Categoria: Dalla Stampa

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

Bene ha fatto questo giornale a mettere in discussione la classifica del Sole 24 ore, non per uno spirito campanilistico, ma perché ogni trasformazione della qualità in quantità va osservata criticamente. Le classifiche che riguardano fenomeni qualitativi vanno sempre prese con le pinze, mai come verità scientifiche. Nel caso della qualità della vita diventa ancora più difficile trovare una valutazione oggettiva, dei pesi giusti tra i diversi indicatori, e stabilire quali indicatori siano attendibili e quali no.

Ci sono dei dati incontrovertibili come gli insoluti bancari, la percentuale dl pensionati sulla popolazione e il livello della pensione media, il tasso di fertilità e mortalità, il numero di rapine e furti, di incidenti stradali, di consumi pro-capite, ecc. Altri dati pur essendo importanti sono problematici.

Ad esempio, il reddito pro-capite. Mi viene in mente il caso della Guinea Equatoriale che in base al reddito pro-capite è tra i Paesi più ricchi dell’Africa sub-sahariana, ma se si guarda la distribuzione del reddito, usando l’indice di Gini, allora si scopre che è anche il paese africano con il massimo di diseguaglianza sociale, con la famiglia reale che concentra nelle sue mani maestose quasi il 90 per cento del reddito nazionale.

Così se si guardano i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord Italia ed Europa, si ha un dato che non risponde alla realtà perché molti giovani lasciano la residenza nella terra natìa anche se da diversi anni vivono nel Centro-Nord Italia.

Ancora più difficile è la valutazione della qualità della vita che è strettamente legata alla percezione dei cittadini, ed è il frutto di diversi fattori che entrano in gioco. E un po’ come la felicità. Mi fanno sorridere le classifiche sulla “felicità nei diversi Paesi del mondo” che sono basati su risposte campionarie sulla percezione della felicità. Niente di più etereo.

Certo, siamo tutti gli italiani molto più felici dei palestinesi o sudanesi o congolesi che sono tragicamente travolti dalle guerre in corso. Né d’altra parte la felicità è legata alla crescita economica o al livello del Pil: sono più felici gli statunitensi o i messicani? Secondo queste classifiche internazionali sono i messicani che, malgrado livelli notevoli di povertà ed emarginazione, sanno godersi di più le poche cose materiali che gli offre la vita. Sarà!?

Tornando alla vivibilità delle province italiane la controclassifica che è stata pubblicata su questo quotidiano alla vigilia di Natale mette nelle prime dieci province tutte città del Centro-Nord di piccola-media dimensione. Devo dire che questa è la percezione che abbiamo avuto, chi scrive con Pino Ippolito, nel nostro “Viaggio in Italia”.

E’ un fatto che la qualità della vita nelle grandi città, che troviamo agli ultimi posti della controclassifica, è oggi entrata in crisi: affitti insostenibili, overturismo, microcriminalità, inquinamento, anomia (già denunciata da Emile Durkheim alla fine dell’XIX secolo), ecc. Eppure molti giovani meridionali quando devono scegliere una università preferiscono quelle delle grandi città anche se il costo della vita è più alto, i disagi maggiori, ma ci sono molte altre occasioni di svago e opportunità culturali e lavorative che compensano.

Viceversa, un anziano con una pensione minima o bassa vive meglio in un paesino dell’Aspromonte che in una periferia di una metropoli dove rimane confinato nella sua solitudine, privo di quelle relazioni amicali e parentali che ancora riscaldano le vene nei piccoli centri quando non vengono abbandonati.

Quindi quando parliamo di qualità della vita nelle città dovremmo costruire, su base campionaria, diverse classifiche in base al dato anagrafico, alla classe sociale, al livello culturale di una determinata popolazione. Sarebbe auspicabile un lavoro del genere anche se è probabilmente insufficiente a modificare il nostro immaginario. Infatti, è determinante la narrazione che ne fanno i media. In questo Milano è bravissima.

Continua a presentarsi al mondo come la città della moda, delle innovazioni tecnologiche, della finanza e della cultura. Tutto vero. Ma esiste anche una gran parte della popolazione che fa fatica a trovare un lavoro non precario, a guadagnare per consentire una vita dignitosa, che vive in anonime periferie con la paura del vicino di casa, dell’immigrato, delle bande giovanili. Su questa paura diffusa tra i ceti popolari l’attuale governo ha costruito la sua larga base elettorale riuscendo a costruire un immaginario che non ha niente a che fare con la realtà.

Pochi sanno che l’Italia, insieme alla Grecia, è il Paese con la più bassa percentuale di omicidi, che il Paese che accoglie più immigrati in percentuale della popolazione è la Germania, seguita da Francia, Grecia (sic!) ed altri Paesi del Nord Europa. Invece i mass media ci parlano di “invasione” e di un Europa che ci lascia soli di fronte a questo arrivo dei barbari. Pochi mass media raccontano la verità: la gran parte degli immigrati che arrivano in Italia transitano nei paesi del Centro-Nord Europa.

Lo stesso, fatti dovuti distinguo, vale per la Calabria. Mettendo il Sole 24 ore la Calabria agli ultimi posti della classifica nazionale sulla qualità della vita nelle province, non fa che confermare un immaginario, basato in parte sui dati di fatto e in parte su un pregiudizio. Per onestà intellettuale bisognerebbe parlare di “percezione della qualità della vita” e non di un dato scientifico, intervistando con un campione stratificato, per età, sesso e classe sociale, i cittadini delle diverse province italiane.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 dicembre 2024

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Finanziare il Ponte di Messina e togliere le risorse per completare i lavori sui nodi ferroviari di Reggio Calabria, Catania e Palermo. Soddisfare le velleità e gli interessi che fanno a capo al vicepremier leghista e ministro dei trasporti e non completare le opere la cui mancanza rende faticosa la vita di chi aspetta la velocizzazione della linea tra Catania e Siracusa o il «potenziamento» della linea Sibari-Catanzaro Lido-Lamezia Terme.

Non è un paradosso, è un progetto voluto dal governo Meloni e in particolare dal vicepremier leghista Matteo Salvini. Una volta di più è diventato chiaro quando è passato l’emendamento della Lega alla legge di bilancio che sarà votata venerdì dalla Camera e votata definitivamente dal Senato il 28 o il 29 dicembre. Lungamente annunciato e infine approvato l’altra notte nella commissione Bilancio della Camera, l’emendamento che porta la prima firma del capogruppo leghista Riccardo Molinari aumenterà le risorse per il Ponte sullo Stretto di 1,3 miliardi di euro prendendo le risorse dai Fondi per lo sviluppo e la coesione. Quest’ultimo è stato rifinanziato dalla manovra con 3,88 miliardi, ma quasi la metà di questi soldi sono stati destinati alla mega-opera dedicata al culto di Salvini e al festante codazzo degli interessi che rappresenta.

L’emendamento approvato cambierà sensibilmente la distribuzione dei costi: quelli a carico dello Stato scendono a 6.962 miliardi mentre balzano a 4.600 miliardi i costi sui fondi di coesione delle amministrazioni centrali. Resta il fatto che i fondi di coesione (1,6 miliardi) che avrebbero dovuto essere usati dalle regioni Calabria (1,3 miliardi) e Sicilia (300 milioni) per avere infrastrutture minimamente efficienti sono stati dirottati per costruire un’opera megalomane.

