Mese: febbraio 2025

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

Colpisce vedere i sindaci dei comuni di montagna, in fascia tricolore, manifestare davanti alla sede della Direzione dell’ASL in segno di protesta perché sono nell’impossibilità di garantire l’assistenza medica necessaria nei di casi urgenza-emergenza ai cittadini che vivono nei loro comuni.

Avrebbe dovuto essere con loro anche la sindaca di San Giovanni in Fiore, nonché Presidente della Provincia e dell’ANCI regionale, perché nel comune da lei amministrato recentemente s’è verificato un gravissimo episodio di mancata assistenza proprio in emergenza. Non era presente e non ha fatto conoscere la sua opinione.

Il tema più cogente per chi ha la responsabilità organizzativa della sanità, se si vuol davvero migliorare l’assistenza in Calabria, è, al di sopra di tutto, garantire una risposta adeguata alle urgenze-emergenze nel territorio. La popolazione italiana, come tutta quella occidentale, ha un’età media elevata, è sottoposta a un ritmo di vita altissimo e stressante, pertanto le patologie e gli eventi cardio-vascolari sono frequentissimi e insidiosi, si manifestano spesso imprevisti e richiedono risposte tempestive.

Purtroppo queste risposte non ci sono e la tempestività fa difetto. L’abbiamo visto nel tragico caso di San Giovanni in Fiore. I sindaci nel Testo Unico degli Enti Locali sono indicati come responsabili della salute dei cittadini, pertanto oggi denunciano a chi è preposto all’organizzazione sanitaria di non essere in grado di rispondere al mandato per quanto concerne le emergenze-urgenze nei comuni montani, considerata l’orografia particolare del territorio, la distanza dal Pronto Soccorso dell’ospedale hub della provincia, il disagio dovuto ai fattori climatici invernali e, soprattutto, perché non ci sono nelle vicinanze punti di soccorso adeguati.

Compete ai responsabili dell’organizzazione sanitaria della provincia e al Commissario Regionale della Sanità mettere quegli amministratori in condizione di esaudire le richieste dei cittadini, anche perché la legge prevede che i dirigenti della sanità consultino i sindaci dei comuni prima di redigere gli atti aziendali. Li hanno consultati? Hanno raccolto i loro suggerimenti?

A fronte di un problema così importante, dopo il tragico episodio di San Giovanni in Fiore, ho letto recentemente una strana iniziativa da parte del dirigente organizzativo: ha ordinato ai medici del Pronto Soccorso della struttura, in caso di chiamate dal territorio, di abbandonare la postazione e salire sull’ambulanza così da medicalizzare il soccorso. Un modo bizzarro, se non quasi disperato (o incompetente?) di affrontare il problema, perché così si lascia sguarnito del medico un importante servizio.

Nessuno, invece, si preoccupa di migliorare il livello di gestione della Centrale Operativa, a cui compete il ruolo d’individuare il grado d’urgenza caso per caso e decidere la medicalizzazione delle ambulanze. Come si può migliorare la sanità in Calabria se non si parte dal sistema organizzativo di base e si forniscono le necessarie garanzie ai cittadini che vivono nei paesi più lontani?

La recente pandemia ha messo a nudo la terribile fragilità organizzativa dell’assistenza d’urgenza nei territori e, infatti, l’Unione Europea ha provveduto a erogare nel PNRR fondi per potenziarla con la creazione delle case di comunità. Non ve n’è ancora traccia, anzi, oggi quasi non se ne parla più e si teme che i fondi erogati vengano distratti per altri obiettivi.

Viene, invece, annunciato l’arruolamento di luminari specialisti che opereranno nell’ospedale hub, e facendo intendere questa operazione come la principale soluzione dei problemi. I dirigenti della sanità e il Commissario Regionale hanno chiesto ai cittadini delle montagne se è prioritario chiamare illustri specialisti, certamente di gran livello professionale, o se è prioritario affrontare l’assistenza sanitaria nel territorio, soprattutto per le urgenze-emergenze?

