Mese: agosto 2020

Le ragioni del NO al taglio dei parlamentari.- di Massimo Villone Lo stenografico dell'audizione di Massimo Villone tenutasi alla Camera sulla proposta di legge di riforma elettorale.

Le ragioni del NO al taglio dei parlamentari.- di Massimo Villone Lo stenografico dell'audizione di Massimo Villone tenutasi alla Camera sulla proposta di legge di riforma elettorale.

Massimo Villone
Audizione per la proposta di legge C. 2329 Brescia, sul passaggio a un sistema elettorale proporzionale, e per la proposta di legge costituzionale C. 2238 Fornaro, che abolisce la base regionale per l’elezione del Senato
Camera dei deputati – Commissione Affari costituzionali – 27 maggio 2020

MASSIMO VILLONE, Professore emerito di diritto costituzionale presso l’Università degli studi di Napoli «Federico II».

Grazie, presidente. Io vedo queste due proposte di legge come due proposte che, per una parte, prendono atto finalmente, magari con qualche ritardo, di quella che è la realtà del nostro sistema politico oggi, e, per l’altra, sono necessitate per la scelta, che è stata fatta, del taglio dei parlamentari. Sono proposte che, in qualche modo, accompagnano quella scelta, riducendone alcuni impatti palesemente nega-tivi. Voglio lasciare a verbale, perché sia chiaro, che personalmente considero quella scelta sbagliata (presiedo uno dei molti comitati per il «no»), quindi su que-sto non sono equidistante.Per quanto concerne la proposta C. 2329 Brescia, vedo essenzialmente in essa due punti focali. Il primo rappresenta quella che definirei la parte durevole della proposta, vale a dire il passaggio al sistema proporzionale. Si tratta di un pas-saggio di assoluto rilievo e sappiamo bene che sia in politica sia in dottrina ci sono due «chiese», sulla scelta del sistema elettorale: la «chiesa» del proporzionale e quella del maggioritario. Io da una ventina d’anni appartengo alla prima e, come è normale che accada, ci sono molti altri che invece si iscrivono con uguale fermezza alla seconda. Ricordo un articolo di D’Alimonte sul Sole 24 Ore dell’11 gennaio 2020, poco dopo la presentazione della proposta di legge del presidente Brescia. D’Alimonte si intende di sistema elettorale, ovviamente, ed era un articolo di duro attacco alla proposta. Il giornale lo intitolò: «Il proporzionale del Brescianellum pietra tombale sui governi stabili». Ricordo anche le valutazioni negative di perso-naggi di rilievo, come Prodi e Veltroni. Ci sono dei fan del maggioritario che non demordono. . Io credo, invece, che la proposta Brescia favorisca assai opportuna-mente questa scelta, perché non si può sostenere un’opzione maggioritaria quando il sistema non è più bipolare, come credo sia ormai vero per il nostro sistema e per un tempo non breve. Ritengo che ci sia un solo scenario in cui il sistema maggiori-tario – comunque configurato: di collegio, o con premi di maggioranza – funzioni
2 in modo ottimale, vale a dire quando ci sono due schieramenti che assorbono gran parte del voto del corpo elettorale, e che sono sostanzialmente equivalenti. Questo è lo scenario che ha reso il sistema britannico l’archetipo che è stato per molto tempo per una parte della nostra dottrina, la quale si è illusa che fosse questo si-stema elettorale a generare il bipolarismo. In Gran Bretagna tories e labour, per un tempo lungo, hanno assorbito tra l’80 e il 90 per cento del voto del corpo elettorale. Storicamente è accaduto questo. Il modello britannico ha cominciato a mostrare qualche crepa – che noi al di fuori non vedevamo, ma in Gran Bretagna se ne di-scuteva da tempo – quando questa realtà politica non è stata più vera, quando hanno cominciato a emergere soggetti politici che, pur avendo una consistente per-centuale del voto popolare, prendevano una manciata di rappresentanti alla Ca-mera dei Comuni. Poi negli ultimi anni abbiamo visto non voglio dire il collasso, ma il disgregarsi di quella che sembrava una certezza. Da noi è accaduto fonda-mentalmente questo: storicamente abbiamo avuto due partiti, la DC e il PCI, che hanno assorbito tra il 70 e l’80 per cento dei voti. Tuttavia uno di questi due partiti gli inglesi avrebbero detto che non era fit for government, non era ammesso al Go-verno, essendone escluso dalla nota conventio ad excludendum. Quindi il nostro sistema non poteva funzionare all’inglese, proprio per la diversa realtà politica. Quando questo assetto è venuto meno, con la caduta del muro di Berlino, e si è avuto l’ingresso nell’area del Governo del maggiore partito della sinistra del tempo, si è avuta l’illusione che il sistema elettorale potesse generare un bipolarismo all’in-glese. Questo è quel che è successo all’inizio degli anni Novanta. La scelta maggio-ritaria fu fatta nell’idea che così noi avremmo avuto un sistema all’inglese, con l’al-ternanza e tutte quelle belle cose di cui si parlava sempre. Solo che non ha funzio-nato. In realtà nel sistema britannico il bipolarismo non era un prodotto del sistema elettorale, ma uno spontaneo conformarsi della società. Nemmeno da noi il sistema elettorale ha creato il bipolarismo, anzi, ha ulteriormente frammentato il panorama politico, per dare alla fine un risultato non coerente con le aspettative di chi invece continuava a dire che la scelta del maggioritario ci avrebbe dato governabilità. Non abbiamo mai avuto governabilità. In più di vent’anni di maggioritario questa go-vernabilità non c’è mai stata, basta guardare proprio la storia quotidiana della Re-pubblica per rendersene conto. Ed è chiaro che in un sistema che non è bipolare, che non tende a essere bipolare, ma che si sta assestando, nel bene e nel male, su un assetto tripolare, il maggioritario non va bene. Non è più il piccolo vantaggio che consente a uno schieramento che è quasi equivalente all’altro di ottenere un margine numerico per governare, ma diventa una lotteria, perché significa pren-dere una minoranza, trasformarla in una fasulla maggioranza che non esiste nella
