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«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Autonomia come autogoverno e autodeterminazione delle persone, della classe, dei popoli. Autonomia operaia e dei consigli di fabbrica. Autonomia come democrazia diretta, sociale e politica. Queste, e altre declinazioni, del concetto – quello di «autonomia», appunto – sono state fatte nella lunga e travagliata storia della sinistra sindacale, comunista, socialista e liberale.

QUESTA STORIA si è sviluppata sempre nel fuoco delle lotte in Italia. Ha dato esiti stupefacenti molti fallimenti, riprese insperate. Fu rielaborata dall’Ordine Nuovo con Antonio Gramsci nel primo «biennio rosso» (1919-1920). Il grande politico e filosofo, fondatore del Pci, allora parlava di una delle istituzioni dell’autonomia: i «consigli operai». Erano «cellule prime» della democrazia rivoluzionaria. L’idea dell’«autonomia» tornò trasformata nel secondo «biennio rosso»: tra il 1968 e l’«autunno caldo» del 1969. Nacquero le organizzazioni autonome: il Consiglio Unitario di base (Cub) alla Pirelli di Milano. Altri consigli di fabbrica si erano strutturati prima.

UNA STORIA POTENTE. Ha attraversato prospettive leniniste, luxemburghiane, proudhoniane, gramsciane, socialiste e comuniste, liberalismi originali opposti a quelli classisti ed economicisti. C’è stata l’epica, la tragedia e il martirio. Quello di Piero Gobetti ucciso dai fascisti. Ci sono le traiettorie di socialisti come Vittorio Foa, oppure quelle di fondatori dell’operaismo: un gigante come Raniero Panzieri, per esempio. La riflessione sull’autonomia si ritrova, in altre posizioni, quelle di un segretario della Fiom e della Cgil, oltre che pensatore di prim’ordine: Bruno Trentin.

CI SONO STORIE di formidabili dibattiti pratici e teorici che hanno coinvolto le riviste più belle, i convegni più combattuti, gli intellettuali, gli operai, i militanti culturali e di base. Ci fu il dibattito sulle «sette tesi sul controllo operaio» del 1958 di Raniero Panzieri e Lucio Libertini sulla rivista del Psi «Mondo operaio». Molti ricordano e praticano l’operaismo dei «Quaderni Rossi». Su un altro versante possiamo trovare, per esempio, la storia della «nuova sinistra», quella de Il Manifesto. E ancora i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. In tutta evidenza, non stiamo parlando di una prospettiva unica, ma irriducibilmente plurale, spesso conflittuale, comunque problematica. Com’è la storia delle sinistre. Mille fili che però oggi potrebbero essere intrecciati in una genealogia eretica. Per creare nuove idee e cortocircuiti nel presente.

QUESTA È STATA l’intuizione che ha ispirato un bel convegno organizzato ieri all’università Roma Tre dalla Fondazione Di Vittorio (Cgil). I densissimi interventi, senza una pausa, possono essere ora rivisti sul sito Collettiva.it. In tale contesto è stata avanzata un’ipotesi di lotta culturale, dunque politica.

OGGI, È STATO DETTO, il concetto di «autonomia» è stato sequestrato dalle destre leghiste e postfasciste che compongono il governo Meloni. Quest’ultimo si regge su uno scambio osceno che rompe l’unità nazionale e rafforza l’autoritarismo dilagante. I leghisti Salvini e Calderoli vogliono imporre l’«autonomia differenziata», una «secessione» delle regioni «ricche» (Veneto e Lombardia, per cominciare) che aspirano a costituirsi in micro-staterelli. Meloni e i suoi «Fratelli d’Italia» vogliono il «premierato» che metterà in discussione sia il parlamento che le funzioni dello stesso presidente della Repubblica.

«LA STORIA DELL’AUTONOMIA come autogoverno e come pratica democratica non ha nulla a che vedere con l’autonomia differenziata di Calderoli ed è l’antidoto allo scambio osceno con il presidenzialismo di Meloni -ha detto Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio – Si tratta di un doppio autoritarismo. Per contrastare questa deriva possiamo ispirarci a queste tradizioni. Bisogna tornare a lavorare dal basso, cambiare profondamente il sistema sociale. La sinistra di governo ha gravissime responsabilità. Senza la riattivazione della partecipazione democratica nella società e nel lavoro non sarà possibile rispondere alla crisi della partecipazione sulla quale cresce anche la regressione in atto».

«IL DIBATTITO SUI CONSIGLI di fabbrica oggi è prezioso – ha detto Luciana Castellina, co-fondatrice de Il Manifesto – Anche oggi è possibile immaginare forme di democrazie diretta non solo nei luoghi di lavoro ma nella società. Da qui possiamo ripartire nel momento in cui prevale la frammentazione e l’astensionismo. Possiamo reimpadronirci della gestione di pezzi della società costruendo poteri sul territorio. la gestione diretta dei beni comuni serve anche a cambiare la cultura diffusa attraverso le pratiche della democrazia diretta. Oggi non c’è solo la fabbrica, che è decentrata al suo interno da appalti e subappalti. Il nostro problema è creare poteri collettivi, decentrati e diffusi, anche fuori da essa, cioè nuove istituzioni nella società».

