Il Mezzogiorno, la Calabria e la Grande Recessione: una occasione perduta di Tonino Perna
La Grande Recessione ha trasformato il divario storico tra Nord e Sud Italia in un baratro da cui il Mezzogiorno non sembra più riuscire a riprendersi. La paventata uscita di Draghi dalla BCE e la fine del Quantitative Easing che teneva lontana la speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato, ci fa pensare seriamente che dal prossimo autunno le cose si potrebbero mettere male per tutto il nostro paese e, come avviene sempre in questi casi, soprattutto per le aree e le fasce sociali più deboli.
Dallo scoppio che della Grande Recessione nel 2008 sono passati dieci anni e in questo lasso non breve di tempo abbiamo perso un’occasione per cambiare modello di società e di economia, per capire che una storia era finita, un ciclo storico, iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, aveva esaurito la sua spinta vitale.
Qui di seguito vi riproponiamo un editoriale uscito sul Quotidiano del Sud otto anni fa e che, a mio modesto avviso, ci pone ancora oggi delle domande a cui non sembra che la classe politica al potere sia in grado di rispondere.
Malgrado le rassicurazioni di rito di esperti e governanti l’Occidente si trova di fronte alla Grande Recessione, la più grave crisi –economica, sociale e politica- dal tempo della Rivoluzione Industriale. Molto più grave di quella del ’29, che si protrasse fino al 1933 e poi sfociò nella seconda guerra mondiale. La grande novità sta nel fatto che questa volta non si tratta di una crisi globale, ma specificamente occidentale. Infatti, in Asia, Africa ed America Latina molti paesi continuano a crescere a tassi sostenuti (dal 6% dei paesi sub sahariani al 10% della Cina, solo per fare degli esempi), mentre in Occidente la “crescita del Pil” è finita, con la sola eccezione della Germania che, stando agli ultimi dati, si sta spegnendo. In breve, se ci va bene Usa ed UE si stanno omologando al modello giapponese, un paese che non cresce più dal 1990 e mantiene un buono standard di vita grazie ad un poderoso indebitamento, il più grande del mondo : rapporto Debito/Pil pari al 200 per cento. Ma, oggi la strada dell’indebitamento infinito, che ha consentito alla popolazione giapponese di sopravvivere al disastro finanziario, non è sostenibile per gli Usa e la UE, semplicemente per il fatto che i paesi creditori (a cominciare dalla Cina) non sono più disponibili a continuare a comprare i titoli di stato dei paesi occidentali.
Da questo schematico scenario emerge una semplice verità: siamo di fronte ad una redistribuzione di ricchezza e potere tra l’Occidente ed il resto del mondo, in particolare a favore delle nuove potenze emergenti, i cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). La Cina, in particolare, è diventata la prima potenza industriale del mondo, il paese con il più grande surplus nella bilancia commerciale, ed il più grande mercato al mondo per i prodotti industriali (dall’auto agli elettrodomestici ai mezzi di comunicazione, ecc.).
Purtroppo, noi occidentali non siamo preparati ad affrontare questa nuova situazione. Siamo nati e pasciuti con l’idea della <<crescita infinita del Pil>> che stentiamo a guardare con lucidità a quello che ci sta accadendo. Non vogliamo arrenderci al fatto che una più equilibrata distribuzione della ricchezza a livello planetario sia giusta e necessaria, e continuiamo ad illuderci con le vecchie ricette ed il linguaggio del secolo scorso. Abbiamo per trent’anni <<drogato>> l’economia reale con un immissione sconsiderata di dollari –grazie alla funzione di banca mondiale della Fed- abbiamo moltiplicato i nostri debiti – di imprese, famiglie e Stati- portandoli mediamente a tre volte il Pil, continuando a consumare ed inquinare senza ritegno. Ed adesso, il crac delle Borse, la sfiducia che colpisce i nostri titoli azionari, ci sbatte in faccia il nostro fallimento.
Di fronte al crac finanziario dell’autunno 2008 gli Stati occidentali hanno cercato di salvare Banche ed Istituti finanziari dal fallimento aumentando ancora il Debito Pubblico, convinti che col tempo tutto si sarebbe messo a posto. Invece, le Borse occidentali sono tornate a crollare questa estate e il panico ha colpito consumatori, imprenditori e risparmiatori. I governi occidentali, Usa ed UE, stanno cercando di rispondere al crac con una drastica riduzione del welfare e con la compressione dei salari, a partire dai dipendenti pubblici. E queste scelte di politica economica non potranno che fa aumentare la recessione. Ma, le popolazioni europee ( e domani nordamericane) non ci stanno: non capiscono perché debbono essere i lavoratori dipendenti o i pensionati a pagare i costi del fallimento finanziario. Da qui il moltiplicarsi di lotte sociali, rivolte anche violente e crisi di governi che erano all’apice del consenso (come nel caso di Zapatero e non solo).
