Inseguendo lo sviluppo di Oscar Greco
La profonda crisi politica, economica e finanziaria di un’Europa a vocazione atlantica, costruita come un’area indifferenziata di libero mercato in cui non trovano spazio le diverse culture, le diverse realtà economiche e sociali, è la spia del fallimento del progetto occidentale di modernità intesa come un fatto antropologico che coinvolge l’intera umanità.
Sta esaurendosi la lunga fase dominata da un ottimismo storico che ha considerato lo sviluppo e il mercato come un gioco libero e aperto nel quale tutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, di scalare le posizioni e risalire le gerarchie. Si evidenzia l’illusorietà della concezione acritica della modernizzazione come necessità storica, che ne presuppone un implicito valore assolutamente positivo e progressivo.
Visti sotto tale profilo gli eventi storici, le strategie politiche e le trasformazioni sociali della Calabria del dopoguerra possono considerarsi paradigmatici del fallimento di quel meridionalismo ispirato a quei valori e che, quindi, ha valutato e affrontato i problemi del Mezzogiorno unicamente con il metro di giudizio del mancato sviluppo e del ritardo delle regioni del Sud, da colmare favorendo i processi d’integrazione di queste aree nel sistema capitalistico italiano ed europeo, nella convinzione che l’evoluzione e il benessere delle regioni meridionali dipendevano dalla capacità di favorire non solo un modello produttivo ma anche uno stile di vita identico o comparabile a quello delle regioni industriali.
In virtù di questa ottica la classe dirigente chiamata a governare il Paese dopo la svolta politica del 1948 ha considerato le condizioni economiche e socio-culturali del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, una diversità intollerabile per una nazione che si prefiggeva di rinascere attraverso un processo di industrializzazione e modernizzazione.
Ne è derivato un meccanismo destinato a bollare come arretrate tutte le realtà sociali, tutte le culture che non somigliavano a quelle delle società modernizzate e che non ha saputo cogliere la novità rappresentata dalle imponenti lotte per la terra degli anni Quaranta, veri e propri atti fondativi delle comunità contadine calabresi. Un movimento che, seppur nel suo ingenuo spontaneismo, proponeva un modello di società in cui le esigenze di democratizzazione e di riscatto sociale si coniugavano con le tradizioni culturali e i valori delle comunità e delle famiglie contadine calabresi: un modello diverso dalla tradizionale e arcaica società servile del latifondo ma anche da forme di modernizzazione poco compatibili con la realtà e le tradizioni di una società a vocazione rurale come quella calabrese.
La via scelta per la modernizzazione del Sud è stata quella della politica della ‘crescita’ e dello ‘sviluppo’, di fatto tradottasi «in una ideologia emulativa nello sforzo generale di fare assomigliare le aree ad economie tradizionali a quelle trasformate dalle innovazioni tecniche e produttive e dai mutamenti sociali indotti dal capitalismo trionfante»[1].
Indubbiamente il proposito di eliminare la ‘diversità’ del Sud, attuato con strumenti svariati, quali la Riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno, l’intervento straordinario, le politiche di sviluppo locale e quelle di assistenza, ha prodotto risultati positivi nel tessuto socio-economico calabrese. E’ stato abolito il sistema del latifondo, è aumentata la capacità di spesa delle famiglie, si è ridotto, finché è durato l’intervento straordinario, il divario con le regioni del Nord, sono state ammodernate molte infrastrutture della regione.
Ma i costi umani e sociali sono stati pesanti.
Per decenni la Calabria è rimasta imprigionata nel momento del ‘non ancora’, in quella dimensione a venire che proietta il presente, mai soddisfacente se rapportato ad altre realtà, al di là di se stesso, nell’attesa di un futuro di sviluppo economico, di progresso e di modernità.
La regione è stata indotta a crescere allontanandosi dalle sue radici storico-culturali, dissolvendo forme di aggregazione e di rappresentanza di valori e interessi tradizionali senza trovarne i sostituti.