3 realtà del Paese e quindi distruggere la rappresentatività. Al tempo stesso, la gover-nabilità sarà comunque debole, perché si avrà un Governo che non rappresenta il Paese, anzi, ha contro di sé la prevalente parte del Paese. Questa è l’Italia che ab-biamo prodotto, l’Italia che è cresciuta nelle disuguaglianze, l’Italia dove si sono approfondite le fratture, le faglie territoriali, sociali e via dicendo.Oltre alla Gran Bretagna, anche altri sistemi – Francia, Spagna – tradizional-mente presi ad esempio per il maggioritario e la governabilità sono andati in crisi. Pochi giorni fa Macron ha perso la maggioranza assoluta che aveva nell’Assemblea nazionale perché gli si sta sfaldando in mano l’assemblaggio che ha messo insieme per vincere la partita elettorale. In Spagna Sánchez cerca affannosamente di tenere la zattera del suo Governo a galla. Non ho idea se ce la farà o meno, ma certo ha problemi, perché anche lì le fratture sono tali che il sistema elettorale non le can-cella, anzi, nel suo caso le esalta, perché è un sistema che premia il localismo (e se c’è un problema di localismo, lo troviamo proprio in Spagna).Quindi, credo che quella compiuta con la proposta di legge C. 2329 sia una scelta felice. Da parte mia spero vivamente che si riesca a mantenere questa scelta, non so poi se l’esito sarà in questo senso oppure no. Questa è la parte che io vedo durevole e proiettata verso il futuro. Invece, vedo un’altra parte sulla quale biso-gnerà ancora riflettere e suppongo che vi siano lavori in corso, ed è la parte delle liste. Per come l’ho letta io, siamo ancora alle liste bloccate. Non so se ho letto male, ma mi pare di capire, dalla ricostruzione che ho fatto di questa proposta, che l’esito è quello del voto alla lista, senza alcuna scelta del rappresentante. Ma se è così, se l’esito è quello di avere la totalità dei parlamentari scelti a lista bloccata, bisogna dire che l’incostituzionalità è certa, perché la Corte si è già pronunciata in tal senso con la sentenza n. 1 del 2014. Quindi, bisognerà necessariamente fare un passo avanti. Mi rendo conto che le preferenze sono un boccone indigesto. Non vedo come si possa evitare un meccanismo come il voto di preferenza, di cui cono-sciamo tutti i rischi, anche degenerativi di sistema, per così dire. Però se non c’ è la scelta del parlamentare vedo rischi peggiori. Porto anche la mia esperienza diretta: sono stato parlamentare per quattro legislature, tre con il «Mattarellum» e una con il «Porcellum», e la differenza tra i due sistemi elettorali era devastante proprio nel rapporto col territorio, con il corpo elettorale. L’ho vissuta in modo personale e immediato. Se non si ritrova questo collegamento, credo che nessun sistema elet-torale potrà andare lontano e, soprattutto, potrà contribuire a rafforzare l’istitu-zione Parlamento.
4 Comunque, condivido la scelta del proporzionale, rimanendo però consape-voli che la scelta del proporzionale da sola non assorbe tutto il profilo della rap-presentatività, non è da sola la risposta conclusiva. Qui entra in gioco il problema del taglio dei parlamentari, perché le due proposte effettivamente sono intercon-nesse. C’è un problema che viene citato anche nella relazione alla proposta C. 2238 Fornaro, quando si fa riferimento alla possibilità di collegi da un milione di abi-tanti. Effettivamente, un collegio da un milione di abitanti è un problema evidente, ma non c’è solo questo: dobbiamo capire che se non si scinde il Senato dalla base regionale, non usciamo da questa vicenda, perché avremmo nove regioni che eleg-gono da uno a cinque senatori, per cui qualunque sistema elettorale, anche il si-stema elettorale proporzionale, in regioni piccole e medio-piccole avrà un solo esito possibile: che in Senato arrivano due, forse tre forze politiche. Questo è inevitabile, perché è chiaro che anche se vi sono tre seggi, i due soggetti politici maggiori pre-varranno, in quanto il primo e il terzo seggio andranno al partito A e il secondo al partito B. Se vi sono quattro seggi, probabilmente toccherà a B e poi un’altra volta ad A. Con cinque seggi cominciamo ad avere probabilmente tre forze politiche rappresentate, ma non credo sia probabile averne quattro. Ciò significa che se tutto rimanesse secondo quelli che sono i sondaggi che oggi vediamo, in Senato avremmo soltanto due soggetti politici potenzialmente in grado di essere veramente nazio-nali: già il terzo e il quarto non lo sarebbero più, perché assenti in alcune regioni, pur essendo soggetti politici importanti. Se le cose rimangono come sono, come le vediamo il lunedì da Mentana, significa che in regioni con quattro o cinque senatori forze politiche come il Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia – parliamo di forze politiche intorno al 15-16 per cento – non sarebbero rappresentate in regioni anche consistenti, in cui solo una o l’altra otterrebbero seggi perché sarebbero rappresen-tate soltanto la prima, la seconda e la terza forza politica, non la quarta. Ciò vuol dire che i soggetti politici veramente nazionali in Senato rimangono due, nella mi-gliore delle ipotesi, e che tutti gli altri soggetti politici sono una sommatoria di par-titi regionali o locali. Questo è devastante per il sistema politico nel suo insieme. Già abbiamo un Governo nazionale debole, ma è tale perché il sistema politico sul quale si fonda è debole e frammentato. Perché Boccia punta tutto sulla concerta-zione in Conferenza Stato-regioni e non usa i poteri sostitutivi che pure il Governo formalmente avrebbe? Perché evidentemente non ritiene di avere il peso politico e la forza per farlo. Ma questo perché? Perché i partiti che stanno a Roma sono fon-dati su una sommatoria di partiti locali e regionali. Questa rischia di diventare la caratteristica di fondo del sistema. Questo – più che il collegio di un milione di abitanti, che sarebbe un problema, ma si potrebbe affrontare – può essere un
5 problema che potrebbe portare questo Paese su un’orbita pericolosa, perché noi siamo già oggi un Paese malato di frammentazione, un Paese che tende a essere frantumato su questioni sulle quali invece dovrebbe essere unito. Se introduciamo un elemento di disgregazione ulteriore, credo che rischiamo come sistema Paese. Per tali motivi la proposta C. 2328 Fornaro mi sembra importante, soprattutto per questa parte. Poi si vedrà la delega al Governo, la riflessione ovviamente deve con-tinuare. Ma se noi pensiamo – come anche io, che pure, non essendo d’accordo, mi preparo a contrastarlo – che l’esito del referendum sia a favore del taglio del numero dei parlamentari, quello di ridefinire la base per il Senato scindendola dall’attuale formula della base regionale è un profilo che diventa essenziale.Quindi, si tratta di due proposte che, a mio avviso, pur richiedendo un com-pletamento perché il punto delle liste bloccate, a meno che io non abbia letto male, va corretto, per un verso prendono atto dell’attuale conformazione del nostro si-stema politico-istituzionale e, per un altro, sono necessitate dalle scelte che proba-bilmente ci troveremo ad affrontare.