Come è facilmente comprensibile, la Grande Recessione in Europa non colpisce tutti allo stesso modo. Sono in particolare i paesi del sud Europa quelli che stanno pagando di più questa crisi e dove più forti sono state finora le lotte/rivolte sociali. E naturalmente, tra i paesi del sud Europa sono le aree marginali quelle che pagheranno ancora di più. Sono le aree come il Mezzogiorno d’Italia che non hanno approfittato del tempo delle vacche grasse quelle che oggi si trovano nella più grande disperazione. Il caso calabrese è emblematico. L’aver mal utilizzato o non utilizzato i <<fondi strutturali europei >> per creare una struttura produttiva solida e diffusa ci porta oggi dritti al disastro sociale. L’aver permesso che la ricchezza regionale dipendesse per il 65% dalla spesa pubblica e dai “trasferimenti netti” dello Stato, ci pone oggi in una condizione di estrema debolezza di fronte al taglio drastico della spesa pubblica ed ai costi del federalismo fiscale . Molti enti locali sono a rischio di fallimento , a cominciare dai Comuni, piccoli e grandi, con tutto quello che ne consegue in termini di servizi sociali e quindi di “qualità della vita”.
Cosa fare di fronte ad uno scenario realisticamente a tinte fosche ? Credo che la prima cosa è capire che nessuno si salva da solo. Cominciando dal livello macro : i governi dei paesi del sud Europa dovrebbe riunirsi per affrontare insieme la crisi del Debito Pubblico e fare fronte comune rispetto a Bruxelles. Se non sono capaci i governi perché i sindacati dei lavoratori non lo fanno, non propongono un grande incontro dell’Europa mediterranea per trovare una strada comune per rispondere ai tagli del welfare e dei diritti dei lavoratori ? Ed anche a livello micro : perché le regioni del Mezzogiorno, al di là dei differenti colori politici, non si uniscono per trovare una piattaforma comune da presentare al governo ? Se non lo fa la politica dovrebbero essere i rappresentanti dei lavoratori a prendere l’iniziativa, a riunire tutte le forze sociali ed istituzionali per tagliare gli sprechi, i privilegi, e valorizzare chi lavora e produce bene e servizi utili alla comunità. Una grande, anche dura e dolorosa, opera di pulizia morale ed istituzionale, insieme alla promozione delle risorse intellettuali che sono ancora presenti su questa terra, ad un grande piano energetico ed ambientale, ad accordi di cooperazione con i consumatori del nord Italia per dare un “prezzo equo” ai nostri prodotti agricoli (come stanno facendo i Gruppi d’Acquisto Solidale ed la CTM di Bolzano), alla costruzione complessiva di una economia sostenibile sul piano sociale ed ambientale. Diciamolo con chiarezza: più che inseguire la chimera di Grandi Opere –spesso inquinanti e inutili- bisogna adoperarsi per un Grande Piano di piccole opere di recupero diffuse su tutto il territorio. L’edilizia bioenergetica, la messa in sicurezza delle nostre colline, la rete idrica da risanare, lo straordinario patrimonio archeologico da salvaguardare, ecc. costituiscono la base della ricostruzione di un “patrimonio comune” che è fondamentale per assicurare un futuro alle nuove generazioni. Il settore edile, rinnovato e ripensato, può rappresentare uno dei motori di questo processo.
Il collasso di questo modello di sviluppo lascia sul campo molte macerie: sul piano economico (imprese che chiudono), sociale (fine del welfare state), sul piano ambientale (dai rifiuti tossici alla cementificazione delle coste, ecc.). Bisognerebbe ritrovare lo spirito che animò gli italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dovremmo trovare quella voglia di ricostruire un paese “in macerie”, sul piano morale innanzitutto, con una rinnovata spinta positiva verso una società più equa, più rispettosa della natura, meno stressata dalla corsa alla massimizzazione dei profitti, più forte sul piano della solidarietà e della cooperazione sociale.