«CON LA PROPOSTA del “sindacato dei diritti” Bruno Trentin ha indicato come il sindacato deve aprirsi alla partecipazione dei cittadini e unirla a quella sui luoghi di lavoro. Questa idea pone la necessità di una maggiore radicalità della nostra azione – ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini – Il governo ha un progetto organico, corporativo, autoritario. Meloni ha chiesto il referendum sulla riforma costituzionale per affermare la propria leadership. Noi dobbiamo usare il referendum per obiettivi opposti e affermare la democrazia in nome della Costituzione. Dobbiamo portarci all’altezza dello scontro o rischiamo che il conflitto prenda un’altra strada».

da “il Manifesto” del 30 gennaio 2024

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L “PIANO MATTEI” DI GIORGIA MELONI. Qualcuno potrebbe perfino dare atto alla presidente Meloni della sua determinazione nel convocare venticinque capi di stato e di governo africani, coinvolgendo anche i vertici della Ue. Finalmente, si potrebbe dire, l’Italia e l’Ue capiscono che non possono ignorare un Continente con il più alto tasso di crescita demografica del mondo, con i più bassi livelli di reddito, trafitto da guerre interminabili e che per giunta subisce, come poche altre aree al mondo, gli effetti perversi del mutamento climatico.

C’è da dire in realtà che l’attuale presidente del Consiglio ha capito come pochi leader politici che viviamo nella società dello spettacolo, come scrisse Guy Debord nel ’68, per cui non hanno importanza i contenuti ma conta solo la kermesse, la qualità e quantità della comunicazione di un evento. Usando un apparato retorico capace di comunicare con la maggioranza degli italiani che non conoscono le realtà africane se non attraverso luoghi comuni, la Meloni ha rispolverato categorie come la cooperazione e lo sviluppo, ormai obsolete per chi si occupa da decenni di questi temi.

Il primo messaggio falso è che la povertà dei paesi africani è dovuta alla mancanza di investimenti che generano il cosiddetto sviluppo. Se si vanno a osservare i 20 paesi in fondo alla classifica relativamente all’ ISU (Indice Sviluppo Umano) troviamo che per i due terzi si tratta di paesi che sono attraversati da conflitti interni, da guerre di lunga durata, da permanente instabilità politica, come emerge chiaramente dai Report Last Twenty 2022 e 2023. Se si continuano ad alimentare questi conflitti, che in diversi casi durano da decenni, parlare di investimenti e sviluppo è offendere l’intelligenza umana, e pure quella artificiale. Ma, in questa performance della Patriota parlare di armi e guerre è vietato.

Una seconda causa di impoverimento è legata all’indebitamento esterno che nell’Africa sub-sahariana ha raggiunto nel 2020 il 72% del Pil, di cui il 20 per cento è detenuto dalla Cina e il resto da Usa, Ue e Arabia Saudita/Emirati. Un rapporto debito/Pil più basso di quello europeo che si sta avvicinando al 90%, ma che per essere rifinanziato costringe i governi africani a pagare rendimenti altissimi sui titoli di Stato.

Una terza causa di impoverimento è lo scambio ineguale. Non sono mancati grandi investimenti in Africa negli ultimi venti anni, soprattutto da parte cinese, ma la forbice tra l’andamento dei prezzi delle materie prime e beni alimentari che vengono esportate dall’Africa e quello dei beni di consumo è aumentata. Soprattutto, nella catena del valore ai contadini e operai africani rimane una misera parte di quello che producono. Se non si interviene su questa struttura del commercio internazionale, come ci ha insegnato l’esperienza del fair trade, è fare demagogia parlando di sviluppo e cooperazione.

Infine, una buona notizia che viene volutamente taciuta: sono quasi 40 milioni di famiglie africane, vale a dire circa quattrocento milioni di persone, un terzo della popolazione africana, che sopravvive grazie alle rimesse dei migranti. Sono gli immigrati che con il loro sudore, rischiando la vita, facendo enormi sacrifici inviano mediamente 200 dollari/euro al mese nei paesi africani e, più in generale, nei Sud del mondo.

A livello globale, secondo la Banca Mondiale, si tratta di una cifra enorme: 626 miliardi nel 2022, di cui oltre 50 sono andati nell’Africa sub-sahariana. Insomma, sono gli africani che salvano l’Africa, mentre noi ci salviamo la coscienza con quello che chiamiamo “aiuto allo sviluppo”. Ma, quello che è grave e dove potremmo intervenire è sugli alti costi delle transazioni bancarie. In altri termini, per inviare il denaro alle proprie famiglie gli immigrati devono pagare una sorta di “pizzo” al sistema bancario internazionale. Si tratta in media di circa il 9% , ma i dati sono variabili, si può arrivare anche al 20 per cento di commissioni bancarie. Una vera e propria rapina su cui si dovrebbe intervenire.

