Mese: aprile 2024

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Lo scorso 23 aprile il comitato promotore del referendum contro la legge elettorale detta Rosatellum, presieduto da Elisabetta Trenta, ha depositato i quesiti in Cassazione. Un punto di partenza che costituisce anche il compimento di un lavoro magistrale, infaticabile e straordinariamente professionale fatto da Felice Besostri, l’uomo che ci sempre ricordato che la qualità di uno Stato democratico dipende dalla sua legge elettorale. Felice, scomparso a gennaio scorso, ha fatto dichiarare incostituzionale sia il Porcellum che l’Italicum e dinanzi alla protervia di un parlamento sistematicamente elusivo delle sentenze della Corte costituzionale era diventato l’anima del movimento referendario. Ci eravamo scambiati delle idee sul senso della nostra iniziativa. Queste.

Indifferenza è la parola dalla quale si può ripartire per una disamina politica che allarghi la visuale. L’indifferenza verso una politica identitaria e coraggiosa aperta alle nuove generazioni, alla società civile, alle esperienze culturali ed alla partecipazione. La politica che l’elettore non trova, non percepisce, non intercetta di fronte a trasformismo, instabilità di centinaia di notabili che si spostano da un (sedicente) partito a un altro solo in base alle convenienze del momento, senza neanche il pudore di una parvenza di dibattito ma solo sulla base del mantra «le elezioni non servono per rappresentare le idee e per consentire le giuste alleanze tra diversi per governare, servono solo per sapere chi vince». E chi vince deve avere, mediante una legge elettorale ad hoc, una maggioranza tale da comandare, senza fastidi, per tutta la legislatura.

Su questo altare sono stati sacrificati i principi ed i valori sui quali è stata edificata la Repubblica, e cioè la funzione costituzionale dei partiti come metodo di selezione della rappresentanza istituzionale su base proporzionale. Partiti che da luogo di discussione e ricerca sono stati ridotti a sito di momentanea «appartenenza», parola che non significa più un modo di sentirsi parte di una comunità capace di condividere bisogni, speranze, aspettative e timori, bensì posizionamento in difesa di interessi particolari.

Questo è il motivo profondo dell’indifferenza, della disaffezione dei cittadini rispetto all’esercizio, allo spettacolo e alla bellezza della politica.
Negli ultimi venti anni la gran parte di noi, italiani che hanno creduto e credono nel valore della politica, ha dovuto prendere atto che la scelta e la proposta dei suoi rappresentanti non sono state fatta sulla base di capacità, competenze e impegno ma sulla creazione di rapporti personali o di cerchi magici. In questo modo il senso di comunità ha finito per non avere più alcun valore.

Il tutto ormai senza alcun alibi per chi sostiene che comunque tutto ciò assicurerebbe stabilità, perché l’esperienza dimostra come nessun artificio maggioritario abbia potuto garantire davvero la governabilità mentre, almeno nel caso italiano, ha invece certamente contribuito a destrutturare il sistema politico.

È ben chiaro a tutti al contrario come un parlamento ampiamente rappresentativo – composto da senatori e deputati che del loro comportamento nelle istituzioni rispondono agli elettori, sia stato (e sarebbe) il miglior elemento di stabilità per un paese diviso e confuso.
Nel nostro Paese continua l’indifferenza – in alcuni casi il disgusto – verso una classe dirigente indigeribile. Essa ha prodotto un altissimo tasso di astensione e prevale ancora il voto connotato da percorsi familistici o clientelari.

È questa antipolitica o, peggio, rifiuto della politica? Noi pensiamo di no. Questa crisi non è ascrivibile agli elettori ma a chi elabora la proposta elettorale evidentemente sempre più scadente o autoreferenziale di fronte alla quale il cittadino, anche il più motivato, decide di non partecipare. È un problema, ma allo stesso tempo un segnale. Di fronte a una politica così predatoria e opportunista dobbiamo alzare il livello dello scontro e ritornare nei luoghi della politica. Tornare nelle piazze per fare in modo che l’entusiasmo, la passione, la rabbia e la voglia di esserci e di contare entrino nelle case, negli uffici, nelle scuole.

da “il Manifesto” del 30 aprile 2024
Foto di Gordon Johnson da Pixabay

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

I due Bronzi furono trovati da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, a soli dieci metri di profondità e poi portati in superficie dai sommozzatori dei carabinieri aiutati da decine, centinaia di volontari. La spiaggia bianca di Riace si riempì d’una umanità accaldata e vociante. Li trassero a riva a braccia, li strofinarono per togliere la patina più superficiale, li adagiarono su materassi posati su improvvisate lettighe lignee che trasportarono, accalcandosi gli uni agli altri, come se portassero un loro parente ferito al Pronto soccorso o come se traslassero, in processione, le sacre reliquie di un loro santo.