E non voglio qui affrontare il tema della funzione attuale dei medici di famiglia nel territorio, depauperati di professionalità individuale. Occorrerebbe ampio spazio.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025
Foto di ADMC da Pixabay

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

Premessa: in una settimana di scirubetta si è parlato dal Pollino allo Stretto in modo diverso. Addirittura si è rispolverato un vecchio dizionario del dialetto calabrese dove scirubetta diventa scirubettu, con la u finale, bevanda che sarebbe in auge nella locride con rivendicazioni di primogenitura! A Roccella in particolare pare sia molto in voga.

Poi si scopre però che è, in realtà, una specie di gelato e non il fenomenale bicchiere di neve fresca della Sila con tanto di miele di fichi, in uso appunto dalle parti silane e presilane o sanfilesche. Anche se – nuova ultima puntata– i nivari, cioè quelli che usavano conservare in inverno la neve sotto terra per poi riproporla in estate, c’erano anche in altre parti della Calabria e dunque nessuno si può appropriare di questa benedetta scirubetta. Appunto però: c’erano i nivari, c’erano una volta…

C’erano! Ora che non ci sono più questi custodi della neve – tornano così alla carica i tradizionalisti – la scirubetta rivà alle sue radici vere, con la A finale, anche se – ma questo è un altro discorso – di neve di questi tempi non se ne vede moltissimo tranne che in alta montagna.

A rilanciare questo mood nevoso ci ha, comunque, pensato il mitico Brunori (dio l’abbia in gloria) che in una settimana pre e post Sanremo ha rilanciato non solo la scirubetta ma tutto l’armentario calabro recitato in salsa moderna. Se ne sta parlando ancora e molti vi hanno visto un segno addirittura politico, un segnale, una strada da seguire. Stiamo un po’ calmi.

La frase cult è quella: ‘’Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”, il verso più celebre de L’albero delle noci, non a caso (autocitazione) messo in testa al nostro editoriale di sabato scorso, premonitore di quel terzo posto sanremese arrivato nella nottata tra sabato e domenica.

Ma ora – per buttarla in politica – ci vuole davvero un bel salto di qualità, che la sinistra nostrana non ci pare pronta ad affrontare. Quella neve che si mescola al miele (di fichi) e quindi la scirubetta di cui prima dovrebbe, potrebbe, essere il senso metaforico di una direzione di marcia per chi vuol cambiare le cose?

Con tutto quello che ne consegue e cioè mettendo a bando la particolare predisposizione calabra per la retorica che ha immediatamente trasformato la scirubetta nel prodigio gastronomico più antico della storia, ovviamente nato in Calabria come ogni prodigio che l’umanità ha scoperto soltanto qualche secolo dopo (ci sono decine di esempi di questa grandiosità calabra declamata in tutto il globo)? Da qui nascerebbe in verità un vero prodigio, possibile e immaginabile: un suggerimento per la sinistra affinché riparta dalle aree dimenticate del Paese.

La sinistra riparta dunque dalla scirubetta: un inedito assoluto che nemmeno Brunori poteva mai pensare. Ma un senso la cosa in fin dei conti forse ce l’ha per davvero, se Irto e compagni si mettono (si mettessero) di buzzo buono. Lasciare magari perdere, cioè, le grandi questioni che tanto nessuno è in grado di risolvere e mettersi pancia a terra a ragionare, a pensare, ad operare sul territorio, sui territori per davvero.

Nei piccoli centri, in quelli ormai quasi spopolati di collina e di montagna o nelle marine dove si vive solo un paio di mesi d’estate o nelle periferie delle nostre città (tutte) dove il degrado somiglia tanto a quelle delle grandi metropoli. Basterebbe la scirubetta? Certo che no ma un segnale di autenticità non guasta, diciamo non guasterebbe. Come ha fatto sempre quel Brunori l’altro giorno andando a cantare davanti agli studenti dell’Universita’ della Calabria. Se poi ci metti – altro cult brunoriano – la vurzetta con gli amuleti di San Fili il quadro è completo!