La società contadina è stata descritta tout court come il “mondo della miseria”[2], che i contadini accettano come qualcosa che non può essere modificato e al quale si può sfuggire solo con l’emigrazione, senza considerare che in quel mondo duro e a volte abbrutito, si sviluppavano anche relazioni affettive, forme di economia di solidarietà, la cultura del dono, i rapporti di vicinato tipiche di quella povertà conviviale, descritta da Majid Rahnema[3], che ha consentito a milioni di esseri umani delle ‘società vernacolari’ di vivere nelle ristrettezze ma con dignità una vita semplice e comunitaria.
La fine di quel mondo dei vinti[4] ha comportato lo svuotamento di molte aree interne della regione, l’abbandono dei luoghi di socializzazione, la scomparsa di antiche lavorazioni, di mestieri familiari e di quelle piccole attività che erano il cuore del tessuto economico e sociale dei piccoli centri. Si sono dispersi quei meccanismi d’integrazione sociale che erano alla base degli altri rapporti e che erano fondamentali per sopravvivere in una realtà rurale povera e precaria. Per la Calabria, è stata una «catastrofe antropologica», come sostengono Vito Teti e Domenico Cersosimo[5], se non addirittura un genocidio culturale[6].
Gli eventi del secondo dopoguerra calabrese descrivono l’affermarsi di un’economia di dipendenza, di assistenza, sostenuta dall’esterno, che ha aumentato il livello dei consumi della popolazione ma non l’autonoma capacità produttiva. Narrano la storia di una regione che ha creduto di crescere, ma si è ritrovata più povera e vulnerabile perché priva dei vecchi punti di riferimento. Indotta a vivere di accattonaggio sui fondi pubblici[7] ha cercato spazi di sopravvivenza, con ogni compromesso, tra le pieghe di un mortificante meccanismo assistenziale e di una realtà degradata figlia di un pragmatismo senza valori.
Il vero protagonista e beneficiario di questa ‘modernizzazione sbagliata’ è stato il nuovo ceto dirigente, i nuovi mediatori come li ha definiti Gabriella Gribaudi[8], esponenti della nuova classe cittadina, funzionari di partito e degli enti locali, che fanno della vita politica una professione e rappresentano al meglio il passaggio dal sistema dei notabili a quello dei professionisti della politica. Questo ceto, che raramente rappresenta i reali bisogni della popolazione calabrese, non sostiene uno sviluppo del Mezzogiorno a partire dalle sue risorse, ma sempre e soltanto uno sviluppo dipendente dal centro. Alimenta tutte le richieste di sovvenzioni e assistenza, per le quali offre le sue capacità mediatorie, per acquisire consenso, per gestire potere, per mero interesse personale, incentivando in tal modo la propensione a vivere di assistenza e la convinzione che nella irredimibile situazione calabrese sia possibile soltanto sfruttare al massimo e con qualsiasi mezzo il flusso delle risorse provenienti dallo Stato e dall’Europa.
La stagione dell’intervento straordinario e del trasferimento delle risorse ha fatto emergere un altro protagonista, che forse più di ogni altro ha saputo sfruttare le occasioni che il processo di modernizzazione della Calabria offriva, la ‘ndrangheta.
Delle vecchie famiglie mafiose che imponevano rispetto e consenso con prevaricazioni e minacce ammantate da pretestuosi valori tradizionali si stanno perdendo le tracce. La ‘ndrangheta oggi manifesta la sua capacità pervasiva imponendosi nel mercato internazionale del crimine con modalità che trascendono la sua antica appartenenza culturale, anche se, in una sorta di sintesi tra locale e globale, con un abile uso esterno della tradizione. Si presenta, infatti, come partner ‘compatto’ e affidabile proprio perché legato ai simboli e alle tradizioni chiuse della sua origine geo-culturale e coglie nei meccanismi di una economia di dipendenza e nei flussi di risorse che giungono dal centro e dall’Europa l’occasione per fare un salto di qualità.
