La secessione leghista, il sudismo ed il Sud - L'opposizione "differenziata" del PD ed il silenzio dei 5stelle - di Battista Sangineto

La secessione leghista, il sudismo ed il Sud - L'opposizione "differenziata" del PD ed il silenzio dei 5stelle - di Battista Sangineto

L’Osservatorio del Sud, già il 24 ottobre 2018, metteva in guardia, con un Appello, l’opinione pubblica riguardo alla strisciante secessione da parte del Nord, da parte dei ricchi. L’appello, pubblicato su “il Manifesto” e su “il Quotidiano del Sud”, è stato firmato da decine di intellettuali ai quali si sono aggiunte centinaia di cittadini, professionisti, giornalisti, insegnanti, sindacalisti, parlamentari, impiegati, segretari di partito, docenti e studenti universitari. L’Osservatorio ed i suoi membri hanno tenuto alta, in questi mesi, l’attenzione sul “Regionalismo differenziato” pubblicando decine di articoli sul sito web dell’Associazione e su “il Manifesto”, “il Mattino”, “il Messaggero”, “il Quotidiano del Sud” etc.

In un paese assai differenziato per storia e realtà locali e regionali come l’Italia, ma anche così diseguale nei livelli di reddito fra i suoi territori, le scelte relative al decentramento devono essere attentamente valutate perché non si trasformino, come di fatto sta avvenendo, in secessionismo, in secessionismo dei ricchi, come scrive Viesti. Il secessionismo, il separatismo non è un’utopia politica romantica identitaria, ma è un attacco in piena regola al nucleo più importante della garanzia di cittadinanza, cioè lo stato di diritto. Secondo il filosofo spagnolo Fernando Savater, il separatismo è da intendere come un’aggressione deliberata, calcolata e organizzata contro le Istituzioni democratiche e contro i cittadini che le sentono proprie. Non a caso il diavolo è, secondo una etimologia, il separatore, dia-ballo, colui che separa e rompe i legami stabiliti, e separare coloro che vivono insieme è il misfatto antiumanista per eccellenza. Il difetto diabolico del secessionismo è proprio questo: seminare la discordia, dividere gli uomini e gli animi… Ed è in questa temperie socio-economica e cultura che la Lega, negli ultimi 25-30 anni, ha talmente insistito che il centrosinistra di governo, nel 2001 (governi D’Alema-Amato), l’ha inseguita fino a modificare, negli ultimi giorni della legislatura, in modo orrendo e frettoloso il Titolo V della Costituzione. Le attuali richieste leghiste sono conseguenza diretta di quella sciagurata modifica fatta dal centrosinistra al governo.

Alle rivendicazioni egoistiche e separatistiche della Lega devo registrare che, in questi ultimi anni, si è aggiunto, anche a sinistra purtroppo il sudismo (penso alle improbabili coalizioni rivendicazioniste vagheggiate da De Magistris ed Emiliano). Il sudismo è un sentimento auto-consolatorio, speculare alle rivendicazioni leghiste, che asseconda e rafforza l’idea che i colpevoli sono gli altri, che sono altrove, che sono al Nord, ma non i meridionali che hanno solo subìto la repressione e lo sfruttamento (ne ho scritto io, ma ne ha appena scritto Vito Teti).

Per chiudere in maniera definitiva, spero, con queste rivendicazioni neoborboniche, con queste retrotopie (direbbe l’ultimo Zygmut Bauman) mi piace riportare un passo di Antonio Gramsci tratto da “La Questione meridionale” (Roma 1966, p. 159): “La Italia unificata aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L’invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l’unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell’industria. Nell’altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva”.

