato il processo che trasforma la cura in industria sanitaria.

Sullo sfondo c’è lo sviluppo della Lombardia negli ultimi 20 anni: la più elevata cementificazione d’Italia, la crescita degli allevamenti intensivi e quindi del particolato nell’atmosfera, l’intensificazione chimica dell’agricoltura industriale, l’inquinamento generato dalle industrie e degli inceneritori.

Eppure sulle ragioni ambientali che fanno dell’epidemia lombarda un caso forse unico al mondo, non una parola di interrogazione e di dubbio è venuta da parte degli attuali dirigenti regionali. Una reticenza cui ha fatto eco la scandalosa, stupefacente rimozione del problema da parte degli scienziati e dei dirigenti sanitari ascoltati ogni sera in tv.

Infine una parola sulla condotta del governo. Non c’è dubbio che il blocco totale della mobilità individuale fosse una scelta senza alternative, ma oggi dovrebbe contemplare una ragionevole casistica di eccezioni. Anche se l’esecutivo ha continuato a mentire sulla totalità del blocco produttivo, continuando a produrre armi da guerra, e di recente ha acquistato 15 elicotteri da combattimento AW169M, marca Leonardo, per 337 milioni di €.

Quanto fosse necessario fabbricare nuovi ordigni per uccidere persone, per il virus già muoiono nel mondo a centinaia di migliaia, ognuno può capirlo da sé. Un saggio di come gran parte delle forze politiche intenda il ritorno alla normalità : un mero ripristino delle condizioni precedenti alla pandemia. Non sanno battere altro sentiero che quello da cui son venuti.

Tale condotta suona come un avviso alle forze democratiche che vedono nella catastrofe presente un’occasione imperdibile per cambiare radicalmente il nostro modello economico, il nostro iniquo assetto sociale. Non si può sperare che questo accada spontaneamente.

Abbiamo visto quanto poco l’ emergenza climatica turbi i sonni dei nostri governanti. Occorre che si crei, ad opera delle organizzazioni culturali più autorevoli presenti in Italia, un comitato unitario che vigili, elabori proposte, mobiliti i cittadini perché alla tragedia odierna non ne seguano altre per noi e per le prossime generazioni.

da “il Manifesto”, 24 aprile 2020

La ripartenza e le tutele dei lavoratori che mancano.- di Massimo Covello*

La ripartenza e le tutele dei lavoratori che mancano.- di Massimo Covello*

Il tempo che abbiamo alle spalle, in Calabria, per le morti sul lavoro, cosi come per l’esplosione esponenziale delle malattie professionali, è stato un “tempo horribilis” soprattutto nell’industria e nell’edilizia. Questo è quanto sancisce il rapporto Inail, presentato a fine 2019, sui dati relativi al 2018. Diverse le cause correlate: scarsa attenzione alla tutela ed alla prevenzione, vetustà de macchinari, precarietà e dequalificazione dei lavoratori coinvolti.

Su questo allarmante dato per lo più sottovalutato e mai organicamente affrontato, dal sistema imprenditoriale, dalle forze politiche, dalle Istituzioni ed anche dalle forze sociali, visto che da sempre la prevenzione e la tutela vengono considerati un costo e non una delle responsabilità sociali a cui prestare attenzione, si è abbattuta la pandemia covid-19. In un batter d’occhio il mondo si è trovato difronte a scenari apocalittici con un nemico la cui forza letale, dopo più di un mese di Lockdown, ancora si stenta ad arginare.

Esso ha messo a nudo tutte le scelte sbagliate compiute negli anni, nella nostra regione e nel nostro Paese per intanto, sul piano sanitario, ambientale, dell’organizzazione della produzione e dei servizi, dei settori ritenuti strategici. Sul piano del lavoro, cosi come su quello sociale, per tentare di arginarne l’espansione, la strategia più efficace messa in campo è stata, ed è, la chiusura temporanea delle attività considerate non essenziali. A riferimento, sia pur a maglie molto larghe come appena ieri hanno dimostrati i dati presentati dall’Istat, è stato adottato il protocollo sicurezza che il Governo ha sottoscritto con le parti sociali il 14 Marzo scorso nonché il decreto “cura Italia”.

La regione Calabria a seguito di ciò ha promosso e sottoscritto con le parti sociali un accordo istituzionale propedeutico all’attivazione degli ammortizzatori sociali con ricorso alla cassa integrazione in deroga. Tutti questi eccezionali provvedimenti stanno consentendo, con la causale covid-19, l’attivazione di 9 settimane di chiusura delle attività fino al 31 Agosto. Per dare un dato di riferimento solo nel settore metalmeccanico in Calabria, ad ora, sono intorno ai 400 gli accordi sottoscritti come Fiom-Cgil con una platea di circa 4.500 lavoratori interessati. Sono dati drammatici sotto tutti i punti di vista. In attesa che il Governo presenti l’annunciato “programma nazionale per la fase 2” da alcuni giorni, si parla di condizioni favorevoli alla ripresa delle attività e di insostenibilità del fermo.

Io penso ci sia da stare molto attenti e da valutare bene come si potrà riprendere. La realtà per come la stiamo osservando e per come ci viene segnalata dai lavoratori e dalle lavoratrici, ci dice che, nella nostra regione, manca, a tutt’oggi non si è strutturata una azione coordinata e condivisa ad ogni livello, tra le Istituzioni, le parti sociali, per l’approvvigionamento, la distribuzione e l’utilizzazione dei Dpi. Perfino chi ha dovuto continuare a lavorare, spesso l’ha fatto e lo fa senza tutte le idonee protezioni ad ogni livello, mettendo a rischio sé stesso ed i propri vicini ogni momento.

Non c’è un piano operativo e coerente di sanificazione costante degli ambienti di lavoro; non è stato per nulla predisposto né definito un piano di mobilità pubblica e privata efficace alla prevenzione dei contagi; non esiste un piano per lo smaltimento dei rifiuti speciali covid-19. Mentre nelle pochissime grandi fabbriche presenti nella nostra regione si è proceduto ad accordi, nazionali ed aziendali, sulla ripresa con precise scelte riorganizzative, purtroppo non ci risulta che nelle migliaia di piccole aziende, parliamo del 90% di quelle calabresi, con pochi dipendenti già spesso ubicate in locali con problemi di areazione, adeguatezza degli spazi, qualità dei servizi igienici ed uso dei normali indumenti di salvaguardia, si sia provveduto a rivedere il tutto. Se per davvero si intende superare la situazione, non si tratta di ritornare al prima. Il covid-19 ha cambiato tutto.

