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Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Libri e film dei grandi americani del sudovest lo avevano da tempo certificato a suon di fotogrammi e frasi epiche. Ma all’incontrario! Non è un paese per vecchi dicevano, infatti, i terribili fratelli Coen e prima di loro Cormac McCarthy nello scenario apocalittico del New Mexico. L’Italia affronta invece, nel suo piccolo, una crisi demografica profonda, tra l’altro con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra infatti una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, Open Calabria conferma – in un recente e pregevole studio su dati ISTAT – tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Per arrivare alla conclusione che il Sud è un paese per vecchi.

Che cosa ritroviamo nello studio di Open Calabria? Dal 2019 al 2024 la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a poco più di 58 milioni di abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale. Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia.

Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e nella nostra amata Calabria (-3,8%).

La riduzione della popolazione, dice Open, non sarebbe necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età. Emerge che il calo demografico in Italia non è infatti uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre.

In particolare si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%.

Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Insomma il quadro è quello di un paese per vecchi.

Lo spopolamento del Sud risulta poi strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro.

La frattura demografica tra Nord e Sud è, dunque, conclude lo studio Open causa ed effetto di una questione strutturale che inciderà profondamente sulla sostenibilità di tutta l’Italia ma sarà ancora una volta il Sud, e le regioni più marginali come la Calabria, a risentire di queste dinamiche: anzi ne risentono già oggi se si pensa al lento e progressivo allontanamento non solo più dei giovani ma delle stesse famiglie al seguito dei figli spostatisi nel Nord del paese, per studio o lavoro.

Nelle città soprattutto è ormai un fenomeno visibile ad occhio nudo: a passeggio sui corsi centrali dei capoluoghi ci solo anziani e pensionati. Il resto sembra sparito. In realtà non c’è proprio più. Se n’è andato.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 marzo 2025

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

C’è un gran fermento in città intorno ai progetti di costruzione del nuovo ospedale dell’Annunziata di Cosenza. Numerose Associazioni si riuniscono e discutono gli atti e/o le dichiarazioni del Commissario ad Acta per la sanità calabrese, le istituzioni locali si allarmano e aprono contenziosi giudiziari perché nelle scelte vengono ignorate.

Prendo spunto dall’ultimo atto, l’ordinanza della Protezione Civile Nazionale, Ocdpc 1133 del 13 marzo 2025, con la quale viene dichiarata emergenza (Nazionale!) la costruzione di vari ospedali in Calabria e viene assegnato il compito di edificarli al Commissario ad acta per la sanità, Roberto Occhiuto.

A lui viene affidata la gestione dell’intero pacchetto, dalla scelta dei siti, appalti, ecc., fino alla realizzazione dei vari ospedali (Sibaritide, Vibo Valentia, Piana di Gioia Tauro, Locri, il Gom di Reggio Calabria, l’Asp di Reggio Calabria, Cosenza, l’Azienda ospedaliero universitaria di Catanzaro e Asp di Crotone).

Occhiuto il 7 marzo u.s. aveva chiesto al governo di considerare “emergenza da Protezione Civile” la costruzione degli ospedali in Calabria, richiesta immediatamente esaudita con la delibera del Consiglio dei Ministri dello stesso 7 marzo 2025.
Intanto va subito detto che la spesa per la costruzione di quelle strutture sarà superiore a un miliardo e mezzo di euro. Il Commissario ha sollecitato l’ordinanza della Protezione Civile per saltare gli ostacoli: le contestazioni della popolazione (il fermento a cui accennavo in apertura), i contrasti delle amministrazioni locali e i cavilli burocratici.

Infatti, negli atti inerenti questi ospedali ci sono passaggi poco chiari, ad esempio, a Crotone la delibera per il nuovo ospedale è stata fatta da un commissario che era fuori dai termini di scadenza del mandato, a Cosenza Occhiuto indica un sito sgradito alla popolazione e persino contestato dal comune. È di questi giorni, infatti, l’iniziativa del Comune di Cosenza di adire alla magistratura ordinaria contro la linea del Commissario che, senza valide motivazioni, cancella il sito di Vaglio Lise precedentemente scelto per il nuovo ospedale, e indica il sito di Arcavacata.

Il governo e la Protezione Civile hanno accettato la proposta di considerare emergenza la costruzione degli ospedali, per motivi semplici: 1) Ci sono le risorse finanziarie per costruirli e bisogna che vengano gestite da amici e non da eventuali avversari politici. La cifra è considerevole. 2) Le urgenze spesso si creano per opportunità politica, per evitare i controlli o le contestazioni. Qualcuno ricorderà che nel governo Berlusconi venne inserita come emergenza la festa di San Giuseppe da Cupertino (epoca di Bertolaso alla Prociv), nessuno ne spiegò i motivi.

Chiediamoci, però, se la costruzione dei nuovi ospedali sia la terapia giusta che risolverà i problemi della sanità in Calabria. Certamente gli operatori preferiranno lavorare in un ospedale nuovo, con spazi meglio organizzati ed efficaci, piuttosto che nelle vecchie strutture. La buona sanità, però, è principalmente organizzazione e risorse umane.

La mia personale risposta alla domanda è no, soprattutto perché le scelte della logistica vengono effettuate in conflitto con la popolazione e le istituzioni locali.

Bisognerebbe analizzare un secondo punto importante, valido soprattutto per il costruendo ospedale di Cosenza, dove è nata l’esigenza di cliniche universitarie per il Corso di laurea in Medicina.

Per evitare che nasca anche un conflitto tra gli operatori ospedalieri e quelli universitari, le cliniche devono entrare in unica azienda università-ospedale, onde evitare il grave errore commesso a Catanzaro negli anni ’80, quando nacque la Facoltà di Medicina e vennero create due aziende. Iniziò allora, infatti, un conflitto tra le due strutture sanitarie, durato oltre 40 anni e ancora non sopito, che ha danneggiato l’efficienza della sanità nella città.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 febbraio 2025
Foto di djedj da Pixabay

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

Colpisce vedere i sindaci dei comuni di montagna, in fascia tricolore, manifestare davanti alla sede della Direzione dell’ASL in segno di protesta perché sono nell’impossibilità di garantire l’assistenza medica necessaria nei di casi urgenza-emergenza ai cittadini che vivono nei loro comuni.

Avrebbe dovuto essere con loro anche la sindaca di San Giovanni in Fiore, nonché Presidente della Provincia e dell’ANCI regionale, perché nel comune da lei amministrato recentemente s’è verificato un gravissimo episodio di mancata assistenza proprio in emergenza. Non era presente e non ha fatto conoscere la sua opinione.

Il tema più cogente per chi ha la responsabilità organizzativa della sanità, se si vuol davvero migliorare l’assistenza in Calabria, è, al di sopra di tutto, garantire una risposta adeguata alle urgenze-emergenze nel territorio. La popolazione italiana, come tutta quella occidentale, ha un’età media elevata, è sottoposta a un ritmo di vita altissimo e stressante, pertanto le patologie e gli eventi cardio-vascolari sono frequentissimi e insidiosi, si manifestano spesso imprevisti e richiedono risposte tempestive.

Purtroppo queste risposte non ci sono e la tempestività fa difetto. L’abbiamo visto nel tragico caso di San Giovanni in Fiore. I sindaci nel Testo Unico degli Enti Locali sono indicati come responsabili della salute dei cittadini, pertanto oggi denunciano a chi è preposto all’organizzazione sanitaria di non essere in grado di rispondere al mandato per quanto concerne le emergenze-urgenze nei comuni montani, considerata l’orografia particolare del territorio, la distanza dal Pronto Soccorso dell’ospedale hub della provincia, il disagio dovuto ai fattori climatici invernali e, soprattutto, perché non ci sono nelle vicinanze punti di soccorso adeguati.

Compete ai responsabili dell’organizzazione sanitaria della provincia e al Commissario Regionale della Sanità mettere quegli amministratori in condizione di esaudire le richieste dei cittadini, anche perché la legge prevede che i dirigenti della sanità consultino i sindaci dei comuni prima di redigere gli atti aziendali. Li hanno consultati? Hanno raccolto i loro suggerimenti?

A fronte di un problema così importante, dopo il tragico episodio di San Giovanni in Fiore, ho letto recentemente una strana iniziativa da parte del dirigente organizzativo: ha ordinato ai medici del Pronto Soccorso della struttura, in caso di chiamate dal territorio, di abbandonare la postazione e salire sull’ambulanza così da medicalizzare il soccorso. Un modo bizzarro, se non quasi disperato (o incompetente?) di affrontare il problema, perché così si lascia sguarnito del medico un importante servizio.

Nessuno, invece, si preoccupa di migliorare il livello di gestione della Centrale Operativa, a cui compete il ruolo d’individuare il grado d’urgenza caso per caso e decidere la medicalizzazione delle ambulanze. Come si può migliorare la sanità in Calabria se non si parte dal sistema organizzativo di base e si forniscono le necessarie garanzie ai cittadini che vivono nei paesi più lontani?

La recente pandemia ha messo a nudo la terribile fragilità organizzativa dell’assistenza d’urgenza nei territori e, infatti, l’Unione Europea ha provveduto a erogare nel PNRR fondi per potenziarla con la creazione delle case di comunità. Non ve n’è ancora traccia, anzi, oggi quasi non se ne parla più e si teme che i fondi erogati vengano distratti per altri obiettivi.

Viene, invece, annunciato l’arruolamento di luminari specialisti che opereranno nell’ospedale hub, e facendo intendere questa operazione come la principale soluzione dei problemi. I dirigenti della sanità e il Commissario Regionale hanno chiesto ai cittadini delle montagne se è prioritario chiamare illustri specialisti, certamente di gran livello professionale, o se è prioritario affrontare l’assistenza sanitaria nel territorio, soprattutto per le urgenze-emergenze?

E non voglio qui affrontare il tema della funzione attuale dei medici di famiglia nel territorio, depauperati di professionalità individuale. Occorrerebbe ampio spazio.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025
Foto di ADMC da Pixabay

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

Premessa: in una settimana di scirubetta si è parlato dal Pollino allo Stretto in modo diverso. Addirittura si è rispolverato un vecchio dizionario del dialetto calabrese dove scirubetta diventa scirubettu, con la u finale, bevanda che sarebbe in auge nella locride con rivendicazioni di primogenitura! A Roccella in particolare pare sia molto in voga.

Poi si scopre però che è, in realtà, una specie di gelato e non il fenomenale bicchiere di neve fresca della Sila con tanto di miele di fichi, in uso appunto dalle parti silane e presilane o sanfilesche. Anche se – nuova ultima puntata– i nivari, cioè quelli che usavano conservare in inverno la neve sotto terra per poi riproporla in estate, c’erano anche in altre parti della Calabria e dunque nessuno si può appropriare di questa benedetta scirubetta. Appunto però: c’erano i nivari, c’erano una volta…

C’erano! Ora che non ci sono più questi custodi della neve – tornano così alla carica i tradizionalisti – la scirubetta rivà alle sue radici vere, con la A finale, anche se – ma questo è un altro discorso – di neve di questi tempi non se ne vede moltissimo tranne che in alta montagna.