Il parlamento serve a tutti noi.- di Massimo Villone Il No ci difende come cittadini, e conforta che nonostante le difficoltà si moltiplichino i comitati e le voci variamente motivate che lo sostengono

Il parlamento serve a tutti noi.- di Massimo Villone Il No ci difende come cittadini, e conforta che nonostante le difficoltà si moltiplichino i comitati e le voci variamente motivate che lo sostengono

Oggi il meeting di Cl presenta un evento dal titolo emblematico: «Il parlamento serve ancora?». Troveremo Di Maio e Speranza, poi Boschi, Delrio, Lupi, Meloni, Salvini, Tajani. Facciamo uno scoop: nessuno dirà che non serve. Ma forse sarebbe stato più giusto titolare «A cosa serve il parlamento, e a chi?».

Tra i partecipanti troviamo quelli che la democrazia della rete è tempo sostituisca la democrazia rappresentativa, che ci vuole il sindaco d’Italia, che il presidente della repubblica deve essere eletto dal popolo, che il sistema elettorale maggioritario dà subito un vincitore, che il voto bloccato deve garantire al leader una coorte di pretoriani, che il popolo nelle urne elegge un governo che nessuno ha il diritto di ostacolare perché il giudizio spetta agli elettori cinque anni dopo.

Il centrodestra si accorda – a quanto leggiamo – su autonomia differenziata, presidenzialismo, giustizia. Il progetto separatista di Zaia viene assunto dalla coalizione. Non c’è dubbio che presenti il conto al parlamento, intaccando il ruolo del legislatore nazionale. La contropartita richiesta da Giorgia Meloni -il presidenzialismo – può solo peggiorare il saldo negativo a carico dell’assemblea elettiva. Tra l’altro, qualcuno dovrà spiegarle che uno stato indebolito non si rafforza con l’elezione diretta di un presidente, che sarà fatalmente anche lui debole.

Nel Pd, invece, gli ex renziani tornano all’attacco del segretario. Nardella e Marcucci riprendono il mantra della vocazione maggioritaria. Sembra di sentire il Veltroni del 2008, che ne fu massimo interprete. Pensavamo fosse ormai possibile passare oltre, giungendo senza traumi a una legge elettorale proporzionale. A quanto pare, no. Fa tenerezza Nardella che non accetta l’idea di un partito di medie dimensioni costretto a fare alleanze (Repubblica, 19 agosto). Il Pd oggi è tale non per un destino cinico e baro, ma per la politica di dirigenti come Nardella.

Per un trentennio il pensiero dominante e le scelte conseguenti hanno puntato a marginalizzare il parlamento. Se i risultati fossero buoni ne prenderemmo atto. Ma la politica è in degrado, il paese arranca e perde posizioni in Europa e nel mondo, crescono esponenzialmente le diseguaglianze tra persone, gruppi sociali, territori, crollano le speranze di generazioni. Da ultimo, l’emergenza Covid non è passata attraverso un effettivo vaglio parlamentare, che non è in vista nemmeno per le ingenti risorse in arrivo.

Si sostituisce al confronto nelle assemblee elettive la concertazione tra esecutivi nelle conferenze stato-autonomie, che qualcuno vorrebbe trasformare in una terza camera para-legislativa. Proprio la pandemia offre l’ennesima prova che bisogna invertire la rotta, riportando in parlamento le grandi scelte.

In un tempo di partiti politici evanescenti e – salvo pochi casi – privi di una effettiva organizzazione sul territorio la voce del paese arriva nelle assemblee attraverso gli eletti. Il parlamento serve a tutti noi, perché oggi assai più di ieri è la vera garanzia di una partecipazione democratica. Per questo il taglio dei parlamentari, senza nemmeno la parziale riduzione del danno data dai correttivi che erano stati ipotizzati nell’accordo di governo, va respinto con il No.

È un voto che non difende la casta o i parlamentari in carica, che – con eccezioni – poco lo meritano. Né va giocato nella dialettica di maggioranza o di partito. Corregge il peccato originale del baratto tra una riforma di grande portata e un governo. Una Costituzione forte e duratura è una necessità imprescindibile. Nessun governo lo è.

Il No ci difende come cittadini, e conforta che nonostante le difficoltà si moltiplichino i comitati e le voci variamente motivate – da ultimo Orfini, e il giornale Repubblica – che lo sostengono. Certo, è solo un primo passo immediato, cui deve seguire la pretesa di un’istituzione parlamento rinnovata.

