Categoria: Dalla Stampa

Solidarietà a Tomaso Montanari

Solidarietà a Tomaso Montanari

Tomaso Montanari, eletto rettore all’Università per stranieri di Siena, è da tempo oggetto di una campagna denigratoria su cui, a questo punto, non possiamo tacere, come docenti, attivi o in pensione, e come comunità intellettuale. Montanari, ovviamente, sa difendersi da solo e da par suo, e ha la possibilità di farlo quale collaboratore del Fatto Quotidiano. Benché inquieti il silenzio, la mancata difesa da parte dei suoi colleghi, rettori e docenti. Ma il caso personale di questo rettore in pectore assume ormai una dimensione politica più generale su cui occorre far sentire una voce collettiva. Ricordiamo che ai primi di agosto, da poco eletto e ancora non in carica, Montanari ha subìto la richiesta di dimissioni da parte della viceministra alle infrastrutture e mobilità sostenibile, Teresa Bellanova, con la motivazione che “non sa tenere la lingua a freno”.

Una intimidazione davvero grave, da parte di un membro del governo, che attacca la libertà di parola e l’autonomia universitaria con una disinvoltura rivelatrice del torbido spirito pubblico dei nostri giorni. Clima culturale e politico in cui un altro vice ministro, Claudio Durigon, ha avuto l’ardire oltraggioso di proporre il nome di Arnaldo Mussolini per un parco che porta quello di Falcone e Borsellino: i due magistrati massacrati dalla mafia con le loro scorte, due figure che hanno riscattato con la loro vita l’onore della Sicilia e dell’Italia di fronte agli occhi del mondo.

Non a caso, in questi ultimi giorni si è scatenata la canea neofascista contro il neorettore, accusato di aver negato le foibe e altri sono intervenuti con posizioni pilatesche che testimoniano solo l’ ignoranza dei fatti. Ora a dare inopinatamente man forte a queste polemiche, che fanno male a uno spirito pubblico nazionale già gravemente inquinato, interviene Aldo Grasso, il quale, sul Corriere della Sera (29/8), definisce l’intervento di Montanari sulla questione foibe “una mascalzonata”.

Montanari, faziosamente equivocato dai commentatori, ha ulteriormente chiarito la sua posizione di studioso che certo non è quella di un negazionista (Il Fatto, 26/8). Ma se ora si aggiunge la voce del Corriere, la confusione diventa ancora più grave. Grasso, che non è uno storico, dovrebbe però sapere che da anni il tema doloroso delle foibe è usato dai fascisti in stolida funzione anticomunista e antisinistra quale controaltare nientemeno che alla Shoah.

Ed esiste una letteratura fantasiosa e biliosa in cui le cifre dei morti raggiungono numeri spaventosi, proprio per tale esplicito fine propagandistico. La “meschina contabilità” dei morti, che Grasso (ora si è aggiunto buon ultimo il solito Vittorio Sgarbi sulla stessa linea) rimprovera a Montanari, è da anni materia asprissima di controversia tra storici, e soprattutto inventori di leggende, e purtroppo – in un Paese nel quale il fascismo non muore mai – la verità storica deve imporsi anche tramite questa tristissima conta.

A tale scopo hanno lavorato, pioneristicamente Claudia Cernigoi, Sandi Volk, ALessandra Kersevan, Federico Tenca Montini e da ultimo Eric Gobetti, col suo E allora le foibe? (Laterza, 2020) Tutti costoro sono stati oggetto di attacchi scomposti o addirittura di minacce, soltanto perché hanno provato, documenti alla mano, a ristabilire le dimensioni reali del fenomeno, riconducendolo al suo contesto, quale pagina, per quanto atroce, di una guerra in cui gli italiani furono aggressori, e si comportarono in Jugoslavia in modo particolarmente feroce. In nessun caso, comunque, risponde a verità storica parlare di un piano di pulizia etnica da parte jugoslava contro gli italiani.

Esprimiamo dunque la nostra solidarietà e condivisione a Tomaso Montanari, al quale non viene evidentemente perdonato il fatto che, in quanto rettore, egli non si senta parte dell’establishment culturale e politico del Paese, non si faccia difensore e cantore dello status quo. Noi lo esortiamo a continuare la sua critica radicale, anche nel nuovo ruolo che ricoprirà.

Non possiamo infatti dimenticare che negli ultimi anni i rettori italiani, tranne pochissime eccezioni, hanno accettato in solenne silenzio le riforme “aziendalistiche” e i devastanti tagli finanziari imposti alle università italiane. Come del resto ha fatto la grandissima maggioranza dei docenti universitari, le anime morte della vita civile italiana, che si destano da profondissimo sonno solo quando qualche provvedimento governativo tocca i loro stipendi.

*** Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Angelo d’Orsi, Vezio De Lucia, Maria Pia Guermandi, Luigi Ferrajoli, Ginevra Bompiani, Enzo Paolini, Massimo Veltri, Ilaria Agostini, Alberto Magnaghi, Alberto Ziparo, Carlo Cellamare, Paolo Favilli, Ignazio Masulli, Alberto Olivetti, Gaetano Lamanna, Luigi Pandolfi, Franco Toscani, Franco Cambi, Tonino Perna, Maurizio Acerbo, Tiziana Drago, Franco Novelli, Rossano Pazzagli, Laura Marchetti, Domenico Gattuso, Angela Barbanente, Vito Teti, Lucinia Speciale, Andrea Ranieri, Simonetta Del Bianco, Raffaele Tecce, Graziella Tonon, Giancarlo Consonni, Mario Fiorentini, Marisa D’Alfonso, Giovanni Losavio, Riccardo Barberi, Paolo Berdini, Armando Taliano Grasso, Sonia Marzetti, Giuseppe Saponaro, Domenico Rizzuti, Luigi Vavalà, Domenico Cersosimo, Vittorio Boarini, Pino Ippolito Armino, Franco Blandi, Simona Maggiorelli, Daniele Vannetiello, Rita Paris, Giuseppina Tonet, Anna Maria Bianchi, Amedeo Di Maio, Roberto Budini Gattai, Francesco Trane, Anna Angelucci, Tommaso Tedesco, Battista Sangineto, Giuseppe Aragno, Roberto Scognamillo, Giovanni Carosotti, Massimo Baldacci, Francesco Gaudio, Piero Caprari, Francesca Leder, Marta Petrusewicz, Diego Amelio, Maria Paola Morittu, Piero Caprari, Francesco Santopolo, Umberto Todini, Claudio Greppi, Irene Berlingò, Francesco Cioffi, Romeo Bufalo, Amalia Collisani, Cristina Lavinio, Luisa Marchini, Vera Pegna, Tiziano Cardosi, David Armando, Antonio Ciaralli

da “il Manifesto” dell’1 settembre 2021

L’occasione che i calabresi non possono perdere.-di Piero Bevilacqua

L’occasione che i calabresi non possono perdere.-di Piero Bevilacqua

Grande è la confusione sotto il cielo della Calabria a poco più di un mese dalle elezioni regionali.Molti i gruppi in campo, molti i nomi, che affondano e riemergono, pochissime idee programmatiche, nessun progetto visibile.Tranne l’eccezione De Magistris. Eppure, se si possiede un po’ di prospettiva storica, se si conoscono le vicende politiche nazionali degli ultimi anni, se si esaminano le scelte politiche dei partiti, la nebbia presente si dirada, la confusione svanisce, alcuni aspetti della battaglia elettorale in corso diventano semplici, perfino banali.

Almeno due verità inoppugnabili vanno dette oggi ai calabresi, che si trovano davanti alla possibilità di cambiare il proprio destino o di assistere all’ennesima, avvilente replica di una vecchia storia: il ritorno della regione in mano a gruppi di potere che amministrano clientele e non promuovono alcun progetto di trasformazione profonda della Calabria.

La verità più nota è che, soprattutto nella nostra regione, tanto le formazioni della destra, quanto il Partito democratico non sono più partiti, ma aggregati di potere, gruppi clientelari portatori di pacchetti di voti, la cui azione di governo si traduce, di legislatura in legislatura, nella continua mediazione per soddisfare le richieste eterogenee e particolari di tali raggruppamenti. Con i risultati, sulle condizioni della regione, storicamente constatabili da tutti.