Facendo leva sul rapporto tra carisma mafioso ed economia e sulla garanzia simbolica della sua storia, penetra negli ingranaggi del sistema politico ed economico contribuendo a realizzare un amalgamato sistema di potere che lega amministratori locali e organizzazioni criminose, imprenditori ‘assistiti’ e potenti uomini di governo. In tal modo la ‘ndrangheta rivendica la pretesa di incarnare un ruolo sociale nella gestione di uffici e risorse che sarebbero di pertinenza di altri poteri. Si è così realizzata una singolare mistura di arretratezza e modernità: diventa sempre più evanescente la distinzione tra lecito e illecito e il contesto di ‘legalità debole’ e istituzioni pubbliche poco credibili consente alle organizzazione di ‘ndrangheta di inserirsi nei meccanismi economici e politici della regione quasi come un elemento fisiologico e non patologico.
Tutto ciò ha contribuito a rappresentare i ‘mali’ del Sud in rapporto alla diversità del Nord e in una contrapposizione tra luoghi e comportamenti ideal-tipizzati che schiaccia i tratti specifici della storia del Mezzogiorno sotto una massa eccessiva di elementi metaforici che inevitabilmente occultano parti della realtà.
In questa eterna contrapposizione la Calabria è diventato il luogo simbolico dei problemi che il Meridione pone al Paese, «una insopportabile palla al piede»[9], una periferia sperduta e anonima, un luogo, per usare le parole di Franco Cassano, «dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove»[10]. In una parola il topos del ‘paradiso abitato da diavoli’, che ha accompagnato la sua storia dall’Unità in poi.
Malgrado le trasformazioni intervenute nel corso degli anni, la Calabria continua ad essere ritenuta nell’immaginario collettivo, che attinge all’immenso giacimento dei luoghi comuni sul Sud, come luogo di tutti gli eccessi: una società civile ancora intrisa di tradizioni e credenze arcaiche e irrazionali, divisa qua e là da faide familiari che si trascinano da decenni; una classe dirigente incapace, corrotta e priva del minimo senso civico; un potere mafioso diffuso, arrogante e predatorio che controlla vaste zone del territorio e condiziona la politica. L’immagine prevalente della Calabria che esce da alcune cronache quotidiane, insomma, è quella di una terra bella, ricca di storia e tradizioni, ma devastata dagli interessi particolari, dall’arretratezza culturale, dall’assenza di spirito pubblico, dalla violenza come pratica diffusa.
Gli spunti per giudizi del genere in effetti non mancano.
Ma il giudizio severo sulle vicende della realtà calabrese, pur se fondato su innegabili dati di fatto, grazie all’uso ricorrente di stereotipi e canoni tradizionali raramente riesce a svincolarsi da quel certo modo di pensare il Sud che aveva contribuito a descrivere il Meridione come un “tutto” indistinto e uniforme, irrigidito in uno schema sempre uguale: un approccio grazie al quale il Mezzogiorno è rappresentato immutabile nella sua staticità.
Una maggiore attenzione ai diversi contesti, alle specificità locali, alle condizioni non economiche dello sviluppo potrebbe mettere in evidenza, invece, che il Mezzogiorno si tinge a macchia di leopardo, mostrando dinamiche profondamente diverse a seconda dei singoli segmenti territoriali considerati. Persino una regione tradizionalmente considerata “immobile” e “senza storia” come la Calabria, se guardata con questa lente, presenta diversità e dinamismi insospettati.