A rilanciare questo mood nevoso ci ha, comunque, pensato il mitico Brunori (dio l’abbia in gloria) che in una settimana pre e post Sanremo ha rilanciato non solo la scirubetta ma tutto l’armentario calabro recitato in salsa moderna. Se ne sta parlando ancora e molti vi hanno visto un segno addirittura politico, un segnale, una strada da seguire. Stiamo un po’ calmi.

La frase cult è quella: ‘’Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”, il verso più celebre de L’albero delle noci, non a caso (autocitazione) messo in testa al nostro editoriale di sabato scorso, premonitore di quel terzo posto sanremese arrivato nella nottata tra sabato e domenica.

Ma ora – per buttarla in politica – ci vuole davvero un bel salto di qualità, che la sinistra nostrana non ci pare pronta ad affrontare. Quella neve che si mescola al miele (di fichi) e quindi la scirubetta di cui prima dovrebbe, potrebbe, essere il senso metaforico di una direzione di marcia per chi vuol cambiare le cose?

Con tutto quello che ne consegue e cioè mettendo a bando la particolare predisposizione calabra per la retorica che ha immediatamente trasformato la scirubetta nel prodigio gastronomico più antico della storia, ovviamente nato in Calabria come ogni prodigio che l’umanità ha scoperto soltanto qualche secolo dopo (ci sono decine di esempi di questa grandiosità calabra declamata in tutto il globo)? Da qui nascerebbe in verità un vero prodigio, possibile e immaginabile: un suggerimento per la sinistra affinché riparta dalle aree dimenticate del Paese.

La sinistra riparta dunque dalla scirubetta: un inedito assoluto che nemmeno Brunori poteva mai pensare. Ma un senso la cosa in fin dei conti forse ce l’ha per davvero, se Irto e compagni si mettono (si mettessero) di buzzo buono. Lasciare magari perdere, cioè, le grandi questioni che tanto nessuno è in grado di risolvere e mettersi pancia a terra a ragionare, a pensare, ad operare sul territorio, sui territori per davvero.

Nei piccoli centri, in quelli ormai quasi spopolati di collina e di montagna o nelle marine dove si vive solo un paio di mesi d’estate o nelle periferie delle nostre città (tutte) dove il degrado somiglia tanto a quelle delle grandi metropoli. Basterebbe la scirubetta? Certo che no ma un segnale di autenticità non guasta, diciamo non guasterebbe. Come ha fatto sempre quel Brunori l’altro giorno andando a cantare davanti agli studenti dell’Universita’ della Calabria. Se poi ci metti – altro cult brunoriano – la vurzetta con gli amuleti di San Fili il quadro è completo!

A parte gli scherzi (che non sono poi tali) la politica tutta – di destra e di sinistra – dovrebbe prendere esempio da un dato che ci viene da questi giorni recenti alle nostre spalle: si può essere cioè calabresi senza nascondersi e senza pianti greci, senza retorica ma anche senza enfasi. Non selvaggi abitatori di montagne impervie discendenti dei briganti o poveri abitanti di una terra sempre sfruttata e conculcata! Parlando invece un linguaggio chiaro e semplice, che è quello che la gente normale chiede. Che poi sia scirubetta o scirubettu è in fin dei conti è un’inezia. Alla fine per una vocale ci si mette d’accordo!

da “il Quotidiano del Sud” del 22 febberio 2025

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

Cosa sia la realtà calabrese è difficile da rendere in poche righe di un articolo o financo in un libro. Ci stiamo provando da anni e oscilliamo sempre su quello che Massimo Razzi definisce ‘il crinale sottilissimo’, cioè quello tra il bene e il male, il bello e il brutto, dove a volte prevale il primo e più spesso il secondo. Poi ci sono però i numeri, impietosi, a darci un senso al racconto (vedi quelli dell’ISTAT su cui ci siamo soffermati sabato scorso, ad esempio).

E numeri, tanti e duri, ci forniscono ora in un nuovo lavoro, assolutamente inedito – e di cui il Quotidiano del Sud può oggi offrire una piccola anteprima – Rosanna Nisticò e Mimmo Cersosimo, in un paper in lavorazione ancora all’Università della Calabria.

Proviamo dunque a riassumere decine e decine di pagine. Il trend recente tra il 2022 e il 2023 mette in luce come il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

La Calabria è tra le sei regioni europee nelle quali l’indicatore è cresciuto, nel biennio in considerazione, di almeno 5 punti percentuali con 41 calabresi su 100 che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella registrata nella Provincia di Bolzano e sette volte più alta rispetto a quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Ancora: la Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6%, a fronte di un calo alquanto generalizzato nel resto delle altre regioni, e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

In questo quadro poco felice ci sono altri calabresi, aggiungono nel paper i due studiosi, che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, i comparaggi, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali.

Non va trascurata l’incidenza dei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello dei cittadini: concentrati, usando le parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative).

Il punto tutto politico alla fine qual è? E’ che a quella Calabria della povertà sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare ma anche perché è la Calabria del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilet gialli né protettori: che non minaccia l’ordine dominante.

Come concludono i due? I partiti-residui continuano così a guardare alla Calabria dei garantiti, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non basta per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”.

Questo politico, dunque, è il versante che dovrebbe dare risposte e da lì si attendono le proposte vere e concrete. Tutto il resto sennò è noia. A proposito di Brunori, Califano e del Festival di Sanremo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 febbraio 2025

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

È encomiabile e di grande interesse l’intervista del Direttore Massimo Razzi al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sui problemi della sanità in Calabria. Ora sappiamo come pensa, e, pertanto, voglio analizzare le inesattezze significative che ha fatto passare, inerenti alcune inefficienze assai evidenti. Provo a schematizzare

1)Sulla mancanza del medico a bordo nelle ambulanze, prendendo spunto dal triste caso accaduto a San Giovanni in Fiore, dice che nelle altre città d’Italia solo nel 23% delle ambulanze c’è il medico a bordo. È una notizia esatta ma fuorviante, e solo un tecnico avrebbe potuto ribattere in quella sede. Di tecnici ce n’era uno solo, il Dottor Miserendino, che era dalla parte del Presidente e non aveva alcun interesse a riprendere il tema.

Nelle città dove il Pronto Soccorso e i dipartimenti Urgenza-Emergenza funzionano, esiste una Centrale Operativa gestita da tecnici di alta formazione in grado di selezionare le risposte alle chiamate e decidere se è necessario il medico a bordo. Noi sappiamo dalla statistica che in oltre il 70% dei casi le chiamate al 118 sono fatte per patologie che non richiedono il medico a bordo e la Centrale Operativa lo comprende al telefono:
a) dalla distanza del paziente da soccorrere dal Pronto Soccorso ospedaliero, che deve essere raggiungibile entro un breve tempo stabilito da parametri;
b) da due o tre domande a chi sta chiamando. Quei tecnici sono in grado di decidere se inviare il medico, che, però, è sempre disponibile.

Le Centrali Operative calabresi hanno questa capacità di selezionare i casi? L’hanno fatto per il caso di San Giovanni in Fiore? È questa la mancanza. Il medico del Pronto Soccorso aveva richiesto l’ambulanza medicalizzata, che non c’era. Occhiuto non ne fa cenno.

2)Il Presidente accusa carenza di medici nelle strutture di Pronto Soccorso e Urgenza. È un problema reale in tutta l’Italia, perché i medici d’urgenza sono pagati poco a fronte delle responsabilità che si assumono e per il lavoro usurante che svolgono. L’intervistatore chiede perché la Regione non paghi di più. Il Presidente risponde che non può, deve rispettare la legge nazionale. È inesatto.

Per la legge Bindi le aziende sanitarie ogni anno dovrebbero predisporre la distribuzione di budget per ogni settore, compreso Emergenza-Urgenza, e questo viene calcolato sulla base dello strumentario necessario, il materiale di consumo e l’organico teorico previsto per il buon funzionamento. In altri termini, se per un settore è previsto un organico di 10 operatori e ce n’è disponibile solo la metà, significa che circa il 50% del budget stabilito non viene speso. Potrebbe essere usato, allora, per pagare di più quelli che lavorano.

3)La legge Bindi consente alle aziende di dividere il budget previsto per gli operatori in una quota di retribuzione base e una quota legata a incentivi. Quest’ultima dovrebbe essere condizionata dalla realizzazione di progetti dettagliati assegnati d’ufficio o scelti dagli operatori stessi. Il Presidente non ha fatto alcun cenno alla rendicontazione degli incentivi, che dovrebbero emergere dai bilanci annuali. Quali incentivi sono stati assegnati? Ci sono i bilanci?

4)Siamo tutti felici se la Calabria esce presto dal Commissariamento, anche se non è prevista l’uscita dal piano di rientro. Il grande problema nasce proprio dal piano di rientro che costringe le aziende a stringere i cordoni della borsa fino a stritolare l’efficienza della sanità. Intanto, l’obiettivo primario dovrebbe essere ridurre l’ospedalizzazione fuori regione e individuare gli strumenti per raggiungere questo fine. Ma osservando come vanno le cose non si uscirà mai dal piano di rientro. Il Presidente non fa alcun accenno all’emigrazione sanitaria anche per patologie di basso profilo, che continua a determinare l’emorragia delle risorse.

5)L’ultimo punto dell’intervista ha lasciato tutti perplessi, il rapporto università ospedale. La Facoltà di Medicina a Cosenza ora esige giustamente la creazione di un policlinico. Il Presidente non spiega come intende affrontare il problema. Individua il Rettore dell’Unical come l’uomo di fiducia col mandato di creare le cliniche. Bisogna allora fare due obiezioni:

a) il Rettore non è un tecnico della sanità, quindi è assolutamente improprio che abbia il mandato di gestire la creazione delle cliniche universitarie. Viene individuato solo come fiduciario del Presidente della Regione, e la cosa si presta a interpretazione politica e/o ispirata a interessi non specificati. L’unico tecnico che avrebbe la competenza per la creazione del policlinico dovrebbe essere il Preside della Facoltà di Medicina. Il Presidente non ne fa cenno.

b) Come vede il Presidente il rapporto Università- Ospedale a Cosenza? Lui certamente sa che quando, negli anni ’80, venne creata la Facoltà di Medicina a Catanzaro, iniziò un duro conflitto tra l’Ospedale e l’Università durato oltre 40 anni, responsabile di inefficienze e di mancato sviluppo di entrambe le aziende.

Nell’intervista Il Presidente Occhiuto non fa cenno a come sarà impostato questo rapporto, che, invece, è una chiave di volta per risollevare davvero la sanità a Cosenza, dove ci sono già segnali di preoccupazione per il destino dell’Annunziata.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 febbraio 2024

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

Stavolta non sono le classifiche di vivibilità del Sole 24 ore ad indicare dove e come stiamo come Calabria. Classifiche contestabili finché si vuole – del tipo: qui c’è un mare da favola, in Sila l’aria più pulita del mondo (o d’Europa, fa lo stesso) ed altre menate del genere – ma che indicano purtuttavia una tendenza comunque chiara.