La seconda verità, meno nota, è che tanto la destra nazionale, in primo luogo la Lega, quanto il PD, hanno accettato le lettura che dell’intero Mezzogiorno fa da tempo la borgesia industriale del Nord, la sua stampa di riferimento ( La Repubblica, Il Corriere, La Stampa), gruppi intellettuali, settori di opinione pubblica, formazioni politiche:questa parte d’Italia è una palla al piede del Paese, impedisce all’economia del Nord di competere con le grandi regioni industriali del Nord Europa ( come la Baviera), e perciò bisogna sganciare le aree più dinamiche e più prospere dai “vagoni più arretrati”, con vantaggio generale dell’Italia.

Tale narrazione sbagliata sotto tutti i profili, anche quello economico (come hanno mostrato gli studi dello SVIMEZ) ispira, come è noto, la richiesta di autonomia differenziata avanzata da Veneto e Lombardia e poi dall’Emilia Romagna, presieduta da Stefano Bonacci, autorevole dirigente del PD. Gran parte del gruppo dirigente di questo partito è convinta di tale interpretazione, o è del tutto indifferente alle vicende che riguardano il destino generale del Sud e dell’Italia.

Nel migliore dei casi cercano delle vie per rendere meno devastante la secessione, come fa Francesco Boccia, che ha curato i rapporti con le regioni nel precedente governo e ora lo fa per il PD. Ma l’aspetto più grave è che perfino autorevoli presidenti di regioni meridionali, come De Luca ed Emiliano, nel 2019, nel momento in cui la Lega stava per fare approvare in Parlamento l’autonomia differenziata, non hanno mostrato la benché minima opposizione a un progetto che emarginava irrimediabimente il Sud e metteva in pericolo l’unità del Paese. E qui debbo evocare una esperienza personale.

In quelle concitate settimane, in gennaio, io scrissi una lettera aperta ad Emiliano, presidente della Puglia, pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno, perché esprimesse una esplicita condanna di quella forma camuffata di secessione. Non ci fu alcuna risposta e nessuna azione. E per completezza di informazione debbo ricordare che l’unica figura istituzionale meridionale di rilievo, che si schierò contro l’autonomia differenziata, fu il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, il quale, invitato da un gruppo di cui facevo parte, venne a Roma e tenne un vigoroso comizio davanti il palazzo di Montecitorio.

Tutto questo prova ampiamente che al Partito democratico, come alla destra, importa poco o nulla del destino in sé della Calabria, se non come pedina nei rapporti di forza nazionali. Ora, la chiarezza semplicissima cui facevo riferimento consiste in questo: i calabresi che votano per la destra devono sapere che danno un voto a favore della secessione delle regioni del Nord, per accrescere il distacco delle aree del Sud dal resto del Paese.

Questo è il programma nazionale della Lega approvato dagli alleati. Chi vota per il PD vota in realtà per la sconfitta del fronte democratico. E’ evidente a tutti che questo partito e l’intero centro sinistra sono caduti nel discredito generale, disamorando anche i loro antichi elettori.

L’enorme difficoltà che il PD ha mostrato negli ultimi mesi nel trovare un canditato presentabile quale presidente della Regione, mostra il disfacimento di questo partito, un arcipelago di gruppi, privo ormai, come la destra, di qualunque cultura politica , senza il benché minimo progetto di rinnovamento strutturale della Calabria. E dovrebbe costituire ragione di umiliazione e di offesa, per i calabresi, che le designazioni dei candidati, una più fallimentare dell’altra, partissero da Roma.

Ora, l’ultima semplice verità da dire è che il Partito democratico, certo della sconfitta, gioca tuttavia una sua partita elettorale: quella di impedire che vinca Luigi De Magistris.Non è affatto un paradosso. Per i gruppi di potere che operano in quel partito “destra” e “ sinistra” non hanno alcun significato. Quel che importa è poter realizzare, anche dall’opposizione, tramite i dovuti compromessi con i gruppi di destra, le operazioni e gli affari che ispirano la loro condotta. E questo, con De Magistris presidente, sarebbe molto più difficile o impossibile.

Per tale ragione è evidentissimo che chi voterà per il PD in realtà voterà a favore della destra, con tutti i danni che deriveranno alla Calabria. Perciò mi permetto di rivolgermi ad Amalia Bruni, persona degna, che ha lasciato le proprie ricerche per entrare in un mondo che non è il suo, per chiederle di riflettere sul ruolo ingrato e anticalabrese che le è stato assegnato.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 agosto 2021.

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.

In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.

La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.

Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.

Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.

I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.

Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.

Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.

Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.

Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .

E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.

L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.

Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.

Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.

Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
Foto di ojkumena da Pixabay

Senza l’economia agricola e forestale l’Italia va in fumo.-di Piero Bevilacqua

Senza l’economia agricola e forestale l’Italia va in fumo.-di Piero Bevilacqua

Ricordate il teorema del lampione? Un uomo, mentre rientra a casa, perde le chiavi davanti al portone. E’ notte, è buio, le cerca invano per un po’, poi scorge alcuni metri più avanti la luce di un lampione e vi si dirige. Là non le troverà, ma almeno riuscirà a vedere dove mette i piedi. Viene in mente questa storiella quando si pensa alle recenti uscite del governo, che riprende (con diverso impegno) i vecchi progetti delle grandi opere, il Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto. Non affronta nessuno dei gravi problemi del territorio italiano e però sa come muoversi. Può rivolgersi a grandi imprese di costruzione, utilizzare meccanismi collaudati di strumentazione finanziaria (financing projet), assoggettare un pezzo di territorio plasmato da secoli dalle popolazioni locali, e ottenere alla fine un prodotto finito, per il quale ricevere applausi dal grande pubblico.

Non torno sulle ragioni che si oppongono a queste opere, argomentate con competenza su questo giornale da tanti esperti e studiosi. E tengo a precisare che non nutro pregiudizi sulle grandi opere in sé. Nel territorio impervio della Penisola è stato necessario far ricorso a imprese di alta ingegneria per dotare il paese di una moderna infrastrutturazione.

Anche se sappiamo che tanta ingegneria, nell’Italia repubblicana, è stata impiegata soprattutto per le autostrade. Sicché oggi ci troviamo privi di un sistema ferroviario per le merci lungo la Penisola, mentre le autostrade, (e le statali, le provinciali, le comunali) sono flagellate da autotreni, camion, furgoni.

Oggi tutto il sistema della mobilità, anche urbana, è esploso. E fa sorridere l’enfasi sulle auto elettriche. Il problema non sono solo i motori delle auto, ma soprattutto le auto. Ormai anche il più piccolo dei paesi è soffocato dal traffico automobilistico. Ma la cultura economica di chi ci governa, rimasta al ‘900, una cultura pre-ecologica, non considera lo spazio un bene, perché non lo identifica con una merce, e non riesce a valutare il crescente disagio di vita dei cittadini che lo perdono.

Ma la considerazione fondamentale da fare è un’altra. Riproporre oggi il Tav e il Ponte sullo Stretto è come portare un ferito con fratture multiple dall’estetista, anziché in ospedale. Investire somme ingenti ( il Ponte a totale carico dello stato) per queste opere è una scelta delittuosa di fronte allo stato della Penisola. Debbo ricordarlo. Sull’Italia incombe la più grave questione territoriale e ambientale d’Europa: è il progressivo spopolamento e abbandono delle aree centrali dello Stivale e il corrispondente intasamento delle zone a valle. Si tratta di uno squilibrio all’interno del quale si svolgono i più vari e distruttivi fenomeni.

Nelle zone interne, appenniniche e preappenniniche, si perdono terre fertili, vanno in rovina patrimoni abitativi, si deteriorano i nostri boschi. La ragione fondamentale, insieme ai mutamenti climatici, di incendi così vasti e devastanti come quelli che hanno distrutto le selve delle Sardegna e della Sicilia, e che ancora si accaniscono in Calabria e altrove, è l’assenza degli uomini. Mancano le economie agricole e forestali di un tempo, la cura dei boschi e dei territori contermini. E gli incendi non devastano solo aziende, patrimoni vegetali, tesori di biodiversità anche animale, ma trasformano i boschi d’altura, che sono i serbatoi d’acqua d’Italia, in suoli carbonizzati destinati a franare.