Nel corso degli anni, i cambiamenti sono stati tanti e davvero enormi e diventa attuale, pertanto, l’esigenza di procedere a una ricognizione della realtà calabrese, complessa, densa di contraddizioni, passibile di letture molteplici e contrastanti, analizzando quel magma di tradizione e innovazione che la caratterizza. Un approccio critico non preconcetto e un’esposizione non mediatica dei mali della Calabria consente di cogliere, ad esempio, le positive realtà delle Università e dei centri di ricerca, di alcune cooperative giovanili che gestiscono produzioni innovative, di alcune industrie agroalimentari modernissime, delle piccole case editrici di notevole livello, di alcuni centri storici di città ricche di iniziative culturali, degli episodi di accoglienza e di integrazione interculturale. Consente anche di apprezzare le condizioni esistenziali di un luogo che offre, a volte, una qualità di vita gradevole, malgrado le tante difficoltà, grazie alle tante intelligenze, ai vantaggi naturali derivanti delle sue condizioni geoclimatiche, alla permanenza dei legami sociali e comunitari, all’amore per i luoghi, alla persistenza di tradizioni culturali che danno il senso della spiritualità che ha attraversato la regione, come in diverse occasioni ha rilevato Mario Alcaro[11]. Consente infine di non alimentare ulteriormente la serpeggiante mancanza di autostima che toglie spazio alla fiducia, all’impegno, alla speranza.
Un diverso approccio permette, soprattutto, di individuare le radici strutturali, legate a scelte storiche di politica economica e sociale, dei tanti episodi di degrado della realtà calabrese, troppo spesso interpretati superficialmente attraverso la riproposizione di consueti luoghi comuni.
Ne costituisce esempio evidente la vicenda dei fatti di Rosarno del gennaio 2010, da subito considerata da opinionisti e commentatori, non solo del Nord, frutto della strategia della ‘ndrangheta che nell’occasione ha inteso sfruttare le pulsioni xenofobe, se non razziste, che albergano nell’animo dei calabresi. Un’analisi frutto di uno sprovveduto rovesciamento cognitivo che scambia le cause con gli effetti e che, quindi, non è in grado di cogliere le cause economico-sociali della vicenda, tutte da inscrivere nella storia pluridecennale del declino dell’agricoltura calabrese, dell’abbandono di un mondo povero ma che forniva un patrimonio di saperi, di identità e di legami sociali, e in quella più recente dell’uso fraudolento ed illegale degli incentivi per l’agricoltura. La storia dei migranti duramente sfruttati nella raccolta delle arance che entrano in conflitto con la popolazione locale ha in realtà radici ben concrete: la crisi dell’agricoltura della piana, la caduta della domanda delle derrate alimentari e delle arance in particolare, la riduzione dei contributi europei. In questo nuovo contesto i migranti, fino ad allora utilizzati negli agrumeti, sono diventati dapprima eccedenti ed inutili e poi pericolosi vagabondi stranieri da spedire a casa loro[12].
In tanti hanno invece hanno preferito cogliere l’occasione dei fatti di Rosarno per tratteggiare un’anima razzista e xenofoba dei calabresi, ben lontana dalle loro tradizioni, senza nemmeno chiedersi come mai a pochi chilometri di distanza da Rosarno, a Riace (così come in altri paesi della filiera ionica), si stava verificando uno straordinario momento di accoglienza, mediante una politica di ripopolamento e di riempimento di spazi urbani abbandonati, da parte di una popolazione disposta al mutamento e all’integrazione con gli immigrati e i rifugiati[13]. Una storia non comune di convivenza e comprensione reciproca delle diversità, che ha sorpreso l’Italia e l’Europa intera[14].
Questo scenario variegato di una realtà multiforme impone di porre l’accento sulle cause storiche, economiche e politiche che stanno alla base del disagio della realtà calabrese, con un rovesciamento di prospettiva che si rifiuta di considerare le virtù private della popolazione calabrese come causa dei suoi vizi pubblici.
In realtà la fase storica che sta attraversando l’Europa e l’Occidente, oltre a dimostrare, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno, il fallimento della grande narrazione dello sviluppo e della modernizzazione, rende ineludibile interrogarsi sul rapporto tra crescita economica e benessere sociale e chiedersi se sia necessariamente la crescita economica la condizione di ogni miglioramento sociale, la sua premessa, il suo strumento.