A chi ieri gli ha chiesto dell’aumento delle risorse in più per il Ponte l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini (il Consorzio che farà il Ponte) ha liquidato la faccenda sostenendo «Sono questioni tecniche legate a come il governo stanzia i soldi. Credo siano sistemazioni di ragioneria e non c’è nessuna modifica rispetto a quelli che erano i numeri precedenti, per quanto ne sappia. Chiedete al vicepresidente Salvini se il Ponte si farà. Noi siamo soldati, eseguiamo gli ordini».

Nello stesso emendamento leghista c’è un miliardo in più alla Tav Torino-Lione, più un altro a Ferrovie per le opere del Pnrr. «E neanche un centesimo per le due linee metropolitane di Torino» hanno commentato i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi dei Cinque Stelle.

Per Legambiente il progetto del Ponte sullo Stretto «continua a drenare ingentissime risorse pubbliche». In valori assoluti «i finanziamenti nazionali per il trasporto su ferro e su gomma sono diminuiti da circa 6,2 miliardi del 2009 a 5,2 miliardi nel 2024, ben al di sotto delle necessità e pari a un -36% se si considera l’inflazione degli ultimi 15 anni».

«Come mai per quello i soldi si trovano, mentre per pensioni, sanità, trasporto pubblico non si trovano e anzi i fondi sono stati tagliati? Si vergognino» ha detto Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra. «Il Fondo di sviluppo e coesione dovrebbe essere usato per le infrastrutture davvero urgenti per il Sud, ma viene usato come un bancomat qualunque – ha osservato Pietro Lorefice (M5S) – Ricordo che altre risorse erano state drenate dall’ex “superministro” Fitto per tappare i buchi da lui stesso aperti nel Pnrr, con un taglio di interventi che ha fatto male a paese».

Il Ponte di Messina «è un’opera perfettamente inutile, imposta per la vanagloria politica di Salvini – ha detto Pasquale Tridico (Cinque Stelle) – per mantenere equilibri fragili all’interno del governo Meloni, che considera il Mezzogiorno un mero serbatoio di voti».

Sul Ponte c’è stata una polemica a un question time alla Camera, tra il ministro Gilberto Pichetto Fratin e Bonelli (Avs). Il primo si è difeso dalle critiche di avere fatto «nomine politiche» nella commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale «che è indipendente». Per Bonelli ha «detto il falso» ed è «commissariato da Salvini. State utilizzando i fondi pubblici per foraggiare imprese che non hanno il progetto tecnico validato da nessun organismo dello Stato».

da “il Manifesto” del 17 dicembre 2024

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

La proposta di legge numero 1309 -votata il 21 novembre scorso alla Camera da Pd, Iv, Azione, +Europa e destra- è in discussione, in questi giorni, alla commissione ambiente del Senato e dovrebbe essere votata in aula nelle prossime settimane. Si tratterebbe di un’”interpretazione autentica” delle principali leggi urbanistiche e, sostanzialmente, estende il modo di costruire usato a Milano negli ultimi dieci anni a tutto il Paese.

È stata chiamata “Salva-Milano” ed è la risposta politica alle indagini giudiziarie sull’urbanistica milanese. Nata come un condono per sanare le irregolarità del passato, il “Decreto del Fare” n. 69/2013 del governo Letta, è stata ora trasformata in provvedimento “di interpretazione autentica” che, se approvato definitivamente, imporrà come legge -in tutta Italia e per sempre- la pratica urbanistica seguita a Milano, annullando, in sostanza, le disposizioni che impongono la pianificazione attuativa delle città, a garanzia dei servizi dovuti a tutti i cittadini.

Una pratica, quella milanese, che, del resto, è già stata messa in atto in tutta la Calabria e, in particolare, a Cosenza dove si stanno demolendo piccoli e medi caseggiati per ricostruirvi, al loro posto, enormi e altissimi palazzi in aree già densamente urbanizzate e, spesso, di pregio storico e architettonico.

Questa proposta di legge cambierà radicalmente in peggio il futuro delle nostre città, rendendole sempre più cementificate e più diseguali. Toglierà ai Consigli comunali il potere di controllare che i costruttori e i fondi immobiliari facciano l’interesse pubblico e cioè realizzino, insieme ai nuovi palazzi, anche i necessari servizi per la città: edilizia sociale, parcheggi, marciapiedi, giardini, piste ciclabili, parchi, scuole, biblioteche et cetera.

Grazie a questa proposta di legge -come scrivono i 140 studiosi che hanno firmato una lettera-appello per fermarla- lo spazio urbano sarà occupato da edifici senza un disegno unitario, senza un piano, senza una visione di città, se non quella dei costruttori, degli speculatori edilizi e dei fondi immobiliari. Verrà ampliata a dismisura la categoria della ristrutturazione edilizia, nella quale rientreranno, a maggior ragione, le ri-costruzioni senza alcun rapporto formale e volumetrico con quanto demolito.

In tal modo le demolizioni/ricostruzioni avranno, rispetto alle costruzioni ex novo, oneri concessori molto ridotti perché eseguite in aree già urbanizzate e, di conseguenza, l’enorme risparmio dei costruttori si tradurrà in una drastica riduzione delle entrate e, quindi, delle disponibilità finanziarie dei Comuni per la realizzazione della parte pubblica delle città.

Se dovesse passare questa legge, l’ormai desemantizzata “rigenerazione urbana” si potrà praticare liberamente senza un piano e con oneri ridotti nelle aree già infrastrutturate mentre tutti i cittadini sanno quanto verde, quanti parcheggi, quanta edilizia sociale e quanti servizi come acqua e raccolta dei rifiuti scarseggino, proprio lì dove la città già esiste, soprattutto al Sud ed in Calabria.
La densificazione urbanistica, del resto, fa inevitabilmente salire la domanda di servizi per la cittadinanza e molte città, in particolare quelle meridionali, non se lo possono materialmente permettere già ora.

Questa legge, insomma, impedirà definitivamente, soprattutto nel Mezzogiorno, di promuovere politiche di vera rigenerazione e riqualificazione delle nostre città e delle periferie, ridurrà il verde e i servizi, innescherà dinamiche finanziarie che aumenteranno i prezzi dell’abitare e accresceranno le disuguaglianze nelle nostre città.

Questo provvedimento imporrebbe in tutta Italia un modello neoliberista che vede il pubblico cedere la pianificazione urbana al privato in un momento nel quale le città hanno un estremo bisogno di una strategia pubblica di governo per far riacquistare ai cittadini un indispensabile diritto alla città.

Altro che fusioni di città, bisognerebbe iniziare a fare piani urbanistici davvero a ‘cemento zero’, senza alcuna ‘perequazione urbanistica’, senza nessuna demolizione/ricostruzione con variazione di forme e aumenti di volumetrie, ma con la, vera, ristrutturazione degli antichi edifici dei Centri storici e degli edifici moderni in rovina o fuori norma. Il Consiglio comunale di Cosenza, per esempio, potrebbe fermare l’approvazione del Psc adottato dalla precedente amministrazione e provare a modificarne l’impianto adeguandosi, alla lettera, alle prescrizioni europee del ‘consumo di suolo zero’ e, magari, potrebbe provare ad armonizzarlo con quello, già esistente, di Castrolibero e, soprattutto, con un nuovo Psc che il prossimo Consiglio comunale di Rende appronterà e approverà, da qui a qualche mese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

Per quasi un trentennio l’aeroporto dello Stretto ha vissuto una fase di progressivo abbandono, di riduzione di voli e passeggeri, di declino che sembrava inarrestabile. Ancora all’inizio di quest’anno erano rimasti due collegamenti, per Milano e Roma, ad orari spesso poco praticabili.