Stavolta parla l’ISTAT, incontestabile dunque, che certifica come nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie per abitante del Mezzogiorno si attesta a 17,1mila euro annui e si conferma il più basso del Paese e la Calabria è all’ultimo posto tra gli ultimi. Rapporto che nei giorni scorsi è stato ampiamente illustrato su queste pagine, con tutte le cifre e i dati resi noti da Istat, da Maria Francesca Fortunato.

C’è poco quindi da raccontare a mo’ di favolette ai bambini ma per non annoiarvi troppo ecco qualche altra cifra utile solo per qualche considerazione finale.

La distanza in termini di reddito del Sud da quello del Centro-Nord, pari a 25mila euro, è superiore al 30%. Lo si legge nel Report Istat sui conti economici territoriali. La graduatoria regionale vede in prima posizione la Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, con un Pil per abitante di 59,8mila euro, seguita da Lombardia (49,1mila euro), Provincia autonoma di Trento (46,4mila euro) e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (46,3mila euro). Il Lazio si conferma la prima regione del Centro e l’Abruzzo è la regione del Mezzogiorno con un Pil per abitante più alto (31mila euro), seguita da Basilicata (27,5mila), Molise (26,7mila) e Sardegna (26,3mila).

La Calabria in questa classifica resta stabilmente all’ultimo posto della graduatoria, con 21mila euro, preceduta dalla Sicilia, con un valore del Pil per abitante di 22,9mila euro. In pratica nella provincia di Bolzano si registra un pil pro-capite che è quasi tre volte quello della Calabria. E non è finita qui: In Italia nell’anno la spesa per consumi finali delle famiglie per abitante, valutata a prezzi correnti, è stata pari a 21,2mila euro. I valori più elevati si sono registrati nel Nord-ovest (24,2mila euro) e nel Nord-est (23,8mila euro); segue il Centro, con 22,2mila euro, mentre il Mezzogiorno si conferma l’area con il livello di spesa più basso (16,7mila euro).

Fin qui le cifre più significative del rapporto ISTAT, giusto per dare un’idea dello stato dell’arte. Tante altre ce ne sono infatti in quel rapporto ma il quadro è ultra chiaro e indica che le chiacchiere sui miglioramenti mirabolanti che ci vengono propinati ad ogni piè sospinto non si capisce su che cosa si poggiano. E non parliamo dei servizi sociali primari, dell’assistenza, della sanità su cui questo giornale ha avviato da settimane una martellante campagna stampa di mobilitazione. E non parliamo nemmeno delle infrastrutture di trasporto, tutte, strade ferrovie etc etc. ridotte ad uno stato di colabrodo, dove più e dove meno, degne del terzo mondo in alcuni casi.

Bastano tre ore di pioggia per aprire voragini dovunque (vedi ultimo nubifragio di domenica scorsa). Per non parlare – ancora – dei tassi di emigrazione di giovani e meno giovani fuori dalla regione, con un calo delle residenze da far paura.

Siamo insomma ad un momento cruciale, uno dei tanti direte voi, che dovrebbe indicare una linea di condotta chiara e certa a tutti gli attori politici, istituzionali, sociali, culturali che qui operano. Assistiamo, viceversa, ad un continuo vociare senza costrutto, ad un rimpallo di ruoli e responsabilità, di colpe e di errori, vecchi e nuovi, che non si traduce alla fine in niente.

Settimane fa due economisti calabresi – Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò – avevano già descritto un quadro a tinte vere e fosche. Ne abbiamo scritto su questo giornale ampiamente. Tutto era passato in cavalleria. È proseguito quel mettere assieme un pezzo qua ed uno di là, tutto privo di rete e di collegamento, per annebbiare ancora una volta un’opinione pubblica confusa e distratta. La domanda resta sempre quella ed unica: si può andare avanti con questo andazzo?

da “il Quotidiano del Sud” dell’8 febbraio 2025

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Dal punto di vista giuridico, sorprendono, stando ai virgolettati riportati sui giornali, le parole pronunciate dal neopresidente della Corte costituzionale durante la conferenza stampa del 21 gennaio. Spiegando le ragioni della bocciatura del referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli), il presidente Amoroso avrebbe detto che «la decisione della Corte sulla non ammissibilità del referendum si riferiva alla non chiarezza del quesito, perché l’oggetto del quesito (la legge Calderoli, ndr) è oramai ridimensionato» per via della sentenza dello scorso anno che ne ha sancita la parziale, benché amplissima, incostituzionalità, sicché «ciò che residuava era difficilmente comprensibile dall’elettore».

È difficile nascondere la sensazione di disagio suscitata da tali parole. La decisione circa la idoneità della legge Calderoli a rimanere sottoposta a referendum dopo il suo parziale annullamento da parte della Corte costituzionale spettava, infatti, alla sola Corte di Cassazione, la cui valutazione a favore della idoneità non è suscettibile di revisione da parte della Corte costituzionale.

Quest’ultima avrebbe dovuto limitarsi a valutare il rispetto dei limiti alle iniziative referendarie previsti dall’articolo 75 della Costituzione (esclusione delle leggi di bilancio e tributarie, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di amnistia e indulto) e dalla sua stessa giurisprudenza (a partire dalla sentenza 16 del 1978, che esclude altresì i quesiti referendari disomogenei o vertenti su leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto vincolato). Invece, a quanto pare, il referendum sarebbe stato ritenuto non ammissibile proprio per via del parziale annullamento della legge, operando un irrituale rovesciamento della precedente decisione della Cassazione.

Altrettanto sorprendente è leggere che, con il referendum, «i cittadini sarebbero stati chiamati a votare sull’articolo 116 comma terzo della Costituzione, e cioè sul principio dell’autonomia differenziata, ma questo è contro la Costituzione». Non è così. La Costituzione attribuisce alle regioni la possibilità di chiedere l’autonomia differenziata, ma la decisione se accogliere la richiesta è rimessa allo Stato. L’autonomia differenziata non è un diritto, è una facoltà che lo Stato può decidere di attivare o di non attivare.

Dunque, decidere di eliminare la legge Calderoli, in quanto volta ad agevolare l’esercizio di quella facoltà, non significa affatto pronunciarsi sulla Costituzione, bensì assumere una decisione di principio sull’attivazione o meno della facoltà in questione (il che, peraltro, non impedisce la possibilità di utilizzare direttamente l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, come mostra l’esperienza dei Governi Gentiloni e Conte I).

Dal punto di vista politico è indubbio che la mancata ammissione del referendum produca il doppio effetto negativo di far venire meno un forte collante tra le opposizioni al governo e di indebolire l’importantissima campagna referendaria che si aprirà in primavera. A beneficiarne non è solo la destra, che rischiava di spaccarsi nelle urne tra favorevoli e contrari all’autonomia, ma anche quella consistente parte del partito democratico che continua a vedere nel regionalismo una risorsa – sia pure trincerandosi dietro l’ambigua formula del regionalismo cooperativo e non competitivo – ed era terrorizzata dall’idea che il referendum sancisse l’esistenza di un diverso orientamento popolare.

C’è, tuttavia, anche un risvolto positivo. Proprio le parole del presidente Amoroso certificano, in via definitiva, che il disegno del regionalismo differenziato è fallito. L’incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Corte costituzionale è così radicale da aver reso politicamente insostenibile la posizione dei pasdaran del regionalismo (sebbene alcuni di loro continuino, incuranti del ridicolo, a tenere la posizione).

È uno straordinario successo per tutti coloro che fin da subito avevano intuito i pericoli dell’autonomia differenziata e si sono battuti contro il tentativo di spezzare l’Italia, costruendo un movimento di opinione che ha dato un contributo decisivo alla difesa dei principi costituzionali di solidarietà, uguaglianza e unità. Paradossalmente, proprio la mancata ammissione del referendum è la più alta certificazione di tale successo. Si tratta ora di mantenere alta l’attenzione, per impedire i colpi di mano che dovessero cercare d’indebolirlo.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2025

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

L’assegnazione di letti a pagamento al reparto di chirurgia toracica da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza va contro la ripresa della sanità calabrese, che è agli ultimi posti in Italia per la risposta al fabbisogno della popolazione di prestazioni routinarie e specialistiche. Anzi, è una rapina alla sanità pubblica. La spiegazione dei dirigenti dell’Azienda, che per comodo chiamano in causa la legge Bindi, è un balbettio di mala interpretazione della legge stessa. Provo a spiegare la rapina.

Secondo le linee guida nazionali e internazionali della branca specialistica e quelle degli anestesisti e rianimatori sempre coinvolti per necessità, la chirurgia toracica nella maggioranza dei casi richiede assistenza ai pazienti operati nel reparto di terapia intensiva (TI).

Tutti ricordano il serio problema dell’esiguità del numero dei posti letto nelle terapie intensive durante la pandemia del Covid19. E per quanto attiene ai parametri minimi dell’adeguamento alle normative nazionali e ancor più europee in merito al numero di letti di TI, la Calabria era agli ultimi posti nel quadro nazionale.

I parametri minimi europei prevedono che siano attivi 14 letti di TI per ogni 100.000 residenti (in Germania questo parametro è rispettato). In Italia siamo ancora attorno ai 9-10 letti e alcune regioni lentamente si stanno adeguando. In Calabria siamo al di sotto di 7 letti di TI per 100.000 abitanti.

Addirittura durante la pandemia eravamo sotto il 50% dei letti di TI attivi. I parametri richiesti valgono ovunque e non sono assegnati a caso, ma calcolati e codificati per fornire garanzie necessarie a un’assistenza adeguata. Là dove non vengono rispettati, ne scaturisce mala-assistenza che diventa spesso mala-sanità.

L’Azienda Ospedaliera di Cosenza (ospedale Hub della provincia) dovrebbe avere almeno 9-10 letti per ogni 100.000 abitanti residenti, i quali sono complessivamente 750.000. C’è un numero di letti di terapia intensiva e/o sub-intensiva adeguato all’esigenza dell’intero territorio provinciale, assommando a quelli dell’Annunziata anche i sub-intensivi di Castrovillari e Corigliano Rossano? No, non c’è, siamo molto lontani.

Né si può annunciare l’allargamento frettoloso degli spazi e acquisire lo strumentario necessario, perché le terapie intensive non sono limitate alla logistica e agli strumentari, ma per protocollo richiedono un organico medico e infermieristico ultra-specialistico, che non c’è.

La buona assistenza è legata all’adeguamento dell’organico, che impone parametri precisi dettati dalle associazioni nazionali e internazionali degli anestesisti e rianimatori: un medico specialista in rianimazione e TI in turno H24 per non più di 8 pazienti, un infermiere in turno H24 per non più di 2 pazienti.