L’esperienza degli ultimi anni dimostra che dove entra l’economia muore la società.
E’ la ‘miseria dello sviluppo’, per dirla con Piero Bevilacqua[15], nel senso che i meccanismi pervasivi dell’economia globale e di mercato stanno mandando in frantumi la trama invisibile delle relazioni umane, dei legami sociali, dei rapporti interpersonali che costituiscono un modo di essere del vivere collettivo e che nelle società meridionali rappresentano un patrimonio storico e culturale insopprimibile. Il fenomeno di un’economia produttivistica e finanziaria disinserita dal livello sociale apre le porte a una nuova forma di povertà, una ‘povertà modernizzata’[16], una condizione che non è altro che l’agonia di concezioni e abitudini che avevano permesso a tante comunità di vivere nella frugalità riuscendo a combattere la miseria.
Per immaginare un radicale rovesciamento di questa tendenza, che immiserisce la società calabrese anche quando ne aumenta la disponibilità di risorse, occorre un nuovo modo di fare storia, analisi economica e sociologica cogliendo alcuni spunti offerti dal versante tematico del pensiero meridiano[17].
Bisogna ripartire dalle comunità, dai loro rapporti con l’ambiente, dai loro legami sociali, dall’amore per i luoghi, dagli scambi affettivi, dalle loro tradizioni culturali: in una parola da quei ‘marcatori di identità’ delle comunità meridionali che hanno bisogno di riconoscere se stesse e hanno bisogno delle tradizioni, dei simboli e dei luoghi attraverso i quali l’identità comune diventa più forte e può costituire una risorsa.
Per tale via si può andare oltre il mito dello sviluppo, immaginando un modello che rimette al centro del modo di essere dell’economia i valori, i progetti e le aspirazioni delle comunità e delle persone che ne fanno parte. I contributi teorici per un sistema che s’ispiri ad una economia della ‘solidarietà’, della ‘felicità’ o del ‘Bene comune’ non mancano[18]. Nel contesto territoriale del Mezzogiorno si può pensare ad una dimensione economica che non prevarichi sulle condizioni di esistenza, una economia degli affetti, in cui la dimensione conviviale può garantire uno stile di vita semplice ma non disperato, nel quale ciascuno può tentare di migliorare la proprie risorse senza trascurare i valori primari della coesione del tessuto sociale e della vita comunitaria.
Questa prospettiva presuppone un approccio ‘comunitarista’ che valorizzi la peculiarità formale, identitaria e culturale di ogni territorio, non imponendo logiche economiche esogene ed estranee. Bisogna ripartire dai luoghi per immaginare un’economia che faccia leva sui legami sociali, sull’ambiente e sui beni comuni. Perché è proprio nei territori, nelle campagne abbandonate, nei borghi interni, nella piccola dimensione che è possibile opporsi ai processi indotti dal mercato globale, là dove «luoghi e persone, intrecciando le loro presenze, si raccontano storie, formano grovigli di relazione fino a quando gli stessi luoghi entrano a far parte del mondo affettivo degli uomini e ne costituiscono una parte vitale»[19].
Per la Calabria, e forse per l’intero Mezzogiorno, ciò significa un’opera di riequilibrio, anche demografico, che miri a valorizzare vaste aree interne attraverso una possibile nuova economia locale che punti all’agricoltura di qualità, alla selvicoltura, al recupero di vecchi mestieri artigianali, allo sfruttamento delle acque interne, al turismo escursionistico, alla rivitalizzazione dei borghi minori e dei tanti villaggi pittoreschi un tempo pieni di vita, come suggerisce Piero Bevilacqua nel tentativo di prospettare vie d’uscita dalla crisi del sistema economico-sociale capitalistico occidentale[20].