A parte gli scherzi (che non sono poi tali) la politica tutta – di destra e di sinistra – dovrebbe prendere esempio da un dato che ci viene da questi giorni recenti alle nostre spalle: si può essere cioè calabresi senza nascondersi e senza pianti greci, senza retorica ma anche senza enfasi. Non selvaggi abitatori di montagne impervie discendenti dei briganti o poveri abitanti di una terra sempre sfruttata e conculcata! Parlando invece un linguaggio chiaro e semplice, che è quello che la gente normale chiede. Che poi sia scirubetta o scirubettu è in fin dei conti è un’inezia. Alla fine per una vocale ci si mette d’accordo!

da “il Quotidiano del Sud” del 22 febberio 2025

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

Cosa sia la realtà calabrese è difficile da rendere in poche righe di un articolo o financo in un libro. Ci stiamo provando da anni e oscilliamo sempre su quello che Massimo Razzi definisce ‘il crinale sottilissimo’, cioè quello tra il bene e il male, il bello e il brutto, dove a volte prevale il primo e più spesso il secondo. Poi ci sono però i numeri, impietosi, a darci un senso al racconto (vedi quelli dell’ISTAT su cui ci siamo soffermati sabato scorso, ad esempio).

E numeri, tanti e duri, ci forniscono ora in un nuovo lavoro, assolutamente inedito – e di cui il Quotidiano del Sud può oggi offrire una piccola anteprima – Rosanna Nisticò e Mimmo Cersosimo, in un paper in lavorazione ancora all’Università della Calabria.

Proviamo dunque a riassumere decine e decine di pagine. Il trend recente tra il 2022 e il 2023 mette in luce come il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

La Calabria è tra le sei regioni europee nelle quali l’indicatore è cresciuto, nel biennio in considerazione, di almeno 5 punti percentuali con 41 calabresi su 100 che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella registrata nella Provincia di Bolzano e sette volte più alta rispetto a quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Ancora: la Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6%, a fronte di un calo alquanto generalizzato nel resto delle altre regioni, e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

In questo quadro poco felice ci sono altri calabresi, aggiungono nel paper i due studiosi, che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, i comparaggi, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali.

Non va trascurata l’incidenza dei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello dei cittadini: concentrati, usando le parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative).

Il punto tutto politico alla fine qual è? E’ che a quella Calabria della povertà sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare ma anche perché è la Calabria del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilet gialli né protettori: che non minaccia l’ordine dominante.

Come concludono i due? I partiti-residui continuano così a guardare alla Calabria dei garantiti, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non basta per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”.

Questo politico, dunque, è il versante che dovrebbe dare risposte e da lì si attendono le proposte vere e concrete. Tutto il resto sennò è noia. A proposito di Brunori, Califano e del Festival di Sanremo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 febbraio 2025

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

È encomiabile e di grande interesse l’intervista del Direttore Massimo Razzi al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sui problemi della sanità in Calabria. Ora sappiamo come pensa, e, pertanto, voglio analizzare le inesattezze significative che ha fatto passare, inerenti alcune inefficienze assai evidenti. Provo a schematizzare

1)Sulla mancanza del medico a bordo nelle ambulanze, prendendo spunto dal triste caso accaduto a San Giovanni in Fiore, dice che nelle altre città d’Italia solo nel 23% delle ambulanze c’è il medico a bordo. È una notizia esatta ma fuorviante, e solo un tecnico avrebbe potuto ribattere in quella sede. Di tecnici ce n’era uno solo, il Dottor Miserendino, che era dalla parte del Presidente e non aveva alcun interesse a riprendere il tema.

Nelle città dove il Pronto Soccorso e i dipartimenti Urgenza-Emergenza funzionano, esiste una Centrale Operativa gestita da tecnici di alta formazione in grado di selezionare le risposte alle chiamate e decidere se è necessario il medico a bordo. Noi sappiamo dalla statistica che in oltre il 70% dei casi le chiamate al 118 sono fatte per patologie che non richiedono il medico a bordo e la Centrale Operativa lo comprende al telefono:
a) dalla distanza del paziente da soccorrere dal Pronto Soccorso ospedaliero, che deve essere raggiungibile entro un breve tempo stabilito da parametri;
b) da due o tre domande a chi sta chiamando. Quei tecnici sono in grado di decidere se inviare il medico, che, però, è sempre disponibile.