A valle accade che, a ogni temporale intenso, ormai sempre più frequente, fiumi e torrenti lasciati senza cura devastino abitati, aziende, ponti e strade. Quando piove gli spazi urbani diventano luoghi di rischio. Nel Sud ci sono città senz’acqua potabile, alle prese con sistemi fognari vecchi e inadeguati.

Chi, in questo periodo di grande pressione antropica, gira per le cittadine di mare – il cuore del nostro turismo balneare – può avvertire il fetore di fogna che si spande per le strade. Ma dovunque, città o piccoli centri, soffocati dal traffico, si avverte uno stato di assenza di manutenzione degli spazi pubblici, le periferie sono invase da erbe e immondizie, gli spazi verdi non ricevono alcuna cura.

Dunque sono le grandi opere la risposta a questo precipitare? Non facciamoci ingannare: il riscaldamento della Terra non sarà arrestato. Quali che saranno le iniziative dei governi, noi dovremo fare i conti con mutamenti di vasta portata per un periodo incalcolabile. E allora le terre fertili, i boschi, le acque, gli spazi abitabili delle colline e delle montagne diventato preziosi, un patrimonio di riserva che non possiamo dilapidare.

E noi, che crediamo nelle piccole opere, sappiamo quali sono i soggetti in grado di invertire la rotta di un indirizzo nefasto che assegna valore solo ai manufatti in cemento. Sono i comuni, l’ossatura storica del territorio italiano. Rimettiamo i comuni al centro del suo governo. Alla luce del fallimento storico delle Regioni, diamo risorse e competenze a questi organi, investiamo nei nostri giovani laureati, impediamo che portino altrove il loro sapere e la loro energia.

da “il Manifesto” del 12 agosto 2021.

Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Quanti sono i soldi che il Pnrr destina al Mezzogiorno? È uno dei tormentoni di questa caldissima estate. Ufficialmente dovrebbero essere il 40% del totale (82 miliardi), ma c’è chi sostiene che non arriveranno nemmeno al 10%. Eppure parliamo di numeri, dovrebbero essere certi. Ma, a quanto pare, non è proprio così. Gianfranco Viesti, ad esempio, spulciando tra gli interventi previsti dal Piano è giunto alla conclusione che i miliardi spesi al sud non saranno più di 22. Esagerazione? Beh, le risorse del Dispositivo di Ripresa e Resilienza non si tradurranno direttamente in investimenti pubblici (la quota dispersa in bonus, incentivi, mance alle imprese, è notevole).

E poi, c’è tutta la partita dei bandi. Anche per l’assegnazione dei fondi per investimenti varrà il criterio della concorrenza e della competizione. Tra nord e sud, tra le varie regioni. Il governo su questo punto ha provato a tranquillizzare, dicendo che anche per i bandi varrà la clausola del 40%. Nondimeno, anche se così fosse, l’incertezza legata ad una selezione pubblica non sarebbe eliminata. Insomma, chi pensa che il governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. E c’è un paradosso. Per ogni miliardo speso al sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

Ma non è finita qui. Il Piano non finanzierà solo nuovi progetti. Per ogni missione, è previsto che con queste nuove risorse si andranno a finanziare anche «progetti già in essere», per i quali già esiste la copertura finanziaria. Parliamo di 53,1 miliardi su 191,5. Quanti sono i «progetti già in essere» nelle regioni del sud? Quali di questi erano già finanziati con risorse del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione già spettanti al Mezzogiorno, in quanto «area sottoutilizzata»? Per non parlare del fatto che alcuni di questi elaborati, giacenti da anni in cassetti polverosi di regioni e ministeri, ormai non hanno nessuna aderenza con la realtà socio-economica dei territori cui afferiscono e rischiano di rivelarsi irrealizzabili.

La verità è che alla base del Pnrr c’è una filosofia ben precisa riguardo alla ripartenza del Paese dopo la pandemia, per quanto sbagliata: il differenziale di crescita con le economie più forti dell’Unione europea potrà essere colmato soltanto dando ossigeno e sciogliendo le briglie all’economia del nord.

Non è il momento di pensare (o ripensare) alla «questione meridionale». Quindi, da un lato soldi pubblici alle imprese e investimenti diretti in infrastrutture materiali e immateriali prevalentemente al nord, dall’altra riforme che «promuovano la concorrenza nel mercato dei servizi e dei prodotti» e «iniziative di modernizzazione del mercato del lavoro». Ora le chiamano «riforme di contesto».

Lo Stato che apparecchia la tavola alle imprese, investendo quasi tutte le fiches sulle virtù taumaturgiche del mercato, che, lasciato libero di operare, creerà le condizioni per il benessere di tutti. «Gli effetti della concorrenza sono idonei a favorire una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale», si legge nel Piano. Vecchio cavallo di battaglia dei liberisti. E a nulla vale la lezione della storia. L’importante è che l’equilibrio economico si realizzi sugli assi cartesiani. Coerenza liberista delle «riforme» e incoerenza degli interventi, insomma.

Un doppio problema: il sud abbandonato a se stesso e un modello di sviluppo neoliberista calibrato per il motore economico del Paese. Ma non ci guadagna né il sud né il nord. O meglio: non ci guadagnano i nuovi proletari italiani, da nord a sud. È un modello che accentua le disuguaglianze territoriali e non interviene sull’esplosione e sulla frantumazione delle disuguaglianze sociali prodotta dalla crisi e dal disfacimento del compromesso fordista.

Cosa servirebbe? Un’altra filosofia, un altro Piano. O, che sarebbe meglio, una nuova stagione di programmazione economica. Una strategia per coniugare crescita economica e riequilibrio territoriale, accumulazione del capitale e produttività da un lato e benessere diffuso e coesione sociale dall’altro. Si potrebbe fare, ma è una questione di rapporti di forza. Intanto, le piazze si riempiono solo per dire no al green pass.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2021

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Fra i fenomeni politico-culturali più sorprendenti e civilmente dannosi, che hanno imperversato in Italia negli ultimi dieci anni, un posto speciale merita il cosiddetto neoborbonismo. Vale a dire la credenza secondo cui il Sud prima dell’Unità, o meglio il Regno borbonico, fosse stato il migliore dei mondi possibili. Non solo, ma Il fantastico regno delle Due Sicilie – come Pino Ippolito Armino intitola il suo denso pamphlet, col sottotitolo Breve catalogo delle imposture neoborboniche (Laterza, pp.125, euro 14) – avrebbe subìto dal processo di unificazione nazionale, condotto dai Savoia, una sequela di massacri e danni irreversibili che ne avrebbero condizionato il futuro.

A DARE VITA alla leggenda è stato il giornalista Pino Aprile che con Terroni (2010), un libro da oltre mezzo milione di copie, ha ripreso antichi motivi recriminatori aggiungendo molti temi romanzeschi alla storia reale.

Quel successo merita di essere interpretato. È per un verso il sintomo di un malessere profondo del Sud, sempre più emarginato dalle politiche pubbliche, e al tempo stesso una rivalsa tardiva contro l’opera di criminalizzazione con cui la Lega di Bossi ha imposto all’immaginario degli italiani un Sud di delinquenti e spreconi.

LA RICOSTRUZIONE ROMANZATA e vittimistica di Aprile è apparsa come una riparazione attesa, un riscatto dell’onore ferito, ma ha creato una corrente ideologica, un nuovo modo di pensare, che ancorché storicamente infondato, ha favorito la nascita di un leghismo meridionale. Il distillato politico di questo risentimento antisabaudo e antisettentrionale fa oggi il paio con la richiesta di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord Italia. Una via davvero progressiva per il futuro del nostro Paese.

Va subito detto che il libro di Pino Ippolito non è un contropamphlet polemico rivolto al testo di Aprile e alla letteratura che ne è seguita, ma un agile saggio di storia che demolisce con puntiglio documentario uno per uno i luoghi comuni e le vere e proprie panzane che punteggiano la leggenda generale.

L’AUTORE INIZIA col ricordare il capostipite della rinata vulgata che è La conquista del Sud (1972) di Carlo Aiello, un romanzo scambiato per un testo di storia, e poi passa in rassegna le notizie più clamorose come l’affermazione di Aprile secondo l’unificazione sarebbe stato «un genocidio» con almeno 800mila morti. Davvero una incredibile enormità che Ippolito smonta con le cifre elencando il numero dei soldati borbonici morti in battaglia, i briganti uccisi, e parte di popolazione civile. Così fa anche per la leggenda nera costruita intorno alla prigione sabauda di Fenestrelle, posta a 1200 metri, che vuole migliaia di vittime, non registrate da nessuna parte.