Si può fare, con una legge elettorale proporzionale, che renda le assemblee specchio del paese e rimetta nelle mani degli elettori la scelta degli eletti. E con una legge sui partiti, che garantisca la democrazia interna, la trasparenza, i diritti degli iscritti.

Così si torna alla Costituzione e si avvia la ricostruzione della politica. Lo diciamo in specie a Nardella: un grande partito egemone non basta volerlo. Bisogna costruirlo dal basso, mattone su mattone.

da “il Manifesto” del 21 agosto 2020

foto:https://www.camera.it/leg18/585?raccolta=128&rcgrp=Palazzo+Montecitorio&Palazzo+Montecitorio+%2F+Aula

Un racconto teatrale sulla natura demoniaca del potere. -di Giovanna Ferrara

Un racconto teatrale sulla natura demoniaca del potere. -di Giovanna Ferrara

Capita spesso a molti cercatori della gioia di conversare con Baruch Spinoza, attorno a un tavolo di legno, chiedendo al suo candore un aiuto per capire il mondo. Di questi dialoghi Piero Bevilacqua ne ha fatto un racconto teatrale, Baruch l’infernale. Spinoza e la democrazia degli uguali, edito dai tipi di Castelvecchi per la collana Cahiers (pp. 80, euro 13,50). Quattro atti, scanditi dal ritmo di due scene, che attraversano il tempo del 1600 e lo spazio delle Sette province unite dell’Olanda e che, al contempo, li travalicano, per finire inevitabilmente a farsi discorso sull’uomo.

DI SICURO quella di Spinoza è una vita esemplare. Indagarla regala sempre l’altezza di un ragionamento sulla natura demoniaca dell’autorità, sulla reazione scomposta e feroce che il potere ha quando vede apparire all’orizzonte un uomo libero. L’architettura del libro si basa su una serie di dialoghi tra un gruppo di amici resistenti al pensiero unico religioso nella Amsterdam dei loro giorni come nella Spagna dell’Inquisizione, di cui si tratteggia la caricatura grottesca, ricordando l’insensatezza di una monarchia alle prese con l’imposizione del battesimo (cosa faremo delle case lasciate vuote? Chiede il re alla regina Isabella) e la conquista di un nuovo mondo (Colombo vuole altre navi, che impudenza!). e che incarna l’oscenità di ogni colonialismo, dalle occupazioni delle terre a quelle delle coscienze.

MA IL DISCORSO nel dialogo si fa più profondo e tira in ballo la responsabilità intima del nostro involontario collaborazionismo: «È tragico Baruch, difficile da sopportare – dice l’amico Adrian – Noi non siamo che i rampolli della borghesia commerciale delle Sette province unite. La razionalità trionfante del colonialismo europeo, quello della bussola e dei portolani, è la stessa che a noi consente di scorgere le menzogne della religione, di svelare il monopolio del potere ecclesiastico e regale, di urlare veramente contro le ingiustizie del mondo. Scriviamo pagine di verità grazie al sangue degli ultimi».

LA POSSIBILITÀ di questo conversare è data dalla philia che unisce i personaggi, declinatura altissima di quell’affectus che Spinoza mette a motore degli infiniti mondi che frequentarono anche Giordano Bruno e Tommaso Campanella, perseguitati, non a caso, con la stessa ottusa ferocia. Trova dio nei loro volti il protagonista Baruch, toglie a dio il volto burbero della punizione, per farne strumento d’amore contro la paura e non di paura contro l’amore.

Discorsi sul cuore dell’uomo che non abita solo la trascendenza, ma si fa carne in un sistema di giusti. Qui Bevilacqua secolarizza il discorso, parla di democrazia e populismo. Fa dire al filosofo che la inaffidabilità del popolo (e la crisi della democrazia) non dipende da una intrinseca indisposizione al giusto (l’argomento degli elitisti) ma dallo stato della miseria, perché chi è «tutto il tempo al servizio di un inflessibile padrone: il bisogno, la fame» sfugge peggio alle trappole della rassegnazione e del rancore, del terrore che immobilizza, ovvero le passioni tristi del nostro tempo razzista e distruttivo.

SI FA FATICA a non sentire tutti quelli che nella filosofia spinozista hanno trovato la loro casa. Come Deleuze e la sua necessità di divenire rivoluzionari anche se le rivoluzioni falliscono, perché l’uso che facciamo della vita è la goccia di splendore da consegnare all’eterno, per dirlo con le parole di una canzone di De Andrè. All’editore Jan che gli chiede se non si siano solo utopie, risponde Baruch: «Amici, non si tratta di fede, ma delle possibilità che abbiamo davanti».

da “il Manifesto” dell’8 agosto 2020

da Wikipedia http://global.britannica.com/media/full/560202/122142

Cosa serve al Paese.-di Gianfranco Viesti. Perché il Nord deve dire sì ai fondi per il Meridione

Cosa serve al Paese.-di Gianfranco Viesti. Perché il Nord deve dire sì ai fondi per il Meridione

Di fronte all’emergenza Covid e alle sue gravi e pericolose ricadute economiche, i governi europei sono intervenuti. Grazie all’impulso della Cancelliera Merkel hanno definito una manovra di rilevante dimensione, assolutamente innovativa, che sposta molte risorse economiche nel tempo e nello spazio.

Nel tempo. Prendiamo a prestito soldi che restituiremo in futuro. Siamo egoisti? Viviamo sulle spalle di chi verrà dopo? Niente affatto: siamo lungimiranti, perché cerchiamo di evitare tracolli economici, fallimenti di imprese, crisi sociali, fratture politiche, che renderebbero molto peggiore la situazione anche dell’Europa degli anni Trenta.
Nello spazio. Investiamo risorse rese disponibili anche dai partner europei più forti con maggiore intensità negli Stati e nelle regioni con peggiori condizioni occupazionali e più colpite da questa tremenda crisi. Per altruismo? No, daccapo: per lungimiranza.