Ma tutto ciò si concilia poco con il modello assunto dall’Unione Europea a forte impronta ultra liberista che nega ogni altra identità, in una dimensione monocentrica che costringe tutte le economie nazionali, regionali e locali ad adattarsi alle esigenze strutturali della globalizzazione e dei mercati. Questa Europa ‘delle banche’ che considera le regioni mediterranee solo aree di consumo, ad economie arcaiche e premoderne, sta implodendo e per i Paesi dell’area mediterranea il sogno europeo si sta trasformando in un incubo.
Solo in una diversa Europa, in un’Europa policentrica, secondo il modello da tempo suggerito Bruno Amoroso[21], che riconosce le diversità e non si prefigge di eliminarle, il Mezzogiorno d’Italia potrà essere immesso in un altro contesto che coniughi il locale con il mondiale e potrà costruire uno specifico modello economico che preservi quello stile di vita in cui il rapporto con il sociale, con l’ambiente, con il clima, con la percezione del tempo costituiscono una peculiarità delle culture e dell’antropologia dell’area geo-politica mediterranea.
Solo in questi termini si può riproporre la questione meridionale «come parte della questione mediterranea»[22].
Il vento che sta scuotendo la sponda sud del Mediterraneo può produrre cambiamenti allo stato imprevedibili, ma può forse essere un’opportunità per l’Europa di cessare di essere la cinghia di trasmissione di una politica economica atlantica e di pensare all’area mediterranea come un luogo in cui instaurare rapporti diversi. Occorre però superare lo stridente contrasto tra l’amplificazione mediatica dell’idea mediterranea, spesso poco più che una moda, e le pratiche di chiusura che si riservano quotidianamente ai popoli del Nord Africa. Occorre inoltre la consapevolezza che un’Europa mediterranea non ha bisogno di ricorrere a forme di narrazione in cui, attraverso il richiamo rassicurante a miti, storie e usi comuni, l’immagine del Mediterraneo non coincide affatto con il Mediterraneo reale.
L’idea del Mediterraneo come modello unitario nella diversità, che ci viene dall’insegnamento di Braudel, non deve farci dimenticare che il Mediterraneo è il mare della complessità, un insieme di sistemi sub-regionali dalle economie, società e realtà diverse; che, come ci ammonisce Predrag Matvejevic[23], non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno ad un solo Mediterraneo, caratterizzate da tratti per certi versi simili per altri differenti e che il resto è mitologia.
Ma se il Mediterraneo è oggi uno stato di cose che non riesce a diventare un progetto è innegabile che poche aree al mondo possono uguagliare la stessa densità storica e la stessa interazione sociale, conseguenze della vicinanza e della mobilità geografica. Malgrado la sua diversità e complessità il Mediterraneo è, quindi, una delle chiavi utili ad interpretare la realtà in cui sono immerse le regioni meridionali d’Europa che possono guardare ai popoli dell’altra sponda senza restare chiusi nei propri recinti.
Tale sollecitazione giunge anche dal Rapporto SVIMEZ del 2011 che coglie l’occasione dei nuovi eventi che si stanno sviluppando nell’area mediterranea per interrogarsi su come possono modificarsi le relazioni interregionali, attraverso nuovi partenariati e nuovi percorsi settoriali specifici, quali la materia ambientale, la ricerca applicata, le comunicazioni, la formazione.
E’ un cambio di prospettiva significativo perché individua il bacino del mediterraneo come una meso-regione, unica scala istituzionale e socio-economica, all’interno della quale un’altra Europa, più conviviale, più umana, più tollerante, fondata su valori mediterranei oggi derisi o rimossi, può realizzare un diverso progetto di società e di modernizzazione, attraverso forme nuove di autorganizzazione, nelle quali le regioni e le comunità del Mediterraneo, in una visione policentrica e nel riconoscimento delle diversità, individuano i beni comuni necessari per il raggiungimento di obiettivi commisurati alla loro storia, alla loro cultura, alla loro vita.
