Mese: maggio 2023

Dissesto idrogeologico: costruire le istituzioni «custodi del territorio».-di Alberto Magnaghi

Dissesto idrogeologico: costruire le istituzioni «custodi del territorio».-di Alberto Magnaghi

L’ecocastastrofe socioambientale dell’Emilia Romagna, segna un punto di non ritorno rispetto agli effetti della crisi climatica: l’alternarsi di lunghi periodi di siccità impermeabilizzante e precipitazioni violente aggredisce il territorio in dimensioni inedite, diffuse e interconnesse fra versanti e pianure. L’ennesima riproposizione rituale di politiche emergenziali sul dissesto idrogeologico non serve più. Non serve più fare oggi ciò che non si è fatto in passato.

Ciò che serve, oltre al blocco radicale del consumo di suolo, è un sistema di progetti integrati, multisettoriali a livello di bacini e sottobacini idrografici, capaci di ridefinire globalmente le relazioni fra sistemi insediativi e ambiente, fra versanti e pianure.

Montagne (35%) e colline (41,6) costituiscono più del 70% del territorio italiano. E’ qui che i terreni induriti dalla siccità prolungata, franano e scaricano improvvise e rapide valanghe di acqua e fango in pianure a loro volta impermeabilizzate, i cui fiumi e torrenti non smaltiscono più e allagano campi e città, con tempi di ritorno dei fenomeni sempre più frequenti.

Si impone dunque la priorità strategica di trattenere a monte le acque nei periodi di precipitazioni violente e realizzare in tempo di siccità un rapporto virtuoso di deflusso controllato delle portate richieste per mantenere il minimo vitale ecologico dei fiumi.

Realizzare questo duplice obiettivo è meno semplice che costruire casse di espansione e collettori lungo i fiumi principali: oltre che politiche idrogeomorfologiche, richiede trasformazioni urbanistiche, ambientali, agroforestali, infrastrutturali, socioculturali, paesaggistiche di sistemi collinari e montani, storicamente abitati da comunità agroambientali, costellati da reti di piccole e medie città, paesi, frazioni che, nonostante i fenomeni di spopolamento, mantengono ancora le ricche strutture patrimoniali del loro territorio.

Ciò richiede progetti e politiche che riguardino, ad esempio: sistemi di trattenimento delle acque di prima pioggia (de-impermeabilizzazione dei suoli, riattivazione di cisterne storiche, nuovi sistemi di recupero e stoccaggio urbano e rurale nei piani urbanistici; reti di piccoli invasi multifunzionali e regolazione dei reflui urbani); recupero dei terrazzamenti e delle infrastrutture boschive e dei coltivi (ripiani e strade sostenuti da muri a secco, ciglioni, lunette, canali, fossi, scoline), in funzione produttiva e di regolazione del deflusso delle acque; riqualificazione delle strutture idrauliche di bacino (rii, torrenti, borri, briglie, ecc); infrastrutturazione delle attività agricole per il trattenimento delle acque e estensione del ruolo delle aziende a funzioni di produzione di servizi ecosistemici e di «custodi del territorio», in primis degli equilibri idrogeologici.

Questi progetti integrati non sono attivabili senza due condizioni fondamentali: la prima, l’avvio di un grande processo di ripopolamento dell’alta collina e della montagna, incentrato sull’’innovazione e estensione di funzioni delle attività agroforestali alla cura del territorio, che siano in grado di ricostituire capillarmente, a livello di singoli sottobacini, le condizioni di sicurezza idraulica e geomorfologica dei versanti; la seconda, la trasformazione radicale degli istituti di autogoverno locale verso forme di democrazia comunitaria, stante l’attuale incapacità dei Comuni di gestire progetti integrati e autonomi di pianificazione “dal basso”, data la dipendenza dai partiti centrali e da relative forme settoriali di intervento.

