I rischi dell’autonomia all’emiliana. Ora restituire un ruolo forte a Roma di Gianfranco Viesti
Si avvia il nuovo governo. E trova sulla sua strada, tra i tanti temi aperti, quello dell’autonomia regionale differenziata. Un dossier scottante per la portata estrema delle richieste. Le richieste delle regioni Lombardia e Veneto, e in larga misura anche Emilia-Romagna: non a caso battezzate “Spacca-Italia” da questo giornale; per le loro profonde implicazioni sui meccanismi di finanziamento delle amministrazioni, e quindi dei servizi ai cittadini; per le ricadute a catena che un’eventuale intesa con una o più di queste regioni può provocare anche nei rapporti con le altre e nel complessivo funzionamento del Paese.
Nel testo dell’Intesa fra Pd e 5Stelle, il tema è estesamente affrontato al punto 20. Sono posti dei chiari paletti di principio a meccanismi di finanziamento che possono provocare vantaggi ad alcuni a danno ad altri; viene auspicata, un po’ vagamente una «ricognizione ponderata delle materie e delle competenze da trasferire»; viene affermata la centralità del Parlamento in tutto il processo.
Una formulazione accettabile nelle sue cautele, ma che rischia di non affrontare il nodo di fondo della questione. La forte iniziativa politica delle tre Regioni fa partire la discussione dal punto sbagliato: la differenziazione delle competenze, per averne specifici vantaggi. Non da quello più corretto: e cioè il completamento dei meccanismi di finanziamento ordinario delle Regioni e una attenta discussione del riparto delle competenze fra Stato e autonomie, per far funzionare meglio l’Italia. Non sarà affatto semplice tenere insieme il «portare avanti il dossier delle tre Regioni» con la considerazione che è «un lavoro che riguarda tutte le Regioni», come si legge nella prima dichiarazione del neo-ministro. Soprattutto considerando le pressioni che eserciterà la giunta emiliana, anche in vista delle prossime elezioni regionali.
Il perché non è difficile da capire. In materia finanziaria Veneto e Lombardia hanno proposto un vestito disegnato sui loro possibili vantaggi, abbandonando la strada maestra dei meccanismi già previsti sin dalla legge 42 sul federalismo fiscale. Ed è da questi meccanismi che occorre invece ripartire, abbandonando le bozze predisposte dal precedente governo: regole chiare, valide per tutti. Sapendo bene che in tempi di risorse scarse non è affatto facile, politicamente e tecnicamente, transitare come auspicabile dal “costo storico” a indicatori più equi e basati sui numeri.
L’esperienza tragica del federalismo fiscale per i Comuni, che ha visto quelli più ricchi contrapporsi vittoriosamente a quelli più poveri, è lì a mostrarlo. In materia di competenze c’era stata già una netta rottura fra i due vecchi partner di governo, con i 5 Stelle contrari ad alcune delle richieste più importanti, ed estreme, di Lombardia e Veneto, come l’istruzione e i beni culturali o la cessione al patrimonio regionale delle infrastrutture.
Il punto è che molte delle altre richieste regionali sono del tutto simili (altro che regionalismo differenziato!), fra le tre e fra le altre: e quindi riguardano non l’attuazione dell’articolo 116 ma una rilettura dell’articolo 117 della Costituzione. Cioè molto più il riparto di competenze, specie amministrative, fra Stato e tutte le Regioni, che casi specifici. Discussione anch’essa molto utile e non semplice: che non sarebbe male condurre, per averne indirizzi, in Parlamento.
Ma partire dall’inizio, e cioè ridiscutere confini fra poteri e meccanismi di finanziamento, porta a nuovi importanti interrogativi. L’equità delle regole per le Regioni a statuto speciale: molto del malessere veneto viene proprio dal confinare con regioni “speciali”. E soprattutto Roma. Questione dirimente per il nostro Paese; non banalmente «una città come le altre» come argomentato improvvidamente da qualche sindaco (argomentazioni probabilmente alla base dei cambiamenti fra prima e seconda versione del programma di cui questo giornale si è estesamente occupato ieri).
Roma è la capitale del Paese; è la parte largamente preponderante della regione Lazio; e, oltre a questo, è in profonda difficoltà. Tutte questioni che richiedono riflessioni attentissime su poteri e risorse; non per un banale campanilismo ripetibile in ogni municipio, ma perché una capitale e un Paese che si rilanciano sono due facce della stessa medaglia. E poi, Milano non diventa certo più forte se Roma si indebolisce, ma solo se è un nodo importante di una rete di città competitive, che innervano tutto il Paese. Non se imita Londra isolandosi, e contrapponendosi economicamente e politicamente al resto del Paese (che poi si vendica con la Brexit), ma se si inserisce, come Monaco di Baviera e Francoforte, in un efficiente sistema-Paese.
E questo ci porta all’ultimo tema. Si è fatta una polemica estiva sulla supposta lontananza del governo dal Nord, che certamente sarà rinfocolata dai governatori leghisti sul tema delle autonomie differenziate. Polemiche che meriteranno una risposta attenta. Da un lato, sul merito delle questioni, spiegando bene ai cittadini di quelle regioni che non si parla genericamente di “autonomia” o “responsabilità” ma di specifiche materie, specifiche disposizioni. O davvero pensiamo che tutti i lombardi abbiano come priorità il fatto che l’Autostrada del Sole diventi regionale, o che gli insegnanti dei loro figli dipendano dall’assessore?
Dall’altro, sul futuro possibile del Paese. Che non può stare in una lotta di campanile di tutti contro tutti per i soldi; nell’egoismo dei ricchi: nel loro stesso interesse. Ma in un disegno condiviso, che premi l’efficienza di chi ben governa e i diritti di tutti i cittadini, a tutte le latitudini, alla salute, all’istruzione, all’assistenza, alla mobilità; e che soprattutto rilanci gli investimenti, pubblici e privati. La sfida che ha davanti questo governo è cominciare a tracciarlo, facendo un serio “tagliando” all’Italia del XXI secolo; cosa nient’affatto semplice, ma indispensabile per cominciare ad uscire dalle secche in cui da troppi anni ci siamo arenati.
Il Messaggero
6.9.2019