Se si dovrà convivere con esso, non sapendo per quanto tempo e non si ritiene cinicamente la morte delle persone al lavoro un danno collaterale, nulla potrà essere come prima. Servono investimenti, tecnologia, formazione, assunzioni nei servizi di controllo, orientamento, tutela e soprattutto una nuova cultura sociale del lavoro. Serve consapevolezza e condivisione. In primo luogo delle parti sociali e delle Istituzioni. Si deve capire che le piccolissime imprese, individuali, artigiane devono essere accompagnate orientate, ed assistite non solo finanziarimente ma con servizi, aiuti di filiera, progetti di innovazione, perché non pensino che solo con la riduzione dei costi, con la precarizzazione, la flessibilità e spesso con l’evasione possano competere e salvarsi.

Servono, insomma, quelle politiche industriali diventate chimera nel Paese ed in Calabria per preservare la buona impresa ed evitare la perdita di migliaia di posti di lavoro. Le persone prima di tutto ed un nuovo modello produttivo che non consideri il lavoro e le persone delle semplici merci, anche perché non ci sono scorciatoie quando il nemico ha le caratteristiche del covid-19 .

*Segretario regionale della Fiom Cgil Calabria
da “il Quotidiano del Sud”, 23 aprile 2020

Foto da buongiornonovara.com

Lo Stato unico antidoto ai sovranismi regionali.- di Gianfranco Viesti

Lo Stato unico antidoto ai sovranismi regionali.- di Gianfranco Viesti

In grande evidenza, nell’agenda politica dei prossimi mesi, dovrebbe esserci una profonda riflessione sul regionalismo. Cioè su come funziona oggi l’Italia. Per quel che sta accadendo sotto i nostri occhi in piena emergenza Coronavirus: i particolarismi che rendono più difficile una strategia unitaria, sanitaria ed economica; gli snervanti ping pong sulla libera circolazione fra regioni. Eccessi di protagonismo, continue polemiche, crescenti contrapposizioni territoriali.

Non sono problemi che nascono con l’epidemia: sono spie di squilibri e distorsioni presenti da tempo. E non sono solo il frutto degli assetti giuridico-amministrativi: sono spie delle difficoltà di fondo nel funzionamento del nostro paese. Perché ripensare profondamente al regionalismo? Per più motivi.

1) La capacità del “centro” di esercitare le proprie funzioni di indirizzo, di raccordo, di garanzia dei diritti dei cittadini è molto debole.
Le Amministrazioni Regionali strabordano anche perché le capacità politiche del Parlamento, in rappresentanza di tutti gli Italiani, quella dell’esecutivo, quella tecnica ed amministrativa delle istituzioni centrali, vengono esercitate poco e male. Molto sui dettagli, poco sui principi e sulle scelte di fondo. Un ampio regionalismo ha bisogno di un centro forte e intelligente: se questo manca diviene frammentazione e confusione. E’ opportuno ri-centralizzare alcune competenze? Probabilmente sì; ma prima di farlo, bisognerebbe essere certi che poi vengano esercitate.

2) Il profondo indebolimento dei partiti, ricordato ieri su queste colonne da Alessandro Campi, e l’assenza di visioni politiche sulle grandi scelte che l’Italia deve compiere fa sì che il raccordo fra le concrete scelte, nazionali e regionali, sia sempre più debole. Nelle regioni tante politiche pubbliche – anche da parte di governi dello stesso colore di quello centrale – non sono l’adattamento e la utile differenziazione per i diversi contesti delle scelte generali; che spesso mancano. Con alcune eccezioni, sono troppe volte un fai-da-te. Soggetto, come si è visto chiaramente in questa crisi, a fenomeni di cattura e di condizionamento da parte di interessi locali. Mirato a garantire il successo di breve termine al personale politico regionale; soprattutto ai Presidenti, questi moderni “shogun” (come li definisce Sabino Cassese), che giocano sempre più in proprio.

3) In questo contesto, il regionalismo si è distorto: più che garantire le autonomie è divenuto lo strumento principale per la lotta per le risorse pubbliche fra i diversi territori. Già dall’inizio del secolo, ma ancor più nell’ultimo decennio, scopo delle Amministrazioni Regionali è stato quello di assicurare a sé stesse la quota più ampia possibile delle decrescenti risorse pubbliche. Di dar corpo al leghismo, inteso nella sua accezione più ampia: più a me, meno a te; un obiettivo per molti versi raggiunto.

Nell’incapacità di Parlamenti e Governi di affrontare il grande tema dei “livelli essenziali delle prestazioni”, cioè dei diritti che devono essere garantiti a tutti gli Italiani, e dei principi che devono concretizzarli, il concreto potere decisionale si è spostato nelle stanze, spesso oscure, delle Conferenze delle Regioni. Dove quelle più forti e ricche hanno sbaragliato quelle più deboli. Più capaci tecnicamente e più determinate politicamente, le regioni del Nord (tanto quelle governate dalla Lega quanto quelle di centrosinistra) hanno volto a proprio favore ogni scelta: nell’insipienza di quelle del Sud, spesso assenti nelle discussioni sulle grandi politiche, attente solo a vedersi garantite risorse da impiegare discrezionalmente. Proprio la sanità lo dimostra: con l’accentuarsi di un divario enorme, che non c’è in nessun altro paese europeo, di dotazioni, finanziamenti, personale. Non è mai diventato un problema politico nazionale; né è stato più di tanto sollevato dai “perdenti”, attenti soprattutto alla gestione. Ci si è assuefatti all’assurda idea che chi vive in alcune regioni debba andare in altre a curarsi.

4) L’incredibile vicenda del “regionalismo differenziato” è stata specchio di tutto questo. Con il tentativo delle Amministrazioni Regionali di accaparrarsi quanti più poteri e competenze possibile, indipendentemente dalla materia e della logica d’insieme. Con l’esplicita campagna lombardo-veneta per farne il veicolo per assicurarsi ancora più fondi, sottraendoli agli altri territori. E con l’assordante silenzio della politica e dei residui partiti nazionali, distratti rispetto ai rischi di frammentazione del paese, di ulteriori disparità nei diritti dei cittadini; attenti a non contrariare i propri referenti politici, i propri portatori di voti, locali.