Insomma, un aeroporto sempre più marginale, che serviva ormai una strettissima utenza del Comune capoluogo, destinato a chiudere battenti per la sua insostenibilità economica. Improvvisamente, grazie all’accordo con Ryanair promosso dal presidente Occhiuto, l’aeroporto dello Stretto ha ritrovato la sua identità, la sua ragion d’essere iniziale.

Dopo trent’anni sono ritornati i messinesi, e non solo i cittadini del capoluogo, ma un’importante fetta della fascia tirrenica. E sono tornati anche gli abitanti dei Comuni della provincia reggina che ormai da molti anni avevano preso l’abitudine di andare a Lamezia. In breve: questo aeroporto non è stato per caso denominato “Aeroporto dello Stretto” perché il suo naturale bacino di utenza comprende una buona parte delle due città metropolitane, Reggio e Messina, con un potenziale di clienti tra gli ottocentomila e un milione di persone.

Già da questa estate, il collegamento dell’Aeroporto dello Stretto con diverse città italiane ed europee, ha fatto registrare un inedito flusso turistico che ha cambiato l’atmosfera sonnolenta della città dei Bronzi. Un boom turistico che non si era mai visto prima, con alberghi e B&B che sono rimasti stracolmi per tutti i mesi estivi.

Ma, anche per gli abitanti dello Stretto si è aperta la possibilità di raggiungere altre città italiane ed europee in poco tempo e a prezzi abbordabili, una occasione di crescita civile e culturale.

Certo, vanno superati alcuni punti critici che riguardano il collegamento con Messina e quello con i paesi della provincia reggina. Sul primo si è fatto qualche passo avanti ma si può ancora migliorare, mentre rimane fortemente critica la connessione con i Comuni della provincia reggina data la disastrosa situazione dei collegamenti con mezzi pubblici (treni e bus).

Sulla tratta ferroviaria della costa jonica è meglio non parlarne, ma anche i bus privati che debbono fare tante soste impiegano un tempo incredibile per collegare l’aeroporto dello Stretto alla Locride. I miliardi, che questo governo vuole sprecare per un’opera inutile e dannosa come il Ponte sullo Stretto, dovrebbero essere impiegati per risolvere gli atavici problemi del trasporto pubblico in Calabria e Sicilia.

Se governasse il Partito del Buon Senso da tempo si sarebbe agito in questa direzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 14 novembre 2024

BRICS. La rivoluzione monetaria e il nuovo ordine mondiale.-di Tonino Perna

BRICS. La rivoluzione monetaria e il nuovo ordine mondiale.-di Tonino Perna

Oggi a Kazan, sotto la presidenza russa, si riuniranno i massimi rappresentanti dei BRICS che con i nuovi ingressi (Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto, Arabia Saudita) rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale, il 36,6 per cento del Pil globale e il 60 per cento della produzione di idrocarburi. E siamo solo agli inizi perché altri Paesi (come la Turchia, l’Armenia, ecc.) bussano alle porte di questa nuova alleanza che sta ridisegnando l’economia e la geopolitica.

Mentre il G20 ha perso di rilevanza, di fatto si è rimpicciolito trasformandosi in G7 (ma qualcuno se n’è accorto?), rinunciando agli ambiziosi disegni di egemonia che si era dato, rinchiudendosi nei confini degli Stati Uniti e dei suoi satelliti, i BRICS avanzano sulla scena mondiale con un chiaro progetto per il futuro: liberarsi dalla “Signoria” del dollaro.

Infatti, il vertice che inizia oggi nella capitale della repubblica russa del Tatarstan non sarà un incontro rituale, uno scambio di buoni propositi, ma ha un obiettivo preciso: la creazione di una nuova moneta di scambio internazionale. “The Unit” è il nome della nuova valuta che i BRICS intendono introdurre, una unità di conto che regoli gli scambi tra questi Paesi ed è il frutto della media ponderata delle diverse divise nazionali.

E’ molto simile alla proposta che John Maynard Keynes nel 1944 fece nell’incontro storico di Bretton Woods: il “bancor” una moneta-unità di conto internazionale, il cui valore doveva essere il risultato di una media ponderata tra le monete più forti, nell’ambito di una visione di un mondo multipolare. E’ quello che oggi intendono fare i BRICS spinti dalla Russia che in questi anni di dure sanzioni ha cercato altri mercati e altre alleanze, a partire da quella con il colosso cinese. Ma, una nuova moneta di scambio che abbia un riconoscimento a livello internazionale non si improvvisa.

Negli ultimi dieci anni, tra i Paesi BRICS si sono moltiplicati gli scambi bilaterali – soprattutto tra Russia, India e Cina- con un picco nell’ultimo anno che ha interessato in maniera particolare l’interscambio Russia- Iran che è avvenuto al 60 per cento in rubli e rial. Allo stesso tempo è cresciuta la corsa all’oro come riserva delle banche centrali.

Per questo oggi, secondo alcuni analisti che seguono da vicino l’evolversi delle trattative per la creazione del “The Unit”, questa nuova moneta avrà il sostegno per il 40 per cento dall’oro e per il resto da un paniere di valute nazionali dei vari Paesi membri, creando così un percorso virtuoso che esclude l’egemonia di uno Stato su un altro.

E la corsa all’oro per sganciarsi dalla “Signoria” del dollaro sta interessando anche alcuni Paesi africani, come lo Zimbabwe, Nigeria e Uganda, le cui banche centrali stanno aumentando le riserve auree con l’obiettivo dichiarato di ridurre la dipendenza dal dollaro.
Se si concretizzerà la nascita di “The Unit” il 22 ottobre di quest’anno verrà ricordato come una svolta di portata storica paragonabile al 15 agosto del 1971 quando il presidente Nixon decise unilateralmente lo sganciamento del dollaro dall’oro, infrangendo gli accordi di Bretton Woods.

Per oltre cinquant’anni gli Usa hanno potuto godere di questo privilegio che gli ha permesso di avere un tenore di vita nettamente superiore alle loro possibilità, grazie ad un continuo indebitamento con il resto del mondo che ha superato quest’anno i 21.000 miliardi dollari.

Anche se ci vorrà più tempo per rendere vigente l’uso di questa nuova moneta/unità di conto, la strada è tracciata e la crisi del dollaro sarà irreversibile con conseguenze imprevedibili. Come sostiene la giornalista economica Saleha Mohsin (Paper Soldiers. How the Weaponization of the Dollar changed the World Order, Penguin, 2024) il dollaro è diventato progressivamente la vera arma di Washington per dominare il mondo.

Ma, i tempi sono cambiati e quest’arma ogni giorno che passa diventa sempre più arrugginita, malgrado il governo nordamericano continui a stampare dollari facendo arrivare il debito esterno, oltre che quello interno pari a tre volte e mezzo il Pil, ad un livello insostenibile. E l’Ue farebbe bene a prendere le distanze, a sganciarsi progressivamente dalle strategie belliche e finanziarie di Washington, se non vuole finire nel baratro trascinata dal crollo dell’impero nordamericano.

da “il Manifesto” del 22 ottobre 2024

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

La legge di bilancio comporterà nel triennio prossimo un taglio agli enti locali di 4 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi colpiranno i Comuni. Contemporaneamente nel prossimo triennio verranno meno i fondi del Pnrr, e si passerà alla fase di restituzione dei 90 miliardi prestati dalla Commissione europea all’Italia che vanno a sommarsi al già pesante debito pubblico.