A fronte di cotanta partecipazione popolare i giornali, come scrive Salvatore Settis, diedero pochissimo spazio al rinvenimento all’inizio: solo un trafiletto e poi, in un crescendo che si è intensificato per mesi, ha occupato sempre più spazio fino ad arrivare alle prime pagine dei giornali e dei telegiornali nazionali.

Un ritrovamento “spaesante” che ha prodotto, e produce ancora, una quantità imprevedibile di turbamenti dell’anima di quanti vengono a trovarsi al loro cospetto. Da quei lontani primi anni ‘70 i due atleti di bronzo -antichi, ma allo stesso tempo “nuovi” perché non più visti da alcuno da due millenni- sono stati un “affaire” non solo archeologico, ma anche antropologico e sociologico, un vero e proprio capitolo del costume italiano.

Un libro -uscito nel 2015 a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis (“Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace”, Donzelli)- aveva ricostruito il clamore che suscitò il ritrovamento dei bronzi e l’uso che se ne fece: reportage televisivi, giornalistici in Italia ed in tutto il mondo, poi, per gli otto anni necessari al primo restauro di Firenze, il silenzio. Silenzio che fu rotto dalla prima apparizione pubblica dei Bronzi, presso il Museo Archeologico di Firenze, in tutto il loro splendore classico. Il risultato fu un afflusso di centinaia di migliaia di visitatori tanto imponente ed entusiasta che i giornali dovettero parlare di un fenomeno collettivo di fascinazione, mai riscontrato prima.

Una reazione impropria e debole ebbero, invece, gli archeologi che, all’epoca, apparivano, ed erano, divisi in due opposte fazioni: gli storici dell’arte e gli archeologi militanti dell’allora nascente “cultura materiale”, ma gli uni e gli altri, secondo Settis, abdicarono alla propria missione civile lasciando il ruolo da protagonista non solo alla folla sulla spiaggia, ma anche alla folla nella mostra e nei musei in cui furono esposti.

Per volontà del presidente Pertini che -dopo Firenze, ma prima che tornassero al Museo di Reggio- volle che fossero esposti al Quirinale dove un’altra immane folla si recò in pellegrinaggio, dando, definitivamente, l’avvio a quel fenomeno delle ‘mostre-evento’ che da allora diventarono, purtroppo, frequentissime. A proposito dell’antico e del suo rapporto con il kitsch, che ne rovescia il senso come in uno specchio deformante, bisogna ricordare che i bronzi sono stati i protagonisti di un profluvio di pubblicità ruspanti o, nella maggior parte dei casi, grottesche.

Provocarono anche un turbamento erotico perché nella loro fulgente nudità vennero riconosciuti e usati, da quella che ora si chiamerebbe bolla mediatica, come portatori di una potenza sessuale quasi indistinta sia verso le donne, sia verso gli uomini, come è testimoniato dalle decine di pubblicità e copertine di giornali, dibattiti sulla sessualità e, persino, dalla pubblicazione di fumetti pornografici.

In un’epoca nella quale i media erano già capaci di omogeneizzare qualsivoglia notizia e di porgerla alle masse depotenziata da ogni valore intrinseco è venuto facile alla classe dirigente della regione nella quale erano stati rinvenuti e poi musealizzati, “calabresizzare” le statue.

Se è vero che ricordando il passato gli uomini lo ricreano attribuendogli un senso che è in relazione alla loro idea del presente e che i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono oggi, i calabresi, in maggioranza, l’hanno fatto accettando, passivamente e mimeticamente, la titolarità identitaria di magnogreci. I bronzi da Riace nobilitano e, per ellissi di attribuzione, inverano, più di ogni altra cosa, questa identificazione che ha disseccato, malauguratamente, tutte le altre radici del nostro passato storico.

L’uso del passato è una materia pericolosa che va trattata con accortezza perché è molto facile che sia manipolata dalla classe dirigente per trarne vantaggi politici, economici e di consenso sociale.