La conclusione, ancora attuale, alla quale giunge Gramsci è che sarebbe stato impossibile il riscatto del Mezzogiorno italiano senza la formazione e la maturazione della borghesia, dei ceti urbani meridionali, del proletariato e la loro trasformazione in classe dirigente. Dalle reazioni suscitate dall’inaugurazione del Museo della Ferriera di Mongiana, per esempio, e da molti altri sintomi antistoricamente filo-borbonici, emerge con chiarezza che questa maturazione, a 150 anni dall’unità, non c’è stata e che una vera e seria classe dirigente meridionale non si è ancora formata. Il filo-neoborbonismo è un sentimento del tutto contrario alla necessaria, secondo il mio avviso, assunzione di responsabilità e di incapacità che i meridionali ed i calabresi, dopo settant’anni di libere elezioni, devono prendersi: non siamo stati in grado di uscire dal sottosviluppo economico, sociale e culturale.

Il filosofo spagnolo Fernando Savater (in Contro il separatismo, Laterza, 2018) sottolinea gli effetti negativi che ha avuto la regionalizzazione dell’istruzione in Spagna su “l’unità democratica fra i cittadini”. Per Savater, il peccato fondamentale del nazionalismo è quando si trasforma in separatismo. “L’attaccamento alla propria terra, questa specie di orgoglio narcisista un poco infantile per il proprio gruppo di appartenenza, può anche essere tollerabile, ma non quando diventa la tentazione di umiliare i propri vicini o di sfasciare un paese”. Il pamphlet enumera puntigliosamente sette motivazioni contro il separatismo, che è: antidemocratico, retrogrado, antisociale, dannoso all’economia, destabilizzante, crea amarezza e frustrazione, crea un pericoloso precedente. Dice, testualmente: “Volevo sottolineare un punto importante: le democrazie non appartengono ai territori, ma ai cittadini. Sono gli stati che concedono la cittadinanza. Tornare di nuovo ai territori come concessori di cittadinanza vuol dire tornare indietro”.

Le somiglianze fra le recenti vicende della Catalogna, stigmatizzate da Savater, e quelle delle tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, sono assai maggiori di quanto comunemente si ritiene.

E’ vero che anche in Italia ci sono Regioni e Province a statuto speciale, ma le 5 che, al momento della richiesta di autonomia, godevano di regimi speciali erano aree periferiche (per insularità o prossimità ai confini nazionali), con un’economia debole, e la loro richiesta di forme speciali di autonomia era motivata essenzialmente dalla tutela della propria specifica identità storico/ culturale e dalla preoccupazione di emarginazione da parte dello Stato centrale. Il federalismo differenziato dei giorni nostri nasce, e cresce, in un contesto tutto diverso.

La maggioranza degli studi scientifici prodotti in questi ultimi anni, dimostra come il decentramento, soprattutto se particolarmente ampio, possa favorire processi di divergenza economica, sociale e culturale fra i diversi territori all’interno di un paese. I risultati, secondo Viesti, sono diversi da caso a caso; ma certamente l’evidenza a nostra disposizione non consente di sostenere, al contrario, che un maggiore decentramento favorisca la convergenza economica fra le regioni.

Il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il Governo Gentiloni, per tramite del Sottosegretario di Stato Gianclaudio Bressa (di Belluno; allora del PD, ora è nel gruppo SVP-Autonomie) ha concluso con ciascuna delle tre regioni succitate una Pre-Intesa sul regionalismo decentrato. Vale la pena sottolineare che la Regione Emilia-Romagna è a guida Pd, presidente Stefano Bonaccini, e che i Consiglieri regionali del Pd di Veneto e Lombardia hanno votato a favore del “regionalismo differenziato” della Lega.

Quando nella nuova legislatura è entrato in carica il governo Lega Nord-Movimento 5 Stelle, nel “contratto di governo” da essi sottoscritto si legge al punto 20 che è “questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.   La delega per la materia è stata attribuita alla Ministra Erika Stefani” (di Vicenza, della Lega Nord). Nell’autunno la Stefani ha dichiarato di aver predisposto le bozze delle Intese con le tre regioni, pronte per l’approvazione in Consiglio dei Ministri, inizialmente ipotizzato per il 22 ottobre, ma slittò. A seguito del Consiglio dei Ministri tenutosi il 21 dicembre 2018 è stata annunciata la firma delle Intese, da sottoporre successivamente al voto parlamentare per il 15 febbraio 2019, senza possibilità di discussione in Aula.