IN REALTÀ I MORTI sono stati registrati e, ricorda Ippolito, «dal 1860 al 1865 si registrarono circa quaranta decessi fra i soldati ex borbonici e papalini». Ma qui siamo alle cifre. Ben altre sono le invenzioni di geopolitica relative alle trame che presiedettero, ad esempio, alla spedizione dei Mille.
Secondo uno di questi storici, Giulio Di Vita, l’impresa sarebbe stata finanziata con tre milioni di franchi francesi dalla massoneria inglese. Gli inglesi che finanziano in franchi è una ben strana storia che diventa esilarante quando Ippolito scopre che l’autore è un fantasma, sconosciuto anche ai colleghi che lo citano: «Non esistono studiosi con questo nome e nessuno è in grado di dire chi sia».

MOLTE ALTRE sono le menzogne ridicolizzate dall’autore, ma merito di Ippolito è di non lasciarsi trascinare in una controstoria, ricordando anche i misfatti reali compiuti dall’esercito piemontese, i danni subiti dall’economia meridionale a causa delle scelte dei primi governi unitari, ad esempio le improvvide leggi di unificazione doganale del 1860 e 1861, l’unificazione del debito pubblico che fu spalmato sulle spalle di tutti gli italiani.

L’autore si muove in una prospettiva storica e civile avanzata, non dimentica il valore dell’unità nazionale, una conquista fra le più importanti nella storia del nostro Paese, che i borboni non ebbero l’ambizione progressista di perseguire.

da “il Manifesto” del 13 luglio 2021

Contro la distrazione di massa.- di Guido Viale Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto

Contro la distrazione di massa.- di Guido Viale Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto

Greta Thunberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice sul mondo austriaco promosso da Arnold Schwarzenegger, che si è svolto il 1° luglio, con, tra gli altri, Angela Merkel, Antonio Guterres. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, Greta ha rimarcato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare l’opposto: la loro lotta per il clima serve a mascherare la continuazione di una politica fondata sui fossili, che altro non è che la ricerca di nuove occasioni di business.

L’accusa coglie in pieno anche il Pnrr italiano, il suo padre, il Recovery Fund della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a fissare l’attenzione intorno a misure inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il Pnrr, bensì con un “fondone” che Draghi ha aggiunto, a debito, ai fondi del Pnrr, anch’essi di fatto tutti a debito, per “non lasciare indietro nessuno”: in questo caso la lobby del cemento). D’altronde, il Senato italiano, anni fa, aveva votato che il cambiamento climatico non esiste.

Tra le parole contraddette dai fatti di cui parla Greta spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ma quella transizione implica un cambiamento radicale: l’abbandono del mito fasullo e letale della “crescita” (termine con cui oggi si indica l’accumulazione del capitale) e non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica dovrebbe essere, quindi, una grande campagna di informazione: sul perché di una svolta così radicale, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un grande confronto (non era certo tale la kermesse del secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” – associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura – sulle alternative che abbiamo di fronte sia a livello planetario che locale. Se si vogliono ottenere dei risultati non si può che procedere che così.

E se il governo non lo fa, di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra. Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà – un po’ per volta – il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto), ecc.

Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il Pnrr, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il Tav Torino-Lione, ricompreso nel Pnrr, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).

E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il Pnrr evita), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma dal basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri, per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord della Sicilia), per portare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra, in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di Co2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la Co2 fittiziamente sottrattale? O queste cose non dobbiamo chiedercele.

da “il Manifesto” del 10 luglio 2021

Destre revisioniste all’assalto della Calabria.-di Pino Ippolito Armino

Destre revisioniste all’assalto della Calabria.-di Pino Ippolito Armino

Se le destre, in una data che resta ancora da definire ma che sarà tra metà settembre e metà ottobre, vinceranno la prossima competizione elettorale per il governo della Regione la Calabria acquisterà un nuovo primato.

Sarà, infatti, la prima nella storia d’Italia ad essere guidata da una coppia (pessimo e ingiustificato l’uso dell’inglese ticket) di revisionisti farlocchi. Candidato alla presidenza della giunta regionale è Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio. Lo ricordiamo da deputato dell’Unione di Centro che, nel marzo del 2012, interrogava il ministro della cultura per chiedere, in appoggio al Comitato No Lombroso (tra i cui autorevoli membri, manco a dirlo, figura Pino Aprile), la restituzione del cranio del “brigante” duo-siciliano Giuseppe Villella per quel che esso rappresenta, scriveva allora Occhiuto, “ovvero un torto subito dai territori e dalla popolazione nei valori intellettuali, sociali, storici e culturali”.

Non era la prima interrogazione in tal senso. Ci avevano già pensato il deputato di Italia dei Valori Domenico Scilipoti (14 settembre 2010) e la senatrice ex missina Adriana Poli Bortone (16 marzo 2011). Due anni prima a Torino, a manifestare contro il Museo Lombroso che custodisce quei resti (poi risultati neppure appartenenti a un “brigante”), non c’era soltanto il fior fiore dell’intelligenza neoborbonica, c’erano pure Roberto Gremmo, autonomista e indipendentista piemontese, e Mario Borghezio, del quale non credo serva aggiungere qualificazione.

Berlusconi, Salvini e Meloni hanno dunque scelto per guidare la Calabria un uomo che ha le idee molto confuse sulla storia d’Italia nel periodo risorgimentale. Ma hanno fatto anche di più perché tanta ignoranza non venisse confinata in ambito ottocentesco. Il vice di Occhiuto sarà niente popò di meno che Nino Spirlì, attualmente facente funzione di presidente ma inizialmente chiamato da Jole Santelli alla vicepresidenza della Calabria con delega alla Cultura, ai beni e attività culturali, musei, teatri e biblioteche, etc. etc. La persona giusta.

Quella che serviva per aggiungere l’ignoranza che mancava, quella sul Secolo breve. Spirlì, devoto alle peggiori cause reazionarie, ha infatti recentemente dichiarato di condannare la guerra e le leggi razziali ma, ha aggiunto, “bisogna riconoscere che il Duce è stato soprattutto all’inizio fautore di una rivoluzione popolare. Ha creato le case popolari, le pensioni, l’assistenza all’infanzia, l’assistenza alle donne, le bonifiche, l’industrializzazione ..”. Il candidato alla vicepresidenza ha, dunque, ingoiato le più stolte panzane sul conto del fascismo.

Ignora che l’istituto delle Case Popolari è stato creato con legge n. 251 del 31 maggio 1903, che la Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai è nata nel 1898 con legge 17 luglio n. 350, che l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia è divenuta obbligatoria nel 1919, che l’industrializzazione dell’Italia prese corpo con l’avvento al potere della Sinistra storica nel 1876 e la progressiva messa in soffitta delle politiche ultraliberiste che avevano caratterizzato i primi anni di vita del Regno, che il periodo fascista è stato quello in cui maggiore si è fatta la divaricazione economica fra il Nord e il Sud dell’Italia. Quanta ignoranza per chi aspira a governare sia pure la regione più povera e più debole d’Italia!

da “il Manifesto” del 2 luglio 2021
immagine da: https://www.citynow.it/regionali-calabria-spirli-occhiuto-vittoria-elezioni-centrodestra/

Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

La ministra Gelmini in audizione il 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale ci informa che riparte il circo dell’autonomia differenziata, e che ha istituito a tal fine commissioni e gruppi di studio. Sarà riproposta con aggiustamenti la legge-quadro già messa in campo dal suo predecessore Boccia, si definiranno i livelli essenziali delle prestazioni e i fabbisogni standard in vista dell’attuazione del federalismo fiscale.

Il tutto con le opportune concertazioni per evitare dissensi e contrasti. L’accoglienza in Veneto è stata trionfale (Corriere del Veneto, 30 maggio, e Nuova Venezia, 31 maggio). Celebra la ripartenza anche Zaia sul Corriere della Sera di ieri, con accenti che potremmo persino definire in qualche punto minacciosi.