5) Si è così rafforzato il sovranismo regionale. L’idea che i cittadini siano tutelati non dal Parlamento, da leggi giuste, da principi comuni, ma dai propri rappresentanti territoriali. In lotta con gli altri per i soldi, potenti in casa propria; a cui rivolgersi per ogni problema. Un sovranismo che combatte verso l’alto, con le amministrazioni centrali; e che schiaccia – con il potere delle norme e delle risorse – i Sindaci e le città: molto più vicine alle effettive esigenze dei cittadini. L’idea, banale, che per fare il bene dei lombardi, basti dare forza, soldi, potere agli amministratori del Pirellone; la convinzione, come si è visto smentita drammaticamente dai fatti, che per tutelare la loro salute non si dovesse rafforzare il Servizio Sanitario Nazionale, ma accrescere il potere decisionale locale.
Insomma, c’è certamente un problema di assetti giuridici ed amministrativi. Ma, prima e ancor più, c’è un tema di fondo: l’eccesso di frammentazione e protagonismo delle Regioni è frutto dell’indebolimento complessivo del paese, delle sue capacità politiche, del suo senso di comunità nazionale.

da “il Messaggero”, 21 aprile 2020

Foto di ElisaRiva da Pixabay

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

Il presidente della Regione Santelli ha deciso di impedire alle Asp di fornire le notizie riguardanti l’epidemia in corso, in ordine sparso, ma di raccoglierle e darle per mezzo di un unico bollettino emanato dalla Regione Calabria. La decisione, per quanto dal tenore un po’ troppo autoritario, non mi ha irritato più di tanto perché l’ho attribuita ad una necessità di coordinamento e di validazione delle notizie. Non accetto, però, la totale assenza di informazioni riguardanti lo stato, già poco rassicurante in tempi normali, della Sanità calabrese alle prese con la pandemia.

Al netto della sempre più incomprensibile ed inquietante vicenda della RSA di Torano, potrei, potremmo tutti noi calabresi, sapere quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale? Quanti guariti ci sono per ricoverati? Corrisponde al vero che, come ha scritto “la Repubblica”, il contagiato numero 1, il sessantenne di Cetraro, è morto dopo 40 giorni di degenza solo perché non è arrivato in tempo un pacemaker? Quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio? Quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria?

Sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio e, se sì, in quali territori? Sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione? Sono state attivate, come in Emilia-Romagna, sinergie con il privato per il prelievo e le analisi dei tamponi e, in seguito, del sangue, atteso che, purtroppo, lo Stato non ha strutture sufficienti per farlo? Sono state realizzate residenze per tutti quei sanitari in prima linea che non vogliono contagiare la propria famiglia tornando a casa, per convalescenti ancora infetti e per contagiati asintomatici? Quanti tamponi sono stati eseguiti e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita?

La Regione Calabria ha preparato un programma di prelievo sierologico, quando ce ne sarà uno definitivamente approvato? Sono state create residenze per la quarantena dei poveri calabresi emigrati che sono stati licenziati dalle aziende del nord o che hanno perso un lavoro precario o in nero e che non possono nemmeno tornare a casa, come hanno testimoniato le molte disperate lettere meritoriamente raccolte da Annarosa Macrì nella sua rubrica, su questo giornale?

Se si fosse voluto esser coerenti con l’autocertificazione di calabresi accoglienti che ricevono “l’altro” sempre con un mitopoietico “trasite, favorite…”, non si sarebbe dovuta levare, dai social, quella canea contro gli sconsiderati untori che tornavano dal nord a infettare la Calabria, ma si sarebbero studiate delle strategie per far trascorrere loro una quarantena in sicurezza nei tantissimi alberghi vuoti della nostra Regione. Possiamo ancora farli tornare, questi poveri disoccupati, studenti, precari e lavoratori in nero che non reggono più, economicamente e sentimentalmente, questa lontananza.

Non sembrerebbe esistere, dunque, alcun “modello Calabria” perché le uniche misure adottate contro la pandemia sono quelle dell’isolamento fisico che sembrerebbero, qui, più efficaci che altrove a causa della bassa e lasca densità abitativa e della consapevolezza, terrorizzante, di risiedere in una regione particolarmente arretrata da un punto di vista sanitario.

Il presidente Santelli, la sua giunta, il suo Comitato tecnico-scientifico, il direttore della Protezione civile hanno una strategia o, almeno, un programma per la cosiddetta Fase 2, quella nella quale, a partire dal 4 maggio, si dovrebbe iniziare a “riaprire” le attività? Se la risposta alle domande che ho fatto sopra sarà negativa o dubitativa, credo che saremo davvero nei guai perché quando il Governo disporrà una riapertura, anche parziale, non si potrà più opporre una ordinanza di “chiusura” della sola Calabria, intanto perché, come ha già scritto Sabino Cassese a proposito delle molte ordinanze regionali e nazionali di queste ultime settimane, potrebbe essere anticostituzionale e poi perché non può durare per sempre. Presidente Santelli, per favore, non si faccia trovare con in mano solo l’arma dell’isolamento, potrebbe essere scarica.

da “il Quotidiano del Sud”. 20 aprile 2020

Foto di Jeff Balbalosa da Pixabay

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

Se c’è una cosa che gli eventi di questi giorni fanno emergere in maniera chiara è la conferma dello spessore della visione politica che, nella seconda metà del Novecento, ha prodotto un sistema sanitario solidaristico ed universale e cioè assistenza e cure per tutti, senza alcuna distinzione sociale e senza oneri perché finanziate dalla fiscalità generale. Il servizio sanitario pubblico Italiano nel quale chi ha di più garantisce – attraverso una tassazione proporzionalmente progressiva – lo stesso servizio a chi ha di meno o non ha niente.

Al netto di lacune ed insufficienze – di cui diremo dopo -l’emergenza non ha fatto differenze tra classi o tra chi ha possibilità economiche maggiori di altri.

E ciò introduce alcuni temi che trovano in Calabria il loro esempio paradigmatico.

Il primo: la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico. Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Vediamo in questi giorni il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni. Un danno che viene contenuto solo dalla solidità strutturale del sistema e dalla straordinaria abnegazione degli operatori sanitari.

Il diritto alla salute è previsto nella Costituzione, all’art. 32, mentre in nessuna parte della Carta sta il richiamo ad un primato dei conti pubblici. Ed è bene che in un momento come questo l’abbia detto -esplicitamente – il presidente del consiglio, perché il fatto che tutto, anche i principi costituzionali ,la sanità in primis,siano trattati come merci è una vergogna che non deve più sentirsi.

Diritti costosi,ed infatti previsti a carico dello Stato ,perché i ricavi da essi prodotti non sono inscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto ,essendo fatti di cultura ,senso civico, ,conoscenze, benessere,in un ideale -ma ben percepibile -bilancio istituzionale e politico.