Attualmente queste due condizioni sono scarsamente promosse dalle politiche pubbliche; anche se i processi spontanei di ripopolamento della montagna attivati da “ritornanti, restanti e nuovi abitanti”, accompagnati dalla presenza capillare sul territorio di forme comunitarie di cura (ecomusei, contratti di fiume, parchi agricoli, comunità, distretti e biodistretti del cibo, cooperative di comunità, comunità energetiche, fondazioni, associazioni e imprese a finalità socioterritoriale e ambientale e cosi via), se assunti e valorizzati come riferimenti socioproduttivi, potrebbero dar luogo a una nuova civilizzazione bioregionale in grado di affrontare le due nuove urgenze strategiche di mitigazione e contrasto della crisi climatica.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2023
https://pixabay.com/it/photos/allagato-disastro-inondazioni-491245/

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

Non era mai successo. Come leggiamo su queste pagine, nessuno ha conoscenza o memoria alcuna di «bozze provvisorie» uscite dagli uffici della Camera o del Senato. Ma la voglia di innovazione della destra di governo produce l’impensabile. Che poi l’erronea pubblicazione di un testo non verificato sia credibile è tutt’altra faccenda.

Opportunamente Andrea Fabozzi precisa che il dossier è rimasto online per ben quattro giorni prima che si aprisse il caso. L’Ufficio bilancio del Senato non deve scuse ad alcuno. Piuttosto, deve scusarsi chi ha prevaricato su strutture che sono al servizio non della maggioranza ma della istituzione.

Quanto è accaduto conferma che Meloni ha commesso un errore lasciando in mani leghiste i ministeri chiave: Calderoli alle autonomie, Giorgetti all’economia, Salvini alle infrastrutture. Poi ha sbagliato lasciando Calderoli libero di scegliere tempi e modi delle sue mosse. Probabilmente ha perso l’ultima occasione di rallentare caterpillar Calderoli quando ha consentito il disco verde in Consiglio dei ministri senza uno straccio di discussione nel merito.

Forse la misura è stata colma quando Calderoli ha presentato il suo disegno di legge (AS 615) con la sola sua firma, e, ancor più, quando è emerso che aveva probabilmente già avviato contatti e trattative per la elaborazione delle future intese. Si è appreso, ad esempio, che il ministero dell’istruzione aveva stigmatizzato come inaccettabile l’ipotesi di ruoli regionali per i docenti.

Il punto è che la risposta del ministero comporta che qualcuno abbia posto sul punto una domanda. E chi può aver chiesto, se non il ministro delle autonomie? Sollecitato da chi? E quante altre domande ha posto a chi, di cui non sappiamo? È la nuova Italia, a firma Calderoli.

Ora Meloni deve aver capito che il suo partito di “patrioti” non può essere strumento decisivo nella costruzione di una patria nuova in salsa leghista. Ma fermare il treno in corsa è certo più difficile. Il dossier incriminato in fondo nulla dice che non sia stato già detto da esperti, studiosi, prestigiosi istituti di ricerca come la Svimez, soggetti istituzionali non sospetti di partigianeria come l’Ufficio parlamentare per il bilancio, la Corte dei conti, e persino la Banca d’Italia.

D’altra parte, quando si parla di una spesa regionalizzabile di circa 280 miliardi di euro, destinati ad andare in misura prevalente alle regioni più forti, è chiaro che alle altre non rimane che stringere la cinghia, con buona pace dell’eguaglianza dei diritti, del riequilibrio territoriale e della coesione sociale. L’Italia si frantuma, mettendo in discussione non solo la Costituzione del 1948, ma 160 anni di unità.

Che fare? Anzitutto, chiedere a Calderoli una piena informazione sull’operato del suo ministero. Inoltre, emendare l’AS 615 riportando nelle aule parlamentari ogni decisione nel merito delle intese e dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In parallelo, far emergere nel dibattito parlamentare la necessità di rivedere in modo mirato il framework costituzionale dell’autonomia, oggi scritto in modo tale che il rischio per l’unità del paese e l’eguaglianza esiste anche senza autonomia differenziata.

Per questo può essere utile la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta alla modifica degli articoli 116.3 e 117, sostenuta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Abbiamo raccolto oltre 100000 firme, di cui solo poche migliaia andranno perse per le difficoltà incontrate nella certificazione.

Un grande risultato, ottenuto su un oggetto per larga parte misterioso per un’opinione pubblica tenuta per anni all’oscuro dal silenzio dei mezzi di comunicazione di massa, e dall’assenza di un vero dibattito in parlamento e nei partiti. Ma proprio le firme raccolte ci dicono di un paese diviso. In tutto il Nord, dal Friuli-Venezia Giulia alla Liguria aggiungendo anche l’Emilia-Romagna, le firme raccolte sono pochissime. Tante, invece, dal Sud. Ed è mai possibile che con i tradizionali banchetti il Molise raccolga più firme dell’Emilia-Romagna?