Allo stesso tempo il quadro internazionale non promette niente di buono con una netta divisione del mercato mondiale in due blocchi sempre più in rotta di collisione. Insomma, è finito il tempo delle vacche grasse e sta per iniziare un lungo periodo di vacche magre. A farne le spese saranno innanzitutto i Comuni e chi li amministra che dovrà far fronte alle proteste dei cittadini che verranno penalizzati da questi tagli.

Il direttore Massimo Razzi in un suo recente editoriale aveva posto con chiarezza il nodo politico da affrontare domandandosi: chi vorrà fare il sindaco nel prossimo futuro? Anche il sottoscritto, scusate l’autocitazione, ha scritto un saggio “Le città ingovernabili” (Città del sole ed. 2016) partendo da alcuni casi concreti. Poi, la pandemia, che ha rilanciato il ruolo dei sindaci e messo in secondo piano il deficit comunale e le varie inefficienze, e successivamente il Pnrr che ha riempito il budget degli enti locali, hanno fatto dimenticare la crisi strutturale di molti enti locali soprattutto nel Mezzogiorno.

Si tratta, infatti, di una crisi strutturale che deriva da tre fattori. Il primo è legato ai debiti degli enti locali che sono cresciuti negli ultimi decenni in tutto il mondo (in Cina, per esempio, in maniera esponenziale). Il secondo ad una legge che impone il pareggio di bilancio in alcuni servizi (come la raccolta rifiuti) e costringe i Comuni in deficit a portare le imposte locali al massimo con gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie a reddito medio-basso.

Infine, la recessione economica che finora è stata occultata grazie a una pioggia di miliardi e che dal prossimo anno emergerà chiaramente mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Sinergicamente questi tre fattori portano a un risentimento popolare, una rabbia che spesso si scarica sul primo cittadino, anche su chi ci mette l’anima per la propria città.

Se questi elementi accumunano diversi Paesi occidentali, e non solo, lo specifico del caso italiano è che abbiamo un debito pubblico pari a oltre il 140 per cento del Pil che comporta un esborso di quasi 100 miliardi l’anno per pagare gli interessi. Una cifra enorme di cui beneficia la rendita finanziaria e non gli investimenti, di cui hanno goduto finora i rentiers e le banche, ma che sta diventando insostenibile.

Da qui la necessità di ridurre il nostro debito pubblico, che non è un capriccio dei burocrati di Bruxelles ma una necessità se vogliamo trovare le risorse necessarie a mantenere il nostro welfare. Purtroppo, tutte le forze politiche hanno finora criticato l’austerity come una mannaia impostaci dai falchi di Bruxelles, mentre la vera domanda è: “quale austerità” praticare, chi deve pagare la riduzione del debito pubblico?

Con questa manovra finanziaria per il 2025 si potevano colpire gli extraprofitti delle banche (che arriveranno quest’anno a circa 20 miliardi), mentre il governo ha scelto di colpire le Università, la scuola e la sanità. Alle banche ha chiesto solo un timido anticipo su tasse future da pagare, in modo da poter dire alla popolazione, ignara di partite di giro, che anche le banche sono state colpite come nel programma del governo e uno dei cavalli di battaglia della Premier. Purtroppo, anche l’opposizione si limita a criticare questa linea di politica economica senza però indicare con coraggio chi dovrebbe essere tassato e chi dovrebbe avere dallo Stato maggiori sussidi, salari e benefici.

Pochi sanno che nei Paesi della Ue la spesa pubblica rappresenta tra il 45 e il 50 per cento del Pil determinando pesantemente nelle fasi recessive una ripartizione tra salari e profitti nella distribuzione del Reddito nazionale. Qualcuno potrebbe anche pensare che una linea di demarcazione tra Destra e Sinistra dovrebbe passare da una netta scelta nelle voci di spesa e entrata dello Stato, dove si capisce quali ceti e classi sociali si vogliono privilegiare o colpire. E magari la cosiddetta Sinistra potrebbe ricordarsi che era nata e fondata sul principio della giustizia sociale, e non solo quando si sta all’opposizione.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 ottobre 2024
Foto di xiaoou dong da Pixabay

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Il mio amico e collega catanzarese Sergio Dragone (ma per tanti anni al lavoro a Cosenza nel Giornale di Calabria diretto da Piero Ardenti) non ha avuto dubbi: lui se potesse – ha scritto- voterebbe no. Io invece, potendo, voterò proprio NO a quel referendum che forse – come dicono in molti -non servirà a nulla, essendo già tutto deciso a tavolino con una procedura arruffona, senza senso e tutta piegata a logiche di potere.

Ma voglio proprio vedere se e come si andrà avanti egualmente se tra un mese e mezzo arriverà una valanga di NO da Cosenza, Rende e Castrolibero! Io intanto vi dico il mio NO in maniera molto semplice e poco intellettualistica se volete e poco politica: voterò NO perché non si cancellano identità, storia, radici, appartenenza in questo modo pasticciato, accelerato, senza un vero coinvolgimento dei cittadini e nemmeno delle istituzioni dei tre comuni.

Senza soprattutto un dibattito che vada a vedere quello che già c’è da decenni e che potrebbe, può, andare avanti e anzi rafforzarsi senza appunto distruggere secoli di storia. Se è vero che Cosenza Rende e Castrolibero sono infatti ormai un’unica cosa dal punto di vista urbanistico e logistico il lavoro da fare sarebbe magari quello di una definitiva unificazione dei servizi primari, un abbattimento dei costi di gestione e altre utility come oggi si chiamano.

Ma non vado avanti su questo terreno perché altri molto più competenti di me in materia di urbanistica lo stanno scrivendo da anni, per ultimo Battista Sangineto su questo giornale.https://www.osservatoriodelsud.it/2024/10/03/altro-fusione-meglio-tre-citta-piccole-misura-duomo-battista-sangineto/

Oltre c’è però il cuore, il senso profondo cioè di una comunità che non può e non deve essere cancellato e mischiato. Questo discorso vale ovviamente per tutte e tre le comunità ma per me cosentino nativo della Massa ancor di più forse. Cioè del cuore vecchio e antico della città, che mi sentirei storpiato in una ammucchiata improvvisa.

Non sono un urbanista nè un esperto di logistica (lo ripeto fino alla noia) e nemmeno uno dei tanti politici di professione che oggi sono per il sì e domani cambiano idea (o viceversa ma il risultato alla fine è lo stesso), ma il mio NO è solo di cuore, di sentimento e di amore.

Troppo poco? Troppo sentimentale? Troppo antico? Troppo antistorico? Sarà tutto questo forse ma una città e una comunità se non vivono anche di quelle cose di che cosa vivono? Che cosa saranno? Che ci saranno oltre i palazzi che già oggi uniscono Cosenza Rende e Castrolibero ? Che ci sarà dentro quei palazzi e dentro quelle case? Pensiamoci un attimo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 ottobre 2024

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Le città sono la rappresentazione materiale dei più importanti conflitti politici, sociali, culturali ed economici del nostro tempo e l’unificazione dell’area urbana di Cosenza è, in Calabria, quella più importante e gravida di significati e interessi politici, economici e sociali.