Basti pensare, per esempio, alla grottesca vicenda del Museo del saccheggiatore di Roma Alarico che, nonostante sia stato bloccato nel 2018 da un intervento della Direzione generale dell’allora Ministero dei beni culturali, viene ora riproposto dall’Amministrazione del Comune di Cosenza in carica che aveva assicurato, in campagna elettorale, di non volerne sapere di un altro Museo virtuale ai piedi del Centro storico.

La “calabresizzazione” dei Bronzi dovrebbe comportare, insieme all’autoidentificazione magnogreca, anche una gelosa e, ormai, identitaria tutela materiale e immateriale delle due statue da parte dei calabresi, oltre che dell’autorità preposta che -nella persona del direttore del Museo, Fabrizio Sudano- si è già tempestivamente espressa affermando che l’immagine è stata usata senza autorizzazione dal ‘comunicatore’ del generale Vannacci. Ha ragione Giuseppe Smorto nel dire che bisognerebbe che l’immagine dei Bronzi fosse tutelata anche da tutti i calabresi come quella dell’amatissimo, dai senesi e pure da me, Palio di Siena.

Le eredità storiche bisogna meritarsele, non sono acquisite una volta per sempre, bisogna saperle tutelare, curare, nutrire e noi calabresi dobbiamo imparare ad esserne degni.

da”il Quotidiano del Sud” del 20 aprile 2024

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Alcune riflessioni a margine di un dibattito sulla sanità.
C’è che non lo vuole difendere. Chi intenzionalmente pone in essere le condizioni per smantellarlo e rendere sterile il principio sancito nella legge 833/78 e poi nel D. Lvo 502/92, quello relativo alla assistenza solidaristica ed universale cioè senza oneri per i cittadini, garantiti dalla fiscalità generale ove chi ha di più paga proporzionalmente anche per chi ha di meno.

Premettiamo per la milionesima volta che il servizio pubblico è svolto concretamente da strutture pubbliche e private, tutte accreditate con il SSN sulla base di identici criteri di appropriatezza e di qualità. Ripetesi, senza alcun impegno economico per i cittadini.

C’è chi dolosamente rema contro ed ha nomi e cognomi. Ed è la classe dirigente tutta, un unicum che non ha alcuna distinzione, che ha consapevolmente omesso l’applicazione della legge, del buon senso e dell’equità.
Andiamo con ordine e ripercorriamo i luoghi comuni che emergono, alcuni con un insopportabile demagogia altri sotto forma di denunce, apparentemente coraggiose e nuove, nei dibattiti e nelle trasmissioni televisive ed individuiamo con chiarezza le responsabilità.

A) La rete ospedaliera: responsabilità molto risalente nel tempo ed ascrivibile a chi – inconscientemente e senza alcuna conoscenza di territori e fabbisogni – ha dissipato un patrimonio di conoscenza e professionalità disponendo d’imperio riconversioni, soppressioni di ospedali in zone disagiate, riduzione di assistenza senza aver prima messo mano e potenziato da un lato l’assistenza di base, cioè la prevenzione, la medicina di famiglia, la specialistica ambulatoriale, e dall’altro le funzioni di urgenza/emergenza.

E’ chiaro a tutti che non si deospedalizza per decreto ma con una intelligente, consapevole e condivisa programmazione.
Quindici anni di Commissari hanno condotto allo sfascio.

Sul presupposto (e sul pregiudizio nei confronti dei calabresi) che la sanità è terreno di malaffare non si è combattuto il malaffare con il lavoro dei generali ed i prefetti nei Tribunali e nelle Questure, ma si sono mandati i generali ed i prefetti a fare un altro lavoro nella Pubblica Amministrazione: organizzare il servizio santiario.
Con risultati devastanti e talvolta con episodi tragicomici.

Con tutti i limiti ed i problemi derivanti da questa situazione la proposta di riorganizzazione di oggi delinea un progetto ed una visione. Staremo a vedere e daremo il contributo di cittadini ed operatori interessati ed attenti, per integrare e migliorare.
Le posizioni manichee e di parte (verrebbe da dire ideologizzate, ma ahinoi l’ideologia non è più nel cassetto della politica) non servono a niente.

B) Le liste d’attesa e l’emigrazione sanitaria. Questo è un problema la cui origine è di immediata e diretta comprensione e di ancor più facile soluzione. Deriva da un principio ottusamente penalizzante solo per le Regioni del Sud ed in particolare per la Calabria: i tetti di spesa.