Abbiamo già ampiamente censurato la proposta Boccia di legge-quadro, oltre che più in generale il metodo seguito sul regionalismo differenziato. Non ci ripeteremo. Cogliamo invece una novità. Nell’audizione la sen. Ricciardi (M5S) chiede lumi sulla perequazione a livello comunale di cui all’art. 119 Cost. per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Nell’art. 119 uno dei cardini è che l’ente locale disponga di risorse sufficienti al finanziamento integrale delle funzioni.

Ma nel 2015 la perequazione a livello comunale viene arbitrariamente limitata al 45.8%, come riferisce Marco Esposito nei suoi libri Zero al Sud e Fake Sud. La senatrice – alcuni parlamentari meritoriamente studiano – chiede come e quando si arriverà al 100%. La stupefacente risposta è: probabilmente mai, a causa del necessario rispetto degli equilibri di bilancio.

E il finanziamento integrale di cui all’art. 119? Ci chiediamo se la ministra Gelmini abbia letto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dovrebbe essere voce primaria dell’indirizzo di governo. Sul punto parla di un processo in corso, senza porre tetti arbitrari all’attuazione. Conta, altresì, quel che dice per il federalismo fiscale a livello regionale. È “in corso di approfondimenti da parte del Tavolo tecnico istituito presso il Mef. Il processo sarà definito entro il primo quadrimestre dell’anno 2026”.

Ma allora di cosa parla la Gelmini? Come si può far ripartire il regionalismo differenziato, che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse, se il contesto di riferimento non sarà definito prima del 2026? E come – per ampliare il tema – inciderà la riforma fiscale, altro punto cruciale nel rapporto con la Ue? È ovvio che con essa potrà essere modificata la riferibilità ai territori dei proventi tributari, con ricadute a cascata sull’assegnazione delle risorse. Un momento meno opportuno per rilanciare il regionalismo differenziato non potrebbe davvero esserci.

La domanda è: qual è l’indirizzo di governo sul regionalismo differenziato e il suo rapporto con il Pnrr? Lo vogliamo segnalare a Letta, che nel suo libro Anima e cacciavite sottolinea il fallimento della tesi della locomotiva del Nord, cara agli economisti contigui ai circoli economici e finanziari: “non sto dicendo che la locomotiva deve essere depotenziata, rallentata, per ragioni di uguaglianza. Sto dicendo che la priorità è rendere forti prima di tutto i vagoni, altrimenti è tutto il treno che deraglia”. Sembra di leggere un testo Svimez – per l’occasione declassata dalla stampa veneta prima citata a “ufficio studi” – sul Sud come secondo motore del paese in una prospettiva euromediterranea, per il rilancio dell’Italia tutta. Ma il segretario ha un problema in casa, di nome Bonaccini.

Un consiglio a Letta, pur non richiesto. Non sprechi energie su temi di poco o nessun rendimento reale, come i regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, o la sfiducia costruttiva. Si concentri sull’essenziale: un buon sistema elettorale proporzionale, una solida legge sui partiti politici, e magari una clausola di supremazia statale, che copra anche il regionalismo differenziato, nel Titolo V della Costituzione.

Invece, investa sul Mezzogiorno. Là si vincerà o si perderà il confronto con la destra, presto o tardi che venga. Lanciare oggi un progetto forte e chiaro, impostato sul rilancio produttivo, sulla seconda locomotiva per il paese e sull’eguaglianza dei diritti potrà far uscire il Pd e il centrosinistra dalla stagnazione dei consensi in cui vivacchiano. Diversamente, la traversata nel deserto sarà lunga, e nessuno starà sereno.

da “il Manifesto” del 3 giugno 2021

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

C’è un vero e proprio progetto politico in linea con la storia del capitalismo. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro all’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII.

Nei libri di scuola, ed anche all’Università, viene raccontata come la semplice introduzione delle macchine (tra cui la famosa spoletta volante di John Kay) nel settore tessile che permise all’Inghilterra di diventare leader in questo settore a livello mondiale. Quello che raramente viene spiegato è che l’introduzione delle macchine arrivò più di un ventennio dopo la loro scoperta e che fu preceduta da profonde riforme legislative, nonché da una tolleranza rispetto a pratiche fraudolente che riguardavano gli articoli di esportazione (adulterazione delle stoffe).

In un voluminoso saggio dal titolo Prometeo liberato (Einaudi 1978), lo storico statunitense David Landes mostrò come fosse determinante l’abolizione di tutta una serie di regole che stabilivano quanto doveva essere larga la stoffa, i colori, il peso, il broccato, ecc. E’ dal tempo di Dante, e ancor prima, che le Corporazioni di arti e mestieri regolavano con estrema cura, quasi ossessiva, ogni tipo di produzione di beni, impedendo la concorrenza sul prezzo (era vietata) e dando ampie garanzie al cittadino (per esempio ogni artigiano doveva svolgere il proprio mestiere davanti alla finestra…).

L’innovazione di prodotto quanto di processo erano rare e difficili, dovendo combattere contro il potere delle Corporazioni. Solo cancellando una parte importante di queste regole il capitalismo, che era nato con le prime banche nel XIII secolo, poté dare vita a alla “rivoluzione industriale”.

Non diversamente oggi la digitalizzazione del tessuto sociale, la nascita delle smart city, e la ripresa degli investimenti su larga scala sarà possibile solo abbattendo quelli che già un governatore della Banca d’Italia definiva “lacci e lacciuoli”. Abbattere i vincoli burocratici e velocizzare la giustizia civile e penale rappresentano la conditio sine qua non del rilancio del modello di sviluppo capitalistico vincente su scala mondiale.

Questo comporterà certamente una crescita dell’economia, in particolare dell’economia criminale, della presenza delle imprese a capitale mafioso, come denuncia Libera e una parte dei sindacati, ma è difficile opporsi se non c’è un modello alternativo realizzabile. Mi spiego meglio con un esempio. Da quando la magistratura, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ha ingaggiato una lotta contro le mafie in tutto il Mezzogiorno, con relativa confisca di beni immobili e imprese, i capitali mafiosi sono fuggiti dal Sud e si sono trasferiti nel Nord Italia ed all’estero.

Nel settore edile è diventato difficile portare avanti un’opera per le interdittive della Prefettura a cantieri aperti. Magari dopo che la stessa impresa aveva ricevuto un certificato antimafia. A questo si aggiunga l’atavica gestione neoborbonica della Pubblica Amministrazione che nessuna riforma è riuscita finora a contrastare. In breve, il Mezzogiorno è caduto in una progressiva stagnazione negli ultimi vent’anni proprio a causa di tutti questi vincoli.

E quindi? Dobbiamo sperare che l’economia criminale prenda il sopravvento in nome dello sviluppo? Certamente no. Allo stesso tempo, la lentezza della giustizia civile, la farraginosità delle procedure burocratiche creano un malessere crescente nella stragrande maggioranza della popolazione. Non è facile uscire da questo dilemma, ma non si può smettere di cercare una soluzione alternativa, praticabile, che non può non passare da una reale partecipazione popolare ai processi decisionali, a partire dagli enti locali.

Ma, anche, da una lotta per spostare gli investimenti verso la cura del territorio, verso i servizi sociali, il recupero delle terre abbandonate, delle aree interne, verso una riduzione degli sprechi e dei consumi di suolo. Una vera rivoluzione ecologica non può non accompagnarsi con una forte spinta democratica da basso. Che si traduce in una maggiore resistenza alla penetrazione dell’economia criminale.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2021
Foto di MonikaP da Pixabay

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

La prima: una spietata guerra si sta svolgendo sulla pelle dei cittadini calabresi. Nel vero senso della parola, dal momento che il commissariamento del servizio sanitario (cioè di tutto ciò che muove soldi in Calabria insieme alle opere pubbliche) a tutto guarda tranne che alla salute dei calabresi.

NESSUNA IDEA sul potenziamento (o meglio sull’adeguamento, non pretendiamo la luna) dei servizi di emergenza urgenza e sull’efficientamento di quelli territoriali (ambulatori, medici di famiglia, laboratori, specialistica), nessun sussurro sul riassetto della rete ospedaliera, non diciamo nuovi ospedali o eccellenze assolute ma livelli qualitativi sufficienti dei reparti normali; nessuno, proprio nessuno, (solo il Presidente Spirlì, che non è poco, ma nel settore non può fare più di tanto) dice niente, non uno straccio di idea su come far rimanere in Calabria i soldi ed i malati che sono volontariamente e consapevolmente e dolosamente espulsi, mandati a curarsi in altre regioni per prestazioni che potrebbero essere rese in Calabria a costi ridotti e senza disagi per viaggi (ancora) della speranza. Una vergogna che costa ai calabresi 320 milioni all’anno.