L’organico attuale in servizio è molto lontano dai parametri richiesti. Per addestrare questi specialisti occorrono anni. È evidente, allora, che se vengono assegnati dei posti-letto (a pagamento) al Reparto di chirurgia toracica, i pazienti che ne fruiranno richiederanno quasi sempre un ricovero in TI, e i pochi letti di TI disponibili verranno sottratti all’attività destinata al servizio pubblico.

Questa manovra ricade inevitabilmente anche sugli altri reparti di chirurgia per gli interventi chirurgici che richiedono assistenza intensiva, allungando, ovviamente, le liste di attesa anche per gli interventi di chirurgia oncologica salvavita

da “il Quotidiano del Sud” del 27 gennaio 2025

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Il governo sta attuando l’eutanasia del sistema sanitario pubblico in Calabria già collassato e moribondo da anni. Occorrerebbero terapie rianimatorie. Ma il Governo, per calcoli cinici, con l’autonomia differenziata delle Regioni, ha deciso di lasciar morire il sistema, fornendo spiegazioni false e ipocrite. È l’ultimo atto di un procedimento durato almeno due decenni. La sanità pubblica in Calabria morirà inevitabilmente se la riforma dovesse entrare in vigore.

Il principio della fine della sanità pubblica calabrese risale all’emanazione delle leggi di riordino del sistema sanitario nazionale, legge 592/92, legge 517/93, e legge 229/99. Vennero definite strategiche e miranti al controllo della spesa pubblica. Imponevano l’obbligo inderogabile del pareggio di bilancio tra entrate e uscite, nonostante si tratti di erogazioni di prestazioni la cui spesa è sostenuta con finanze pubbliche. Quelle leggi imponevano, inoltre, la revisione dei presidi ospedalieri identificando quali tenere attivi e con quali funzioni.

Le Regioni del nord dell’Italia si sono lentamente adeguate, tanto che entro il 2000 quasi tutte si sono avvicinate o hanno raggiunto il pareggio di bilancio. All’epoca, lavoravo in Emilia-Romagna e, in pochi anni, ho assistito al superamento di 32 ospedali in regione, trasformati ad hoc in strutture sanitarie con funzioni diverse.

La Calabria ha sempre avuto carenza di lavoro per i giovani, i quali migravano per la gran parte verso il nord dell’Italia. Quelli che restavano si affidavano agli amici politici locali. Il sistema sanitario è un grande serbatoio di consensi e i politici si battevano per accaparrarsi la gestione delle strutture sanitarie, usate come strumenti di potere, fornendo posti di lavoro, con strettissimo rapporto clientelare.

Fino a pochi anni fa, i dipendenti degli ospedali della Calabria, dalle posizioni apicali e gestionali fino ai ruoli più modesti, venivano assegnati con concorsi pilotati e ciascun dipendente parteneva a questo o quel potente politico, che l’aveva collocato al lavoro.
Le leggi di riordino del sistema sanitario disturbavano i potentati locali perché restringevano il campo d’azione e il numero dei posti da assegnare.

Pertanto, i politici calabresi hanno ritardato il più possibile l’applicazione fomentando i campanilismi locali, e le riforme non sono state completamente attuate e il riordino dei presidi non è mai entrato del tutto a regime. Le leggi prevedevano la trasformazione di 18 ospedali ad altre finalità, modifica mai realizzata completamente. Questo rilievo non significa che io sia d’accordo con la chiusura dei 18 ospedali, spiegherò più avanti come dovrebbero essere utilizzati i presidi territoriali.

Il sistema di arruolamento clientelare degli operatori ha determinato un abbassamento del livello qualitativo delle prestazioni, sul piano tecnico-scientifico e su quello umanitario, dando origine a numerosi episodi di malasanità o mala-amministrazione. Da qui è nato il fenomeno di sfiducia nei confronti della sanità pubblica calabrese che si è pian piano radicato nella società e parallelamente ha favorito lo sviluppo di strutture sanitarie private convenzionate.

Gli episodi di malasanità a cui ho accennato hanno funzionato da detonatore di un sistema poco trasparente, forse azionato anche da leve nascoste di aziende sanitarie del nord, complici i politici.

La sfiducia verso la le strutture pubbliche ha favorito la sanità privata. Per chiarire meglio questo punto ricordo che un’amministrazione regionale della Calabria avallò l’accreditamento di oltre 160 strutture private negli ultimi due mesi di legislatura, in vista delle elezioni, sottovalutando il necessario accertamento dell’esistenza dei parametri obbligatori previsti dalla legge.

Grazie all’emigrazione dei giovani, quasi ogni famiglia calabrese ha un congiunto o amici che vivono e lavorano nelle regioni del centro-nord. Dal 2000 a oggi, oltre 2 milioni di persone, dei quali 1 milione di giovani, hanno abbandonato il sud dell’Italia. Quindi, se una persona necessita di una prestazione sanitaria, si rivolge alle strutture sanitarie delle regioni del centro-nord tramite i congiunti o amici che là vivono.

Lo conferma il bilancio annuale regionale della sanità: circa il 40% della spesa per prestazioni ospedaliere ai residenti in Calabria sono effettuate in altre regioni, per una somma di circa 300 milioni di euro. Ogni anno la Calabria versa o s’indebita con altre Regioni del centro-nord per la cifra di circa 300 milioni di euro per prestazioni sanitarie.

Ovviamente, nel bilancio della Calabria il debito è considerato spesa, mentre le Regioni creditrici mettono il credito in attivo nel loro bilancio che, così, raggiunge più facilmente il pareggio. È naturale pensare che quelle regioni favoriscano l’emigrazione passiva della sanità calabrese e la sfiducia dei calabresi nella loro struttura sanitaria.

Se consideriamo le spese annuali per prestazioni presso le strutture private, oltre che per ospedali pubblici, aggiunte alle spese annuali per assistenza ospedaliera presso altre regioni, al netto di mala-amministrazione spicciola, di malaffare e sprechi, si capisce perché il debito del sistema sanitario calabrese sia andato fuori controllo e sia quasi impossibile contabilizzarlo.

Le leggi citate prevedevano l’esigenza di riportare il sistema in equilibrio e il Governo dispose il piano di rientro dal debito, affidando la gestione del sistema sanitario calabrese a Commissari nominati dal Ministro della Salute. Dal 2010 al 2021 la sanità calabrese è stata gestita da Commissari tecnici. Da tre anni direttamente dal Governatore.

I Commissari per oltre 11 anni hanno bloccato assunzioni e turn-over del personale: gli operatori pensionati non vengono rimpiazzati, e in pochi anni s’è registrato un gravissimo depauperamento delle risorse umane, a cui s’è aggiunto l’abbandono di molti operatori che dalle strutture pubbliche sono passati al privato o emigrati in altre regioni. In qualche branca il depauperamento dell’organico ha raggiunto livelli quasi incompatibili con il normale funzionamento, ad esempio nella Medicina d’Urgenza e di Pronto Soccorso. Il depauperamento delle risorse umane, di conseguenza, ha incrementato la sfiducia della popolazione, che continua a ricorrere alle regioni del nord per prestazioni sanitarie.

Vediamo ora quale terapia si potrebbe applicare per salvare la moribonda Sanità in Calabria.
La proposta che avanzo qui potrebbe essere adottata non solo dalla Calabria, ma dall’intero Paese. Perché questa sciagurata politica liberista sulla Sanità, riguarda tutti. Mi piace, però, parlare della Calabria, che oggi è la vittima sacrificale di questo sistema.

a)È fondamentale e primario recuperare la medicina del territorio. I medici di medicina generale, oggi in rapporto convenzionale con il Sistema sanitario pubblico, retribuiti, quindi con finanze pubbliche, ma non direttamente dipendenti dalle ASL, svolgono un ruolo che svilisce la professione medica. Sono raramente chiamati a curare in prima persona. Per l’andazzo inveterato, i pazienti si fidano poco, pertanto, anche per piccole prestazioni si rivolgono alle strutture sanitarie pubbliche o direttamente agli specialisti. Il risultato è l’intasamento delle strutture. Eppure è accertato che il 70% delle richieste ai Pronto Soccorso potrebbe essere trattato con successo nel territorio dai Medici di famiglia. Questi potrebbero usare direttamente i Presidi Ospedalieri semi-abbandonati e trattare direttamente i loro pazienti. Ecco, allora, che i presidi ospedalieri quasi abbandonati potrebbero rinascere.

b)I Presidi semi-abbandonati tornerebbero al pieno splendore. D’altra parte, il PNRR ha già previsto una spesa per il recupero della Medicina del territorio sotto la dicitura “Creazione di Case di Comunità”. Le strutture esistono e andrebbero solo incrementate per i territori più periferici.

c)Gli Ospedali Hub vanno ridisegnati sul territorio. In Calabria al momento sono solo 5, uno per provincia. Sono pochi. Considerato il territorio molto vasto e la geografia fisica, ritengo ne occorrano almeno 8.

d)Va rivisto e rimodernato il rapporto con le strutture sanitarie universitarie, che vanno considerate strutture Ospedaliere Hub in un’unica gestione territoriale.

e)Visto che è impossibile portare la Calabria al bilancio col piano di rientro, è necessario cancellare il debito e ripartire da zero.

La rianimazione della moribonda sanità pubblica necessita di una NUOVA RIFORMA che riveda il sistema di arruolamento degli organici, lo schema delle competenze, i rapporti interpersonali e inter-strutture, l’utilizzo dei presidi, i rapporti con l’Università e le Specializzazioni. Così forse si restituisce la fiducia alla popolazione.

C’è la volontà politica? È una domanda alla destra adesso al governo, ma anche alla sinistra, che sull’argomento è balbettante.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 gennaio 2025

Foto di StockSnap da Pixabay

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La globalizzazione capitalistica, denunziata da decenni dai movimenti sociali No Global è arrivata al capolinea. Fondata sul free trade, l’abbattimento delle barriere doganali e normative, la liberalizzazione degli scambi, la libera circolazione del capitale, è entrata in crisi. Non è il capitalismo che è stato messo in discussione ma una forma di mercato con cui si è diffuso e imposto nel mondo.

Il mercato, ricordiamolo, è una costruzione sociale, che può assumere le forme più diverse, come il grande Fernand Braudel ci ha insegnato. Oggi, l’emergere delle forze politiche “sovraniste” sta rimettendo sulla scena globale un vecchio arnese, una vecchia teoria economico-politica che la storia sembrava avesse seppellito: il mercantilismo.

Nel XVII secolo prima Antonio Serra, nato a Dipignano-Cosenza, e poi il più famoso Jean Batiste Colbert con le loro opere contribuirono a costruire le fondamenta del pensiero mercantilista che influenzò la politica economica dei governi europei. In breve, i mercantilisti ragionavano così: la potenza di un Regno dipende dalla forza militare, quindi dagli armamenti e dall’esercito che hanno un costo crescente per i quali ci vuole molto oro (con cui si identificava la ricchezza), a sua volta questo prezioso metallo per gli Stati che non hanno miniere devono procurarselo aumentando le esportazioni e riducendo drasticamente le importazioni con tutti i mezzi possibili (dazi, quote, tariffe), dato che l’interscambio con paesi terzi avveniva esclusivamente in monete d’oro o, in subordine, d’argento.