Il secondo tema, conseguenziale: lo Stato deve mettere a disposizione i fondi necessari per far fronte ai fabbisogni e laddove sono riscontrati deficit di bilancio nel settore – come in Calabria – si devono individuare e tagliare gli sprechi,perseguendo e sanzionando i responsabili ed i ladri, e non limitare le prestazioni con la politica mercantilistica dei budget o “ acquisti di prestazioni” ( terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello Stato,cioè di un loro diritto) che,inevitabilmente,provoca aumento della lista d’attesa ed emigrazione sanitaria.

I commissariamenti, è dimostrato, non servono a niente, men che meno ad abbattere il debito, anzi lo aumentano. Servono, eccome,a creare un centro di potere permanente ed estraneo al circuito democratico espropriando la responsabilità del governo della sanità che spetta al governo ed all’assemblea regionali.

Il terzo tema: la rete ospedaliera. In Calabria, da dieci anni gli unici (asseriti) rimedi al deficit sono stati – per decisione di boiardi e generali in pensione nominati commissari – la chiusura di ospedali in zone disagiate, il blocco delle assunzioni e i tagli delle risorse. Il tutto senza alcuna azione di rigenerazione complessiva come avrebbe potuto essere quella di potenziare i servizi territoriali, la specialistica ambulatoriale, l’urgenza emergenza, iDEA. Come se la creazione di un ospedale hub si possa fare per decreto e non in seguito alla elaborazione ed implementazione di un progetto. Eppure è così, così è stato .

Il quarto tema, i privati. Se ne è avuto un coinvolgimento modesto in questa fase di crisi, perchè per anni si è alimentato un sistema in cui le strutture serie e di eccellenza sono state mortificate con riduzione di posti letto e tagli lineari lasciando ingrassare le nicchie dei profittatori. Eppure in teoria il sistema è semplice. Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano pubblica e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici ed organizzativi degli ospedali pubblici . Esse devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme.

Se ben guidata da una classe dirigente seria ed all’altezza del compito sarebbe una integrazione virtuosa che inevitabilmente farebbe aumentare la qualità e diminuire i costi per la comunità. Ma questa è roba per la Politica con la P maiuscola, non per i viceré mandati dai capibastone a rastrellare qualche milione sul fondo destinato alla tutela della salute di cittadini, come avviene da dieci anni in Calabria nella indifferenza della quasi totalità dei parlamentari calabresi nominati dagli stessi capibastone. La lezione di questi giorni è dura ma forse può servire per chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire.

L’ultimo tema è l’indicazione pratica che ci viene dai difficili giorni che stiamo vivendo: la salute dei cittadini di una nazione non può essere regionalizzata. Ai problemi portati dal virus si sono aggiunti i disagi derivanti dai comportamenti dagli atteggiamenti e dalle disposizioni diverse della politica locale.

Noi lo diciamo da anni, ma ora il re e’ nudo: la tutela della salute e’ un diritto fondamentale garantito ad ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri per poter assicurare benessere e dunque efficienza ,efficacia ai cittadini che così possono produrre cultura idee,formazione ,e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita ,giusta ed equilibrata del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve e’questa :sostenere la scuola,tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Dunque, occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.

Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla sciagurata idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, in presenza di un fenomeno come quello del potenziale contagio definito per “focolai”, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

Si tocca con mano, oggi, si avverte chiaramente sulla pelle ,e non nelle parole di un talk show, che i diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.

Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

da il Quotidiano del Sud, 12 aprile 2020

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

È in corso da anni, anche nel settore dei Beni culturali, una violentissima battaglia ideologica per sopprimere le strutture e le prerogative dello Stato, conforme all’ideologia dello Stato leggero posto al servizio del mercato che, secondo il pensiero unico neoliberista, si autoregolamenterebbe. Abbiamo avuto modo di vedere, come nel caso della pandemia in corso, quanto ingannatrici e portatrici di sventure fossero le sirene liberiste nelle privatizzazioni, nella precarizzazione del lavoro, nelle liberalizzazioni e nella globalizzazione.

Si vuole convincere, con ogni mezzo di comunicazione di massa, la pubblica opinione dell’insufficienza e dell’incapacità da parte dello Stato di custodire e, soprattutto, di valorizzare il Patrimonio storico e artistico lasciatoci dai nostri progenitori. Quel Patrimonio così strettamente legato al nostro sentirsi italiani da essere protetto, caso quasi unico nel mondo, da un articolo della Costituzione della Repubblica: l’articolo 9. Perché dovremmo pensare che il legato storico e ambientale dei nostri progenitori sarebbe meglio custodito e valorizzato se fosse affidato alle mani dei privati?

Un paio di settimane fa, Pierluigi Battista ha scritto un articolo sul Corriere della Sera per sollecitare un “piano di salvezza culturale nazionale” derivante dalla difesa settoriale resasi necessaria per l’epidemia causata dal coronavirus e che ha, tra l’altro, fatto precipitare la relativa domanda. Battista ha fatto bene a richiamare l’attenzione sul Patrimonio culturale italiano, perché non v’è settore, sociale ed economico, che non debba e non possa essere salvato.

L’epidemia ha messo in crisi tutti i settori e sul piano normativo si è concesso di continuare a operare nei propri “mercati”, con riferimento ai circuiti completi, sostanzialmente solo alla sanità e ai negozi di generi alimentari. Tuttavia, non meravigliano i richiami di attenzione settoriale perché tutti i settori sono negativamente influenzati dalla crisi economica generale derivante dalla pandemia. D’altro canto, il riferimento ai “teatri, musei, librerie, siti archeologici, orchestre” non ci sorprende, sia per il generale sentito richiamo che proviene da tutti i settori, sia per la nota rilevanza anche economica che questo settore ha nel nostro Paese.

Tuttavia, gli aspetti citati dal giornalista, nel suo generico articolo, ci lasciano perplessi. Molto in sintesi, l’articolista, per la salvezza dei musei, dei teatri, dei cinema e di altro ancora, non considera che il declino della domanda settoriale e della mancanza di “consumo” non riguarda solo l’Italia, ma pure il resto del mondo. L’articolo citato, così come anche gli immediati favorevoli commentatori (FAI, Federculture, Teatro dell’Opera di Roma, due deputati, Biennale di Venezia e la Fondazione MAXXI), sembra resti legato a una antica quanto erronea convinzione teorica dell’economica.