In una Unione così profonda come quella europea, i più ricchi stanno bene se anche i meno ricchi stanno bene. Le economie non sono monadi isolate, ma parti di un sistema molto integrato. Soprattutto i Paesi del Centro-Nord. A cominciare da Germania e Olanda, vivono trasformando ed esportando anche verso i Sud. Investire nei Sud è quindi un buon affare, nel tempo, anche per loro.

Garantisce domanda spagnola e italiana per la Volkswagen e la Philips. Evita tensioni politico-sociali, fiammate ribelliste o sovraniste. Ci assicura contro possibili rotture traumatiche, come quelle viste con la Brexit, di quella Unione politica, culturale ed economica che da sessanta anni pur con tanti difetti ci garantisce maggiore tranquillità e prosperità.

Che investire nei Sud sia conveniente nel tempo anche per i Nord lo mostrano tantissimi studi. L’economia non è come la ragioneria: se sposto risorse non ne ho di meno, perché mi ritornano sotto altra forma. Si veda da ultimo il rapporto sui fondi strutturali predisposto da economisti tedeschi e austriaci per il Parlamento Europeo pubblicato pochi giorni fa, con tutti i numeri. I contribuenti tedeschi pagano per lo sviluppo della Polonia; ma lo sviluppo della Polonia genera nel tempo talmente tante occasioni di commercio e di investimento per la Germania da rendere assai profittevole l’esborso iniziale.

Questa logica europea della Cancelliera Merkel e del Piano di rilancio fa fatica ad imporsi nel dibattito italiano. Tutti siamo contenti di ricevere i fondi perché siamo più deboli in Europa; ma quando si tratta di investirli, con la stessa logica, con maggiore intensità sulle persone e sui territori più deboli dell’Italia, al Sud, si levano gli scudi. Prima le locomotive! Come se la Cancelliera avesse detto: Spagna e Italia sono in forte difficoltà? Bene, investiamo ad Amburgo così vi trainiamo; e non l’esatto contrario.

Tutta l’Italia merita risorse e investimenti perché tutta l’Italia deve ripartire. Ma del tutto inaspettatamente la crisi Covid ci fa vedere chiaramente che è in particolare con il Sud che si può rilanciare l’Italia. Non solo per clamorosi motivi di equità fra cittadini, nei servizi (a cominciare da sanità e welfare) e nelle dotazioni, dai binari alle scuole. Ma anche perché la vera ripresa, un più positivo clima sociale, possono venire solo da un forte aumento strutturale dell’occupazione, al Sud su livelli infimi. Dalle donne e dai giovani del Sud che trovano lavoro: dai loro consumi (in parte rilevante di beni e servizi del Centro-Nord), dalle loro tasse.

E ridurre il carico contributivo sugli occupati al Sud per alcuni anni può favorirlo, riducendo il costo del lavoro per le imprese che operano in territori strutturalmente molto più deboli. Tutta la politica italiana dovrebbe convintamente sostenere questa posizione nella non semplice trattativa che ci sarà con la Commissione Europea per ottenerne l’autorizzazione.

Nel dibattito pubblico ciascuno sostiene i propri interessi: di impresa, di categoria, di territorio. È normale. Ma guardare solo al proprio stretto tornaconto, fare calcoli solo sulle prossime scadenze elettorali di questi tempi può essere pericoloso. Ce l’ha spiegato la Cancelliera: in questa crisi tremenda nessuno si può illudere di salvarsi da solo; si va avanti solo con un pensiero e un’azione di investimento ampia, nel tempo e nello spazio. Nell’interesse di tutti gli Italiani, questo è il momento di ricostruire l’Italia con il Sud.

da “il Messaggero” dell’11 agosto 2020

Foto di mohamed Hassan da Pixabay

Un Paese in ostaggio della «questione settentrionale». -di Francesco Pallante

Un Paese in ostaggio della «questione settentrionale». -di Francesco Pallante

La vicenda dei verbali del Comitato tecnico scientifico, prima secretati dal governo e poi (parzialmente) resi pubblici per timore di una clamorosa sconfessione da parte della giustizia amministrativa, lascia davvero interdetti. Nel metodo e nel merito. Nel metodo. Riconoscere che il Covid-19 abbia costituito e costituisca un pericolo reale non significa ammettere che il governo abbia avuto e abbia carta bianca nel decidere le misure di contrasto.

Tanto più, perché la misura-chiave tra quelle adottabili per evitare la (ripresa della) diffusione della pandemia – la decisione di drastiche misure di distanziamento interpersonale – ha comportato e comporta la limitazione di numerosi e delicatissimi diritti costituzionali. Nei momenti di emergenza la controllabilità delle decisioni e dei comportamenti delle pubbliche autorità è più che mai un imperativo costituzionale, perché è proprio nelle situazioni di pericolo che si vede la saldezza di un regime democratico. Che il governo abbia cercato di tener nascosti i presupposti tecnico-scientifici delle proprie decisioni è, in quest’ottica, un fatto gravissimo e difficilmente comprensibile.

Naturalmente, nessuno pretende che la politica si adegui pedissequamente alle valutazioni degli esperti. Di fronte a ogni questione tecnico-scientifica permane un margine, più o meno ampio, di apprezzamento discrezionale che il governo, nell’esercizio delle proprie prerogative, ha tutto il diritto di utilizzare. Ciò comporta, però, l’assunzione di una responsabilità e, in un ordinamento democratico, il dovere di motivare politicamente le ragioni delle decisioni adottate.

Nel merito. Quel che, in particolare, emerge dai verbali desecretati è che il governo ha deciso – ripeto: nell’esercizio delle proprie prerogative – di disattendere due indicazioni rilevantissime del Comitato tecnico-scientifico.