Da qualche decennio accade che sull’idea di città in troppi si esprimano in libertà tanto da far diventare luogo comune l’idea che la grandezza, la ‘Bigness’ delle città, e delle loro più o meno sterminate periferie-‘sprawl’, garantirebbe alla nostra società, in un mondo di città sempre più grandi e globalizzate, prosperità e benessere. Secondo questa ricetta neoliberista l’agglomerazione urbana farebbe della dimensione in quanto tale (attraverso le economie di scala e gli effetti di rete) un fattore che innescherebbe di per sé il successo delle grandi città.

La grandezza delle città avrebbe il vantaggio di trasformare la dimensione stessa in un motore di creatività attraverso la competitività di produttività, di successo e, dunque, di felicità. La ‘Bigness’ e l’urbanizzazione delle campagne circostanti alle città, invece, non è altro che uno dei tanti modi che il neoliberismo ha trovato per estrarre più ricchezza dalle città sempre più grandi trasformando lo spazio in merce e aumentando, per mano della speculazione edilizia, la diseguaglianza sociale ed economica (Settis 2017).

Per mettere le mani sulla città gli speculatori e la politica si affidano agli urbanisti e all’urbanistica che era nata, come disciplina autonoma, durante la rivoluzione industriale con la vocazione di correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. A partire dagli anni ’80 essa ha perduto, però, la sua originaria vocazione riformatrice per diventare, con le sue competenze giuridiche e tecniche, un potente strumento nelle mani dei governanti, amministratori pubblici, immobiliaristi e, persino, finanzieri, per manipolare e condizionare lo sviluppo delle città e il governo del territorio nella direzione della speculazione, dello sviluppo edilizio infinito e incontrollato (Scandurra 2024).

Un sviluppo incontrollato che, per esempio, a Cosenza si manifesta con le demolizioni/ricostruzioni nella porzione nobile della città otto-novecentesca in Via Rivocati, Corso Umberto, via Parisio, (come denunciato dal Coordinamento ‘Diritto alla città’), ma ora anche l’ecomostro di lusso alto più di 15 piani con ben 19.000 mq. di estensione che vorrebbero costruire lungo via Popilia, mentre a Catanzaro è, persino, più evidente perché si vogliono demolire, addirittura, l’ex Convento della Maddalena (XVI sec.) nonché il Convento della Stella (XVI-XVII sec.) e l’ex Convento di S. Agostino (XVI sec.) per ricostruirli, tutti, sotto forma di residenze per militari e per altre destinazioni d’uso (come denunciato da un appello di Italia Nostra).

La questione dello sviluppo infinito non riguarda solo gli specialisti di sviluppo urbano, di geografia economica, di architettura e urbanistica, ma deve riguardare la politica, soprattutto quella di sinistra, perché riguarda l’interesse generale dei cittadini. In un recente studio multidisciplinare pubblicato sul prestigioso “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, alcuni studiosi europei sostengono che “il successo di una città non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (Engelen, Johal, Salento, Williams 2017).

E se la principale caratteristica di una città bella e buona consiste, come credo fermamente, nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi”, bisogna avere, come già proposto da molti urbanisti e studiosi della città negli anni ’70, città più a misura d’uomo, rifacendosi, per esempio, al modello delle piccole e medie città storiche italiane (La Cecla 2015).

Non capisco, dunque, perché la sinistra politica– o quel che ne rimane a Cosenza, Rende e Castrolibero- non si opponga fermamente alla città unica che si presenta come un’annessione di Rende e Castrolibero alla città capoluogo, configurandosi come un’altra, inutile e ingovernabile, “nebulosa urbana” pensata per ridurre ancor di più lo spazio a merce.

Un’annessione, come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto, che costringerebbe, peraltro, i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini: 1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione 2) il referendum ‘decisivo’ non può avvenire prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala -per altri sei mesi, in tutto due lunghissimi anni- renderebbe l’espressione del voto dei suoi cittadini democraticamente più debole.

Per quel che riguarda il potere esercitato dai tre commissari insediatisi nella Casa comunale di Rende si deve lamentare un abbassamento della tensione democratica perché essi non hanno voluto, in nessun modo, tener conto delle molte, e differenti, istanze avanzate dai cittadini e dalle loro associazioni riguardo ad argomenti importanti quali: la radicale decimazione del verde pubblico, la complessiva riduzione dell’illuminazione delle strade, l’insostenibilità delle piste ciclabili sempre deserte, l’affidamento di beni pubblici come parchi, impianti sportivi o mercatali a privati a titolo gratuito o a prezzi risibili, il disturbo della quiete pubblica provocato da circhi con animali esotici e assordanti luna park nel pieno centro della città, nonché la musica ad altissimo volume proveniente da locali e da sedicenti feste durante 3 settimane in un parco pubblico, addirittura patrocinate dai commissari medesimi, la mancata disinfestazione cittadina mentre si diffonde, in provincia di Cosenza, il contagio del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare.

Non sarebbe meglio, forse, continuare ad avere, nell’area urbana cosentina, tre città, due medio-piccole ed una piccola, per poter governare meglio ambiti territoriali a misura d’uomo e a misura delle limitate capacità di governo dimostrate (se si escludono poche lodevoli eccezioni) dalle Amministrazioni comunali? Non sarebbe, forse, meglio avere tre piccole città che facciano insieme scelte e infrastrutture urbanistiche ed abbiano, questo sì, i servizi essenziali unificati: trasporti, spazzatura, mense e viabilità?

Un’opposizione di merito, la mia, dunque e non, come giustamente lamenta il mio amico Enzo Paolini riguardo a quasi tutte quelle fin qui avanzate, di bassa cucina da ‘politique politicienne’.

Il modello al quale bisognerebbe ispirarsi è proprio quello della piccola e media città storica italiana, quella nella quale si va a piedi, si può andare in bicicletta in un reticolo urbano denso e pluristratificato dal punto di vista funzionale, sociale ed economico, con una corposa densità abitativa ed una armoniosa compattezza architettonica che permette tragitti brevi ed elevata funzionalità sociale.

Un modello che non è solo architettonico e urbanistico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di restituire a tutti il ‘diritto alla città’ perché per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi più competitiva e più di successo di altre, ma che sia un luogo nel quale la vita quotidiana sia più gradevole e più equa per coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 ottobre 2024

Foto di ZENON JUSZKIEWICZ da Pixabay

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Da qualche anno è stato lanciato l’allarme relativo al cosiddetto “inverno demografico”. Diciamo subito che, a livello globale, se i paesi industrializzati hanno fatto registrare tutti un netto calo delle nascite nel nuovo secolo, è una fortuna in quanto abbiamo superato la soglia degli 8 miliardi ed è un bene che si inverta una tendenza iperbolica: agli inizi del XX secolo eravamo 1,6 miliardi!

Detto questo, per mettere in chiaro che non si tratta di una epidemia, per alcuni paesi industrializzati il fenomeno presenta seri problemi che finora sono stati male affrontati. Il calo delle nascite, il tasso di fertilità delle donne è, in generale, correlato al grado di sviluppo economico e di modernizzazione/occidentalizzazione di un determinato paese. In Niger, Mali, Ciad ogni donna mette al mondo più di sette figli, nella Ue 1,4 e in Italia 1,2.