Ma qual è il punto principale delle pressanti richieste da parte di queste tre Regioni? Naturalmente gli sghei, come direbbero i veneti e, per l’esattezza il cosiddetto residuo fiscale.

Il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. La stima viene fatta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa, quel territorio riceve meno spesa rispetto alle tasse versate; ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore (Viesti). I dati indicano un residuo fiscale certamente negativo, in ordine di dimensione, per cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana.

I Padri costituenti hanno voluto che il bilancio pubblico in Italia determini una redistribuzione tra territori che, per la quasi totalità, avviene senza che vi sia un obiettivo esplicito di redistribuzione territoriale, ma come semplice conseguenza della eterogeneità della distribuzione nelle varie aree degli individui secondo le caratteristiche rilevanti per l’erogazione della spesa (età, stato di salute, condizione lavorativa, reddito, ecc.) e il suo finanziamento (il reddito, i consumi, la ricchezza, ecc.).

Il criterio al quale i nostri Padri costituenti si sono ispirati è quello dell’equità orizzontale (trattare individui uguali in modo uguale), che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione riguardo alle caratteristiche ritenute rilevanti (reddito, età, stato di salute, ecc.). Questo criterio è stato adottato non solo in Italia, ma in tutti i paesi, e sono tanti, nei quali vi sono norme costituzionali che stabiliscano l’accesso ad alcuni diritti di cittadinanza indipendentemente dal reddito dei singoli.

Con la modifica del principio costituzionale sopra citato si creerebbero, invece, italiani di serie A e di serie B, fra le regioni, all’interno delle regioni (Milano ed il resto) all’interno delle città (il centro storico ed il resto) e via via fino al singolo individuo secondo l’ideologia individualista corrente.

Grazie alla crisi che ha colpito pure il Nord, si è creata, nelle regioni più ricche, la convinzione che sia molto più importante promuovere la competitività delle aree già più forti del paese, invece di puntare ad un rilancio dell’intera economia nazionale. I veneti, per esempio, vorrebbero i 9/10 delle tasse raccolte nel proprio territorio vi rimanessero, sottraendoli, così, alla fiscalità nazionale e sancendo, di fatto, la secessione dei ricchi.

Rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio incostituzionale ed estremamente pericoloso: i diritti di cittadinanza, a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro-capite è più alto, minore dove è più basso.

Le ulteriori autonomie concesse dal “regionalismo differenziato” da un lato indeboliranno le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, dall’altro accentueranno iniquità e diseguaglianze disgregando definitivamente l’universalismo, per esempio, del SSN, perché le risorse trasferite alle Regioni, insieme alle competenze aggiuntive, potrebbero intaccare le fonti di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale

Come scrive Enzo Paolini, negli atti preliminari ed accompagnatori al regionalismo differenziato, si afferma che l’obiettivo sarebbe quello di “una maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione limitatamente agli assistiti residenti nella regione”… poi per “la selezione della dirigenza sanitaria”…. “per l’organizzazione della rete ospedaliera” e per “assistenza farmaceutica”, superando i “vincoli di bilancio nell’equilibrio economico – finanziario”.

La traduzione di Paolini è la seguente: “siccome il gettito fiscale delle Regioni del nord deve rimanere in gran parte sul territorio occorre che a deciderne la spesa sia la politica locale e che ad usufruire del servizio sia solo la popolazione ivi residente. Dunque, un padovano o un modenese potranno avere livelli di assistenza più estesi, potranno accedere ad una rete ospedaliera più moderna ed efficiente, ed avranno una assistenza farmaceutica maggiore di quella attuale. Gli ospedali delle loro città e della loro regione potranno avere rimborsi maggiori e comunque godere di sostegni finanziari non condizionati dalle ripartizioni negoziate nella conferenza Stato- Regioni e potranno assumere più medici ed ottenere servizi accessori di maggiore qualità”.