Un noto economista francese, nei primi anni del XIX secolo riteneva che fosse l’offerta a determinare la domanda. Se ciò si ritenesse vero, allora sarebbe sufficiente la ripresa delle manifestazioni citate, curando, sostenendo, l’offerta che da sé determina una eguale domanda. Come? Anche in questo caso si adopera, da parte dei propositori, un linguaggio confusionario ed improprio, lasciando che siano, poi, gli esperti a meglio definire gli strumenti.

L’indicazione di massima proposta nell’articolo citato è un non meglio definito ‘Fondo Nazionale per la Cultura’, oppure un ‘Prestito Nazionale’, ma, ancora, anche ‘Cultura Bonds’. ‘Prestito Nazionale’, fu termine molto adoperato nell’epoca dell’obbligo degli italiani a finanziare la prima guerra mondiale, i Bonds il più delle volte risultano strumenti del debito pubblico. Quindi, quali caratteristiche avrebbe un ‘Fondo Nazionale’? Neanche questo ci è chiaro, non solo perché nell’articolo si rinvia alla conoscenza tecnica degli economisti, ma anche per la inquietante presenza nel ‘Fondo’ di istituzioni private.

Insieme al ‘Fondo’ vengono sollecitate, inoltre, generiche politiche governative, defiscalizzazioni, diretta assistenza, “polmoni finanziari”. Insomma, si diano soldi al ‘Fondo’ e se poi non si riesce “a tenere in vita quel polmone”, come del resto già non si riesce con ‘Art Bonus’, pazienza. Occorrerà, comunque, compensare coloro che han fatto prestito, magari con una cessione di parte o, addirittura, di tutto il Patrimonio culturale.

La sola possibilità di una apertura ad un qualsivoglia genere di privatizzazione -non esplicitata, ma sottilmente sottintesa- non solo ci vede del tutto contrari, ma sarebbe in netto contrasto con il dettato dell’art. 9 della Costituzione che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 aprile 2020

Foto di Kent DuFault da Pixabay

È sul territorio che bisogna combattere.- di Piero Bevilacqua

È sul territorio che bisogna combattere.- di Piero Bevilacqua

L’Organizzazione Mondiale della Sanità torna a ripetere che l’uso generalizzato delle mascherine è inutile. È evidente dunque che se si comincia a non dare ascolto agli oracoli di questa istituzione si possono compiere dei passi in avanti nella strategia di contrasto al Covid 19.

Partiamo dalle mascherine. Proviamo a immaginare che a breve potremmo averne in numero sufficiente per un uso quotidiano, anche semplicemente quelle usate in chirurgia. Ebbene, su che logica si regge l’affermazione che esse servono solo a non infettare gli altri, e dunque non a proteggere chi la porta? Se la portiamo tutti nessuno sparge il virus, chi è positivo lo tiene per sé, e limita la diffusione. Anzi la spezza. Perché sarebbe inutile portarla anche all’aperto? Se io mi trovo a passare sulla scia di un infettato, che è passato davanti a me, anche mantenendo la distanza di sicurezza, io posso respirare, mentre passo, il nugolo di virus che galleggia nell’aria, mantenuto in sospensione soprattutto dal particolotato ( come affermato da tanti scienziati inascoltati).

E in Lombardia – per stare in tema – che vanta il più alto tasso di cementificazione degli ultimi decenni, di particolato nell’aria ce n’è in abbondanza, fortunatamente calato di recente per la diminuzione del traffico veicolare. Quindi portare tutti le maschere sarebbe assai utile, e anche se il virus dovesse filtrare da mascherine chirurgiche, avrebbe un potere di diffusione evidentemente assai ridotto. Il virus rimane nei soggetti portatori e non si sparge nell’ambiente. È poco?

Alla curiosa a tesi dell ’Oms secondo cui l’uso della mascherina indurrebbe i cittadini ad abbassare la guardia, si può facilmente replicare – senza voler difendere più di tanto l’intelligenza degli italiani – che anche il distanziamento sociale potrebbe indurre le persone ad attenuare la sorveglianza, a non lavarsi le mani, ad entrare senza mascherina negli ospedali e nei luoghi chiusi dove sono stati potenziali positivi privi di mascherina.

Dopo un mese di quarantena totalitaria, i milioni di italiani che non si sono ammalati, sono evidentemente tutti sani, non hanno il virus, tranne una frazione di qualche migliaio che si infetta ogni giorno. Dunque, il 99 virgola qualcosa per cento è sano e certamente deve osservare tutte le disposizioni governative oggi in vigore. Ma allora dobbiamo chiederci: a quale tipo di strategia ubbidisce l’idea di impiegare tante energie per censire, tramite test sierologici, qualche centinaio di migliaia di guariti, senza peraltro avere la certezza assoluta della loro conseguita immunità?

Per far circolare una frazione infinitesimale di persone teoricamente immuni? Perché non inviare i sanitari presso le famiglie di tutti coloro che risultano quotidianamente positivi per fare i tamponi ai familiari e provvedere al loro isolamento?

In questo modo si capovolge la logica dominante. Non siamo tutti potenzialmente malati, siamo al contrario tutti sani, e la frazione che si ammala va soccorsa, ma senza dimenticare la sua provenienza familiare e territoriale. E lì che si combatte la lotta, sempre più nel territorio e sempre più limitatamente negli ospedali, se si vuole arginare la diffusione dei nuovi casi. Un controllo di questo tipo, con strumenti tecnologici che non mancano, potrebbe rendere meno inquietanti le prospettive future.

il Manifesto, 10 aprile 2020
Foto di Reimund Bertrams da Pixabay

Manifesto per il “dopo”. Quando la pandemia sarà finita.

Manifesto per il “dopo”. Quando la pandemia sarà finita.

Il Virus Covid 19 infuria in grandissima parte dei paesi e sembra non volersi placare se non dopo aver toccato l’ultima contrada del pianeta. Abbiamo davanti la più grave emergenza sanitaria della storia umana, dopo la Spagnola. Negli ultimi tempi, di fronte alla minaccia globale del riscaldamento climatico, abbiamo assistito alla sostanziale indifferenza dei poteri dominanti. Tutto è continuato come prima, perché il rischio appariva lontano, non portava danni immediati al processo di accumulazione capitalistica. Oggi la pandemia, che si diffonde quasi con la velocità dei flussi finanziari mondiali, ha messo in scacco la crescita, ha fermato la grande giostra e rischia di schiantarla. La vastità dell’evento e la radicalità delle sue implicazioni, i morti e la distruzione di ricchezza, impongono che dopo la grande tempesta nulla sia più come prima.
Indichiamo alcuni punti di necessaria, radicale trasformazione dello status quo.

