Pseudo Federalismo asimmetrico,: ricchi più ricchi, poveri più poveri di Massimo Veltri
C’è stato un periodo, intorno a vent’anni fa, in cui i governi nazionali scoprirono la Questione Settentrionale. E insieme a questa scoperta individuarono nell’eccesso di statalismo-con annesse farraginosità, pesantezze e rischi ci corruzione e collusione-da un parte, e dall’altra nella semplificazione e nell’alleggerimento se non la cancellazione dei controlli la risposta che si poteva e doveva offrire per mostrarsi pronti ad accettare la sfida della competizione e della modernità. In verità la questione settentrionale, quand’anche etichettata in maniere diverse, era da tempo che si affacciava periodicamente e con gradi di intensità cangianti- mentre specularmente la Questione meridionale veniva lentamente derubricata- prendendo spunto, per esempio, dalla nascita delle Regioni, dall’ingresso nella UE, ogni qual volta i dati di questa o di quella agenzia certificavano gap di produttività e di efficienza fra le due parti del paese-nord e sud-, con il cessare dell’intervento straordinario nel mezzogiorno. La così detta Bicamerale era un tentativo-com’è noto vano, e sprecato occorre dire-di metter mano all’assetto istituzionale del paese a seguito di una serie di inadeguatezze e di ritardi via via riscontrati in Italia, specie dopo il varo dell’euro e la nascita di situazioni nuove, inedite, non facili da affrontare. La discussione riguardante natura, prerogative, articolazione, compiti dello Stato in pratica, e anche esplicitamente, rappresentava il nucleo centrale intorno al quale sviluppare ipotesi di assetti da ridisegnare anche in ordine ad avvicinare istituzioni e cittadini oltre che per tenere nel giusto conto le novità che dal dopoguerra ai nostri giorni avevano fatto irruzione sullo scenario nazionale e occidentale. Il fascismo non c’era più, la società contadina andava sempre più indirizzandosi verso composizioni borghesi e impiegatizie oltre che nel settore secondario, pareva non ci fosse più necessità di due camere parlamentari: semplificare era una parola d’ordine, aprirsi al mercato l’altra. Tant’è che la ventata liberista-vedi Blair, Giddens, la new left-contaminò pervasivamente la sinistra postcomunista passata a una visione maggioritaria e di governo, e in deficit di elaborazione verso la declinazione di un riformismo che conservasse o reinventasse paradigmi di una sinistra di cui pareva si fossero perduti (o censurati?), stigmate e caratteri fondativi.
In pratica i governi nazionali attraverso serrate sessioni di lavoro a carattere seminariale, tanto di studio quanto di orientamento, affrontarono nella dimensione parlamentare e delle assemblee elettive a scala diversa, l’argomento del federalismo, non disgiunto da quello della semplificazione. Fine degli anni novanta del secolo scorso: a via di Ripetta sedute in parallelo e congiunte per sviscerare il nuovo verbo della sinistra (non ancora compiutamente) riformista italiana: non slogan, non ideologie ma fatti, idee da tramutarsi in dettati normativi. Con una platea di attori e, diciamolo pure, comprimari, in parte fermamente convinti dell’operazione (“Lo stato così com’è non regge… “; “Occorre avere coraggio… “; “Il nord ha ragione, produce tanto ma è penalizzato… ” e così via) ma pure con perplessità di non poco conto derivanti dalla constatazione di un sud sempre più ai blocchi di partenza, dal rischio della disarticolazione di un impianto unitario delle varie parti del paese, dalla necessità di meglio e più approfonditamente valutare portata e tempi dell’operazione. Voci comunque flebili e se pure numericamente non esigue di fatto soccombenti a fronte del vento impetuoso che avanzava ormai inarrestabile e che si sarebbe di lì a poco tradotto in leggi dello stato. Mentre una saggistica meridionalistica nuova non stentava ad affermarsi (Viesti, Felice, Borgomeo, Lupo, Galasso… ), procedevano le modifiche costituzionali (chi non ricorda i decreti Bassanini, a chi sfuggono le modifiche costituzionali che con leggi e in alcuni casi con referendum conformativi venimmo chiamati a misurarci).
Ma veniamo all’attualità, veniamo ad oggi: una o più propriamente il complesso di quelle norme, di quella impostazione, bussa alla porte in questa fine d’inverno 2019. Il Veneto, la Lombardia e altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse sulla scorta delle norme varate allora, di cui si è detto sopra, e che consentono alle Regioni di chiedere nuovi poteri, nuove risorse, nuove competenze, tutti indirizzati alla disarticolazione del paese, ad aumentare divaricazioni, ad accrescere prevaricazioni. Le Regioni, si sa, vivono di trasferimenti monetari da parte dello Stato centrale e per la loro stima la proposta del Veneto e c’è quella di calcolare i fabbisogni standard tenendo conto non solo dei bisogni specifici della popolazione e dei territori, ma anche del gettito fiscale, cioè della ricchezza dei cittadini. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno come beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. “Quindi, per averne tanti e di qualità, non basta essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca”, come chiosa Viesti, violando platealmente i principi costituzionali di uguaglianza. Principi costituzionali che sono quantizzabili dai LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali e civili da garantire in misura omogenea a tutti i cittadini italiani, ovunque residenti, ma ancora in attesa di definizione. Invece: ricchi più ricchi, poveri più poveri, è il caso di dire.
Il tutto, al momento, è all’attenzione della Conferenza Stato Regioni bypassando de facto gli ineludibili confronti parlamentari mentre si assiste passivamente e indolentemente all’assordante silenzio delle Regioni meridionali, quasi fosse materia che non merita attenzione, con la meritoria eccezione della Regione Calabria che in misura unanime ha approvato in Consiglio una forte e motivata mozione di rigetto dell’impostazione del Veneto.
E’ proprio il caso di ribadirlo: occorre che il complesso della materia venga affrontato dalle e nelle Camere parlamentari e che i cittadini siano aggiornati anche grazie a esperti consapevoli. Occorre ancora che nessun trasferimento di poteri e risorse a una Regione sia consentito fino a che non siano definiti, come previsto dalla Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Occorre infine che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia ancorato esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.