La prima è quella relativa all’opportunità di istituire come «zona rossa» i comuni di Alzano Lombardo e Nembro: quelli da cui il virus è partito per devastare Bergamo e provincia (il fatto che, dato il quadro normativo, avrebbe anche potuto provvedervi autonomamente la Regione Lombardia non fa venir meno l’eventuale responsabilità politica governativa: una responsabilità più un’altra responsabilità fa due, non zero, responsabilità).

La seconda è quella relativa all’opportunità di decidere provvedimenti di lockdown localmente circoscritti alla Lombardia, al Veneto e ad alcuni territori limitrofi, anziché all’Italia intera. Entrambe le scelte del governo – non chiudere i comuni della bergamasca e bloccare l’Italia intera – sono risultate gravide di conseguenze. Zone importanti della Lombardia avrebbero potuto essere preservate? Il Centro e il Sud Italia avrebbero potuto patire conseguenze socio-economiche incomparabilmente minori? Può essere che il governo abbia avuto buone ragioni per decidere diversamente.

Forse la situazione lombarda è apparsa, nel suo complesso, oramai eccessivamente compromessa. Forse si è temuto che se il virus avesse iniziato a scendere lungo la penisola il Sistema sanitario nazionale sarebbe globalmente – e non solo localmente, come pure è successo – collassato. Forse. Di certo, solo il Presidente del Consiglio e il ministro della Salute potrebbero dirci qualcosa in più. E, a questo punto, dovrebbero sentire il dovere di farlo. Anche perché un dubbio inizia a serpeggiare. Che in misura più o meno incisiva, a seconda che la Lega sia al governo o all’opposizione, il Paese intero sia caduto in ostaggio della – impropriamente detta – questione settentrionale.

E, in particolare, delle regioni del Nord-Est. Dal segretario del Pd a cui nemmeno l’istinto di sopravvivenza impedisce di fiondarsi a Milano per l’aperitivo nel pieno precipitare della situazione sanitaria; alla riapertura generalizzata anziché selettiva, per non «lasciare indietro» il Nord; al ministro per gli Affari regionali che, anziché interrogarsi – apertamente, laicamente – sugli eventuali squilibri del regionalismo italiano rilancia la differenziazione ex articolo 116 della Costituzione, come nulla fosse accaduto;

alla gazzarra in atto sul trasporto pubblico locale (un mondo alla rovescia in cui le regioni meno colpite impongono severe misure di distanziamento e quelle più colpite ammassano senza limiti passeggeri seduti e in piedi); all’incapacità di utilizzare i poteri sostitutivi, attribuiti al governo dall’articolo 120 della Costituzione, contro misure regionali adottate in aperta sfida verso lo Stato centrale: il dubbio è che la sorte di tutti noi sia stata e sia legata agli egoismi politici e agli interessi economici di una parte soltanto del Paese.

da “il Manifesto” dell’8 agosto 2020

Foto di Stefano Ferrario da Pixabay

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

«Salvini allontana la Lega dal Nord», titolava la Repubblica di Lunedì 3 Agosto. Il titolo è stato ripreso prontamente da Giorgio Gori che in un tweet, con l’hashtag #ricominciodalNord, ha esortato il Pd a farsi rappresentanza della parte più moderna ed europea del Paese mettendo il lavoro, la produttività e la crescita in cima all’agenda politica. Non interessa qui entrare nel merito della tattica elettorale implicita nel messaggio, peraltro alla sua ennesima riedizione, quanto interrogarsi circa la sua consistenza fattuale: la rappresentanza politica dei ceti produttivi e dei territori più moderni ed europei del Paese.

O, MEGLIO, la reductio della «questione settentrionale» a una narrazione che cela in un cono d’ombra proprio quegli aspetti della realtà più divergenti rispetto alla condizione di molti paesi europei. Lavoro, produttività e crescita non sono problemi specifici delle regioni settentrionali ma riguardano il Paese nel suo insieme. Utilizzarle come parole d’ordine significa solo inseguire la retorica leghista della prima ora sul suo stesso terreno: la locomotiva dell’operoso Nord e la zavorra dell’assistito Sud.
Ciò non significa negare che le regioni settentrionali non abbiano bisogno di una rappresentanza politica da parte delle forze di sinistra e di centro-sinistra; piuttosto, è urgente sottolineare quali debbano essere i temi e le parole d’ordine di questa rappresentanza.

COME NON RICORDARE, anzitutto, che la pandemia ha portato in prima serata i problemi della fertile Pianura padana che, complice un modello agro-industriale intensivo, è diventata una delle aree più inquinate d’Europa, con conseguenze gravi per la salute dei suoi residenti? Inoltre, varie inchieste giornalistiche e studi accademici – tra questi ultimi Mafie del Nord a cura di Rocco Sciarrone (Donzelli, 2014) – documentano i «mali del Nord» nella sovrapposizione attiva tra mercati legali e mercati illegali.

Questi lavori fotografano un territorio intessuto di relazioni mafiose, sia con le imprese che con le politica locale; in alcune aree del Nord la criminalità organizzata è diventata un importante vettore dello sviluppo locale. L’inchiesta giudiziaria in corso verificherà se queste ombre si allungano anche sulla caserma Levante di Piacenza. A proposito di Nord.

Dal punto di vista politico e della classe dirigente, poi, in questi anni cruciali le regioni settentrionali non hanno dato alcuna prova di coordinamento strategico, pur in presenza di flussi e interdipendenze funzionali importanti. Le dinamiche del ciclo politico e del consenso a breve hanno dominato e annullato ogni capacità di pensiero «orientato al futuro». Di fronte a una progettualità politica macro-regionale carente, Il Nord si riduce a una entità geografico-amministrativa priva di capacità di azione collettiva.