1) Il potere pubblico deve tornare a riacquistare centralità. L’emergenza sanitaria ha dimostrato in Italia e nel mondo, il suo ruolo insostituibile. Occorre riporre nella teca dell’antiquario l’intero armamentario della cultura neoliberista. Lo stato nazionale e a maggior ragione l’UE, devono tornare a essere agenti di investimento, dotati di una politica economica che risponda ai bisogni e ai diritti collettivi.
2) Un posto di rilevo spetta alla sanità. Il suo finanziamento, il suo carattere pubblico, la sua equa distribuzione nel territorio, devono essere posti al centro dell’azione di governo. Una sanità equa è una delle leve per rendere omogeneo il welfare del Mezzogiorno con quello del resto del Paese. Il Sud ha subito una distribuzione iniqua delle risorse pubbliche, che ha allargato il divario col CentroNord. Si dovrà cancellare dal calendario politico ogni ipotesi di autonomia differenziata e rivedere il rapporto stato-regioni.
3) Auspichiamo un sistema sanitario europeo che darebbe un grande contributo al processo di unificazione dell’Unione, tramite questo pilastro fondamentale del welfare.
4) Occorrono più risorse pubbliche. Per questo s’impone una vasta operazione di giustizia sociale non più rinviabile. Oggi, mentre gran parte dei cittadini italiani non può uscire di casa, tanti altri non hanno di che mangiare. Occorre un rapido riequilibrio nella distribuzione della ricchezza e un sistema fiscale progressivo, che renda permanente tale distribuzione.Il che richiede anche l’introduzione di una tassazione patrimoniale che colpisca le grandi ricchezze, con una franchigia che salvaguardi i bassi redditi e il piccolo risparmio.
5) Occorre finanziare generosamente la Ricerca. L’Italia è agli ultimi posti dei paesi europei per quota di Pil ad essa dedicati. Soprattutto quella di base e nelle scienze umanistiche. I dipartimenti universitari sono stati sempre più “invitati” o costretti, per sopravvivere, a trovare essi i finanziamenti dalle imprese che, ovviamente, prediligono quei temi più spendibili sul mercato. Occorreranno più risorse, molte delle quali andranno investite nella scuola. Ma non per favorire le piattaforme informatiche delle multinazionali e i venditori di computer, suggerendo che la didattica online, praticata nella fase dell’emergenza, debba diventare l’unica e magari la migliore didattica. L’alfabetizzazione digitale della popolazione appartiene alla ragione strumentale, non alla formazione che invece deve tornare ad essere impegno della scuola come formazione alla solidarietà, alla cooperazione, alla cittadinanza attiva e responsabile, alla democrazia: tutti valori indispensabili a ricostruire il mondo del futuro.
6) La necessità di maggiore risorse finanziarie pubbliche richiede una revisione del bilancio statale. Non è più possibile, in un’epoca in cui la vita umana appare così fragile e a rischio, mentre il pianeta mostra segni inquietanti di collasso, accettare che miliardi di danaro pubblico finiscano ogni anno nella costruzione di cacciabombadieri, di portaerei, bombe e armi varie. I nostri soldi messi al servizio di ordigni che produrranno morte, distruggendo abitati, territori paesaggi, beni artistici.
7) Non siamo più disposti ad accettare alcuna Realpolitik. Consideriamo assurdo ritenere razionale tutto ciò che è reale. Sappiamo bene che a tali spese ci obbligano i trattati internazionali, ma proprio per questo occorre metterli in discussione. Se la democrazia deve rappresentare il volere popolare, questo deve poter mettere in discussione la logica bellica dei poteri sovranazionali. Occorre perciò uscire dalla NATO, denunciarla come la centrale del disordine internazionale degli ultimi 20 anni, un costosissimo strumento del potere geopolitico americano e niente di più. Ripugna a qualunque mente non asservita, l’idea di una istituzione che utilizza ingenti risorse per distruggere e devastare, mentre la Terra necessita della nostra cura, e occorre salvarsi da squilibri planetari sempre più minacciosi.
8) Le pandemie non provengono solo dagli animali selvatici. Non accorre andare nella Foresta amazzonica per trovare focolai di future possibili pandemie. Gli allevamenti intensivi degli animali, nei nostri territori e nelle nostre stalle – che inquinano terre e acque e alterano il clima – hanno già causato migliaia di morti, oltre che ingenti danni economici: la BSE, la Salmonella DT 104, l’ Escheria coli 0157, ecc. Solo il caso oggi ci difende dal passaggio all’uomo delle innumerevoli malattie che spesso devastano questi allevamenti.
9) Occorre perciò cambiare la Politica Agricola Comunitaria (PAC), che oggi finanzia le agricolture industriali e i grandi allevamenti inquinanti, mentre distribuisce briciole ai contadini e nulla fa per proteggere i braccianti migranti, sfruttati come schiavi, senza i quali nessun prodotto arriverebbe sulle nostre tavole. Ma occorre anche diffondere una nuova cultura alimentare, che limiti il consumo delle carne, da considerare nociva per la salute nella situazione attuale).
10) La ricostruzione dell’economia e della vita civile e sociale nella fase post pandemica richiederà il contributo più largo possibile del lavoro umano a tutti i livelli e in tutti i campi. Per questo proponiamo, come hanno fatto altri paesi europei, di regolarizzare gli immigrati e dare loro un lavoro pienamente tutelato, in agricoltura come nell’industria e nei servizi, come pure forme di servizio civile volontario, anche su scala europea, dei giovani che abbiano terminato il loro corso di studi.
11)Il carattere globale della pandemia, così come il riscaldamento climatico, mettono in luce il carattere antiquato dell’attuale assetto degli stati nazionali in reciproca competizione, quando non in reciproco conflitto armato. Il nostro fragile destino comune domanda oggi una nuova logica di governo del mondo, fondato sulla cooperazione, per gestire insieme le ardue sfide che attendono l’umanità tutta intera.

