Le grandi opere. Alle regioni più ricche non spetta la precedenza.- di Gianfranco Viesti
Immaginiamo, con un po’ di ottimismo, che nel prossimo anno la tremenda crisi del Covid possa volgere al termine; e che l’economia italiana possa finalmente ripartire, rilanciare le imprese e tornare a creare lavoro. Potremo sperare di risolvere così, facilmente i nostri problemi economici e sociali? Purtroppo no.
Per due motivi fra loro strettamente collegati. Il primo: la nostra economia è stata in difficoltà dall’inizio del secolo, con tassi di crescita asfittici. Il secondo: vaste aree del nostro Paese sono particolarmente deboli, poco provviste di quelle condizioni di infrastrutturazione materiale e immateriale decisive per crescere nell’economia contemporanea. I due elementi sono legati: nessun Paese può crescere col contributo solo di una parte minoritaria dei suoi territori.
Questi timori sono confermate dalle stime della Svimez sulle economie regionali nel 2020-21. Che ci dicono? Che la ripresa 2021 potrebbe essere più sensibile, in assoluto e rispetto alla caduta di quest’anno, in Lombardia, Emilia e Veneto: economie diversificate e più in grado di legarsi alla possibile ripresa internazionale. Ancor più in Trentino Alto Adige: un sistema produttivo che da tempo è molto più connesso al ciclo economico tedesco che a quello italiano.
Ma questo potrebbe non accadere in quello che ormai è definibile “Nord più debole”.
Friuli, Piemonte e soprattutto Liguria. Potrebbe non accadere nelle regioni del Centro, specie Umbria e Marche. E nell’intero Mezzogiorno; al suo interno, con difficoltà ancora maggiori in Calabria e nelle Isole.
Ci potremmo ritrovare, insomma, con i problemi irrisolti dell’ultimo ventennio. Per questo è così importante il Piano di rilancio; così come l’insieme delle scelte di politica economica delle prossime settimane. Esse non si possono limitare a raccogliere progetti presentati qua e là per impiegare le risorse europee, come pare (ma c’è da augurarsi che non sia vero) stia facendo il Governo. Non possono piegarsi alle voci più forti. Alle richieste più pressanti di questo o quell’interesse.
Un piano di rilancio senza un’idea di Paese, senza grandi obiettivi di medio e lungo termine da raggiungere (e in base ai quali, dopo, scegliere e definire i progetti) rischierebbe di servire davvero a poco. Peggio, di approfondire disuguaglianze sociali e territoriali.
E l’idea di Paese che non dovrebbe mancare è quella di un’Italia che riparte perché si riesce a rilanciare tutte le sue regioni, i suoi territori, le sue città. Nella quale la crescita di ogni sua parte aiuta e favorisce quella delle altre. Molto più simile all’equilibrato e multipolare (e perciò forte) sistema tedesco, che a quello inglese: tutto centrato su Londra e con vaste parti del Paese abbandonate al declino.
Concretamente questo significa intervenire a sostegno della ripresa delle aree e delle città più forti del Paese. Ma anche e soprattutto, con una svolta netta rispetto all’ultimo ventennio, nelle altre aree. Rafforzare, sul piano della ricerca, l’innovazione e i sistemi urbani Trieste, Genova e Torino. Puntare con decisione sulla strategia delle aree interne, in tutte le regioni, costruendo reti intelligenti di servizi scolastici, sanitari, di trasporto. Rilanciare le aree centro-adriatiche, che stanno conoscendo un declino lungo e preoccupante, anche per l’assenza di aree urbane forti.
Ripensare ad assetti amministrativi e politici per Roma: come si può immaginare di ricostruire davvero l’Italia derubricando i suoi temi a questioni locali, senza puntare con politiche nazionali ad un grande progetto per la Capitale? E naturalmente il Mezzogiorno. La più grande riserva di crescita dell’Italia, da mettere a valore, finalmente, con seri investimenti nei suoi servizi sociali e nella scuola, nei servizi per la mobilità (nelle città e fra le città) e per la digitalizzazione.
Il rischio è che davvero si vada avanti con elenchi di interventi, magari ancora una volta particolarmente concentrati dove l’economia e gli interessi sono più forti. Che le infrastrutture si facciano prima e di più (a volte solo) dove c’è già più ricchezza; che lì si investa prima e di più su istruzione e ricerca, come avvenuto nell’ultimo decennio.
La speranza è che si riesca invece a costruire una visione d’insieme di un Paese più ricco e vivace perché multipolare; di un Paese nel quale tanto il Mezzogiorno quanto i territori “che stanno scivolando verso Sud” tornino al centro dell’attenzione grazie ad una nuova stagione di investimenti pubblici, rapidi e ben fatti, che creino le condizioni e stimolino gli investimenti privati.
da “il Messaggero” del 4 settembre 2020