Benefici che saranno riservati solo ai cittadini residenti nelle regioni “ad autonomia differenziata” tanto che il calabrese, o il lucano, sarà sempre meno assistito nella sua regione, la quale potendo contare solo sul gettito fiscale dei propri cittadini, sarà sempre più povera e sempre meno in grado di assicurare i LEA (livelli essenziali di assistenza), di costruire e mantenere ospedali degni e di assicurare cure efficienti (al netto delle ruberie e nonostante il valore e l’eroismo dei suoi medici). E se vuole curarsi a Milano (cioè in una regione che tutela solo i propri residenti) dovrà pagare la differenza tra il piccolo rimborso che sarà possibile alla Regione Calabria e quanto prevede per la spesa sanitaria pro-capite la Regione Lombardia.

Tra pochi giorni, dunque, grazie al governo gialloverde verrà cancellata una delle grandi conquiste di civiltà del nostro paese: “il Servizio Sanitario Nazionale improntato ai principi di universalità e solidarietà in base al quale tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalle loro origini, dalla loro residenza, dal censo sono curati allo stesso modo con oneri a carico dello stato, mediante il prelievo fiscale su base proporzionale. Si chiamava perequazione fiscale e grazie ad essa le classi più ricche pagavano più tasse per aiutare quelle più povere a curarsi, ad istruirsi, ad avere i servizi di base”.

Facciamo un altro esempio ancora: la Regione Veneto vuole, persino, legiferare in materia di tutela dell’ambiente, di tutela e valorizzazione dei Beni Culturali, di governo del territorio, sulla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione, su collocamento e servizi per l’impiego, sui rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Il Veneto chiede la stessa manovrabilità sui tributi regionali e locali chiedendo il trasferimento delle funzioni amministrative delle Sovrintendenze per i Beni culturali, violando in questo modo persino l’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Le ville venete, dunque, saranno meglio tutelate e valorizzate, mentre l’antica Sibari continuerà ad allagarsi.

La competenza più gravida di conseguenze a lunga scadenza richiesta dalle tre Regioni è, però, l’istruzione. La Regione Veneto, come la Lombardia, richiede, infatti, che le “norme generali sull’istruzione” divengano oggetto di legislazione regionale, concorrente, fra l’altro, nella disciplina delle finalità, delle funzioni e dell’organizzazione del sistema educativo regionale, e nella disciplina dell’organizzazione e del rapporto di lavoro del personale delle scuole. Chiede, inoltre, che le venga attribuita una competenza legislativa residuale con riferimento, tra l’altro, alla disciplina della programmazione dell’offerta formativa integrata e dei contributi alle istituzioni scolastiche paritarie; che debba spettare alla legge regionale disciplinare sia l’istituzione di ruoli per il personale delle scuole, sia la determinazione della sua consistenza organica, e stipulare contratti collettivi regionali (Viesti). Tutto il personale della scuola passerebbe, quindi, alle dipendenze della Regione ed i programmi non saranno più quelli ministeriali uguali per tutti, ma saranno dettati dalle Regioni. Via libera, dunque, ai dialetti, alle storie riscritte o revisionate, alle opere letterarie dialettali e così via. Gli insegnanti saranno solo quelli residenti ed i nostri laureati meridionali saranno, con tutta probabilità, sottoposti a regolamentazione da ricattatorî “flussi migratori” come i lavoratori extracomunitari.

La Regione Lombardia richiede anche la regionalizzazione del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università con lo scopo, evidente, di vederlo sensibilmente aumentare per i propri atenei (e corrispondentemente diminuire per gli altri). Una Università è virtuosa se l’indicatore spese personale è sotto l’80 per cento e se l’Isef (indicatore di sostenibilità economica e finanziaria) è sopra l’1. Nel complesso il calcolo tiene conto dell’impatto delle spese ordinarie (spese del personale, oneri, fitti) sulle entrate fisse che sono rappresentate dal fondo di finanziamento statale e dalle tasse degli studenti. La quantità di tasse è, ovviamente, più grande negli atenei settentrionali, dove si incassa di più perché maggiore è il gettito fiscale, potendo contare su famiglie mediamente più ricche e con un Isee più alto. Per fare un solo esempio, all’Unical, dove insegna chi scrive, le tasse sono inferiori alla media nazionale, e i due terzi dei nostri studenti sono nella no tax area, ci dovremo accontentare di un turn over pari solo all’80 % o addirittura del 70% ed un taglio dei fondi destinati alla ricerca del 30 o 40%, come è già parzialmente avvenuto con l’ultima Legge finanziaria.