Le Centrali Operative calabresi hanno questa capacità di selezionare i casi? L’hanno fatto per il caso di San Giovanni in Fiore? È questa la mancanza. Il medico del Pronto Soccorso aveva richiesto l’ambulanza medicalizzata, che non c’era. Occhiuto non ne fa cenno.

2)Il Presidente accusa carenza di medici nelle strutture di Pronto Soccorso e Urgenza. È un problema reale in tutta l’Italia, perché i medici d’urgenza sono pagati poco a fronte delle responsabilità che si assumono e per il lavoro usurante che svolgono. L’intervistatore chiede perché la Regione non paghi di più. Il Presidente risponde che non può, deve rispettare la legge nazionale. È inesatto.

Per la legge Bindi le aziende sanitarie ogni anno dovrebbero predisporre la distribuzione di budget per ogni settore, compreso Emergenza-Urgenza, e questo viene calcolato sulla base dello strumentario necessario, il materiale di consumo e l’organico teorico previsto per il buon funzionamento. In altri termini, se per un settore è previsto un organico di 10 operatori e ce n’è disponibile solo la metà, significa che circa il 50% del budget stabilito non viene speso. Potrebbe essere usato, allora, per pagare di più quelli che lavorano.

3)La legge Bindi consente alle aziende di dividere il budget previsto per gli operatori in una quota di retribuzione base e una quota legata a incentivi. Quest’ultima dovrebbe essere condizionata dalla realizzazione di progetti dettagliati assegnati d’ufficio o scelti dagli operatori stessi. Il Presidente non ha fatto alcun cenno alla rendicontazione degli incentivi, che dovrebbero emergere dai bilanci annuali. Quali incentivi sono stati assegnati? Ci sono i bilanci?

4)Siamo tutti felici se la Calabria esce presto dal Commissariamento, anche se non è prevista l’uscita dal piano di rientro. Il grande problema nasce proprio dal piano di rientro che costringe le aziende a stringere i cordoni della borsa fino a stritolare l’efficienza della sanità. Intanto, l’obiettivo primario dovrebbe essere ridurre l’ospedalizzazione fuori regione e individuare gli strumenti per raggiungere questo fine. Ma osservando come vanno le cose non si uscirà mai dal piano di rientro. Il Presidente non fa alcun accenno all’emigrazione sanitaria anche per patologie di basso profilo, che continua a determinare l’emorragia delle risorse.

5)L’ultimo punto dell’intervista ha lasciato tutti perplessi, il rapporto università ospedale. La Facoltà di Medicina a Cosenza ora esige giustamente la creazione di un policlinico. Il Presidente non spiega come intende affrontare il problema. Individua il Rettore dell’Unical come l’uomo di fiducia col mandato di creare le cliniche. Bisogna allora fare due obiezioni:

a) il Rettore non è un tecnico della sanità, quindi è assolutamente improprio che abbia il mandato di gestire la creazione delle cliniche universitarie. Viene individuato solo come fiduciario del Presidente della Regione, e la cosa si presta a interpretazione politica e/o ispirata a interessi non specificati. L’unico tecnico che avrebbe la competenza per la creazione del policlinico dovrebbe essere il Preside della Facoltà di Medicina. Il Presidente non ne fa cenno.

b) Come vede il Presidente il rapporto Università- Ospedale a Cosenza? Lui certamente sa che quando, negli anni ’80, venne creata la Facoltà di Medicina a Catanzaro, iniziò un duro conflitto tra l’Ospedale e l’Università durato oltre 40 anni, responsabile di inefficienze e di mancato sviluppo di entrambe le aziende.

Nell’intervista Il Presidente Occhiuto non fa cenno a come sarà impostato questo rapporto, che, invece, è una chiave di volta per risollevare davvero la sanità a Cosenza, dove ci sono già segnali di preoccupazione per il destino dell’Annunziata.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 febbraio 2024

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

Stavolta non sono le classifiche di vivibilità del Sole 24 ore ad indicare dove e come stiamo come Calabria. Classifiche contestabili finché si vuole – del tipo: qui c’è un mare da favola, in Sila l’aria più pulita del mondo (o d’Europa, fa lo stesso) ed altre menate del genere – ma che indicano purtuttavia una tendenza comunque chiara.