Si dice, con espressione disinformata e demagogica che gli ospedali pubblici sono messi in condizione di non poter rispondere alla domanda di cura e assistenza e che perciò i pazienti sono obbligati a rivolgersi alla struttura privata, che ingrassa sulla salute dei cittadini.

In realtà, cosa succede: come si è detto prima, presso la struttura privata non si paga ma quel che rileva per questa analisi, è che il paziente, non ricevendo assistenza dalla struttura pubblica, la chiede alla struttura privata ma ad un certo punto trova la porta chiusa perché oltre il tetto stabilito dall’ASP la struttura privata non può erogare prestazioni.

Il che sarebbe comprensibile se questo blocco fosse determinato dalla carenza o inesistenza di risorse e quindi dalla impossibilità di far fronte ai costi. Motivazione odiosa, contraria alla legge, ma comprensibile.
Tuttavia così non è.

Di fronte all’impossibilità di erogare la prestazione richiesta sia da parte dell’ospedale pubblico (per saturazione) che da parte dell’ospedale privato (per esaurimento del tetto di spesa) il cittadino non ha che tre strade: 1) mettersi in lista d’attesa; 2) chiedere assistenza in altra regione; 3) farsi curare a pagamento. Ognuna di queste opzioni è altamente penalizzante ed è indotta da una gestione stupida e dannosa.

Vediamo perché: l’incremento della lista d’attesa è il fenomeno che tutti dicono di voler impedire perché comporta disagio, insoddisfazione, ingravescenza della malattia e costo sociale.

L’assistenza e la cura a pagamento, che non tutti possono permettersi, creano il fenomeno contrario al principio informatore del nostro servizio sanitario, e cioè la salute per i ricchi e quella per i poveri.
Al cittadino bisognoso di assistenza non rimane che andare fuori regione. Il che vuol dire, per lui, sommare le criticità delle prime due opzioni e cioè il disagio per se e per la sua famiglia per viaggi e permanenze in un posto lontano da casa ed il relativo costo.

Questo dal punto di vista del paziente. Ma non finisce, qui perché la Regione Calabria, disinteressata alle sorti del proprio residente è poi costretta a pagare la prestazione alla Regione in cui viene resa a tariffa più che doppia. Con questo sistema noi calabresi spendiamo oltre 250 milioni all’anno. Circa due miliardi e mezzo in dieci anni.

Soldi letteralmente regalati alle Regioni del nord perché – al netto di prestazioni di altissima complessità possibili solo in centri iper specializzati – tutte o gran parte di queste prestazioni sono di natura ordinaria (cataratte, menischi, radioterapia, protesi, colecistesctomia, PET, RMN, ecc. ecc.) che potrebbero essere rese negli ospedali accreditati delle città calabresi a costo dimezzato.

Una semplicissima cosa che potrebbe cambiare la vita dei calabresi, ed invertire la tendenza, per di più applicando la legge, quella che dice (il d.lvo 502/92) che la Pubblica Amministrazione deve consentire le cure a tutti, anche oltre i tetti di spesa, e remunerare le prestazioni con tariffe ridotte proporzionalmente e progressivamente senza oneri per i cittadini. Dunque servizio per i pazienti e risparmio enorme per le casse regionali.

Eppure tutti invocano la riduzione della emigrazione sanitaria senza indicare come fare.
E perché non si fa? I motivi possono essere due. Nel migliore dei casi, la burocrazia dovrebbe impegnarsi nel lavoro di elaborazione dati programmazione e compensazione tra regioni (mentre è meglio dire una volta per tutte, questi sono i soldi e basta, e chi arriva quando i tetti sono esauriti aspetta, emigra o paga). Nel peggiore si vuole dolosamente arricchire regioni e strutture del Nord.

Bene. Chiarito il meccanismo, va però detto che anche su questo punto, sembra che la struttura commissariale abbia idee chiare ed intenda mettere in campo tutte le iniziative necessarie per invertire la tendenza. I primi dati ci sono e costituiscono un segnale confortante: riduzione dell’emigrazione senza spendere un solo centesimo in più anzi, recuperando risorse e conseguente riduzione delle liste d’attesa.

C) La questione generale, gli sprechi, gli imbrogli, le negligenze.
Qui è lo snodo nel quale il Paese, non solo la Calabria, deve interrogarsi. A che servono le denunce – soprattutto se provengono da chi ha avuto ruoli diretti ed in partiti di governo (quindi tutti i politici che parlano e sparlano) – se non sono accompagnate da esplicite richieste di interventi giudiziari o da indicazioni di rimedi? A niente, perché questi fenomeni – il malaffare, la negligenza, l’indifferenza verso i problemi della comunità e del prossimo – sono il frutto dell’inesistenza di un meccanismo di selezione della classe dirigente.