Ci si sposa sempre più tardi, le donne mettono al mondo figli in età avanzata (per l’Italia in media a 32 anni il primo figlio) e spesso si preferisce non farne o al massimo arrivare a farne due. È un fatto culturale. Non ci sono incentivi e politiche per la famiglia che possano spostare questi comportamenti esistenziali se non in modo marginale.

Nella Ue, ad esempio, nel 2022 sono nati 388.000 bambini rispetto a quasi 1,4 milioni del 2008! In Cina, nel 2022 si è registrato un netto calo demografico, con saldo negativo tra nati vivi e morti di 850.000 unità. Contemporaneamente aumenta in tutto il mondo l’età media della popolazione che nei paesi industrializzati comporta un vistoso aumento di persone over 65 anni che debbono essere assistiti dal welfare (pensioni, assistenza sanitaria, ecc.).

In base ai dati dell’OMS il Giappone è il paese con l’aspettativa di vita alla nascita la più alta (82 anni per i maschi e 86 per le femmine), seguito dalla Svizzera e con l’Italia che si colloca al settimo posto. E per il nostro paese la gestione di questo calo demografico, da una parte, e l’aumento dell’invecchiamento dall’altra, è particolarmente complesso e problematico dato il rapporto debito pubblico/Pil. Non siamo i soli, certo, ma da noi la questione delle pensioni può diventare esplosiva perché non possiamo più aumentare l’indebitamento e la contribuzione dei lavoratori e imprese è ogni anno più insufficiente. In altri termini, è chi lavora oggi che paga le pensioni e l’assistenza sanitaria per gli anziani. E il numero delle persone in età di lavoro diminuisce ogni anno e in un prossimo futuro diventerà drammatico.

Non voglio fare la cassandra ma i numeri ci dicono che nei prossimi anni, anzi a partire dal 2025, diversi governi nella Ue prenderanno provvedimenti per aumentare l’età pensionabile e/o ridurre la spesa con un taglio alle pensioni medie ed alte. Oltre al ceto medio, da dove verrà prelevato il maggiore contributo, saranno le aree più povere del nostro paese che verranno ulteriormente impoverite, a cominciare dalla Calabria dove il peso delle pensioni sul reddito regionale è il più alto d’Italia. Se dovesse altresì passare l’autonomia differenziata allora la situazione delle regioni meridionali sarebbe, sul piano sociale, davvero insostenibile.

Ci sarebbe un modo per contrastare questo inverno demografico? Lo scrive con chiarezza Francesco Billari, Rettore della Bocconi, nel suo ultimo saggio “Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia”. Con dati inconfutabili il Prof. Billari sostiene che non abbiamo alternative: dobbiamo organizzarci per accogliere, formare, inserire nella nostra società centinaia di migliaia di immigrati ogni anno. E invece cosa va l’Ue e il nostro governo?

Paga i paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo per tenere nei lager i giovani che scappano da guerre e fame, impedisce agli aerei e navi delle Ong di salvarli in mezzo al mare con un cinismo che rasenta la strage intenzionale. La stessa Confindustria italiana dice che rimangono vuoti oltre trecentomila posti di lavoro, ma questo governo che ha fondato il suo successo sull’invasione dei nuovi barbari non demorde.

Se si moltiplicassero i corridoi umanitari, come ha fatto il Canada, se si creasse una aspettativa positiva per entrare nella Ue milioni di persone aspetterebbero il loro turno. Ne ho fatto esperienza diretta occupandomi dei corridoi umanitari con il Libano, prima di questa guerra maledetta guerra condotta da Israele. Per una famiglia che parte con i corridoi umanitari ce ne sono centinaia che aspettano il loro turno. È questo il modo più sicuro per contrastare i viaggi della disperazione sui barconi della morte.

da “il Quotidiano del Sud” del 2 ottobre 2024

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Molte importanti vicende relative all’autonomia differenziata sono state e continuano a essere caratterizzate dal segreto: per i suoi promotori è opportuno che i cittadini non siano informati (se non a cose fatte), di quel che si viene decidendo. È quel che è successo con la lista delle 500 funzioni trasferibili alle Regioni, prodotta da Calderoli e mai resa pubblica. È quel che continua a succedere riguardo ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni): si tratta dei diritti che devono essere garantiti, con apposite risorse, a tutti gli italiani, ovunque vivano. Quante risorse? Dove? Tema caldo, come si vede anche dalle recenti prese di posizione di Forza Italia. La questione è complicatissima, ma il suo senso profondo dovrebbe essere chiaro.

Il Clep è un importante Comitato guidato da Sabino Cassese, che dopo iniziali posizioni molto preoccupate è divenuto uno dei principali sostenitori del progetto leghista di differenziazione, fatto proprio dall’intero governo. Il Clep ha compiuto una ricognizione legislativa dei Lep. Lo ha fatto, come ha tenuto a scrivere l’ex governatore Visco prima di lasciare la carica, “in termini troppo generici”. E non per quelli relativi alle materie già di competenza regionale, che dovrebbero essere il punto di partenza dei meccanismi finanziari validi per tutti; solo di quelli relativi alle materie che le regioni “secessioniste” pretendono che lo Stato ceda loro. Ora si tratta di associare a questi diritti numeri precisi: il fabbisogno finanziario.

Punto cruciale: più basso è, più resta lo status quo (a danno dei cittadini delle regioni più deboli) e si giustifica la pretesa del governo di non stanziare risorse aggiuntive. Per definire i principi su cui basarsi per i conti è stata nominata da Cassese una Commissione di dodici esperti. Praticamente tutti sostenitori dell’autonomia differenziata. Il presidente, un ex deputato veneto del Pd (Stradiotto) che lavora da tempo sul federalismo fiscale: anche nel periodo in cui fu deciso che laddove non c’erano asili nido, il fabbisogno era conseguentemente pari a zero.

E che le donne si sarebbero dovute arrangiare. Fra gli altri, la potente presidente (D’Orlando) della importantissima Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctes, di cui si dirà fra un attimo), fino a poco fa consulente di Zaia; un docente (Giovanardi) che è tuttora contemporaneamente consulente di Zaia e componente della Ctes; un altro (Guzzetta) determinatissimo sostenitore della “secessione dei ricchi” e già consulente della Lombardia. L’elenco potrebbe continuare, includendo alcuni esponenti meridionali assai contigui al governo, fra cui l’onnipresente presidente dell’Anvur, Uricchio.

Cassese ha convocato per il 25 settembre una riunione del Clep per approvare il documento predisposto dai 12: che nonostante l’avversione di alcuni suoi componenti per la discussione pubblica è stato possibile visionare. Un documento snello ma politicamente esplosivo; in esso si sostiene che i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”.

Dunque, i fabbisogni (e quindi i diritti) vanno differenziati. Innanzitutto, in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, e cioè il supposto diverso costo della vita: dato che al Sud la vita costa meno, gli stipendi possono essere più bassi, e quindi il servizio deve costare meno; bastano meno soldi. Magari bastano già quelli che ci sono, e il governo fa tombola. Poi vanno differenziati in base alle dinamiche demografiche. Possibile interpretazione: dato che al Sud nascono meno bambini, perché spendere per gli asili nido? Invertendo la logica socioeconomica e politica, dato che la bassa natalità è anche conseguenza della relativa carenza di servizi. Chissà come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. E c’è poi un jolly: le “caratteristiche dei diversi territori”.

