Post-lockdown. Più inoccupazione, meno conflitto sociale.- di Tonino Perna C’è bisogno di dare una risposta hic et nunc ad una massa di disoccupati e precari in vertiginoso aumento
Dieci anni fa la crisi dei mutui subprime negli Usa provocò una catena di fallimenti nelle istituzioni finanziarie, un crollo delle Borse in tutto il mondo, e quindi anche la decapitalizzazione delle imprese quotate, con un forte impatto sull’economia reale che ne pagò lo scotto senza averne alcuna colpa. Solo in Italia nel periodo 2008-2011 sono fallite più di 1/5 delle imprese manifatturiere.Strozzate dalla mancanza di liquidità e dal crollo della domanda interna. Si salvarono le imprese che avevano una maggiore capacità di penetrazione nei mercati esterni.
La crisi che stiamo vivendo ha avuto un’origine opposta. Per il lockdown hanno chiuso molte attività, nella produzione di beni e servizi, provocando un crollo del Pil di dimensioni inedite. In seconda battuta, anche la finanza ne ha subito le conseguenze con la caduta dei titoli delle imprese che chiudevano per la pandemia. Ma appena si sono riaperte le attività, i titoli di Borsa hanno ripreso a crescere (specie quelli legati alla vendita on line, e ad alcuni settori farmaceutici e tecnologici ) mentre l’economia reale, nel suo complesso, stenta a farlo e ancor più patisce l’occupazione.
Soprattutto si è modificata la relazione capitale/lavoro: i lavoratori non vengono licenziati, grazie ai decreti governativi che hanno bloccato i licenziamenti per tutto l’anno in corso, ma semplicemente non vengono riassunti. Per questo finora non è scoppiato il conflitto sociale che tuttavia è solo rimandato a quando si sbloccheranno i licenziamenti.
Nelle cicliche crisi del capitalismo si è registrata spesso una situazione di sovraproduzione, di conflitto tra imprenditori propensi ridurre il numero di addetti per adeguarsi alla caduta della domanda, e lavoratori che non rinunciavano al posto di lavoro e occupavano le fabbriche. In Italia, il più famoso è stato il caso della Fiat nel 1980 che tutti ricordano come la sconfitta destinata a pesare simbolicamente su tutto il mondo del lavoro.
L’occupazione di aziende o terreni è sempre stata l’espressione di lotta e la forma di resistenza più alta espressa dal movimento operaio e contadino. Oggi, per via del lockdown, i lavoratori- soprattutto quelli con contratto a termine, stagionali e precari, sono rimasti fuori dai luoghi di produzione di beni e servizi.
Non hanno un luogo, uno spazio proprio, una storia da difendere. Sono divisi, sparpagliati, non hanno possibilità di farsi valere, di richiedere i propri diritti. Hanno aspettato che riprendesse la cosiddetta “normalità”, che le aziende riassumessero come prima della pandemia. Ed invece oltre 700.000 sono i nuovi inoccupati che vanno ad aggiungersi ai 3 milioni preesistenti.
Da una indagine, per ora parziale, emerge il fatto che le aziende che hanno subito un calo del fatturato e che prevedono di non riprendersi a livello pre-pandemia hanno riassunto solo una parte di addetti in misura meno che proporzionale al calo del fatturato. Per intenderci: una azienda con 100 addetti in previsione di un calo del fatturato, sull’anno in corso, del 30 per cento, anziché assumerne 70, ne prende 50 che dovranno lavorare molto di più e, non di rado, con un salario orario inferiore. E dovranno anche sorridere e essere grati al datore di lavoro.
Questa è la situazione nel mondo dei servizi (ristoranti, alberghi, villaggi turistici, centri commerciali) ed è chiaro che il mondo del lavoro dipendente, oltre a essere sempre più precario, è sempre più subalterno. Come organizzare chi è rimasto fuori, ovvero quel milione di persone che secondo diversi analisti, ha perso il posto di lavoro e può sperare solo nel reddito di cittadinanza e qualche lavoretto in nero? Il governo Conte dovrebbe avere il coraggio di usare una parte dei finanziamenti europei per assumere in settori vitali della pubblica amministrazione una parte di questi inoccupati.
Assumere medici, infermieri, assistenti sociali, insegnanti di ogni ordine e grado, ricercatori nelle Università e nel Cnr, ed anche operai, idraulici, forestali, ecc. Senza scandalo: la Calabria aveva 36.000 operai forestali nel 1983, quando il Corsera gli dedicò un articolo che fece scalpore, oggi sono 5mila e per lo più anziani, mentre colline e montagne franano, vengono incendiate e abbandonate.
Se la Pubblica Amministrazione ha perso circa 500 mila posti di lavoro negli ultimi dieci anni è il momento di svoltare e superare il mito dello sviluppo che arriverà solo con gli investimenti. C’è bisogno di dare una risposta hic et nunc ad una massa di disoccupati e precari in vertiginoso aumento. E questo solo il settore pubblico lo può fare immediatamente, con risvolti positivi per tutti, anche per gli investimenti privati.
da “il Manifesto” del 4 agosto 2020
Foto di Servando Reyes da Pixabay