UNA VISIONE STRATEGICA sulla rappresentanza del Nord dovrebbe dare prova di sé nell’evitare slogan semplificatori. Dal punto di vista territoriale, il Nord non esiste più da tempo, se mai è esistito. Come ci sono tanti Sud, allo stesso modo ci sono vari Nord: città medie in crisi, campagne produttive in spopolamento, periferie metropolitane sotto stress, aree interne, rurali e montane. L’Italia è il paese della diversità territoriale e il Nord non fa eccezione (si veda Il Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli, 2020).

Un’Italia in contrazione caratterizzata da vincoli demografici, edifici abbandonati, cantieri bloccati e proprietà invendute, ci ricordano A. Lanzani e F. Curci (in A. De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia, Donzelli, 2020, seconda edizione). Le differenze economiche, sociali e territoriali che ormai separano il Nord-Ovest dal Nord-Est sono per molti aspetti tanto rilevanti quanto quelle che distinguono il Nord dal Sud.

I problemi idro-geologici della Liguria sono paragonabili a quelli di altre Regioni del Mezzogiorno; lo spopolamento delle aree montane del Piemonte ha le stesse conseguenze nell’Appennino calabro; la perdita di valore degli immobili che caratterizza molte città del Nord Italia – dove una casa per una famiglia costa come l’ascensore di un alloggio in centro a Milano – non è dissimile dalle dinamiche dei valori immobiliari delle città del Sud Italia.

IL NORD NON É LA «LOCOMOTIVA» del Paese, come sottolineato nell’appello «Ricostruire l’Italia. Con il Sud» promosso da 29 esperti di Mezzogiorno. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è tatticamente errato, infondato dal punto di vista fattuale e strategicamente miope. I problemi specifici delle regioni settentrionali esistono eccome, ma non sono quelli della retorica che contrappone i «ceti produttivi» del Nord, vicini all’Europa, agli «individui assistiti» del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 7 agosto 2020

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Non repubbliche marinare ma repubblichette.- di Massimo Villone. Referendum. Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori

Non repubbliche marinare ma repubblichette.- di Massimo Villone. Referendum. Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori

Toti ci informa che: se il paese è ripartito, «è soprattutto merito delle Regioni che si sono prese le responsabilità di scrivere le linee guida»; non c’è nessuna emergenza, e il parere del Comitato tecnico scientifico (Cts) si spiega perché deve «anche ribadire la sua esistenza in vita»; «il governo non ha cercato alcun dialogo alla faccia delle competenze e dell’autonomia.

È già sgradevole per la nostra Costituzione scritta ma anche per quella materiale che si è formata nella gestione del virus»; in materie di potestà concorrente la concertazione è necessaria, e nella specie si sarebbe dovuto avere il parere del Cts, una conferenza Stato-regioni, e infine una decisione collegiale.

Bisogna dire a Toti che il ruolo delle regioni, probabilmente abnorme, nella gestione dell’emergenza è venuto dalle scelte di Conte e del governo, che hanno scelto la via dei Dpcm, dei comitati tecnici, delle cabine di regia e delle conferenze. Avrebbero probabilmente fatto meglio a costruire un percorso meno affollato e più centrato sul parlamento.

Ci sono stati elementi di debolezza di Palazzo Chigi, che non sono certo la nuova costituzione materiale che dice Toti, ma solo una errata politica istituzionale, con momenti di appeasement verso i governatori. Che però non hanno, né possono avere, il ruolo di rappresentanza generale che per Toti dovrebbero assumere. Sono poco rappresentativi persino per il territorio che governano, visto il modello istituzionale e i sistemi elettorali regionali. E comunque una concertazione fra esecutivi non esaurisce la domanda di capacità rappresentativa e di governo che solo istituzioni genuinamente nazionali possono assicurare.

Le conferenze sono luoghi – tra l’altro poco o nulla trasparenti – sensibili alle assonanze / divergenze delle maggioranze tra centro e periferia, in cui storicamente hanno prevalso gli interessi dei territori più forti. Vanno ripensate. Ma qui cogliamo un pericolo che emerge dal confronto sul taglio dei parlamentari e sulla legge elettorale.

Il taglio di per sé indebolisce il parlamento, come abbiamo argomentato su queste pagine. Voci anche insospettabili parlano ora di un pericolo per la democrazia. Parallelamente, è certo che il danno, da grave che è comunque, diventa devastante se non: a) si adotta una legge elettorale proporzionale con recupero nazionale dei resti, e b) si cancella la base regionale per l’elezione del senato. Una strategia di riduzione (parziale) del danno.

Italia viva ha invertito la rotta rispetto all’accordo sul proporzionale stipulato con la nascita del governo perché evidentemente Renzi ha smesso di sperare in una crescita dei consensi.

Per una piccola forza politica è ovviamente meglio un maggioritario in cui portare i voti decisivi per la vittoria di una coalizione, piuttosto che un proporzionale commisurato ai consensi effettivi. In soldoni, col maggioritario si vale il 3%, e si contratta per il doppio dei posti. Al momento, la strategia di riduzione del danno si mostra impervia.

Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori. La conferenza Stato-regioni diventerebbe di fatto una terza camera para-legislativa, chiamata a dare il disco verde alle politiche nazionali che fossero nell’agenda di governo.

Vanno in questo senso i rumors secondo cui nell’ambito dei festeggiamenti del cinquantenario del regionalismo sarebbe presentato un documento che chiede un nuovo «patto» tra Stato e Regioni. Patto tra chi, e per cosa? No, grazie. È passato il tempo delle Repubbliche marinare, e speriamo non venga mai quello delle repubblichette.