Chi oggi siede nelle istituzioni nazionali non rappresenta in alcun modo le popolazioni di provenienza. Per il semplicissimo ed evidente motivo che non è eletto, ma è nominato e non risponde del suo operato ai cittadini che vorrebbero una sanità migliore ma al capopartito che vuole, al suo comando, solo un’alzata di mano in Parlamento.
È tutto qui. Ed è semplice. Chi davvero vuole cambiare le cose, prima che tutto diventi regime, deve chiedere che si cambi la legge elettorale e si ristabilisca la connessione politica tra eletti ed elettori.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 aprile 2024
Foto di mspark0 da Pixabay

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Sono passati quasi 20 anni, 19 per l’esattezza. Il PD non c’era ancora, c’erano i DS, i Democratici di Sinistra: accadde tutto una mattina del luglio del 2005 al Parco dei Principi di Roma, hotel per attrici e indossatrici, dove quel venerdì si stava svolgendo il Consiglio nazionale dei Ds.

Inaspettatamente Fabio Mussi sfoderò un lessico crudissimo per denunciare «l’esistenza in Campania di veri e propri capibastone», avvertendo: «Su questi argomenti sono pronto a fare uno scandalo!». Cesare Salvi rincarò le dosi contro consulenze e commissioni speciali in terra di Campania («C’è una nuova questione morale!») e alfine il parlamentino della Quercia approvò un ordine del giorno Mussi-Salvi-Napolitano col quale si mettevano all’indice quelle regioni «governate dal centro-sinistra che moltiplicano gli incarichi amministrativi».

Quattro giorni dopo il «capobastone» Antonio Bassolino, dicendosi «rattristato dal calderone», produsse questo contro-argomento: «In Campania si vince sempre dal 1993, altrove a volte si vince e si perde…».
Dunque, guai ai capibastone.

Quell’invettiva deve essere rimasta nell’orecchio di Walter Veltroni che tre anni dopo, dicembre 2008, da leader del Pd la rilanciò con foga ed efficacia spettacolare davanti all’assemblea dei giovani democratici. Nell’ultimo congresso provinciale di Napoli Andrea Cozzolino, il candidato di Bassolino, era stato però battuto dal veltroniano Luigi Nicolais, docente universitario. Ironia della sorte!

Il termine capobastone istintivamente evocava comunque il Sud, dove alle Europee del 2004 Massimo D’Alema aveva conquistato nientedimeno che 832.000 preferenze, anche grazie ad una rete di accordi locali con una miriade di «capibastoncini».

E anche allora c’era il capopopolo Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd. Insomma una maledizione, che aveva poi portato sempre Veltroni in una famosa intemerata pronunciata a Reggio Calabria nel 2008, appena eletto segretario del Pd nella sua prima visita in Calabria, a usare l’espressione biblica (*) ‘’statue di sale’’ (in verità già usata un anno prima ma con altro significato, il 30 giugno 2007: “Questo paese ha la testa rivolta al passato e, se non cambia, rischia di trasformarsi in una statua di sale”). Ma in Calabria allora apriti cielo! Successe un mezzo finimondo, con vere e presunte statue di sale a polemizzare con Walter.

Ora tra una settimana torna in Calabria Schlein per concludere la Conferenza programmatica del PD regionale a Soveria Mannelli e si accettano scommesse se non si ritroverà, più o meno, con lo stesso problema!

La verità è che oggi la Puglia è come una metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo ed è subito diventato un partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, in Basilicata, in Piemonte, nel Lazio, in Calabria etc. etc.

Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze, o a usarli come armi di deterrenza e il trasformismo cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. Solo che i nuovi cacicchi a differenza dei vecchi, che i voti almeno l’avevano, spesso non hanno nemmeno i voti della loro famiglia e qualche volta solo la promessa dei voti!

La segretaria si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebi che la hanno portata alla guida del Pd. Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano. E Schlein da questo punto di vista non pare proprio abbia iniziato a lavorare sul partito.

Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto. Il tutto per capitalizzare i guai del Pd alle Europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia.

*Immagine: La moglie di Lot è una figura menzionata per la prima volta nella Bibbia, in Genesi 19,26, che descrive come la donna divenne una statua di sale dopo aver guardato Sodoma.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 aprile 2024
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Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente legati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sui paesaggi dell’Italia. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli:

“L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità” (L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, 1974).