Per tutto il secolo XIX questa è stata la dottrina prevalente, ad eccezione del Regno Unito che si fece paladino del free trade dopo aver praticato per un lungo periodo un mercantilismo draconiano nei confronti delle sue immense colonie. Solo nel secolo scorso si è imposto il libero scambio che ha raggiunto il suo culmine con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al mercato mondiale.

OGGI, CON TRUMP il mercantilismo ritorna, sia pure in una versione ibrida. Il neopresidente Usa si è dato l’obiettivo prioritario di ridurre drasticamente il debito pubblico che ha raggiunto la somma record di 36.000 miliardi di dollari, pari al 138% del Pil. Una
bella eredità che gli ha lasciato Biden che in quattro anni ha fatto crescere il debito pubblico di oltre il 30 per cento, portando il deficit del bilancio federale al 6 per cento del Pil.

Risultato: bisogna trovare quest’anno oltre 7.000 miliardi per i bond in scadenza. Come fare? Aumentando i rendimenti, ma questo comporta un ulteriore esborso per la finanza pubblica: durante l’anno fiscale 2024 gli interessi netti sul debito pubblico sono stati pari a 881,6 miliardi, per la prima volta superiore alla spesa militare pari a 841,8 miliardi di dollari. Meglio puntare sul rafforzamento del dollaro anche attraverso una netta riduzione del deficit della bilancia commerciale che nel 2024 ha raggiunto i mille miliardi di dollari.

Lo farà alzando i dazi all’import, stabilendo quote massime di importazione, incentivando finanziariamente le esportazioni, cosa che per la verità già avviene da tempo nel campo agro-alimentare con relativi danni economici per i paesi del Sud del mondo. Allo stesso
tempo espellerà i migranti poveri e senza expertise mentre continuerà la politica di attrazione/importazione dei giovani “talenti” che hanno fatto la fortuna degli Usa (circa centomila ricercatori, professionisti, docenti universitari, scienziati, ogni anno entrano e la
maggioranza resta nel cuore dell’impero a stelle e strisce).

Ma, a differenza della storia del mercantilismo il ruolo dello Stato all’interno del paese si ridurrà decisamente, smantellando quello che resta del welfare, mettendo in pratica il motto laisser faire , laisser passer: totale libertà di azione per l’impresa, abbattimento delle
tasse, di lacci e lacciuoli, secondo il principio neoliberista che vede nell’accumulazione individuale di ricchezza una crescita di benessere per tutti.

Il neomercantilismo si sposa con il neoliberismo producendo un mostro ibrido che tanto assomiglia alla mitologia greca. Classe operaia e ceto medio statunitense ne subiranno le conseguenze con un aumento dell’inflazione e la caduta di offerta di lavoro in agricoltura, piccola industria e servizi per via del blocco dell’immigrazione e relativa espulsione.. Sul piano internazionale, come la storia ci insegna, il neomercantilismo esaspera i conflitti commerciali che possono trasformarsi in conflitti tout court.

Paradossalmente sarà la Cina con i Brics a difendere il Wto (che Trump vorrebbe cancellare insieme a tutte le istituzioni internazionali) e le regole del commercio internazionale basate sulle regole e la cooperazione.

da “il Manifesto” del 21 gennaio 2025
foto: Di Vladislav Talaev – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25408370

Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Sono almeno dieci anni che gli studiosi hanno statisticamente rilevato un incremento della superficie bruciata a causa degli incendi in tutto il mondo. Ma, grazie ai mass media, nell’immaginario collettivo si è radicata l’idea che gli incendi devastanti siano una realtà eccezionale, una emergenza che riguarda solo alcune parti del pianeta.

Pochissimi sanno che l’area più colpita al mondo non sia l’Amazzonia, ma quella delle foreste equatoriali che dalla Repubblica Democratica del Congo si estendono all’Angola, alla Repubblica Centrafricana e ad altri Paesi limitrofi.

Non se ne parla mai nelle varie Coop, nei meeting internazionali che tentano di affrontare la questione ambientale, come se il fenomeno non incidesse sulla produzione di CO2. Si pensi solo che nel 2023 queste emissioni, come ricordava ieri Luca Martinelli, sono state pari a sei volte la CO2 prodotta dall’Italia e, secondo una stima attendibile, pari all’impatto del traffico aereo che concorre col 2% alle emissioni globali di gas climalteranti.

Non solo California, dunque, ma un fenomeno mondiale. Negli stessi Usa l’andamento del rapporto tra superfice bruciata e numero degli incendi (vedi il grafico) ci mostra come non sia tanto il numero degli incendi a crescere quanto la furia e l’impatto devastante di questo fenomeno.

Incendi negli Usa dal 1983 al 2022 (media mobile di tre anni)
Periodo/Incendi/Acri bruciati-1.000/ Acri-incendio
1986-88 86.600 3.391 39,2
1989-91 63.900 3.133 49,0
1992-94 75.000 2.646 35,3
1995-97 81.300 3.587 44,1
98-2000 88.200 4.783 54,2
2001-03 73.800 4.905 66,5
2004-06 76.000 8.890 117,0
2007-09 81.000 6.847 84,5
2010-12 68.000 7.155 105,2
2013-15 59.200 6.013 101,6
2016-18 65.100 8.101 124,4
2019-21 52.700 7.303 138,6
2022 59.900 7.577 126,5
Fonte: N.E. su dati dell’Annual Wildfire Burned Area in U.S.

Spesso la classe politica locale si dimostra talmente impotente e impreparata da sfiorare il ridicolo. Esemplare è il caso del governatore della California, David Newsome, che nell’ottobre del 2020 di fronte a uno dei più devastanti incendi che hanno colpito la California negli ultimi anni ha reagito a questo dramma con un provvedimento che vieta la vendita delle auto a benzina a partire dal 2035 (sic!).

Ma, quello che la California ci insegna è che in una delle aree più ricche del nostro pianeta la tecnologia più avanzata è impotente se pensa di fare a meno del ruolo della organizzazione sociale. Di anno in anno si moltiplicano gli elicotteri, si usano i droni, le connessioni satellitari sono fantastiche nel regno di Elon Musk, ma niente possono di fronte all’avanzata degli incendi. E non si tratta di una natura che si vendica quanto di una società capitalistica portata alle estreme conseguenze.

Chi scrive ha sperimentato con successo, quando era presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, come si potessero ridurre drasticamente gli incendi puntando sul presidio dei territori, sulla responsabilità e motivazione, nonché su una premialità per chi opera per spegnere da terra, quando parte il fuoco, affinché non si propagandi.

Il cosiddetto “modello Aspromonte” è stato per dieci anni imitato anche da altri parchi nazionali, ma poi è stato messo da parte dalla potenza delle lobbies dei mezzi aerei che affittano allo Stato le proprie prestazioni. Qualche maligno in passato ha detto “se non ci fossero gli incendi fallirebbero queste imprese” che solo nelle regioni meridionali arrivano a gestire più di duecento milioni di euro l’anno.

Il successo del “metodo Aspromonte” era basato sul fatto che i cosiddetti “contratti di responsabilità territoriale” venivano assegnate ad associazioni o cooperative che avevano nel curriculum un bagaglio di impegni in campo ambientale, unitamente al riconoscimento economico del lavoro fatto. Esattamente l’opposto di quanto avviene in California dove vengono utilizzati i carcerati per spegnere gli incendi quando ormai divampano. E questi poveretti, circa ottocento secondo le cronache, sono stati anche questa volta mandati allo sbaraglio, rischiando la vita per un dollaro l’ora.

Denaro, tecnologia, potenza militare, non servono a niente per contrastare gli incendi come dimostra un caso esemplare nel nostro paese. il Trentino-Alto Adige (Sud Tirolo). In questa bellissima regione gli incendi sono stati da sempre controllati grazie a una tradizione civica così forte e radicata che porta migliaia di volontari, ogni anno, a presidiare il territorio e a spegnere i focolai quando dovessero innescarsi.

Come ormai avviene nel campo della salute dove la durata media della vita diminuisce quando aumenta la privatizzazione dei servizi sanitari così nella cura del territorio se si abbandona questo bene comune alla logica del profitto, se non si fa prevenzione, saremo sempre più esposti ad incendi, alluvioni, e disastri ambientali.

da “il Manifesto” del 12 gennaio 2025

Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia.-di Alessandro Scassellati

Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia.-di Alessandro Scassellati

Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.

Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.

Il merito di Ardeni è quello di riaffermare, portando nuovi dati quantitativi e analisi interpretative, che il capitalismo della globalizzazione e la sua crisi (a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008) sono stati capaci di riportarci in un mondo in cui le divisioni di classe sono tornate a contare, a fare la differenza per gli individui, perché danno luogo a disuguaglianze (di reddito, ricchezza, consumi, stili di vita, status e potere) che condizionano le concrete possibilità di vita (livello di istruzione, competenze, tipo di lavoro, reddito e sistema relazionale sociale). L’ideologia neoliberista, che ha promosso e accompagnato la “lotta di classe” dei grandi capitalisti (l’1% o il 10% più ricco) contro le classi medie e operaie e l’affermazione del capitalismo globalizzatore, ha esaltato per quattro decenni “l’individualismo metodologico”, ossia “che tutto ciò che riusciamo a ottenere nella vita sia il risultato delle nostre scelte, delle nostre aspirazioni e del nostro sforzo. Nasciamo tutti uguali [di fronte alla legge], viviamo in un sistema che offre le stesse opportunità a tutti, impegniamoci senza lamentarci, senza dare la colpa al sistema! Tutto dipende dalla nostra performance, non conta di chi siamo figli o da dove veniamo ma solo il talento e l’impegno, ovvero il merito” (pag. 4).

Le classi superiori hanno lasciato intendere che il sistema avrebbe concesso un’opportunità a tutti, al di là delle disparità sociali “originarie”, bastava volerlo (chi non ce la fa, è perché non è stato capace o non si è impegnato abbastanza, non perché era in una condizione di partenza di inferiorità), essere “imprenditori di sé stessi”, senza però che venissero alterati né i meccanismi di accumulazione né quelli della distribuzione, anzi spingendo perché venisse data maggiore libertà di movimento al capitale. Ma ora, con la crisi conclamata del capitalismo neoliberista, si rende evidente che di fatto non siamo tutti uguali (qualcuno è “più uguale degli altri”, come i maiali nella fattoria degli animali di George Orwell) e non lo siamo in ragione di differenze sociali che sono strutturate, ossia che hanno origine nell’appartenenza di classe, a gruppi sociali con caratteristiche specifiche.

“Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, ad esempio, di cui si è venuto discutendo negli ultimi anni, non sono soltanto dovute a differenze nel merito, nelle capacità individuali e finanche nelle opportunità di acquisire un’istruzione adeguata, né semplicemente ai fallimenti dei mercati o alla scarsa concorrenzialità. Al fondo, ci sono due altri elementi all’opera che sono, ancora una volta, il “conflitto” tra capitale e lavoro – o, se si preferisce, tra redditi da capitale e redditi da lavoro – e l’ereditarietà, che consente la ripartizione del patrimonio per vie familiari, perpetuando la disparità di ricchezza. A chi già non ha è lasciata la via del “merito” in un sistema ove, però, le “enclosures” generate dall’appartenenza a club e circoli si sono fatte sempre più decisive” (pag. 7).

La narrazione di Ardeni, costruita illustrando con dettaglio i dati e le analisi sulla stratificazione sociale italiana sviluppate negli ultimi 50 anni, a partire dal libro epocale di Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma Bari 1974, ci guida nell’esplorazione dei mutamenti nella composizione sociale della società italiana. Un viaggio che parte da una descrizione “classista” della società rimasta egemone fino agli anni ’70, per poi passare a una descrizione “stratificazionista” in cui la classe media sembra ormai occupare quasi tutto lo spazio sociale (la “cetomedizzazione”), divenuta egemone dagli anni ’80, per chiudere il cerchio e tornare oggi a rivalutare il ruolo delle classi nella composizione sociale, in presenza di una divaricazione crescente nei livelli di reddito, di un drastico rallentamento della mobilità sociale ascendente, e di una polverizzazione delle professioni medie, divise tra quelle alte e quelle basse, che contribuisce alla polarizzazione delle disparità nei redditi.

Letture interpretative diverse della struttura sociale italiana che riflettono le diverse fasi storiche delle trasformazioni del capitalismo a livello nazionale e globale nell’arco di questi cinque decenni. Con il mutare delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico sono mutate sia le forze di produzione (risorse naturali, tecnologie, divisione del lavoro come funzione lavorativa) sia le relazioni sociali della produzione e distribuzione del reddito che innervano le particolari caratteristiche della struttura sociale (divisione in classi, ceti, strati, categorie, fasce di reddito e gruppi sociali) in ciascuna fase, dando vita a diverse formazioni sociali. Per schematizzare, dal dopoguerra abbiamo avuto due principali diverse tipologie di capitalismo: un capitalismo fordista/keynesiano dei “trenta gloriosi” (1945-1975), basato sul «compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico, e un capitalismo globalizzatore regolato dal paradigma neoliberista (dal 1980 ad oggi), basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato. Ardeni è anche interessato a mostrare che nel corso del tempo non è solo variato il peso relativo delle classi, ma anche il loro peso politico, nei canali della rappresentanza, con effetti redistributivi non indifferenti.

Marx e Weber

Con un approccio economico politico si prende necessariamente avvio da Karl Marx che, partendo dagli stessi presupposti analitici di Adam Smith e David Ricardo, nei primi decenni del passaggio al capitalismo industriale è stato il primo a proporre una rappresentazione del corpo sociale in tre classi, distinte secondo la proprietà dei mezzi di produzione e la fonte del reddito: i redditieri, la classe dei proprietari della terra; i capitalisti della classe borghese, proprietari dei macchinari e delle imprese industriali; i lavoratori della classe operaia, proprietari unicamente della loro forza lavoro. È attraverso la lotta di classe tra borghesia e classe operaia che, secondo Marx, storicamente si struttura la società.

Nelle sue analisi in diretta sul campo, come si vede in Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte (1851) e Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx applica il suo schema interpretativo, ma è costretto a parlare di frazioni e fazioni di classe per tutte le classi e specialmente per la borghesia. Ogni categoria professionale viene di fatto considerata come una classe o frazione di classe, segno della difficoltà che lo stesso Marx ha incontrato nell’usare il concetto astratto di classe nell’analizzare dei comportamenti sociali e politici concreti.

D’altra parte, con le successive trasformazioni del capitalismo, così come con la crescita del ruolo e delle funzioni svolte dalle grandi imprese e dallo Stato, un attore relativamente ancora poco strutturato a metà del XIX secolo, sono cresciuti i processi di scomposizione e ricomposizione dei fattori capitale e lavoro. Nel campo del lavoro, con il cambiamento tecnologico si sono affermati nuovi, diversi e più articolati rapporti di produzione, per cui sono emerse nuove specializzazioni e divisioni dei ruoli e delle mansioni che hanno dato vita a nuove articolate stratificazioni che hanno diluito e reso inefficace la conglomerazione del lavoro salariato in un’unica “classe operaia”. Un processo di scomposizione e ricomposizione che, insieme alla crescita dello Stato, ha portato alla nascita ed espansione di una “classe media”, formata da professionisti indipendenti, lavoro impiegatizio alle dipendenze del capitale industriale, lavoro autonomo nell’industria e nei servizi, e lavoro dipendente nella pubblica amministrazione (apparato burocratico) (sul metodo composizionista si veda il nostro articolo qui).

Al quadro di riferimento economico politico di Marx, si è poi anche contrapposto quello più eclettico di Max Weber, sostenitore del fatto che le classi non esistono solo in relazione ai mezzi di produzione. In contrapposizione al materialismo di Marx, Weber ha sostenuto che i fattori soggettivi della vita – ideologia, cultura, religione – sono altrettanto importanti rispetto al campo strettamente economico, aggiungendo al concetto di classe quelli di status e potere (inteso come influenza e controllo esercitato su persone e gruppi sociali), con l’introduzione di fattori qualitativi immateriali come onore, prestigio, rispetto, qualità morali, istruzione, stili di vita, linguaggio, arte, rituali, codici culturali e valori che rimandano alla dimensione della coscienza collettiva e dell’identità di classe o ceto, che non sono necessariamente dovuti alla ricchezza o al reddito, e che determinano stratificazioni sociali potenzialmente diverse da quelle di classe (come il ceto sociale). Secondo Weber, è la complessa interrelazione della triade classe, status e rapporti di potere (che definiscono le aggregazioni sociali in termini di partiti) che determina storicamente la struttura della società capitalistica, contribuendo a condizionare le opportunità e le scelte degli individui.

Dalle classi alle classi

L’analisi sociologico-economica italiana dagli anni ’50 agli anni ’70 ha rielaborato le nozioni di Marx e Weber. Quella di sinistra, incardinata sull’impianto marxista, ha elaborato una teoria della struttura sociale fondata sulla relazione tra divisioni di classe e disuguaglianze, a favore della classe operaia, della sua emancipazione nelle direzioni socialista, socialdemocratica e comunista. Quella di stampo liberale ha utilizzato un’impostazione americana per concepire una teoria della struttura sociale di tipo neo-weberiano incentrata sul ruolo chiave della grande e piccola borghesia, in cui le disuguaglianze nella distribuzione del reddito andavano ricercate nei diversi livelli di istruzione e qualificazione, nel potere di influenza di ceti e gruppi, nella diversa conformazione di settori economici e professioni e nel funzionamento più o meno efficiente del mercato del lavoro e del sistema economico.

In questo contesto, il lavoro di Sylos Labini ha rappresentato il tentativo ambizioso di operare una sintesi tra classificazione delle categorie economiche secondo la loro professione e secondo la fonte del loro reddito e un’analisi sullo status, lo stile di vita, il livello di istruzione, la dimensione territoriale e finanche sulle aggregazioni politiche. Nella classificazione di Sylos Labini, supportata da dati quantitativi statistici, agli inizi degli anni ’70 la società italiana era strutturata in almeno tre principali classi sociali (articolate al loro interno) definite soprattutto nell’ambito della sfera della produzione (lavoro), ma anche del modo in cui veniva ottenuto il reddito (rendite, profitti da capitale, salari e stipendi):

1. borghesia vera e propria (2,3%): formata da grandi proprietari di fondi rustici e urbani (rendite); imprenditori (industriali, immobiliari e finanziari) e alti dirigenti di società per azioni (profitti e redditi misti con elevate quote di profitto); professionisti autonomi (redditi misti, con caratteri di redditi di monopolio grazie alle tutele degli ordini professionali);

2. piccola borghesia/classi medie (45,4%):

2a. piccola borghesia impiegatizia (stipendi): costituita da impiegati pubblici e privati, tra cui insegnanti e addetti alla sanità;

2b. piccola borghesia relativamente autonoma (redditi misti): composta da coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisti (lavoratori autonomi), commercianti;

2c. piccola borghesia composta da categorie particolari come militari, religiosi e altri (stipendi);

3a. classe operaia (salari) (52,3% con il sottoproletariato): costituita da lavoratori salariati dell’industria e dell’edilizia (in espansione), da quelli del terziario e dai salariati agricoli (in forte riduzione);

3b. sottoproletariato: composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera di produzione in quanto disoccupati.

Il focus dell’analisi di Sylos Labini era soprattutto concentrato sull’espansione della piccola borghesia (impiegatizia, commerciale e tecnica) e più in generale delle classi medie (con i ceti medi da lui considerati come una “quasi classe”) tra il 1951 e il 1971. Questa espansione veniva spiegata sulla base del progresso tecnico e organizzativo (con l’aumento delle dimensioni e della burocratizzazione delle imprese) e della burocratizzazione dello Stato frutto della mediazione politica, dell’espansione dei servizi e della redistribuzione, e delle pratiche di clientelismo. Una delle conclusioni di Sylos Labini era che il potere politico (partiti, sindacati, burocrazia statale, gruppi della sinistra extra-parlamentare) era nelle mani di questa classe, “ma non sono i dirigenti effettivi”, “la classe dominante” (1974, pag. 71).

Il suo giudizio sulla piccola borghesia è sferzante (bassa moralità, difesa a oltranza della distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, corruzione, clientelismo, pratiche di sottogoverno, parassitismo, corporativismo, conservatorismo, deriva fascista, con “individui famelici, servili e culturalmente rozzi” (1974, pag. XII). Mette in luce il ruolo chiave giocato dalla politica nella protezione di commercianti, liberi professionisti, piccoli imprenditori manufatturieri e nella promozione dell’espansione della piccola borghesia (attraverso la creazione di posti di lavoro, leggi e interventi amministrativi, accordi contrattuali, clientelismo) in funzione di una stabilizzazione sociale e politica. L’effetto principale di questa azione politica era stato, per Sylos Labini, che il terziario si era gonfiato oltre misura senza modernizzarsi e, quindi, senza che a questo corrispondesse un ampliamento e miglioramento dei servizi pubblici. Una situazione che aveva contribuito a provocare l’ondata di lotta di classe della classe operaia a partire dalla seconda metà degli anni ’60.

Sylos Labini era interessato a riflettere sulla possibilità di alleanze sociali e politiche che potessero favorire o impedire le riforme sociali. Ragionava sui possibili rapporti tra sinistra politica (PCI e PSI) e classe operaia (allora ancora economicamente in ascesa) con le classi medie per realizzare le riforme della pubblica amministrazione, della sanità, dell’urbanistica, dell’università e gli investimenti in edifici scolastici e universitari, ospedali1. Sosteneva che occorreva puntare sulla piccola borghesia degli intellettuali, scienziati, tecnici e dirigenti e che bisognava guardare all’esperienza emiliana e di altre regioni “rosse”, dove si era attuata un’alleanza organica fra ceti medi e classe operaia, con un’evidente egemonia dei primi (1974, pag. 107).