In base a questi principi, la Ctes presieduta dall’ex consulente di Zaia, di cui si diceva, farà i calcoli: con metodologie estremamente complesse, sensibili ai criteri di partenza (specie se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere). I suoi numeri, i fabbisogni finanziari, saranno impossibili da ricostruire e quindi da discutere. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovranno passivamente accettarli, perché prodotti dagli “esperti”.

Un processo pericolosissimo, sul quale sarebbe opportuna una attenzione assai maggiore dei parlamentari di opposizione. È la politica, e non dodici “esperti”, che deve definire alla luce del sole i criteri di calcolo: e questo prima che i dati vengano prodotti. È indispensabile un aperto dibattito pubblico. Non ne va solo della “secessione dei ricchi”, ma delle stesse modalità di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2024

Partiti dove siete? Tornate in campo!-di Filippo Veltri

Partiti dove siete? Tornate in campo!-di Filippo Veltri

La conclusione della crisi al Comune di Catanzaro, di cui potete leggere nelle quotidiane e puntuali cronache del Quotidiano, una cosa alla fine la suggerisce: i partiti sono spariti. O perlomeno si sono frantumati e fatti a pezzi, sotto il peso predominante di chi aveva ed ha il potere di vita o di morte dell’istituzione in questione. Il Sindaco e il Comune nel caso d’esempio.

Ora non ci interessa tanto approfondire lo specifico del capoluogo regionale (ci torneremo con piu’ calma nei prossimi giorni) ma andare oltre in una riflessione che nei mesi scorsi aveva riguardato, ad esempio, anche la frantumazione dei partiti in quel del Comune di Reggio Calabria.

E’ un fatto grave di cui da decenni si discute nel nostro Paese ma che poi ci ritroviamo tra i piedi nelle occasioni di casa nostra, come per ultimo Catanzaro, senza potere dare una degna risposta. Eppure gli sforzi non mancano per tentare di ricostruire un tessuto connettivo disperso e lacerato (sabato scorso sul Quotidiano abbiamo ad esempio segnalato la rinascita delle Feste dell’Unità in Calabria su iniziativa del PD) ma è poco ed è slegato dalla vita concreta e quotidiana in cui vivono gli stessi partiti, o meglio quel che resta di loro.

Ancora una volta il caso Catanzaro insegna che non bastano certo le Feste dell’Unità per fare contare davvero il partito!
Nel tramonto della Repubblica dei partiti, Diari 1985-1989 di Antonio Maccanico che qualcosa dei vecchi partiti sapeva, Sabino Cassese nella prefazione ha così scritto: «… un mondo in briciole, dove uomini di partito e di governo, capitani d’industria, giudici, si muovono disordinatamente, senza un obiettivo che non sia quello personale, senza rispettare sequenze e procedure o altre regole, richiedendo continue cuciture, arbitrati, compromessi. Insomma, il contrario dei tanto favoleggiati “poteri forti” o della sempre evocata “stanza dei bottoni”».

Nell’ultimo decennio sono venuti al pettine tutti i nodi irrisolti della democrazia repubblicana il cui rinnovamento è stato impedito da gruppi di potere, vecchi e nuovi, e da partiti immobilisti. Il mancato ricambio periodico degli esponenti della classe politica, la più importante risorsa delle democrazie dell’alternanza, ha prodotto guasti per l’economia, per la società, per il sistema politico. La novità rilevante non sta nella semplificazione del quadro politico con la nascita di un sistema bipolare, ma nel cambiamento delle forme di organizzazione della politica che vede mutata la natura stessa dei partiti o, per dirla più semplicemente, vede la scomparsa del partito politico di massa.

Il pensiero di Luciano Canfora è netto: le forze politiche hanno ormai ceduto il passo a oligarchie fondate sulla ricchezza. E scrive così: «Obbrobrio di tutti i partiti, tremate! È il secondo verso della quarta strofe della Marsigliese. Il verso precedente recita: «Tremate, tiranni!», cui segue appunto la drastica condanna dei «partiti» in quanto potenziale fonte di «obbrobrio». L’invettiva è interessante, ancor più se si considera che prima della Rivoluzione non vi erano «partiti», e che essi erano sorti, proprio come effetto e come vettori della Rivoluzione’’.

Appunto: sta qui la contraddizione delle contraddizioni. O i partiti si rendono conto che possono essere i vettori se non di una rivoluzione quantomeno di un vero cambiamento o la crisi si aggraverà. Sempre più aumenterà il distacco tra cittadini e istituzioni, sempre più dilagherà il malessere e il mugugno e al comando ci saranno e ci resteranno i vertici delle istituzioni e i loro commensali, che da 2 mila a 9 mila euro al mese (queste le retribuzioni medie lorde di consiglieri, assessori e sindaci dei comuni capoluoghi) governeranno indisturbati Comuni e Regioni. Alla faccia di quel che resta dei partiti.

da “il Quotidiano del Sud” del 22 settembre 2024

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Dire no al regionalismo differenziato si deve, e opporsi allo scellerato progetto che sta prendendo corpo per iniziativa del governo e segnatamente della Lega di Salvini è un atto che si deve perseguire non soltanto da parte dei cittadini del sud ma di coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia intera.

Dire no significa mobilitarsi nelle piazze, sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo, far sentire al palazzo che i problemi del mezzogiorno e del paese sono un unicum, che sarebbe un errore gravissimo puntare sullo spaccottamento piuttosto che sul riequilibrio.

Un riequilibrio cui si rinuncio allorché ormai quasi venticinque anni fa il governo di centrosinistra modificò il Titolo V della Costituzione-da lì è partito tutto, è bene ricordare-investendo nell’operoso nord e lasciando alla deriva il sud in perenne sofferenza: l’eufemismo più in voga era ‘in ritardo di sviluppo’.

La questione meridionale, il dualismo fra le parti simmetriche del paese venivano risolte in maniera tranchant, semplicemente eliminando uno dei corni del dilemma, quello più fragile.

Il dibattito che si è sviluppato da allora ha risparmiato poche pieghe delle tante che rivestono l’affaire: mettere alla prova il sud, i LEP, i servizi essenziali, era meglio non fare L’Unità d’Italia, con i Borboni si stava meglio, facciamola dal sud, la secessione. Perché un dibattito c’è stato, e c’è, anche nelle regioni meridionali, e anche con evidenti distinguo nelle forze politiche, a cominciare dalla moderata Forza Italia che mostra di non gradire. Un dibattito che però si sviluppa esclusivamente sul versante difensivo e d’opposizione al disegno di Salvini, come se conservare lo status quo fosse la soluzione.

Invece no, non è la soluzione perché è sotto gli occhi di tutti la divaricazione sempre più stridente fra allocazione delle risorse, disponibilità di servizi, occasioni di lavoro, efficienza delle prestazioni, capacità di spesa, treni che partono con direzioni e versi privilegiati se non esclusivi.

Perché il sud è rimasto indietro, c’è stato chi documenti alla mano ha indicato d’indagare sulla inadeguatezza delle classi dirigenti a sud di Roma: se per un periodo la tesi ha mostrato la sua fondatezza non di meno la parzialità della diagnosi balza comunque agli occhi con l’incalzare degli eventi. Non già per assolvere l’indifendibile ma per assegnare a un intero sistema ruoli e responsabilità che non possono che essere collettivi, plurali bisogna dire che un impegno diffuso e costante è ciò che attende la comunità politica e civile, culturale ed economica delle regioni del sud.