La potestà legislativa sul Patrimonio culturale e paesaggistico è stata, finora, prerogativa della Repubblica, della Nazione, del Ministero dei Beni Culturali e non delle Regioni; potestà che secondo il disegno di legge di Calderoli, invece, sarà trasferita alle Regioni.

Un trasferimento che comporterà la cessione alla Regioni delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze, organi periferici del Ministero della Cultura, violando l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Funzioni e competenze delle Soprintendenze e dei Soprintendenti che Matteo Renzi definiva così: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario … Sovrintendente de che?”. Un milieu culturale che, negli ultimi due decenni, è stato assecondato e favorito dalle politiche del Pd come, sopra tutti, la riforma Franceschini del ‘Ministero dei beni culturali’ che non solo ha separato la tutela dalla valorizzazione e sminuzzato i territori e le competenze, ma che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero, addirittura, in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali.

A partire dalla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, purtroppo, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni. Quella modifica aveva attribuito, fra le tante altre cose, potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali, ma non si era spinta, per fortuna, fino alla tutela dei Beni culturali.

Le prime richieste di “autonomia differenziata” sono state avanzate, già nel 2017, da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sulla scia della modifica della Carta tanto che stavano per essere approvate proprio da un altro governo di centrosinistra, quello Gentiloni, che, per fortuna, decadde prima della ratifica definitiva, nel giugno 2018.

Il disegno di legge 615 Calderoli, approvato il 23 gennaio 2024 in Senato, grazie all’ultraventennale connivenza dell’opposizione, può ora tranquillamente affermare che : “Le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie”.

Quel che ci interessa ai fini del presente scritto, oltre alla vituperabile autonomia regionale sanitaria, è il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione regola, dal 2001, il grado di autonomia delle Regioni, consentendo loro di “personalizzare” le deleghe anche in materia ambientale, con i disastrosi risultati -in Emilia Romagna, in Liguria ed in Veneto- che sono sotto gli occhi di tutti.

La modifica del Titolo V della Costituzione contiene l’articolo 116 che richiama l’elenco delle materie trasferibili alle Regioni riportato in quello successivo, il 117. Tra queste materie, alla lettera “s”, figurano: la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali che significa, se non verrà modificata alla Camera, che queste materie saranno governate da ogni Regione. Non finisce qui, purtroppo, perché queste ultime potranno trasferirle, a loro volta, a Comuni, Province e Città metropolitane.

Mi fa ‘tremar le vene e i polsi’ il solo pensiero di quel che potrà accadere, per esempio, in Calabria se il presidente della Regione, chiunque esso sia e sarà, dovesse scegliere i Soprintendenti e i direttori dei Musei statali, dare o negare autorizzazioni a costruire o ristrutturare, apporre e far rispettare vincoli archeologici, paesaggistici e via dicendo. Mi chiedo, soprattutto, come potrà svolgere la stessa persona e la stessa Istituzione il ruolo sia di controllore sia di controllato.

Già nel 1960 Bianchi Bandinelli, forse il più importante antichista italiano del ‘900, amaramente scriveva: “L’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e tale distruzione […] è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana […] perché è l’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”.

Se dovesse essere approvato, anche alla Camera, questo Disegno di Legge anticostituzionale ed antiunitario la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale, su cui si fonda il nostro comune sentirsi italiani, non sarebbero più prerogative della Repubblica e della Nazione, ma verrebbero spezzettate regione per regione e non rappresenterebbero più quegli argini, già fragili, che hanno impedito, finora, che dilagassero il cemento e l’oblio definitivo del passato, distruggendo, per sempre, quel tessuto connettivo che tiene insieme la Nazione, quell’ “essenza stessa della nostra personalità”, quel sentimento di orgoglio e di appartenenza all’Italia.

Un vero e proprio attentato all’Unità ed alla percezione collettiva della Nazione (come dice l’art. 9) con il complice avallo dei presunti nazionalisti.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 aprile 2024

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

È incredibile la quantità di mail, messaggi, telefonate che stanno arrivando alla squadra che gestisce il Parco Ecolandia. Tutti a chiedere “cosa possiamo fare” , “come possiamo renderci utili” , “contate su di noi”, singole persone e rappresentanti di più di un centinaio di associazioni. Per sabato prossimo abbiamo indetto una manifestazione dentro Ecolandia, sotto i cipressi, a qualche decina di metri dagli uffici amministrativi che, come fosse stata sganciata una bomba, sono stati totalmente cancellati, non solo con i beni, ma soprattutto con le memorie che contenevano più di dieci anni di lavoro.