È LA QUESTIONE – gravissima – del ceto politico e dirigenziale della Regione, perché non è vero che in Calabria ci sono medici inadeguati in un sistema di livello; al contrario c’è una organizzazione amministrativa e politica inadeguata (nel migliore dei casi, o criminale, nel resto) che mortifica medici bravi ed ottime strutture.

Ed il commissariamento non risolve alcun problema semplicemente perché il rientro dal debito (cioè il deficit che ha prodotto e produce un servizio sanitario siffatto) non è un problema ma è solo una parte di esso e la sua soluzione (cioè l’atto – l’acta – cui è preposto il Commissario) non può essere raggiunta se non si mette mano anche – e contestualmente – a tutti gli altri settori di cui ho detto prima.

In questo sfacelo istituzionale al Commissario sono stati assegnati invece tutti i compiti che spetterebbero al Consiglio regionale, i cui componenti sono evidentemente ritenuti così poco affidabili ed incompetenti da indurre il Governo ad espropriarne le funzioni che assegna loro quel libretto che si chiama Costituzione.

E qui comincia la seconda storia. La rinascita di un popolo, quello calabrese, paradigma di un Paese in ginocchio, passa solo attraverso la riqualificazione della propria classe dirigente che ha perso ogni contatto con i cittadini ed i loro problemi quotidiani.
Alcuni occupanti le Istituzioni sono finanche seri, onesti e preparati, ma è il sistema che non funziona ed ha raggiunto ormai un livello di decozione politico-morale da renderlo scollato dalla realtà.
Da cosa dipende?

APRIAMO GLI OCCHI. Dalla legge elettorale che ha scientemente spezzato, reciso ogni legame tra elettori ed eletti, creando il sistema dei nominati e consolidato un ceto politico autoreferenziale che risponde dei suoi atti e delle sue scelte non ai cittadini ma ai sedicenti capipartito del momento. La Corte Costituzionale con sentenza 1/2014 ha già dichiarato incostituzionale una prima legge elettorale (il Porcellum) invitando il Parlamento a farne un’altra che tenesse conto della necessità di rispettare la connessione tra l’espressione di voto ed il sistema di elezione (in poche parole, preferenze e rappresentanza proporzionale, senza abnormi premi di maggioranza).

Allora il Parlamento dei nominati ne ha fatta un’altra, peggiore, l’Italicum. E qui la Consulta interviene con una nuova dichiarazione di incostituzionalità (sent. 35/2017). Ma siccome il sistema è questo, gli occupanti abusivi del Parlamento hanno spudoratamente prodotto l’ennesima legge elettorale che premia e consolida lo sconcio delle nomine. Il Rosatellum.

INSOMMA, per chiudere, il vecchio sistema proporzionale puro con le preferenze assicurava un contesto istituzionale stabile e controllabile dagli elettori (ed infatti ha condotto l’Italia alla crescita del dopoguerra, alla stagione delle grandi riforme ed alla sconfitta del terrorismo).

Questo attuale papocchio, ci porta – per tornare da dove sono partito – a tollerare, senza un plissé, che un organo istituzionale come un Consiglio regionale sia ridotto al silenzio ed alla inutilità da dieci anni, e alla sua sostituzione con Commissari provenienti ora dalla Guardia di Finanza, ora dall’Arma dei Carabinieri, e attualmente dalla Polizia di Stato i quali, giustamente e conformemente alle loro professionalità, fanno indagini per scovare il malaffare. E lo trovano. Il che, ovviamente, non vuol dire governare il sistema sanitario.

Verrebbe da domandare: le elezioni sono una farsa, le Istituzioni mortificate, serpeggia un certo razzismo, si affermano gli uomini soli al comando, precisamente di quale secolo parliamo? Scherzi a parte: occorre adesso una resistenza organizzata che respinga questo pericolosissimo attacco alla democrazia.

da “il Manifesto” del 23 maggio 2021
Foto di David Mark da Pixabay

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Il generale Cotticelli. Non finisce mai di sorprendere. Ora, dopo aver passato le visite mediche per scoprire (sul “Fatto” di ieri) se lui era lui, ed aver indagato per bene ha concluso che non è stato fatto fuori per il fatto di essere il Commissario al piano di rientro della sanità a sua insaputa. No. Lo ha cacciato la massoneria, quella “deviata” che lui ha combattuto tutta la vita e che si sarebbe, per ciò, vendicata.

E comunque, tanto per chiarire il suo sedicente pensiero, in Calabria tutto ti lasciano fare fino a quando non tocchi i privati.
Ecco. Non sappiamo cosa volesse dire un uomo delle Istituzioni con queste mezze frasi o allusioni ma possiamo intuire che volesse dire: se non dai fastidio agli imbroglioni ed ai criminali che si annidano nella sanità privata, non dai fastidio a nessuno.
Detta così, ci sta bene perché sappiamo, come tutti gli italiani, che nella sanità privata si muovono tanti soldi, e talvolta in maniera illegale, criminale.

E dunque fa bene il Governo a mandare gente che indaghi e colpisca duro.
Ma perché mettere un poliziotto, un generale dell’arma o della GDF a governare il servizio sanitario? Perché deve scovare i criminali, ovvio.
Ma questo lo fanno le Questure e le Procure, non deve farlo il Commissario alla Sanità o la politica.

Se si manda un Commissario poliziotto che, per mandato ricevuto e per sua attitudine professionale deve solo indagare e dunque blocca tutto, ma proprio tutto, servizi, pagamenti, accreditamenti, nomine ecc. ecc. non si governa il servizio, lo si affossa e si aumenta il ricorso a pratiche illecite. Il perché è evidente: se ad esempio si sono scoperti doppi o tripli esborsi per le stesse fatture, liquidate ad imbroglioni con la connivenza di funzionari infedeli, si devono bloccare quelli e solo quelli. Non tutti.

Se non si pagano gli imprenditori per bene, nei cui confronti non v’è neanche un’ombra, se non si eseguono le sentenze della magistratura, ingolfando di pignoramenti gli uffici esecuzioni di tutti i Tribunali, si conducono gli imprenditori per bene alla morosità nei confronti dei fornitori, agli inadempimenti nei confronti dei dipendenti, poi all’usura e poi al fallimento.

Come dobbiamo dirlo, come dobbiamo gridarlo, basta con la Regione commissariata. Mandate pure l’esercito, i caschi blu, mandate chi volete, anche se noi pensiamo che in Calabria vi sono eccome, forze dell’ordine, investigatori e magistrati di prim’ordine ed in grado di fare ciò che deve essere fatto come e meglio di un Commissario sprofondato nella Cittadella regionale che non è stato in grado (non l’attuale, nessuno) di recuperare un solo centesimo del debito che era chiamato a ridurre.

Mandate Mandrake, ma lasciate che la Calabria abbia la possibilità di essere gestita – anche in sanità – secondo le regole della Costituzione, e cioè dagli eletti del popolo.
Non è sano dire che siccome il servizio sanitario funge da greppia per corrotti e corruttori, occorre bonificarlo con un commissariamento illimitato con una antidemocratica abolizione del normale servizio in nome di una emergenza criminale. Anche in Polizia, in Magistratura o in Politica, vi sono corrotti e corruttori: abbiamo abolito la Polizia, o la Giustizia, abbiamo chiuso il Parlamento?

Basta con la demagogia, restituiamo i poteri a chi li deve avere in virtù di quel libretto chiamato Costituzione e pretendiamo che i ladri vengano arrestati dalle guardie. Subito.
Questa sarebbe la vera bonifica.

da “il Quotidiano del Sud” del 19 maggio 2021

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

Sappiamo da sempre che il voto amministrativo nelle grandi città ha un rilievo politico. Così sarà anche questa volta, e forse persino in misura del tutto particolare. Lo apprendiamo da Letta, che nella direzione Pd di venerdì scorso ha delineato un cambio di strategia nazionale che trova diretta origine in quel che accade sul fronte locale.