Perché è dal sud, se si vuol dare per davvero il segno della credibilità della svolta, che si deve dare inizio a ridisegnare funzioni e attribuzioni, assegnare equilibri e risorse, secondo un assetto della macchina pubblica che non nasconda zone d’ombra, riconosca limiti e introduca correttivi secondo criteri di equità e di merito, in uno Stato del terzo millennio.

Può partire dal sud un ragionamento siffatto, ci sono da noi intelligenze e passioni capaci di mostrare la via, con spirito unitario e non subalterno, propositivo e non rivendicazionistico?

Provare a misurarsi in tale impresa val la pena, altrimenti sarà il cartello del no a vincere ancora una volta, o il perpetuarsi dell’eterno pantano.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 settembre 2024

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Il movimento contro le pale eoliche che offendono il paesaggio, ha avuto ed ha un notevole consenso tra le associazioni ambientaliste del Mezzogiorno, in particolar modo in Calabria e Sardegna. Il motivo principale dell’opposizione alle grandi pale eoliche è il paesaggio. Un bene immateriale importante che deve essere preso in considerazione senza ignorare quello che dovrebbe essere il principale obiettivo degli ambientalisti: la salvaguardia del pianeta, e quindi della nostra vita, dagli effetti perversi dell’inquinamento della terra, dei mari, dei fiumi, laghi e il moltiplicarsi degli “eventi estremi”.

Non possiamo non chiederci: perché non c’è questo tipo di mobilitazione per l’aumento della C02 legata all’uso dei combustibili fossili che sta sconvolgendo l’ecosistema? Perché non ci si mobilita per la plastica che ha invaso il pianeta e che ormai ha riempito i nostri mari, gli oceani, entrando nella catena alimentare? La Commissione Ue aveva cercato di far passare un provvedimento per mettere lo stop alla produzione di plastica, ma il governo italiano si è opposto perché deve salvaguardare la nostra industria degli imballaggi e confezioni in plastica di cui ci vantiamo di essere i primi in Europa.

E ancora, perché non ci si mobilia contro i tanti enti locali, scuole, che hanno installato i pannelli solari e non li hanno mai collegati? La Calabria è piena di pannelli solari abbandonati da enti pubblici per il menefreghismo che li contraddistingue.
Vogliamo renderci conto che stiamo andando velocemente verso la catastrofe ambientale?! I radicali cambiamenti climatici che nella storia della Terra richiedevano secoli se non millenni adesso avvengono in poche decine di anni.

Ne abbiamo mille prove ma facciamo finta di niente perché la nostra unica e vera preoccupazione è la crescita economica misurata da un indicatore, il Pil, che da tempo tanti contestano ma senza incidere su questo mito del nostro tempo che trasforma in ricchezza monetaria la distruzione ambientale (basti pensare solo al fatto che una parte del commercio delle droghe contribuisce ad accrescere il Pil, quanto gli incidenti stradali, ecc.).

Tra i mille segnali di un cambiamento climatico accelerato vorrei citarne uno che è poco conosciuto. Riguarda l’acqua del mare dello Stretto di Messina, da secoli la più gelida tra tutte le acque che bagnano la nostra penisola per via delle impetuose correnti che risalgono, a causa di una montagna che attraversa questo tratto di mare, da una profondità di 2000 metri (di fronte a Taormina) ad una profondità di 90 metri (tra Scilla e Cariddi). In breve l’acqua gelida degli abissi risale in superficie.

Bene, negli ultimi due anni gli abitanti dello Stretto hanno riscontrato con meraviglia che l’acqua di questo mare è aumentata incredibilmente di diversi gradi. Secondo il Diving Center di Scilla, che da trent’anni fa il monitoraggio della temperatura dell’acqua nell’area di sua competenza siamo di fronte ad un fenomeno inspiegabile, visto il vistoso cambiamento e il breve tempo in cui si è registrato.

Cosa vogliamo di più per capire che ci sono delle priorità e che non c’è più tempo da perdere. Certo, ogni regione dovrebbe avere un piano energetico particolareggiato che indichi priorità, luoghi, modalità di installazione impianti di energia rinnovabile. Questa dovrebbe essere una battaglia di civiltà che dovrebbe impegnare tutti, uscendo ognuno dal proprio giardinetto e guardando non il proprio dito, ma la luna che abbiamo di fronte.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 settembre 2024
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Sull’autonomia differenziata infuria la buriana politica soprattutto dopo la raccolta firme per il referendum (è andata al di là di ogni più rosea aspettativa per i promotori) e in vista della prevedibile battaglia elettorale. Ma è nel merito che ci si sofferma poco, al Nord come al Sud, nonostante studi e ricerche non manchino.

Proviamo a fare due conti, con l’aiuto dell’Osservatorio dei conti pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In attesa che vengano definiti i famigerati LEP (livelli essenziali di prestazione) che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, tre economisti dell’Osservatorio (Rossana Caccamo, Alessio Capacci e Giampaolo Galli) hanno fatto un paio di conti e viene fuori che, dato che l’economia del centro nord vale il 78% del PIL nazionale contro il 22 del Sud, ogni punto del PIL trattenuto dalla Regioni piu’ ricche peserebbe tre volte e mezzo in più per quelle più povere.

Si tratterebbe di un guadagno relativamente piccolo per le prime ma di una perdita consistente per le seconde finendo di mettere a rischio la tenuta dei servizi. Prendiamo la Calabria nella simulazione effettuata: su una spesa primaria di 24,5 (tutti i valori sono in miliardi di euro) c’è una entrata di 16,4, con un residuo fiscale di più 8,2.

La Lombardia ha invece una spesa primaria di 140,5, entrate per 189,3 e dunque un residuo fiscale in negativo di 48,5. Dunque la legge Calderoli finirebbe con l’estremizzare le disparità che già oggi dividono l’Italia anziché ridurle e non responsabilizzando la politica locale. In più il sistema della verifica anno per anno dell’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale renderebbe ancor più farraginoso il problema.

Anche su questo insistono due noti economisti italiani – Francesco Drago e Lucrezia Reichlin – in aperto contrasto con Sabino Cassese. Prendono in esame la sanità e scrivono: ‘’…La storia dei LEA (livelli essenziali di assistenza, già introdotti nel nostro paese nel 1999) insegna che quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud e la questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti del Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono’’.

I principi su cui poggia la riforma, inoltre, spiegano Drago e Reichlin – sono difficilmente attuabili e se ne discute dal famigerato anno 2001. Come hanno evidenziato la Banca d’ Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio in piu’ di 20 anni poco o nulla e’ stato fatto. Determinare il finanziamento dei LEP è molto difficile ed occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio che viene erogato in maniera efficiente, determinare il livello di prestazione minima e stabilire i fabbisogni. Missione quasi impossibile.

In sostanza i due economisti alzano l’allarme sul fatto che saranno allontanate le forze piu’ dinamiche della società e della politica locale e invece della responsabilizzazione delle classi dirigente del Sud si otterrà il contrario. ‘’Comunque si rigiri la frittata – secondo Drago e Reichlin – questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno’’.

Ora la parola passerà nuovamente ai partiti e alle istituzioni, forse alla Corte Costituzionale e probabilmente agli elettori. I dubbi espressi a livello scientifico sono quelli sopra espressi. Vedremo che accadrà nell’immediato futuro.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 settembre 2024