L’uso del salva-Stati.- di Gianfranco Viesti L’occasione per colmare il gap sanitario tra le Regioni.
Siamo stati colpiti duramente dal coronavirus sul piano sanitario, e siamo stati e saremo colpiti sul piano economico dalle sue conseguenze: non possiamo permetterci il lusso di ignorarne gli insegnamenti per cambiare strada rispetto al passato. Uno dei più importanti è che la salute è, come recita la Costituzione, tanto un nostro fondamentale diritto individuale quanto un “interesse della collettività”.
La salute è un bene pubblico nazionale. Anzi, dovrebbe diventarlo a scala europea: bene ha fatto la Commissione UE ad inserire nella sua proposta per il Piano di Rilancio un nuovo intervento (EU4Health) che, seppur con un finanziamento appena iniziale, mira a rafforzare la capacità di risposta comune degli stati membri: vaccini, dispositivi, prevenzione.
L’Italia ha in questi mesi l’occasione storica per tornare a dotarsi di una strategia nazionale di lungo termine e per ripensare alla struttura e al funzionamento di un Sistema Sanitario che negli ultimi venti anni è stato progressivamente definanziato e abbandonato alle gestioni regionali.
E’ balzato agli occhi di tutti come la sanità sia divenuta troppo differenziata in Italia: sia perché sono state fatte scelte di fondo molto diverse da regione a regione, che hanno poi determinato una capacità di risposta alla pandemia completamente diversa.
Sia perché i cittadini possono fruire di dotazioni e servizi sanitari in quantità e qualità molto dispari a seconda del luogo in cui vivono. Ma la salute, ecco la grande riscoperta, non è questione locale: in un paese in cui il diritto alla libera circolazione è e deve essere indefettibile, è questione di tutti gli Italiani.
Questo ha due grandi implicazioni. La prima è che Parlamento e Governo devono tornare ad esercitare il proprio ruolo di coordinamento ed indirizzo, e non limitarsi ad erogare risorse della fiscalità generale alle regioni. Ciò significa indicare le linee di fondo di una strategia per la salute, ad esempio, fortemente centrata sui servizi socio-sanitari terririali di prevenzione e cura (di cui qualche traccia si vede in alcune scelte contenute negli ultimi decreti): decisione fondamentale in un paese destinato ad un forte invecchiamento della popolazione. Ma anche definire reti nazionali di strutture per la gestione delle emergenze, come le – purtroppo ben note – terapie intensive.
La seconda è che si deve mirare a garantire simili diritti alla salute per tutti gli Italiani, indipendentemente da dove vivono. Le disparità, specie fra Nord e Sud, oggi sono elevatissime; dipendono da un complesso intreccio di cause, dai criteri di finanziamento stabiliti all’inizio del secolo alla gestione di diverse regioni: cattiva, in alcuni casi pessima.
Queste disparità si sono fortemente accentuate negli ultimi anni, in cui la sanità è stata sempre e solo vista come un costo da tagliare, e non come un investimento collettivo. Nelle risorse umane: nelle regioni più deboli del paese le dotazioni di personale medico ed infermieristico sono inferiori alla media nazionale. E nelle risorse strumentali: come documentato in una Nota recentemente pubblicata sul Menabò di Etica ed Economia, non solo nell’ultimo decennio gli investimenti pubblici in strutture e apparecchiature in Italia si sono ridotti ai minimi storici (cosa che ci ha penalizzato nella gestione della pandemia), ma sono stati ancor più scarsi nelle regioni che già avevano dotazioni inferiori.
Negli ultimi venti anni sono stati investiti in nuove dotazioni sanitarie 16 euro all’anno per ogni calabrese e 84 per ogni emiliano (per non parlare dei 183 euro a Bolzano). Regioni con meno strutture, apparecchiature più obsolete e un personale meno numeroso e più anziano non potranno mai garantire livelli di servizio accettabili; genereranno sempre i tristi fenomeni di “migrazione sanitaria”. Ma quello che dovremmo aver imparato dalla crisi del coronavirus è che questo non è un problema calabrese: è un problema italiano.
Il grande investimento che dovremo fare nei prossimi dieci anni sulla nostra salute, anche per prevenire meglio malaugurate nuove epidemie, passa attraverso queste due grandi scelte. Che portano con sé un corollario altrettanto importante.
Quali che saranno le decisioni che il Parlamento vorrà prendere in materia di competenze e di organizzazione sanitaria fra Stato e Regioni (che ragionevolmente non potranno che intrecciarsi) un principio dovrebbe tornare centrale: i beneficiari delle risorse economiche che noi forniamo con le nostre tasse per la tutela della salute non sono gli amministratori regionali: siamo noi stessi in quanto cittadini. Non possiamo più permetterci di distribuire fondi e considerare che ormai sono “cosa loro”, delle Amministrazioni Regionali; limitandoci a sperare che facciano del loro meglio.
Constatando poi impotenti che i livelli essenziali di assistenza non sono garantiti, o che i medici di base sono stati mandati allo sbaraglio. Il rilancio della politica per la nostra salute deve passare attraverso indicatori di risultato precisi e tempestivi, e poteri sostitutivi incisivi.
Se vogliamo davvero imparare la lezione, dobbiamo provare a lasciarci alle spalle l’Italia degli ospedali incompiuti da decenni e delle assunzioni in sanità come bacini di voti; e puntare a costruire un paese nel quale fra cinque anni ci siano già ovunque reti di servizi socio-sanitari territoriali capillari ed efficienti, e si stia completando la rete ospedaliera, con le dotazioni necessarie.
Per invecchiare con più tranquillità e fiducia. E per documentare con fierezza ai nordici che disprezzano il nostro paese i risultati ottenuti con le risorse che l’Europa ci avrà messo a disposizione.
da “il Messaggero”, 30 giugno 2020
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