Le firme vanno inviate a scandurraenzo@gmail.com

Ti invitiamo, se sottoscrivi questo appello, a fare una donazione al manifesto, quotidiano, tramite bonifico bancario sul conto intestato a il nuovo manifesto società coop editrice, IBAN: IT84E0501803200000011532280 – Codice BIC: CCRTIT2T84A, con la motivazione “contributo per la l’acquisto di pagina per il Manifesto per il “dopo”

Piero Bevilacqua, Laura Marchetti, Tonino Perna, Enzo Scandurra, Ignazio Masulli, Andrea Ranieri, Luigi Ferraioli, Tomaso Montanari, Battista Sangineto, Adriano Labbucci, Maria Pia Guermandi, Alberto Ziparo, Luigi Vavalà, Paolo Favilli, Giuseppe Saponaro, Franco Novelli, Rossano Pazzagli, Francesco Trane, Carlo Cellamare, Aldo Carra, Domenico Rizzuti, Ginevra Bompiani, Pietro Caprari, Roberto Budini Gattai, Massimo Veltri, Amalia Collisani

Foto di Free-Photos da Pixabay

Pandemia e animali, i focolai degli allevamenti industriali.- di Piero Bevilacqua

Pandemia e animali, i focolai degli allevamenti industriali.- di Piero Bevilacqua

Come per la Sars, esplosa in Cina a inizio millennio, il contatto con gli animali selvatici sembra sia all’origine della malattia che attacca i polmoni. Dovremo perciò evitare in avvenire le pratiche e le occasioni che portano ad avere rapporti con tali creature.

Raccomandazioni ormai ovvie. Ma basta questo? Noi dimentichiamo che proprio in casa nostra, non nella giungla amazzonica o nelle campagne della Cina, coltiviamo focolai di malattie potenzialmente epidemiche. Chi si ricorda delle epidemie legate agli allevamenti intensivi europei, come l’ Encefalopatia Spongiforme Bovina (Bse), quella prodotta dalla Salmonella DT104, dall’Escheria coli 0157, ecc.?

Andrebbe ricordato che l’industrializzazione degli allevamenti, che ha consentito la produzione e il consumo di massa di carne nelle società affluenti, è stata pagata con una vera e propria esplosione delle malattie tra gli stessi animali. Esemplare la testimonianza di un autorevole veterinario, Giovanni Ballarini: “Le malattie dei polli, che superficialmente mi erano state insegnate all ‘Università, si potevano contare sulle dita di una mano: dopo solo dieci anni erano diventate quasi una disciplina e si andavano”frantumando” in una complessa varietà di patologie, ognuna tipica di una determinata tecnologia di allevamento, tipo di alimentazione, razza e varietà di animale” (L’animale tecnologico 1986).

Malattie degli animali che si manifestavano e restavano nelle aziende, ma che potevano anche dilagare all’esterno in forme impreviste. Lo stesso Ballarini, in un testo del 1979, Animali e pascoli perduti, metteva in guardia dal pericolo dell’allevamento intensivo dei bovini, che definiva una vera e propria bomba biologica. Nelle nuove stalle il continuo ricambio dei vitelli per le necessità della produzione industriale di carne, comporta l’immissione continua di nuovi capi, provenienti da ogni angolo del mondo. Una novità rispetto a tutta la precedente storia degli allevamenti, che porta dentro le stalle, con le bestie, nuovi batteri, insetti, virus.

E’ vero, che ieri e ancor più oggi, gli animali sono sottoposti ad accurata disinfezione, ambienti sono sterilizzati. Ma è proprio l’intervento di queste molecole chimiche di contrasto, ricordava sempre Ballarini, che può indurre qualche batterio o virus, capace di resistere ai trattamenti attraverso una mutazione genetica, a diffondersi nell’ambiente umano. Il fatto che non accada di frequente, che, ad esempio, tante malattie, come il temibile Circovirus suino, rimanga confinato ai maiali, si deve al caso e comunque a ragioni che la scienza – onnipotente solo nell’immaginazione degli ingenui – non conosce sino in fondo.

Del resto, si deve solo al caso se i cittadini europei sono scampati a un vero e proprio sterminio di massa. E’ il rischio che abbiamo corso, e per un momento temuto da alcuni scienziati: la possibilità che il prione, dell’encefalite bovina, potesse insediarsi nel sistema ghiandolare delle mucche, e quindi trasmettersi con il latte all’uomo. Che cosa, se non il caso, ha voluto che quel batterio killer restasse confinato nel cervello dei bovini?

Tuttavia la causalità con cui il Covid 19 dai pipistrelli è passato all’uomo non è della stessa natura di quella dipendente dal contesto degli allevamenti intensivi. Questi ultimi costituiscono una strategia economica delle imprese dell’agrobusiness per fare della produzione di cibo una lucrosa fonte di profitti. E occorre rammentare che questo sistema di produzione oggi appare per più versi insostenibile. Gli animali allevati nel mondo, passati da poco più di 7 miliardi del 1970 a oltre 24 miliardi del 2011(dati FAO), oggi sono forse raddoppiati.

Un numero comunque enorme, che già nel 2006 occupava per il “pascolo” il 26% della superficie terrestre, richiedendo l’occupazione di un altro 33% dei terreni agricoli per la produzione di mangimi. Cosi mentre nei luoghi in cui gli animali risiedono vengono inquinati con i liquami vasti tratti di territorio, le acque profonde e di superficie, liberando nell’aria metano e altri gas serra, nelle vaste pianure del Brasile, dell’Argentina, degli Usa, la superficie agricola è occupata da monoculture industriali di mais e soia ogm, che sottrae terre ai contadini e inquina il suolo. (A.Y.Hoekstra, The water footprint of modern consumer society, 2013).

In questo momento siamo allarmati dalla pandemia del Covid 19. Ma quanto accade oggi non ci deve far dimenticare che la nostra società poggia su un sistema di produzione del cibo gravido di rischi futuri.

A questo sistema è poi legata, una malattia non contagiosa, ma che negli anni, con gradualità, si è diffusa come una pandemia mortale: il cancro. Se si pensa con disincanto a questo aspetto, si comprende quanto i cittadini europei possono fare per cambiare le cose: sia mutando il proprio stile alimentare, sia lottando contro la politica agricola dell’Ue, che finanzia l’agricoltura inquinante e lascia le briciole ai contadini e agli agricoltori biologici.

il Manifesto, 7 aprile 2020
foto:©Ingimage

La raccolta firme «Riapriamo le librerie»: l’appello (virale) degli scrittori. – di Nino Dolfo

La raccolta firme «Riapriamo le librerie»: l’appello (virale) degli scrittori. – di Nino Dolfo