Nell’assemblea della sua investitura aveva sostanzialmente annunciato la stagione di un nuovo Ulivo, con alleanze strategiche pre-elettorali supportate da un sistema elettorale maggioritario. Era un disegno ambizioso di ritorno al bipolarismo. Si è infranto, al momento, sulla difficoltà di allearsi nel voto amministrativo. Se si va in battaglia frontale oggi, è davvero difficile pensare domani in vista del voto politico a una alleanza strategica e strutturata. Si ritorna allora a un modello multipolare, in cui con un sistema elettorale proporzionale ognuno corre per sé. Le alleanze per il governo si costruiscono dopo il voto, in parlamento.

Letta aveva sottovalutato le convulsioni che attanagliano M5S, in parte originate proprio nella politica regionale e locale. Accade anche a Napoli. Colpisce, però, che nessuno parli di questioni di merito, di progetto, di futuro della città. Invece, è colluttazione permanente su alleanze e persone. Sappiamo di Catello Maresca, candidato tuttora non-candidato che però è già di fatto in campagna elettorale, e ha dato luogo a perplessità per la funzione ricoperta. Sappiamo dei tormenti di Fico che M5S – ma non tutto – vorrebbe candidato. Sappiamo di Manfredi, della sua attesa per alcune telefonate cruciali, e di condizioni da lui poste. Sappiamo che Amendola è in ribasso.

Sappiamo delle 24 liste che il segretario Pd Sarracino mette intorno a un tavolo, e speriamo che almeno lo faccia da remoto. Sappiamo di Bassolino, candidato e da tempo in campo. Sappiamo di una fine che potremmo definire ingloriosa della sindacatura de Magistris, e della debole candidatura della Clemente. Sappiamo di un consiglio comunale ormai moribondo, che non ha nemmeno la forza di esalare l’ultimo respiro. E potremmo continuare.

Al di fuori delle candidature, l’attenzione della politica sembra concentrarsi sui vaccini, sui ricoverati, sui defunti, da un lato, e sulle riaperture più o meno progressive e auspicate dall’altro. Eppure, qui e ora ci giochiamo una parte importante del futuro. Consegnato a Bruxelles il testo definitivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), avremmo ritenuto indispensabile e urgente che i soggetti politici e le assemblee elettive avviassero un approfondimento dei contenuti e delle conseguenti iniziative.

Per quel che sappiamo, almeno per il momento non accade. Eppure, da discutere c’è, e molto. Per una parte, il Piano dipenderà da come verrà concretamente attuato, e su questo si potrà cercare di incidere. In qualche caso già le cifre sono significative. Ad esempio, se si guarda agli stanziamenti per l’Alta velocità sbandierati come cruciali per il Mezzogiorno, si nota che la gran parte delle risorse nei primi anni è destinata al Nord. Per il Sud – sull’asse Salerno-Reggio Calabria – vanno fondi in prevalenza dopo la chiusura del 2026.

Questo significa che i fondi al Nord sono garantiti dalle strette condizionalità poste dall’Europa. Quelli al Sud rimangono affidati alla volatilità della politica nazionale del dopo Piano. Tutto dipenderà da quale paese avremo nel 2026. Quale destino si prefigura per Napoli? La risposta non è certo un carcere a Bagnoli. Né basta colluttare sul debito pregresso. Ad esempio, cosa fare di Napoli Est? Su queste pagine il presidente dell’Unione industriali vede l’area come centrale nella transizione energetica, in cui la Campania ha un ruolo primario per eolico, idrogeno e mare.

È una prospettiva non banale. Cosa ne pensa la politica? E cosa pensa di quel che il Piano dice sui porti e retroporti nel Mezzogiorno? Basta a configurare un sistema Sud proiettato come piattaforma logistica nel Mediterraneo per tutto il paese? In caso contrario, si può recuperare tale vocazione? E come?

Il rilancio del Mezzogiorno come sistema produttivo alla pari con il resto del paese è un obiettivo da non perdere mai di vista. Il Sud non può vivere solo di turismo e cultura. E ancor meno sopravvivere solo con il reddito di cittadinanza. Vediamo in campo molte meritorie iniziative di approfondimento da parte di associazioni, studiosi, esperti. Ma non bastano. Sono indispensabili le voci della politica e delle istituzioni. Sempre che abbiano voglia di ritrovare il ruolo che ogni giorno di più sembrano dimenticare.

da “la Repubblica Napoli” 16 maggio 2021
Foto di pixel1 da Pixabay

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Nella relazione sull’attività della corte costituzionale svolta dal presidente Coraggio viene segnalato ancora una volta il pesante contenzioso tra stato e regioni, e si richiama in particolare la pandemia, per quello che lo stato avrebbe potuto e dovuto fare, e non ha fatto. Citando la recente sentenza 37/2021, Coraggio ricorda che la competenza esclusiva della stato in materia di profilassi internazionale «avrebbe dovuto garantire quella unitarietà di azione e di disciplina che la dimensione nazionale delle emergenze imponeva e tuttora impone». Un obiettivo – si deve intendere – fallito.

Non si può che essere d’accordo, come abbiamo più volte scritto su queste pagine. Ma qui le considerazioni da fare sono almeno tre. La prima, che possono aversi emergenze a dimensione nazionale non riferibili alla profilassi internazionale, come ad esempio un terremoto di gravissima entità; la seconda, che esistono questioni che hanno una dimensione nazionale non qualificabili come emergenze in senso stretto, come il divario Nord-Sud; la terza, che la dimensione nazionale trova nel titolo V della Costituzione un proprio autonomo strumento attuativo solo in misura parziale.

Nel Titolo V la dimensione nazionale non è fortemente presidiata, e in specie non è assistita da una posizione di supremazia. Un implicito riconoscimento si può trovare nell’art. 120 della Costituzione, che assegna allo stato un potere sostitutivo nei confronti di regioni ed enti locali per la tutela di una dimensione nazionale. Un siffatto potere non può non presupporre una supremazia. Ma può essere esercitato solo ex post, per correggere una violazione già avvenuta. Non a caso, la stessa Corte ha ampiamente elaborato il principio di leale collaborazione, che il presidente Coraggio richiama. Il punto è che esso trova il suo ultimo e fisiologico esito nell’intesa, e concettualmente nega qualsiasi supremazia nel rapporto cui si applica.

Ne vengono due possibili alternative. La prima: si introduce una clausola di supremazia esplicita nell’art. 117 della Costituzione, in specie applicabile anche all’art. 116, comma 3, sull’autonomia differenziata (come ho suggerito in una audizione parlamentare sui disegni di legge in discussione). Il secondo: la corte muta parzialmente rotta nella lettura del rapporto stato-regioni, assumendo che un principio di supremazia sia in ogni caso desumibile dal sistema costituzionale nel suo complesso, a partire dall’unità e indivisibilità della Repubblica e dalla tendenziale necessaria uguaglianza nei diritti fondamentali.

E nemmeno basterebbe. Infatti, un potere viene esercitato solo se il titolare così decide. Diversamente, rimane sulla carta. È esattamente quello che è accaduto per l’art. 120 nel caso della pandemia. Alla fine, tutto dipende dal decisore politico, e dalla volontà normativa che esso esprime. La corte, che lascia molto spazio alla discrezionalità legislativa, se ne è resa ben conto quando ha messo in campo la «incostituzionalità prospettata», richiamata dal presidente Coraggio, in specie per il caso Cappato e la diffamazione a mezzo stampa.

Ma allora come poter essere certi, quando sono in gioco i diritti di minoranze, che i giudici siano «garanti di una democrazia veramente inclusiva» come il presidente sottolinea? Anche qui due strade. La prima: la Corte riduce la discrezionalità riconosciuta al legislatore, definendo più ampiamente e in dettaglio il nucleo incomprimibile dei diritti. La seconda: si garantisce con la legge elettorale un parlamento ampiamente rappresentativo scelto da elettrici ed elettori, e senza distorsioni di tipo maggioritario in chiave di supposta governabilità. E sarà quella la sede primaria della «democrazia inclusiva».

Nel sistema istituzionale tutto si tiene. Nel confronto in atto i segnali non sono buoni, e non basta certo una relazione del presidente della corte a riportarlo sui binari giusti. La battaglia è – e rimane – politica.

da “il Manifesto” del 15 maggio 2021

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Nel libro XII dell’Odissea, Circe mette in guardia Ulisse sui pericoli che dovrà affrontare nell’attraversare lo Stretto, non solo dalle sirene, ma anche dai due mostri Scilla e Cariddi.