In un tempo in cui sembra prevalere scetticismo e rassegnazione questa reazione ci fa capire che Ecolandia è divenuta negli anni quello che si definisce nelle scienze sociali come un ”bene comune”. Vale a dire un bene non solo fruito dalla collettività, ma anche vissuto come una parte della propria identità.

Il fatto che la solidarietà non si sia fermata ai soli cittadini reggini, ma sia arrivata da tante parti d’Italia ci fa capire che questo Parco rappresenta un simbolo per tutti coloro che amano la natura, che credono in un altro modello di società, che in Ecolandia hanno potuto ammirare le meraviglie dello Stretto, vivere delle serate indimenticabili nell’anfiteatro, percorrere le tappe del Laudato sì.

All’ingresso del Parco Ecolandia, quando è stato inaugurato, un giovane scout ha voluto scrivere su una tavola arcobaleno “È vietato calpestare i sogni”. E la realizzazione di questo parco tematico è stato un sogno che è partito nel lontano 1998. Chi scrive, in qualità di presidente del C.R.I.C., una Ong molto attiva in quegli anni, ideò e coordinò il progetto che vinse una gara all’interno del programma Urban della Ue, promosso da Gianni Pensabene, allora assessore della giunta di Italo Falcomatà.

In poco più di due anni il progetto fu realizzato, ma l’improvvisa scomparsa del sindaco più amato dalla città impedì l’inaugurazione. Purtroppo, dal 2002 al 2012 Ecolandia rimase chiusa, per inspiegabili motivi, e venne vandalizzata come è prassi normale per tutti i beni pubblici che rimangono incustoditi. Dal 2014 si è insediato il Consorzio Ecolandia, composto da una decina di associazioni, cooperative e imprese eticamente orientate, che ha vinto il bando comunale. Il Consorzio ha dovuto indebitarsi pesantemente per ricostruire, risanare, rimettere in funzione tutto quello che era stato devastato.

Grazie alla presenza di validi progettisti, di un team capace di idee innovative, ha vinto una decina di bandi europei con i quali ha potuto fare importanti investimenti e sperimentazioni in diversi campi: dalle energie rinnovabili, all’agricoltura sostenibile (a proposito è stata progettata una serra resiliente agli eventi estremi), al riuso dei copertoni dei camion e della polvere esausta degli estintori realizzando una pavimentazione che è stata brevettata, ecc.).

Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla collaborazione con l’Università Mediterranea, con l’Unical, con il Polo Net, di cui Ecolandia è entrata a far parte, con il C.I.R.P.S. (Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo Sostenibile).

Ecolandia è tante cose, ma una in particolare è quella che la rende vitale, diversa ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Sono gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, che la visitano in gruppi guidati da operatori del Parco competenti e appassionati.

È una gioia immensa vedere i bambini delle scuole elementari attraversare il Parco e ascoltare gli educatori, rispondendo a quella missione di didattica ambientale per cui è nato questo luogo. E poi ci sono le famiglie che nei giorni di festa hanno trovato uno spazio vivibile, godibile e non mercificato.
E tutto questo non ci possiamo permettere di perderlo.

Eraclito diceva che il fuoco è l’arché , il principio da cui sono generate tutte le cose, grazie al fatto che attraverso rarefazione e condensazione si trasforma nei restanti tre elementi: aria, acqua e terra. Ora che il fuoco ha fatto la sua parte potremo assistere alla rigenerazione di tutte le cose da cui è composto il Parco Ecolandia. È un nuovo inizio nel ciclo inesauribile della vita.

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

Nei giorni scorsi ci siamo soffermati a lungo sui guasti che provocherebbe nel sistema sanitario italiano, e calabrese in particolare, il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata: una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione. Il Ddl Calderoli, cioè, non farà altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Tutto giusto e corretto e moltissimi hanno, infatti, apprezzato. Ma moltissimi sono stati anche i lettori che sollecitano a fare nel contempo, se non prima, una critica tutta calabrese sui guasti del nostro sistema sanitario a prescindere cioè da quelli che provocherebbe il Ddl Calderoli. Moltissimi hanno scritto in privato per denunciare altri clamorosi casi di disastri e di ruberie varie, di un malaffare che ha fatto penetrare la ‘ndrangheta, della sanità usata come bancomat dalla classe politica calabrese per arricchimenti clamorosi e/o clientele a raffica financo nella scelta dei primari, che hanno alla fine solo impoverito lo stesso sistema della tutela della salute dei calabresi.