Un libro è capace di farti sparire la stanza attorno mentre leggi. I questi giorni di quarantena e di domicilio coatto in seguito all’emergenza coronavirus, sono un bene ancora più primario. Piccoli oggetti di sogno e di fuga, di ricreazione e nutrimento. Particolare non secondario: le librerie in questi giorni sono chiuse per decreto, mentre i tabaccai sono aperti. Fumare si può, leggere invece non è così essenziale.
Non è un paradosso? Proprio per questo, scrittori e intellettuali, giornalisti e docenti accademici, lettori hanno firmato un appello rivolto al ministro dei beni Culturali Dario Franceschini con la richiesta di riaprire le librerie, che sono presidio di cultura, luoghi di incontro e dialogo. Certo, i libri si vendono anche online, ma questa disgraziata congiuntura epidemica che stiamo vivendo sta strangolando le librerie piccole e indipendenti che già sono in sofferenza e che non si possono permettere le spese del corriere. Il rischio è che il virus diventi un fattore di selezione innaturale, contribuendo all’estinzione di questi luoghi superstiti di promozione della cultura.
L’idea dell’appello è partita dalla scrittrice Lidia Ravera e ha trovato subito bordone tra molti suoi colleghi e rappresentanti del mondo editoriale (Massimo Carlotto, Maurizio de Giovanni, Ginevra Bompiani, Francesco Permunian, Piero Bevilacqua, Gianrico Carofiglio, Tomaso Montanari, Salvatore Silvano Nigro…). Qual è la richiesta, mirata in prospettiva, quando verranno attenuate le restrizioni? «Riaprire le librerie, con un commesso solo, con le mascherine, con i guanti, con l’ingresso di due clienti per volta, con il numerino come fuori dal supermercato, con l’amuchina, il disinfettante, con tutte le accortezze necessarie per tutelare lavoratori e titolari… Ma riaprire. Permettere ai piccoli librai di fare servizio a domicilio come può fare il colosso Amazon, e di portare a casa dei cittadini un buon libro, così come si può portare una pizza. I libri sono generi di prima necessità. Come il pane. E senza questo pane, in questo momento, rischiamo di morire di fame. Chiediamolo tutti. Per il bene di tutti».
«Il settore librario è uno dei più fragili — commenta il desenzanese Francesco Permunian —. Il protrarsi della chiusura delle librerie potrebbe essere una botta finale che va scongiurata. Altrimenti i libri ci arriveranno a casa con il furgone. E sarebbe una ulteriore perdita di umanità». L’elenco completo delle firme sul sito osservatoriodelsud.it, per firmare osservatoriodelsud@gmail.com.

“Corriere della Sera”, Cronaca di Brescia, 5 aprile 2020
Foto di Peggy und Marco Lachmann-Anke da Pixabay

Salvare il turismo con un’alleanza dell’Europa del Sud. – di Tonino Perna

Salvare il turismo con un’alleanza dell’Europa del Sud. – di Tonino Perna

Covid-19. In Italia il turismo pesa circa il 10 per cento del Pil e per l’anno in corso è prevedibile che questo contributo scenderà al 2-3 per cento. Peggio di noi la Spagna, il Portogallo e ancor più la Grecia. Nel paese che ha subito la cura da cavallo della Troika il turismo rappresenta il settore fondamentale

L’impatto economico della pandemia dipenderà dalla sua durata, ma alcuni effetti sono già prevedibili, in quanto alcune attività sono chiaramente più esposte e non si riprenderanno facilmente. Fra i settori economici più colpiti dalla pandemia Covid-19 c’è il turismo.

Ipotizzando, nel migliore dei casi, che da maggio riprendano le principali attività in Italia, e nei mesi successivi negli altri paesi occidentali, difficilmente i flussi turistici potranno riprendersi. Per questa primavera e inizio estate è previsto un crollo totale del turismo straniero e il turismo interno viaggerà a scartamento ridotto.

Diciamo che reggerà solo il turismo di prossimità, la gita fuori porta, una vacanza nelle spiagge più vicine, sempre da soli o con la famiglia, evitando i resort, i locali notturni, i parchi di divertimento.

In Italia il turismo pesa circa il 10 per cento del Pil e per l’anno in corso è prevedibile che questo contributo scenderà al 2-3 per cento. Sul piano occupazionale, anche se si tratta spesso di contratti stagionali, il turismo assorbe circa il 15 per cento del totale degli occupati. Si può stimare che circa due terzi perderanno il posto di lavoro.

Peggio di noi la Spagna, il Portogallo, e ancor più la Grecia. Nel paese che ha subito la cura da cavallo della Troika e che solo da un paio di anni ha visto la risalita, il turismo rappresenta il settore fondamentale, il pilastro dell’economia greca, insieme alla flotta mercantile, con un valore aggiunto al Pil del 20 per cento e con ben un quarto del totale dell’occupazione.

Dopo aver perso tra il 2009 e il 2014 il 40 per cento del reddito nazionale, la Grecia dal 2017 aveva dato segnali di ripresa con un incremento progressivo del Pil che era giunto a + 2,2 nel 2019. Ovviamente, ciò non significa che la maggioranza della popolazione si fosse ripresa dall’impoverimento causato dalle politiche di austerity.

Basti solo un dato per capire che operazione di lotta di classe è stata condotta nel paese di Aristotele: dal 2007 al 2018 ceti medi e popolari hanno subito mediamente un incremento della tassazione sul reddito dal 37,5 per cento al 51 per cento, mentre il ceto medio-alto (dirigenti d’azienda, rentier, grandi imprenditori, ecc.) hanno goduto di una riduzione delle imposte dal 56 al 38,1 per cento! E sono proprio i ceti popolari e medi che traggono i maggiori benefici dal turismo di massa che coinvolge le piccole isole quanto le città storiche e i siti archeologici.

Se non verranno presi provvedimenti adeguati di sostegno alla popolazione la Grecia nel corso di quest’anno subirà un tracollo ancora peggiore di quello che ha visto dopo la crisi del 2009.

Dato che i paesi della Ue più colpiti dal crollo del turismo saranno quelli del Sud Europa (Francia compresa), è arrivato il momento per stringere un’alleanza, creare un fronte comune che possa strappare a Bruxelles dei provvedimenti tempestivi che spostino voci dal budget comunitario in favore degli addetti al settore turistico, anche attraverso un piano di investimenti della BEI che punti alla ristrutturazione in senso ecologico e della sicurezza sanitaria delle strutture turistiche.

Un’alleanza tra i paesi del Sud Europa che è già in atto per ottenere i famosi Eurobond, e finora non sta dando i risultati sperati. Ma, il turismo, con la sua concretezza e peso sociale ed economico, costituirebbe un banco di prova privilegiato per mettere con le spalle al muro chi pensa che la politica comunitaria possa continuare sui vecchi binari.

Il Manifesto