La costituzione materiale nata col virus che piace a Toti richiede un vaccino urgente. Vogliamo un paese unito e forte, in cui non accada che passando un confine regionale qualcuno si debba alzare e scendere dal treno, perché ogni territorio decide per sé. Capiamo che, come dice Toti del Cts, i governatori devono giustificare la propria esistenza in vita. Ma non esagerino.

da “il Manifesto” del 5 agosto 2020
Foto di Mapswire da Pixabay

Post-lockdown. Più inoccupazione, meno conflitto sociale.- di Tonino Perna C’è bisogno di dare una risposta hic et nunc ad una massa di disoccupati e precari in vertiginoso aumento

Post-lockdown. Più inoccupazione, meno conflitto sociale.- di Tonino Perna C’è bisogno di dare una risposta hic et nunc ad una massa di disoccupati e precari in vertiginoso aumento

Dieci anni fa la crisi dei mutui subprime negli Usa provocò una catena di fallimenti nelle istituzioni finanziarie, un crollo delle Borse in tutto il mondo, e quindi anche la decapitalizzazione delle imprese quotate, con un forte impatto sull’economia reale che ne pagò lo scotto senza averne alcuna colpa. Solo in Italia nel periodo 2008-2011 sono fallite più di 1/5 delle imprese manifatturiere.Strozzate dalla mancanza di liquidità e dal crollo della domanda interna. Si salvarono le imprese che avevano una maggiore capacità di penetrazione nei mercati esterni.

La crisi che stiamo vivendo ha avuto un’origine opposta. Per il lockdown hanno chiuso molte attività, nella produzione di beni e servizi, provocando un crollo del Pil di dimensioni inedite. In seconda battuta, anche la finanza ne ha subito le conseguenze con la caduta dei titoli delle imprese che chiudevano per la pandemia. Ma appena si sono riaperte le attività, i titoli di Borsa hanno ripreso a crescere (specie quelli legati alla vendita on line, e ad alcuni settori farmaceutici e tecnologici ) mentre l’economia reale, nel suo complesso, stenta a farlo e ancor più patisce l’occupazione.

Soprattutto si è modificata la relazione capitale/lavoro: i lavoratori non vengono licenziati, grazie ai decreti governativi che hanno bloccato i licenziamenti per tutto l’anno in corso, ma semplicemente non vengono riassunti. Per questo finora non è scoppiato il conflitto sociale che tuttavia è solo rimandato a quando si sbloccheranno i licenziamenti.

Nelle cicliche crisi del capitalismo si è registrata spesso una situazione di sovraproduzione, di conflitto tra imprenditori propensi ridurre il numero di addetti per adeguarsi alla caduta della domanda, e lavoratori che non rinunciavano al posto di lavoro e occupavano le fabbriche. In Italia, il più famoso è stato il caso della Fiat nel 1980 che tutti ricordano come la sconfitta destinata a pesare simbolicamente su tutto il mondo del lavoro.

L’occupazione di aziende o terreni è sempre stata l’espressione di lotta e la forma di resistenza più alta espressa dal movimento operaio e contadino. Oggi, per via del lockdown, i lavoratori- soprattutto quelli con contratto a termine, stagionali e precari, sono rimasti fuori dai luoghi di produzione di beni e servizi.

Non hanno un luogo, uno spazio proprio, una storia da difendere. Sono divisi, sparpagliati, non hanno possibilità di farsi valere, di richiedere i propri diritti. Hanno aspettato che riprendesse la cosiddetta “normalità”, che le aziende riassumessero come prima della pandemia. Ed invece oltre 700.000 sono i nuovi inoccupati che vanno ad aggiungersi ai 3 milioni preesistenti.

Da una indagine, per ora parziale, emerge il fatto che le aziende che hanno subito un calo del fatturato e che prevedono di non riprendersi a livello pre-pandemia hanno riassunto solo una parte di addetti in misura meno che proporzionale al calo del fatturato. Per intenderci: una azienda con 100 addetti in previsione di un calo del fatturato, sull’anno in corso, del 30 per cento, anziché assumerne 70, ne prende 50 che dovranno lavorare molto di più e, non di rado, con un salario orario inferiore. E dovranno anche sorridere e essere grati al datore di lavoro.

Questa è la situazione nel mondo dei servizi (ristoranti, alberghi, villaggi turistici, centri commerciali) ed è chiaro che il mondo del lavoro dipendente, oltre a essere sempre più precario, è sempre più subalterno. Come organizzare chi è rimasto fuori, ovvero quel milione di persone che secondo diversi analisti, ha perso il posto di lavoro e può sperare solo nel reddito di cittadinanza e qualche lavoretto in nero? Il governo Conte dovrebbe avere il coraggio di usare una parte dei finanziamenti europei per assumere in settori vitali della pubblica amministrazione una parte di questi inoccupati.

Assumere medici, infermieri, assistenti sociali, insegnanti di ogni ordine e grado, ricercatori nelle Università e nel Cnr, ed anche operai, idraulici, forestali, ecc. Senza scandalo: la Calabria aveva 36.000 operai forestali nel 1983, quando il Corsera gli dedicò un articolo che fece scalpore, oggi sono 5mila e per lo più anziani, mentre colline e montagne franano, vengono incendiate e abbandonate.

Se la Pubblica Amministrazione ha perso circa 500 mila posti di lavoro negli ultimi dieci anni è il momento di svoltare e superare il mito dello sviluppo che arriverà solo con gli investimenti. C’è bisogno di dare una risposta hic et nunc ad una massa di disoccupati e precari in vertiginoso aumento. E questo solo il settore pubblico lo può fare immediatamente, con risvolti positivi per tutti, anche per gli investimenti privati.

da “il Manifesto” del 4 agosto 2020
Foto di Servando Reyes da Pixabay

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della popolarità che, almeno l’espressione verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.

Ricordo che il sintagma riconversione ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.

Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco.

Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence, l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con un profondo rivolgimento culturale.

Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in anno, mentre diminuisce la popolazione?

Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo drammatico dello sviluppo italiano. I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.

Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide tecnologiche. Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia, costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.

Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di fiume le strade cittadine appena piove.

Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.

Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi ambientalisti locali.

Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare. In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si da una mano allo sviluppo. Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di territori vergini più appetibili. Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per ecologicamente compatibili.

da il Manifesto, 31.07.2020
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