Bisogna spiegare e dimostrare che l’autonomia differenziata non è la via giusta. E che l’unità e la coesione convengono a tutti, e sono il solo vero modo di rafforzare la competitività del sistema-paese sul piano europeo e globale. Calderoli minaccia dimissioni, ma se ne faccia una ragione. E Meloni dimostri di saper fare il necessario su fronti di guerra che non sono in paesi lontani, ma dalle parti di Palazzo Chigi.

da “il Manifesto” del 18 maggio 2023

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

La decisione della Commissione Ue di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per finanziare l’industria bellica, per aumentare lo stock di munizioni, va preso seriamente in considerazione. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, così la giustifica: « Il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro».

È interessante notare che la resilienza, categoria utilizzata finora prevalentemente nel mondo ecologista, ha significato la capacità degli individui di far fronte alle avversità riuscendone rafforzati. In particolare, nel Pnrr aveva finora un approccio che andava nella direzione di mitigazione degli «eventi estremi» con investimenti, dall’agricoltura all’urbanistica, che dovevano fare i conti con il mutamento climatico in atto. Si diceva e si scriveva che bisognava ripensare all’uso dell’acqua dato che dobbiamo fare i conti con lunghi periodi di siccità, così come ridisegnare le città con una maggiore presenza di verde per ridurre le emissioni di CO2. Grazie al commissario Breton apprendiamo che c’è una nuova accezione: la difesa militare fa parte della resilienza in quanto la guerra è diventato un evento naturale e permanente da cui bisogna difendersi.

La scelta di indirizzare gli investimenti in questa direzione non viene data come fatto eccezionale ma come risposta «resiliente» ad un mondo che ci minaccia.

Questa scelta di politica economica rende chiaro a tutti verso quale modello di sviluppo ci stiamo incamminando. La mitica crescita economica si basa sempre più sulla produzione di merci a «valore d’uso negativo» per l’uomo e per l’ambiente.

Se facessimo una contabilità qualitativa del Pil scopriremmo che una parte crescente di quella che chiamiamo ricchezza nazionale è legata alla produzione di merci che hanno un impatto negativo sull’ecosistema, sulla salute e benessere delle persone, sulla nostra vita quotidiana. Tutto questo è occultato dentro una bolla di falsificazione della realtà dove prevalgono in maniera ossessiva termini quali «sostenibilità» e «green». È bastata la chiusura dei rifornimenti di gas dalla Russia per fare riaprire centrali a carbone, riprendere le trivellazioni in Europa e nel Sud del mondo, a partire dai Paesi africani, costruire i nuovi rigassificatori, e infine accelerare la corsa agli armamenti, una delle prime cause del disastro ambientale. Insomma, dalla tanto sbandierata «transizione green» stiamo passando velocemente alla «transizione bellica» senza trovare una opposizione significativa. I sindacati dei lavoratori sono sempre più soggetti al ricatto dell’occupazione, per cui hanno scarsa capacità di mettere in discussione cosa produrre, per chi e come.

L’ideologia della crescita infinita, fine a sé stessa, ha impedito a quello che rimane della sinistra europea di analizzare criticamente la qualità di questa crescita monetaria, per giunta drogata da una nuova corsa all’indebitamento.
L’Ue si è ormai completamente adeguata all’american way of war come un dato strutturale e permanente del capitalismo a stelle e strisce.

Siamo entrati ormai a pieno titolo in quello che James ‘O Connor definiva “warfare state” nel famoso saggio “The Fiscal Crisis of the State”, edito a New York esattamente cinquanta anni fa. Ovvero in una Economia di guerra ( War Economy) come la definì Seymour Melman nel 1970, invitandoci a prendere atto che si stava formando un nuovo gruppo dominante, una nuova borghesia definita dai suoi rapporti con i mezzi di distruzione più che dei suoi rapporti con i mezzi di produzione, una borghesia criminale che oggi diventa prevalente.

La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni: la Next Generation Eu, da cui ora invece vengono presi i fondi per finanziare l’industria bellica.

da “il Manifesto” del 5 maggio 2023
Foto di Brett Hondow da Pixabay