Come a dire: guardiamo prima in casa nostra e proviamo a vedere il disastro in salsa calabrese, che già esisteva prima di Calderoli. Del resto 14 anni di commissariamento della sanità hanno pure una ragione, o no? E lo Stato, mandando in tutti questi anni gente che con la sanità non aveva alcun rapporto ha peggiorato la situazione, con la domanda che resta sullo sfondo ma che diventa centrale ai fini del ragionamento: perché Roma ha inviato al capezzale del servizio sanitario regionale persone sicuramente rispettabili ma che con la sanità non c’entravano praticamente nulla (e spesso persino in pensione pure dai loro lavori)? Risposta: per tutelare i grandi interessi nazionali, politici e non, che stanno dietro, davanti, sopra e sotto il settore. Un magma di società, corporazioni, aziende, ditte, potentati di vario genere.

Di fatto l’emergenza della sanità in Calabria è diventata quindi endemica e dai buchi disastrosi dovuti alla clientela politica nel settore si è passati alle voragini. Il commissariamento doveva in teoria servire a rimettere ordine nel disordine gestionale e contabile, a migliorare la qualità delle prestazioni negli ospedali pubblici della Calabria, a porre un freno al pagamento delle doppie e delle triple fatture e all’insinuarsi della ‘ndrangheta e della corruzione ma nulla di tutto questo è avvenuto, nemmeno dopo la coraggiosa denuncia di Santo Gioffrè da responsabile dell’ ASP reggina, al momento unico episodio di una pubblica e forte denuncia sul malaffare che aveva portato al commissariamento.

Su quella poltrona di commissario si sono via via seduti carabinieri, prefetti, finanzieri, manager, generali, ingegneri etc. Gente che, però, arrivò addirittura ad ammettere dinanzi alle telecamere della TV di Stato che si era persino scordato di varare il piano anticovid chiesto dal Governo, tanto per capirci! La verità è, dunque, quella di un fallimento totale, dietro cui sono continuate quelle ruberie, quel malaffare e quella malagestione, che hanno avuto come effetto solo quello di moltiplicare diseguaglianze e privazioni, in una regione che già scontava condizioni di sanità diseguale.

Ora c’è Roberto Occhiuto alla guida del commissariamento ma di strada da fare ancora ce n’è tantissima, come del resto lo stesso presidente di Regione riconosce. In questo quadro già terremotato per i motivi suddetti interverrebbe il DDL Calderoli: un motivo in più per allontanarlo e respingerlo ma un motivo in più per aprire una vera operazione verità sul pozzo senza fondo in cui le classi dirigenti calabresi hanno trascinato in tutti questi decenni il settore primario per la vita di tutti noi.

Un pozzo senza fondo – ultima ma non ultima notazione su cui anche qui andrebbe fatto un serio ragionamento per capirne le ragioni – su cui troppo poco si è indagato anche da parte di chi ha e aveva il dovere di farlo. Anzi, si è fatto l’esatto contrario se solo ricordiamo (e sempre occorre farlo) l’incredibile vicenda proprio di Gioffrè: appena nominato Commissario, il 13 marzo 2015, si è imbattuto nel sistema di furti che per decenni hanno saccheggiato l’Asp di Reggio, denunciando transazioni false, il sistema di furti in vari modi delle risorse e cercato di ricostruire i bilanci dell’Asp che da anni non esistevano.

Scoprì per primo il termine “contabilità” orale, che, in sostanza, tutt’ora tiene dentro il Piano di Rientro la Calabria. Ostacolato, isolato e strenuamente lottato, fu sollevato dall’Anac per un cavillo in quanto, anni prima, era stato candidato a Sindaco, sconfitto, di Seminara. Assolto alla fine per non aver commesso il fatto: nelle motivazioni venne scritto che Santo Gioffrè ha difeso l’Asp di Reggio Calabria con “diligenza’’. Sul resto del malaffare vero invece tutto tace.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 aprile 2024

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.

Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.

Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.

L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.

Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.

Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.

S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.

Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.

Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.

Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.

Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.

Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.

Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.

L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.

L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.

Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.

Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.

Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.

Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.

Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.

La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.

Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.

Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.

L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024