L’analisi di Sylos Labini ha aperto un vivace dibattito con contributi di Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno, Massimo Paci, Arnaldo Bagnasco, Carlo Trigilia, Antonio Negri e Carlo Donolo che è durato fino agli anni ’80 e nel corso del quale si è affermata l’idea che vi siano almeno quattro caratteristiche che definiscono le classi: il reddito, secondo le sue fonti; la professione e il tipo di lavoro; le condizioni di vita e i riferimenti socio-culturali, ovvero lo stile di vita; i rapporti di potere. Dal punto di vista della ricerca empirica, però, solo le prime due sono state investigate, dato che solo per queste erano disponibili dati statistici. Le altre due sono quindi rimaste confinate nel campo delle riflessioni teoriche a sostegno dei risultati empirici ottenuti con le ricerche delle prime due.

Con gli anni ’80 il quadro analitico di riferimento muta, al mutare del quadro sociale ed economico. Il sistema economico italiano entra in una fase turbolenta di instabilità e rallentamento della crescita (alta inflazione, “svalutazioni competitive”, contenimento dei salari, riduzione della scala mobile, ristrutturazioni e chiusure aziendali, aumento della disoccupazione, aumento del debito pubblico e crisi fiscale dello Stato). Sono anni in cui la classe operaia e dei tecnici non cresce più, mentre si continua ad allargare la fascia del pubblico impiego, del terziario commerciale e dei servizi. Le classi sociali non spariscono, ma restano sullo sfondo. Arrivano i modelli di analisi socio-metrici posizionali2 messi a punto negli Stati Uniti a partire dagli anni ’40 (in gran parte frutto di un’operazione di mistificazione e di manipolazione del pensiero di Max Weber, mettendo sullo stesso piano potere, autorità legale e burocrazia), per cui si afferma che non ci sono più le classi (si sono “dissolte”), che la società è “liquida”, che tutto è solo middle class, mentre il potere è burocrazia (James Burnham, La rivoluzione manageriale 1941) nella quale lavorano persone della classe media scelte sulla base del merito. Così, il focus del dibattito scientifico si sposta dalle classi alla stratificazione sociale (soprattutto sugli strati che compongono i ceti medi) e su due aspetti a questa strettamente legati: quello della mobilità sociale (orizzontale, ascendente e discendente, ossia la possibilità di passare da un gruppo/strato sociale a un altro) e quello delle disuguaglianze (di reddito e status).

È stato un tentativo di offuscamento del fatto che la storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale (i dominanti) e lavoro (i dominati) che, come ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a mani basse (attraverso la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui, un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria. Una lotta di classe contro i lavoratori, i loro diritti acquisiti nei “trenta gloriosi”, le politiche di redistribuzione del reddito e di protezione sociale. D’altra parte, come notava Luciano Gallino nel 2012, “la più grande vittoria della classe dominante, di certo, è aver fatto credere agli altri di non esistere più”. Come sottolinea Ardeni, un offuscamento anche del fatto che le barriere per le scelte degli individui derivano ancora dalle divisioni presenti nella struttura sociale: “è un dibattito il cui risvolto ideologico, in realtà, maschera il tentativo di “andare oltre” le classi sociali per rendere le condizioni di origine ineffettuali, come non sono, e per agire solo “a valle”, sui meccanismi di funzionamento del mercato” (pag. 9).

In sostanza, non si tratta di abbattere le barriere tra i gruppi sociali, ma di intervenire sulle storture e inefficienze dei mercati che non permetterebbero agli individui di fare le loro libere scelte, avendo tutti a disposizione le medesime opportunità. Sono state proposte nuove classificazioni (affinamenti della suddivisione della società in tre classi) – come quella del neo-weberiano John Goldthorpe, nota come EPG (che raggruppa le occupazioni in base alla situazione di lavoro e alla situazione di mercato) e adottata anche nello schema europeo ESEC (European Socio-Economic Classification) – e sono state fornite nuove stime, come quelle di Antonio Schizzerotto e dei suoi collaboratori, anche se le fonti statistiche hanno continuato a essere problematiche (soprattutto quelle sulla distribuzione dei singoli ruoli occupazionali).

Il 1992 è stato un anno di svolta per l’Italia con la fine della “prima Repubblica” e del suo sistema di partiti, la più grave crisi finanziaria italiana del dopoguerra (con la svalutazione della lira, l’uscita dal Sistema monetario europeo e una pesantissima “manovra” del governo Amato) e la firma del Trattato di Maastricht che porta all’Unione Europea e apre la lunghissima stagione delle politiche neoliberiste di austerità (che hanno previsto tagli dei servizi pubblici, privatizzazioni, contenimento di salari e stipendi, riduzione degli investimenti in beni pubblici, delocalizzazioni produttive). Si passa al sistema elettorale maggioritario all’insegna della “governabilità”. Innovazione e investimenti (soprattutto pubblici) restano al palo, mentre la struttura produttiva e occupazionale va riducendosi e frammentandosi (con imprese di piccola dimensione). Rallenta di molto la crescita della produttività del lavoro. Si punta su “flessibilità” e precarizzazione, aumentando i contratti a tempo determinato, a tempo parziale, a progetto e saltuari. Le fasce più deboli soffrono di più la disoccupazione e la precarietà dei loro rapporti lavorativi. Prende il via un processo di drastica riduzione di artigiani e lavoratori autonomi, la piccola borghesia autonoma. Anche il lavoro qualificato, sia dipendente sia autonomo, viene colpito. Si riduce il ruolo della contrattazione collettiva, mentre cresce quello della contrattazione individuale (con un conseguente indebolimento del sindacato). Mentre salari e stipendi non aumentano, anzi ristagnano o arretrano, grazie a politiche fiscali favorevoli, i redditi da capitale e altre fonti (rendite, profitti, capital gains), fortemente influenzati dall’ereditarietà, crescono, alimentando le disuguaglianze e il processo di finanziarizzazione crescente dell’economia (si veda il nostro articolo qui).

Mentre il paese attraversa una fase difficilissima e il mondo del lavoro va mutando (ad esempio, si amplia l’occupazione nei settori dei servizi che adesso forniscono anche il maggiore contributo al PIL) – e con esso la struttura sociale – l’analisi e l’interpretazione di quanto avviene si fa più frammentaria. “La narrazione dominante è quella che enfatizza il ruolo della tecnologia, non solo nelle nuove professioni che vanno affermandosi e in come trasforma le vecchie, ma anche nei consumi e negli stili di vita. L’idea che si sia entrati in una società post-industriale si fa strada al punto che pare che lavori e professioni legati all’industria non esistono più, che il lavoro manuale vada scomparendo e che l’economia di oggi sia tutta ‘servizi e tecnologia’. Nelle imprese di tutti i settori le figure si sono moltiplicate, con una stratificazione che riflette competenze e livelli di qualificazione diversi e mansioni diverse.

Alla frammentazione sul piano produttivo – anche retributivo – corrisponde una frammentazione sul piano sociale, che non è che la naturale evoluzione di una società matura in cui il livello di reddito ha consentito – tra gli anni Settanta e Novanta – la quasi totale generalizzazione di stili di vita e consumi tipicamente urbani, quelli che un tempo erano solo piccolo borghesi, alla grande maggioranza dei cittadini (con delle differenze, è ovvio, date comunque dal livello assoluto del reddito). In questo processo, però, è progressivamente sbiadita l’antica identità sociale delle classi che ora si ‘assomigliano’ tutte, per un verso (nella domanda di servizi minimi, nelle aspirazioni sociali e culturali), mentre continuano a differenziarsi, e di molto, sul piano della condizione occupazionale e professionale. Tutti si sentono classe media, pur non essendolo, secondo un processo di omologazione che rende evidente quanto la società dei consumi di massa sia estesa“ (pag. 70).

Negli anni 2000, in presenza di un’economia sostanzialmente bloccata, che non cresce e in cui anche il processo di terziarizzazione verso la modernizzazione dei servizi sembra bloccarsi, gli studi condotti segnalano che anche l’evoluzione della struttura sociale si è bloccata. La mobilità sociale ascendente è rallentata sino a quasi fermarsi e torna l’idea della cristallizzazione delle divisioni di classe, secondo nuove linee di frattura. Si sviluppano anche analisi e dibattiti sulla scomparsa della classe operaia (ma mentre diminuisce quella industriale, aumentano i salariati nei servizi e nelle occupazioni impiegatizie, con sempre più ampie fasce di lavoro precario, part-time e sotto-remunerato, una segmentazione che investe, donne, giovani e immigrati – un proletariato post-industriale) e della classe media. Quest’ultima viene investita da una crisi che è economica, ma che riguarda anche gli stili e le condizioni di vita, le aspettative e finanche le attitudini culturali. Con l’introduzione di flessibilità e precarizzazione, parti delle classi medie si vedono scivolare verso la classe operaia. Un processo di declassamento che genera insicurezza, malessere, paura risentimento e rabbia che viene scaricata contro i deboli, i poveri e i fragili che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio.

Al tempo stesso, però, nelle nuove condizioni lavorative, più precarie e frammentate, si riduce l’identificazione tra gli individui e il loro lavoro non più visto come un percorso di vita. La stessa classe operaia, oltre a ridursi, si frammenta, mentre il conflitto sociale si disperde e si spezzetta in micro-conflitti. Si riduce la mobilità sociale ascendente, mentre aumenta quella orizzontale, tra professioni e condizioni diverse ma equivalenti sul piano del reddito e dello status. Soprattutto, il precariato è divenuto la nuova condizione proletaria contemporanea e investe sia la classe operaia sia la classe medio-bassa impiegatizia.

La struttura sociale italiana oggi

Ardeni offre una descrizione della situazione odierna (al 2023) delle classi sociali in Italia, riprendendo lo schema di riferimento di Sylos Labini, integrato da alcune modifiche. Ciò che emerge è che la classe operaia pesa ancora per circa un quarto (23,4%), ma è divisa tra una componente garantita e una precaria (attiva soprattutto nell’articolato mondo dei servizi – logistica, manutenzione, distribuzione commerciale, ristorazione, pulizie). Che la classe media è certamente maggioritaria (65,6%), con quella medio-bassa che è più rilevante e anch’essa divisa tra garantiti e precari, mentre quella medio-alta, insieme alla borghesia (11,%), pesa per circa un quarto.