“… E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né autunno, né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire… A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca… Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando… L’altro Scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini l’uno all’altro. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!“.

Per molto tempo il tratto di mare fra Scilla e Cariddi è stato teatro di eventi magici, funesti e misteriosi, ma il mito ha raccontato e spiegato agli uomini antichi i furori, le grandezze e le tragedie della natura.

Il racconto mitico, trasformandosi, è durato per secoli, come testimoniano le leggende nate sulle due sponde, siciliane e calabresi, secondo le quali l’unico uomo in grado di attraversare senza subire danni e di scendere nelle profondità dello Stretto era stato Colapesce o Nicolau o Pescecola. Un’altra persistenza mitica delle sirene omeriche è la leggenda, forse di epoca normanna, della fata Morgana che, secondo la tradizione popolare ancora viva a tutt’oggi, viveva in un castello nelle profondità del mare e traeva in inganno i naviganti con un miraggio facendoli naufragare.

Il ponte che, di nuovo, si vuole costruire decreterebbe la fine del mito perché unirebbe ciò che gli dèi, in questo caso Poseidone, avevano diviso, distinto, separato per sempre. Contravvenire al volere divino oltre che un sacrilegio, sarebbe stato considerato, nell’antichità, un atto di hýbris, di superbia dell’uomo che non vuole piegarsi all’inconoscibile e smisurata potenza degli dèi e della natura.

La ragione e la tecnica ci hanno allontanati dal mito e resi capaci di vincere la natura, ma in questo caso, oltre alle fondate perplessità tecniche sulla fattibilità, sulla tenuta e sulla durata di una simile opera umana in un’area sismica per antonomasia (come ha da poco scritto Tonino Perna su questo giornale https://ilmanifesto.it/il-famigerato-ponte-della-retrocessione-ecologica/), è necessario dire anche quanto sia, banalmente, brutto e vecchio questo ponte.

Deturpare irreversibilmente lo scenario di un mito del quale si sono nutrite generazioni di calabresi, siciliani ed europei avrebbe dovuto consigliare, perlomeno, la progettazione e la costruzione di un manufatto che imprimesse, in quei luoghi, un segno architettonico di mirabile bellezza.

È così difficile capire che per la costruzione di un ponte così poco utile e di così vecchio e disarmonico disegno sarà necessario sfigurare orribilmente il paesaggio dell’estremo lembo della penisola con le ciclopiche opere di fondazioni necessarie per la stabilità strutturale di un tale mostro di cemento e acciaio?

Se si aggiungono le vaste servitù territoriali come le rampe per l’accesso ed il deflusso, su entrambe le sponde, del traffico su ruote e su rotaie – alcune delle quali insisterebbero, peraltro, su aree archeologiche- si capisce facilmente quanto sia devastante costruirlo.

Questa ulteriore cementificazione del territorio non farebbe che accelerare l’eclissi dei paesaggi in regioni, come la Calabria e la Sicilia, già sfigurate dall’insensato e vorace consumo del suolo e dall’abusivismo. I meridionali vivono già nella bruttezza, non ci fanno più caso, vivono in un paesaggio nel quale la natura è stata brutalmente violentata, cancellata e sostituita con colate di asfalto, di cemento armato e di case non-finite.

L’abitudine alla bruttezza genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche ed etiche, producendo un’immoralità diffusa che genera ‘ndrangheta e mafia.

Se si vuole investire in opere pubbliche in Italia e, specialmente, nel Mezzogiorno, si faccia quel che fece F.D. Roosevelt che, nel momento di maggiore crisi economica, diede mano ad un’enorme e capillare restauro del paesaggio degli Stati Uniti impiegando tre milioni di giovani dal 1933 al 1942.

Il governo, se fosse davvero interessato alla rinascita del Sud, dovrebbe destinare i circa 10 miliardi di euro che costerebbe questo obsoleto ponte, ad un poderoso e capillare progetto strutturale di “Restauro dei paesaggi storici e naturali” che provi, con l’aggiunta di altri 10 miliardi del Pnrr, a restituire integrità, sicurezza idrogeologica, senso ed armonia ai paesaggi rurali ed urbani del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 12 maggio 2021

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Ancora una volta, per l’ennesima volta, si ritorna a parlare del Ponte sullo Stretto di Messina, dopo l’approvazione di un progetto, uscito dal cilindro della commissione istituita ad hoc dal governo Conte-bis. Si tratta di un’ossessione, di un accanimento terapeutico, nei confronti di un territorio fragile che nel corso del tempo, dalla Magna Grecia ad oggi, ha dovuto subire più di venti terremoti devastanti, fenomeni di bradisismo (così si è inabissato a metà del XVI secolo il porto naturale di Reggio), smottamenti e frane delle colline di sabbia che si affacciano su uno degli spettacoli naturali più affascinanti del pianeta.

Dalla Lega a Forza Italia, da Fratelli d’Italia al Pd (soprattutto i deputati calabresi e siciliani) tutti uniti a chiedere che si proceda con il progetto esecutivo e poi si appalti questa “grande” opera.

Sulla stampa locale si leggono dichiarazioni fantasmagoriche: «la più grande attrazione del mondo»…«milioni di turisti …», «180mila nuovi posti di lavoro…». Persino il presidente della Svimez, stimato e rispettabile economista mainstream, si è innamorato di questa idea, senza tenere conto di studi indipendenti sulla fattibilità.

Basti solo pensare al distacco di un centimetro ogni cinque anni delle due sponde(rilevato dai satelliti), oltre alla grande faglia tettonica che attraversa lo Stretto e potrebbe risvegliarsi (gli scongiuri non bastano! ). Ma, quello che più preoccupa, è l’aver messo da parte, ignorato, cancellato, qualunque discorso sull’impatto ambientale, mentre tutti straparlano di “transizione ecologica”.

Chi è in buona fede non conosce il territorio, non sa che la ferrovia a Messina per essere collegata al Ponte dovrebbe attraversare la città per venti chilometri e essere portata a novanta metri di altezza. Ugualmente sulla costa calabrese bisognerebbe partire da Gioia Tauro per rifare un tratto ferroviario nuovo, bucando montagne e colline della costa viola, tra Bagnara e Cannitello, passando da Scilla, un luogo incantevole già penalizzato da colate di cemento.

C’è in tutto questo anche la responsabilità della grande stampa che da decenni mostra un fotomontaggio del Ponte come una protesi che unisce le due sponde, neanche fosse una frattura scomposta che va operata. Non fa vedere gli ottovolanti, le enormi rampe di cemento armato, lo sconquasso del territorio per arrivare al Ponte. Vista dal Nord, questa immagine leggera e armoniosa, come si fa ad essere contro?

Se ci fosse un ministro dell’Ambiente si sarebbe strappato le vesti di fronte a questa folle corsa a buttare risorse pubbliche, come è già avvenuto in questi decenni dove la Società per il Ponte sullo Stretto è stata lautamente finanziata per un opera tecnicamente improbabile, se non impossibile, e disastrosa sul piano ambientale.

Lo stesso ipotetico ministro per l’Ambiente avrebbe avuto qualcosa da dire anche per l’Alta Velocità ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria, mentre tutte le tratte interne, in tutto il Mezzogiorno, sono senza collegamenti o addirittura vanno a gasolio: il 100% in Sardegna, il 77% in Molise, il 43 per cento in Calabria, il 42% in Sicilia, il 40% in Basilicata, ecc.

Ed anche nel resto del nostro paese dalla Valle d’Aosta al Veneto, dalla Toscana al Friuli Venezia Giulia, pur se con minori percentuali. Insomma, se ci fosse un governo che prendesse sul serio la “transizione ecologica”, sui trasporti ci sarebbe un gran bel lavoro da fare, sia sul piano ambientale (nei prossimi anni i treni che usano l’idrogeno saranno una realtà e non eccezione), sia su quello sociale, unendo territori oggi abbandonati, favorendo le economie locali, le relazioni umane e la vivibilità di una parte importante del nostro paese oggi emarginata.

Aspettando che arrivi un vero ministro per l’Ambiente, diciamo chiaro e forte: NO Ponte.
Questa classe politica è vecchia, priva di fantasia, incapace a prendere coscienza della gravità del disastro ambientale che questo capitalismo di rapina ci ha regalato.

da “il Manifesto” del 4 maggio 2021