Stavolta parla l’ISTAT, incontestabile dunque, che certifica come nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie per abitante del Mezzogiorno si attesta a 17,1mila euro annui e si conferma il più basso del Paese e la Calabria è all’ultimo posto tra gli ultimi. Rapporto che nei giorni scorsi è stato ampiamente illustrato su queste pagine, con tutte le cifre e i dati resi noti da Istat, da Maria Francesca Fortunato.

C’è poco quindi da raccontare a mo’ di favolette ai bambini ma per non annoiarvi troppo ecco qualche altra cifra utile solo per qualche considerazione finale.

La distanza in termini di reddito del Sud da quello del Centro-Nord, pari a 25mila euro, è superiore al 30%. Lo si legge nel Report Istat sui conti economici territoriali. La graduatoria regionale vede in prima posizione la Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, con un Pil per abitante di 59,8mila euro, seguita da Lombardia (49,1mila euro), Provincia autonoma di Trento (46,4mila euro) e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (46,3mila euro). Il Lazio si conferma la prima regione del Centro e l’Abruzzo è la regione del Mezzogiorno con un Pil per abitante più alto (31mila euro), seguita da Basilicata (27,5mila), Molise (26,7mila) e Sardegna (26,3mila).

La Calabria in questa classifica resta stabilmente all’ultimo posto della graduatoria, con 21mila euro, preceduta dalla Sicilia, con un valore del Pil per abitante di 22,9mila euro. In pratica nella provincia di Bolzano si registra un pil pro-capite che è quasi tre volte quello della Calabria. E non è finita qui: In Italia nell’anno la spesa per consumi finali delle famiglie per abitante, valutata a prezzi correnti, è stata pari a 21,2mila euro. I valori più elevati si sono registrati nel Nord-ovest (24,2mila euro) e nel Nord-est (23,8mila euro); segue il Centro, con 22,2mila euro, mentre il Mezzogiorno si conferma l’area con il livello di spesa più basso (16,7mila euro).

Fin qui le cifre più significative del rapporto ISTAT, giusto per dare un’idea dello stato dell’arte. Tante altre ce ne sono infatti in quel rapporto ma il quadro è ultra chiaro e indica che le chiacchiere sui miglioramenti mirabolanti che ci vengono propinati ad ogni piè sospinto non si capisce su che cosa si poggiano. E non parliamo dei servizi sociali primari, dell’assistenza, della sanità su cui questo giornale ha avviato da settimane una martellante campagna stampa di mobilitazione. E non parliamo nemmeno delle infrastrutture di trasporto, tutte, strade ferrovie etc etc. ridotte ad uno stato di colabrodo, dove più e dove meno, degne del terzo mondo in alcuni casi.

Bastano tre ore di pioggia per aprire voragini dovunque (vedi ultimo nubifragio di domenica scorsa). Per non parlare – ancora – dei tassi di emigrazione di giovani e meno giovani fuori dalla regione, con un calo delle residenze da far paura.

Siamo insomma ad un momento cruciale, uno dei tanti direte voi, che dovrebbe indicare una linea di condotta chiara e certa a tutti gli attori politici, istituzionali, sociali, culturali che qui operano. Assistiamo, viceversa, ad un continuo vociare senza costrutto, ad un rimpallo di ruoli e responsabilità, di colpe e di errori, vecchi e nuovi, che non si traduce alla fine in niente.

Settimane fa due economisti calabresi – Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò – avevano già descritto un quadro a tinte vere e fosche. Ne abbiamo scritto su questo giornale ampiamente. Tutto era passato in cavalleria. È proseguito quel mettere assieme un pezzo qua ed uno di là, tutto privo di rete e di collegamento, per annebbiare ancora una volta un’opinione pubblica confusa e distratta. La domanda resta sempre quella ed unica: si può andare avanti con questo andazzo?

da “il Quotidiano del Sud” dell’8 febbraio 2025