Si tratta di una vera e propria regionalizzazione della scuola e dell’Università che determinerebbe, ancor più in assenza della determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni da garantire sull’intero territorio nazionale, una crescente sperequazione nell’istruzione fra i giovani italiani; disparità negli aspetti normativi ed economici dei docenti; l’intrusione delle autorità regionali nelle finalità stesse della scuola.

L’autonomia differenziata regionale così intesa modifica il funzionamento del paese, frantuma alcuni fondamentali servizi pubblici e determina, dunque, differenti diritti di cittadinanza in base alla residenza.

Bisogna, dunque, opporsi con tutta la forza e la determinazione di cui siamo capaci per evitare la regionalizzazione della sanità e della scuola perché minano le fondamenta della vita civile di questa nazione. Bisogna combattere e sconfiggere gli egoismi, gli individualismi ed i localismi generati da un modello economico, sociale e culturale ultraliberista. Bisogna ricostruire un fronte comune che ci faccia riguadagnare questi elementari diritti di eguaglianza ed equità.

In un libro appena uscito, Mario Tronti sostiene che l’unica strada per la ricostruzione di una sinistra antiliberista ampia e di popolo, in Italia, è quella della riforma dei soggetti collettivi, di lotta e di consenso, di rappresentazione e di azione, sindacati e partiti, con intorno nuove forme solidaristiche di movimento e di cooperazione, di mutuo soccorso sociale e di pratiche politiche di base. La rilegittimazione della politica passa attraverso la restaurazione di un rapporto di fiducia tra il basso e l’alto, tra popolo ed élite. Un’impresa ardua allo stato delle cose, ma l’unica forse in grado di riaprire un processo rigenerativo, direi redentivo, dello spirito pubblico ora in agonia.

Questa è una buona occasione non solo per provare a stare insieme per conseguire un risultato importante per il Sud, ma che potrebbe anche essere solo l’inizio di una possibilità di stare insieme per costruire un progetto, un’idea di Mezzogiorno che non sia basato su inutili e antistorici rivendicazionismi, ma su proposte concrete e realizzabili.

Ricordo, ancora una volta, che uno dei primi atti del “New Deal” di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio che impegnò, a partire dal 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, chiamati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge, terreni incolti e monumenti. Bernie Sanders, insieme alla giovane neoparlamentare Alexandria Ocasio-Cortez, ha lanciato, dalle colonne del “The New Yorker” del 7 febbraio, un nuovo Green New Deal proponendo un progetto di conversione radicale ad una economia non più inquinante, un rafforzamento della politica antitrust, la protezione del diritto dei lavoratori ad organizzarsi, la garanzia di assistenza sanitaria di alta qualità per ogni americano, un piano di costruzione o rigenerazione di alloggi economici, sicuri e adeguati per tutti. La proposta più ambiziosa e perequativa è, però un grandioso programma di lavoro per tutti: ogni americano avrà un’opportunità di lavoro legata al progetto di transizione dell’America verso un’energia pulita e sostenibile. Questo Green New Deal sarà finanziato, come quello di Roosevelt, con il debito pubblico, dallo Stato.

Ecco cosa ci vorrebbe per il Mezzogiorno: un New Deal fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani; un New Deal dei paesaggi nel quale la redditività del nostro patrimonio storico e naturale non risieda solo nella sua commercializzazione, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che creerebbe la ricomposizione materiale e immateriale dei luoghi, dei paesaggi.

 

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