Lo Stato unico antidoto ai sovranismi regionali.- di Gianfranco Viesti
In grande evidenza, nell’agenda politica dei prossimi mesi, dovrebbe esserci una profonda riflessione sul regionalismo. Cioè su come funziona oggi l’Italia. Per quel che sta accadendo sotto i nostri occhi in piena emergenza Coronavirus: i particolarismi che rendono più difficile una strategia unitaria, sanitaria ed economica; gli snervanti ping pong sulla libera circolazione fra regioni. Eccessi di protagonismo, continue polemiche, crescenti contrapposizioni territoriali.
Non sono problemi che nascono con l’epidemia: sono spie di squilibri e distorsioni presenti da tempo. E non sono solo il frutto degli assetti giuridico-amministrativi: sono spie delle difficoltà di fondo nel funzionamento del nostro paese. Perché ripensare profondamente al regionalismo? Per più motivi.
1) La capacità del “centro” di esercitare le proprie funzioni di indirizzo, di raccordo, di garanzia dei diritti dei cittadini è molto debole.
Le Amministrazioni Regionali strabordano anche perché le capacità politiche del Parlamento, in rappresentanza di tutti gli Italiani, quella dell’esecutivo, quella tecnica ed amministrativa delle istituzioni centrali, vengono esercitate poco e male. Molto sui dettagli, poco sui principi e sulle scelte di fondo. Un ampio regionalismo ha bisogno di un centro forte e intelligente: se questo manca diviene frammentazione e confusione. E’ opportuno ri-centralizzare alcune competenze? Probabilmente sì; ma prima di farlo, bisognerebbe essere certi che poi vengano esercitate.
2) Il profondo indebolimento dei partiti, ricordato ieri su queste colonne da Alessandro Campi, e l’assenza di visioni politiche sulle grandi scelte che l’Italia deve compiere fa sì che il raccordo fra le concrete scelte, nazionali e regionali, sia sempre più debole. Nelle regioni tante politiche pubbliche – anche da parte di governi dello stesso colore di quello centrale – non sono l’adattamento e la utile differenziazione per i diversi contesti delle scelte generali; che spesso mancano. Con alcune eccezioni, sono troppe volte un fai-da-te. Soggetto, come si è visto chiaramente in questa crisi, a fenomeni di cattura e di condizionamento da parte di interessi locali. Mirato a garantire il successo di breve termine al personale politico regionale; soprattutto ai Presidenti, questi moderni “shogun” (come li definisce Sabino Cassese), che giocano sempre più in proprio.
3) In questo contesto, il regionalismo si è distorto: più che garantire le autonomie è divenuto lo strumento principale per la lotta per le risorse pubbliche fra i diversi territori. Già dall’inizio del secolo, ma ancor più nell’ultimo decennio, scopo delle Amministrazioni Regionali è stato quello di assicurare a sé stesse la quota più ampia possibile delle decrescenti risorse pubbliche. Di dar corpo al leghismo, inteso nella sua accezione più ampia: più a me, meno a te; un obiettivo per molti versi raggiunto.
Nell’incapacità di Parlamenti e Governi di affrontare il grande tema dei “livelli essenziali delle prestazioni”, cioè dei diritti che devono essere garantiti a tutti gli Italiani, e dei principi che devono concretizzarli, il concreto potere decisionale si è spostato nelle stanze, spesso oscure, delle Conferenze delle Regioni. Dove quelle più forti e ricche hanno sbaragliato quelle più deboli. Più capaci tecnicamente e più determinate politicamente, le regioni del Nord (tanto quelle governate dalla Lega quanto quelle di centrosinistra) hanno volto a proprio favore ogni scelta: nell’insipienza di quelle del Sud, spesso assenti nelle discussioni sulle grandi politiche, attente solo a vedersi garantite risorse da impiegare discrezionalmente. Proprio la sanità lo dimostra: con l’accentuarsi di un divario enorme, che non c’è in nessun altro paese europeo, di dotazioni, finanziamenti, personale. Non è mai diventato un problema politico nazionale; né è stato più di tanto sollevato dai “perdenti”, attenti soprattutto alla gestione. Ci si è assuefatti all’assurda idea che chi vive in alcune regioni debba andare in altre a curarsi.
4) L’incredibile vicenda del “regionalismo differenziato” è stata specchio di tutto questo. Con il tentativo delle Amministrazioni Regionali di accaparrarsi quanti più poteri e competenze possibile, indipendentemente dalla materia e della logica d’insieme. Con l’esplicita campagna lombardo-veneta per farne il veicolo per assicurarsi ancora più fondi, sottraendoli agli altri territori. E con l’assordante silenzio della politica e dei residui partiti nazionali, distratti rispetto ai rischi di frammentazione del paese, di ulteriori disparità nei diritti dei cittadini; attenti a non contrariare i propri referenti politici, i propri portatori di voti, locali.
5) Si è così rafforzato il sovranismo regionale. L’idea che i cittadini siano tutelati non dal Parlamento, da leggi giuste, da principi comuni, ma dai propri rappresentanti territoriali. In lotta con gli altri per i soldi, potenti in casa propria; a cui rivolgersi per ogni problema. Un sovranismo che combatte verso l’alto, con le amministrazioni centrali; e che schiaccia – con il potere delle norme e delle risorse – i Sindaci e le città: molto più vicine alle effettive esigenze dei cittadini. L’idea, banale, che per fare il bene dei lombardi, basti dare forza, soldi, potere agli amministratori del Pirellone; la convinzione, come si è visto smentita drammaticamente dai fatti, che per tutelare la loro salute non si dovesse rafforzare il Servizio Sanitario Nazionale, ma accrescere il potere decisionale locale.
Insomma, c’è certamente un problema di assetti giuridici ed amministrativi. Ma, prima e ancor più, c’è un tema di fondo: l’eccesso di frammentazione e protagonismo delle Regioni è frutto dell’indebolimento complessivo del paese, delle sue capacità politiche, del suo senso di comunità nazionale.
da “il Messaggero”, 21 aprile 2020