La composizione della forza lavoro occupata indica che ancora il 30,2% dei lavoratori è nell’industria, il 27,1% è nei settori del terziario “maturo” (commercio, pubblici esercizi, trasporti e comunicazioni), il 23,5% è nel terziario dei servizi e il 17,3% nel settore pubblico. Il lavoro dipendente rappresenta quasi i quattro quinti del totale (78,6%): di questo il lavoro operaio (qualificato e non) pesa per un terzo (33,4%) e, se sommato al lavoro impiegatizio esecutivo, arriva al 47,9%, mentre il lavoro impiegatizio qualificato assomma al 30,4%. La precarietà, trasversale alle classi, riguarda oltre un terzo della forza lavoro dipendente, soprattutto femminile e giovanile3.

Si profila una struttura sociale di classe che è sostanzialmente inalterata dagli anni ’90, la risultante di un paese fermo, la cui economia non cresce più e la cui struttura sociale si è cristallizzata. In termini di reddito, la classe media si è ridotta (e sono le fasce alte a guadagnarci di più). La mobilità tra le classi si è ingessata, con una prevalenza della mobilità discendente su quella ascendente (sia quella intergenerazionale sia quella intragenerazionale). Tuttavia, la classe media sembra essersi estesa a (quasi) tutte le classi sociali dal punto di vista degli stili di vita e dei consumi, delineando però una frattura in aumento tra redditi alti e redditi bassi che segnala la chiusura delle classi medio-alte. Un vero e proprio arroccamento che si estende alle classi superiori che adottano una strategia di “secessione privata dalla società” che rafforza l’appartenenza alla propria classe/casta4.

La distribuzione del reddito mostra che il reddito medio delle famiglie italiane è fermo da più di 30 anni5. Sono cresciuti i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in «povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso salario. Difatti, tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17 mila euro lordi annui.

Inoltre, non c’è più una corrispondenza univoca tra posizione lavorativa (classe sociale) e reddito, a causa di due fattori determinanti: il capitale accumulato (anche nella forma di beni immobili) e il livello di istruzione. Quest’ultimo è diventato un motore di mobilità sociale molto meno potente rispetto al passato, superato dall’appartenenza di classe, per cui si sta diffondendo l’idea che si possa anche rinunciare a un titolo di studio. “Il livello di istruzione dipende dal reddito e dalle aspettative (e aspirazioni) e varia con la famiglia di origine e l’orientamento culturale familiare (ovvero dalla classe sociale). Più basso è il reddito, meno si spende (si investe) in istruzione e capitale umano. ‘Far studiare i figli costa, ma se poi questi non fanno neppure carriera, perché non hanno il padre con una certa posizione, allora non ne vale la pena’” (pag. 11). Per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24 anni abbandonano la scuola prematuramente, mentre circa 55mila se ne vanno via dall’Italia, prendendo atto che non c’è posto per tutti. Oltre al tema del rapporto tra istruzione, distribuzione del reddito e classi sociali, Ardeni offre un’analisi della questione di genere, di quella dell’inattività e dei NEET (si veda anche il nostro articolo qui), e dei divari territoriali.

Infine, Ardeni è anche interessato a esplorare i temi della rappresentanza politica delle classi, la loro rappresentanza nel discorso pubblico e l’evoluzione recente del quadro politico italiano in relazione alla struttura sociale descritta. Cerca di analizzare come si è riflessa la divisione di classe sulle proposte politiche e delle forze in campo. Si interroga sul fatto che visto che le classi esistono ancora – e con esse i divari che le separano – chi rappresenta, oggi, le classi popolari? Da anni ormai non c’è più un partito della classe operaia, ma non c’è neanche un partito che faccia della classe dei precari (i nuovi proletari) la propria base (anche perché nessuno più mette in discussione l’esistenza della precarietà come dello sfruttamento para-schiavistico degli immigrati – per un’analisi sulla relazione bassi salari e immigrazione, si veda il nostro articolo qui).

Emerge il quadro di “una società che è andata separandosi dal potere politico in cui si sente, evidentemente, sempre meno rappresentata, evidenziando, però, una rottura preoccupante perché riguarda le fasce meno protette” (pag. 245) delle classi popolari dei non garantiti. Ardeni si domanda se si può fare qualcosa, almeno, per rimettere in moto l’ascensore sociale: “L’esercito dei tanti precari, degli esclusi, dei marginalizzati, potrebbe essere aggregato in una proposta progressista, non difensiva, né “contro” le classi medie e garantite. La mobilità sociale potrebbe essere riattivata, non tanto verso le posizioni alte, quanto verso quelle medie e medio-alte. Dando così nuovi stimoli anche a quella classe media che languisce, che sopravvive culturalmente ed economicamente” (pag. 247).

Attualmente assistiamo al crescente distacco tra parte debole e marginalizzata del corpo sociale e il sistema politico. Un’economia ferma, in cui produttività e reddito complessivo non crescono, in cui la mobilità sociale è ferma “sta portando le classi medie e medio-basse su posizioni difensive, reclamando la chiusura delle frontiere (di classe) e maggiore protezione. Ed è sulla difesa del ceto medio che ormai si gioca lo scontro politico, dimentico di quelle fasce popolari e marginali che pure esistono. La sinistra, la cui ragion d’essere si fondava sul consenso delle classi popolari, non ha più una prospettiva da opporre e pare aver rinunciato anche solo alla possibilità di un’alternativa. Così, si assiste al progressivo allontanamento di quelle masse dalla stessa prospettiva democratica: escluse, non hanno più voce, non partecipano più, mentre i partiti nell’agone politico si spartiscono il consenso delle classi medie. Un’involuzione che prepara solo il terreno a un’involuzione della democrazia, minandone le basi alla radice” (pag. 252).

Note

Proprio nel decennio ’70 sono state realizzate alcune delle principali riforme del dopoguerra: l’approvazione della legge sul divorzio nel 1972, con la vittoria del No al referendum abrogativo del 1974, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1974 e l’approvazione della legge 194 sull’aborto, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale e l’abrogazione dei manicomi nel 1978. Perseguendo una strategia di attenzione e apertura alla classe media, il PCI raggiunse l’apice con le elezioni del 1975 e 1976.[]
Si tratta di studi descrittivi che raggruppano coloro che condividono posizioni simili nelle relazioni di dominio e subordinazione nelle sfere dell’economia e del lavoro e in quelle della distribuzione di vantaggi e svantaggi che determinano le condizioni di vita.[]
Il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una condizione sufficiente di inclusione se non è affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite IVA (spesso finte, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei colleghi regolarmente assunti).[]
Si tratta di un fenomeno di segregazione sociale volontaria, con le «comunità recintate», le isole private, i super-yacht, i paradisi fiscali e tanti privilegi esclusivi dei super-ricchi, che il filosofo politico Michael J. Sandel (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013; Democracy’s discontent. America in search of a public philosophy, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 1998) definisce «sky-boxification of society», utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia.[]
Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10. Se nei 27 paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.[]

da TransformItalia 5 gennaio 2025

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”

Autonomia, la battaglia prosegue.-di Filippo Veltri

Autonomia, la battaglia prosegue.-di Filippo Veltri

L’anno si chiude come era iniziato: ora che la Corte di Cassazione ha deciso che si farà il referendum sullo scempio dell’autonomia differenziata di Calderoli e soci inizia, infatti, una nuova battaglia che l’Italia tutta e il Mezzogiorno e la Calabria dovranno combattere.

Era abbastanza ovvio che finisse così: le sentenze della Corte costituzionale, pur se accoglievano le eccezioni di incostituzionalità avanzate, non avevano effetti abrogativi ma rendevano solo inefficaci le leggi (o parti di esse) una volta dichiarate incostituzionali. Cioè, esse non possono essere più applicate, ma restano nell’ordinamento giuridico fino a quando il legislatore non legifera di nuovo.

Nel caso in questione, pertanto, la legge Calderoli era stata in parte resa inefficace, ma c’era il quesito referendario giacente dinanzi alla Cassazione ne chiedeva appunto l’abrogazione totale.

Ora i tempi sono stretti e piuttosto presto si verrà a capo di questa incredibile e intricata matassa creata dal vento di una destra incalzante. La mobilitazione creata da un’infinità di forme associative di base, l’evolversi positivo e incoraggiante di importanti contraddizioni all’interno di alcuni partiti della sinistra, nonché la presenza assidua e attenta delle migliori intelligenze costituzionaliste, riaprono il campo.

Si era tentato di sminuire per prima proprio questa portata storica della sentenza della Corte Costituzionale da quanti erano e restano interessati a confondere le idee: “niente di particolare, metteremo qualcosa a posto in Parlamento e andremo avanti…”. Era questo il senso dei commenti successivi al comunicato stampa della Corte che preannunciava l’uscita della sentenza da parte di chi si è inventato lo scempio della cosiddetta autonomia differenziata.

Dopo che la sentenza è stata pubblicata e la Cassazione ha detto la sua, l’atteggiamento del Governo e dei suoi resta ancora questo, pur in presenza di riflessioni, argomentazioni, ricostruzioni giuridiche e studi. Tutto materiale prezioso che conferma l’impressione iniziale: la Corte ha smontato e fatto a pezzi il progetto secessionista della Lega. Il regionalismo solidale e cooperativistico, originalissimo, del quale tutta la scienza giuridica italiana del secondo dopoguerra andava fiera, si collega infatti alle persone, al popolo che troviamo protagonista in tutta la Carta costituzionale.

Vi sono una sola Nazione e un solo Popolo; quindi, una sola rappresentanza politica nazionale per la cura delle esigenze unitarie, affidata al Parlamento nazionale.

Il pluralismo regionale genera “concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche”, ma non potrebbe mai minare la solidarietà tra Stato e regioni e tra regioni; neanche l’unità della Repubblica, l’eguaglianza dei cittadini, la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti, la coesione sociale etc.

Il nostro regionalismo è di tipo cooperativistico/solidaristico e non mette le regioni fra loro in una competizione ed è completato dal principio di sussidiarietà che è animato dal principio di adeguatezza. Le norme generali sull’istruzione non sono dunque materia devolvibile alle regioni. Poi c’è il nodo della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.

Questo articolo, il 3 del ddl Calderoli, avrebbe voluto conferire sostanzialmente al Governo il compito di definire i LEP che la Costituzione affida espressamente al Parlamento ed è stato gravissimo il tentativo di prorogare al 31 dicembre prossimo la Commissione sui LEP (Commissione Cassese). E vedremo ora che accadrà dopo il pronunciamento della Cassazione della scorsa settimana.

La destra in verità dovrebbe fermarsi, se ci fosse accordo nella maggioranza, per riscrivere tutte le parti dichiarate incostituzionali. Non si tratterebbe di “aggiustamenti perfettamente applicabili” bensì di una rinuncia a quella secessione dei ricchi tanto desiderata dalla Lega e dai suoi generali.

Sarebbe però rinunciare a una delle tre colonne che reggono il castello dell’accordo di governo: devoluzione secessionista-premierato-separazione delle carriere dei magistrati e sarebbe, peraltro, una penosa ammissione di sconfitta in una battaglia dove vincono la mobilitazione in difesa della Costituzione e anche l’accorta vigilanza degli organi di garanzia.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2024