Nel cuore di un’Europa mediterranea che assuma tali obiettivi la Calabria non solo per la sua collocazione geografica ma, forse, ancor più per il suo patrimonio culturale e identitario, pur restando ancorata al flusso della grande storia europea, può svolgere una funzione trainante e può essere un ponte tra culture che una certa concezione dell’Occidente vuole contrapposte in un conflitto insanabile.
Ma per l’adempimento di questo ruolo, per contribuire a costruire con altri Paesi uno spazio di condivisione di culture e rapporti improntati a una concezione del mondo basata sul reciproco riconoscimento, sull’equilibrio e sul senso della misura, la Calabria deve prima di tutto ritrovare se stessa riflettendo in modo critico e autocritico sulla propria storia.
[1] P. Bevilacqua, Riformare il Sud, in «Meridiana», n. 31 1998, p. 21.
[2] F.G. Friedmann, The World of “la miseria”, in «Partisan Review» n. 20, 1953.
[3] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 165 e ss.
[4] Il riferimento è al bel libro-inchiesta di N. Revelli, Il mondo dei vinti. Einaudi, Torino 1977, che descrive lo spegnersi della vecchia società contadina del cuneese e delle langhe con l’arrivo della industrializzazione.
[5] D. Cersosimo – V. Teti, Editoriale, in «Spola», 2007 n. 2, numero monografico dedicato ai paesi della Calabria, p. 2.
[6] Come ritengono B. Amoroso – S. Gomez Y Paloma, Persona e Comunità. Gli attori del cambiamento, Dedalo, Bari 2007, p. 85 e ss. con riferimento alla civiltà contadina, richiamando pagine indimenticabili di Pier Paolo Pasolini di Volgar’ eloquio e Scritti corsari.
[7] F. Piperno, Vento meridiano. A mò di introduzione, in ID., (a cura di), Vento del meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno, Derive Approdi, Roma 2008, p. 13.
[8] G. Gribaudi, I mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Rosemberg & Sellier,Torino 1991.
[9] G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 5.
[10] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 5.
[11] Il riferimento è a Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell’era della biopolitica, Manifestolibri, Roma 2003, ai tanti saggi apparsi su «OraLocale», ora in M. Cimino (a cura di), Politica e cultura in Calabria. OraLocale (1996-2005), vol. 1 e 2, Cosenza 2006.
[12] Tra i rari commenti dei fatti di Rosarno apparsi nell’immediatezza che abbiano cercato di individuare la cause strutturali della vicenda, va segnalato quello di E. Della Corte – F. Piperno, Rosarno. L’alibi del razzismo e della ‘ndrangheta, in «Il Quotidiano di Calabria» del 24.1. 2010.
[13] Sul fenomeno Riace cfr. M. Ricca, Riace, il futuro e il presente, Dedalo, Bari 2010.
[14] Colpito dalla vicenda di Riace Wim Wenders ha voluto restituire un’altra immagine della Calabria con un film ‘Il volo’ e sostenendo nel summit dei premi Nobel per la pace di Berlino del novembre 2009 che ‘la vera utopia non è la caduta del Muro, ma ciò che sta accadendo in Calabria, a Riace’.
[15] P. Bevilacqua, La miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008.
[16] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 220, cfr. anche M. Rahnema – J. Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010.
[17] Il riferimento è a F. Cassano, Il pensiero…cit.
[18] B. Amoroso, Per il bene comune. Dallo Stato del benessere alla società del benessere, Diabasis, Reggio Emilia 2009; L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni,Città nuova, Roma 2009; Riccardo Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 2003; L. Bruni – S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.
[19] E. Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta, Troina 2007, pp. 50-51.
[20] P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 187 e ss.
[21] B. Amoroso, Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari 2000.
[22] F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, p. 74.
[23] P. Matvejevic, Tra fratture e convergenze, in «L’Agorà del mediterraneo», Fondazione CARICAL, anno 1 n. 2, Cosenza 2011, p. 5 e ss.