Così come noi tutti dobbiamo prendere coscienza del fatto che la prima forma di cooperazione internazionale, la più efficace, è una buona accoglienza dei migranti, consentendogli di avere un lavoro dignitoso e legalmente retribuito, con cui possono sostenere direttamente, e meglio di tanti altri soggetti istituzionali, le loro famiglie.

da “il Manifesto” del 31 gennaio 2024

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.

A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.

Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.

Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.

Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.

Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.

Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024

Sull’uccisione di Luca Attanasio il governo è latitante.-di Tonino Perna

Sull’uccisione di Luca Attanasio il governo è latitante.-di Tonino Perna

Il 22 febbraio del 2021 in un villaggio della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ed esattamente nel Parco del Virunga, nella tormentata regione del Nord Kiwu, vennero uccisi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Jacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo. A distanza di quasi tre anni oggi a Roma si terrà la quinta udienza che sarà determinante per la continuazione del processo che ha intentato la procura di Roma nei confronti di due funzionari del Pam (Programma Alimentare Mondiale): Rocco Leone, vice direttore, e Mansour Rwagaza (posizione poi stralciata perché irreperibile) che operavano nella Rdc quando è avvenuto l’agguato nei confronti dell’ambasciatore italiano.

Secondo l’accusa avrebbero omesso «per negligenza, imprudenza e imperizia…ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica» dei partecipanti alla missione. In effetti, risulta dagli atti che il nome dell’ambasciatore Attanasio, che partecipava al convoglio del Pam, sia stato derubricato il giorno prima della partenza per cui i caschi blu dell’Onu, che normalmente accompagnano questo tipo di missioni, non sono intervenuti come le altre volte in cui l’ambasciatore era andato in quest’area estremamente pericolosa.

La difesa del funzionario del Pam, di fatto l’agenzia delle Nazioni unite deputata ad affrontare le emergenze alimentari, ha invocato l’immunità per il vice direttore Rocco Leone, sostenendo che i funzionari Onu godono dell’immunità quando sono in missione. In realtà, esiste un elenco delle Nazioni unite per tutti i funzionari che godono dell’immunità che dovrebbe essere a conoscenza di tutti i Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo. A quanto è finora emerso non risulterebbe il nome di Rocco Leone, anche se l’elenco sembra che non venga aggiornato da due anni. Certo è che questo dirigente era sull’auto dell’ambasciatore ed è uscito illeso dall’agguato, insieme agli altri dipendenti del Pam che facevano parte del convoglio.

Se oggi venisse accolta la tesi della difesa di Rocco Leone, basata sull’immunità del dirigente del Pam, si può ritenere definitivamente concluso l’iter processuale.

Ma, al di là dei cavilli giuridici c’è un fatto che ha una grande rilevanza politica: il dirigente del Pam avrebbe avuto tutto l’interesse a fare chiarezza sull’accaduto se non avesse niente da nascondere o giustificare. E proprio i massimi dirigenti di questa agenzia delle Nazioni unite, spesso sospettata di scarsa trasparenza nella gestione degli aiuti alimentari nelle aree di crisi, dovrebbero intervenire per riscattare la loro immagine e smontare ogni sospetto.

È noto, infatti, che sulla distribuzione dei beni alimentari in presenza di condizioni estreme della popolazione, si giocano lotte per il potere, forti pressioni e interferenze da parte dei governi locali per favorire una etnia piuttosto di un’altra, da parte delle organizzazioni criminali e movimenti politici armati. Nell’area dove è avvenuto l’agguato, al confine con il Rwanda, c’è la presenza di un coacervo di soggetti armati e di interessi che da anni hanno scatenato una guerra di lunga durata che ha causato 6milioni di morti in 25 anni per la rapina dei minerali preziosi. Una delle tante guerre dimenticate.

Ma, finora non era mai accaduto, da nessuna parte del mondo, che un ambasciatore italiano venisse ucciso in un agguato mentre era in missione. Il fatto grave è che il nostro governo non si sia costituito come parte civile al processo, mentre l’abbia fatto il Comune di Limbiate, dove è nato Luca Attanasio, e l’Associazione Vittime del Dovere. Possibile che la patriota presidente del Consiglio, che ha promosso il vertice Italia-Africa dei prossimi giorni, non abbia sentito il bisogno di difendere l’«onore della nostra Nazione» – per usare le sue categorie – per fare pressione sui massimi responsabili del Pam e sul governo della Repubblica Democratica del Congo perché si faccia vera luce su questa strage.

Non ci si può accontentare dell’ergastolo dato a sei congolesi come esecutori, mentre non si conoscono i nomi dei responsabili e dei mandanti. Come ha scritto Pierre Kabeza, sindacalista congolese residente in Italia, «cercare la verità sulla morte dell’ambasciatore italiano significa aprire uno spiraglio di luce sulla interminabile guerra nel Kiwu».

da “il Manifesto” del 24 gennaio 2024

Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Sono ormai molti anni che il centrosinistra italiano e il Mezzogiorno hanno divorziato. Il primo sembra non avere più interesse, capacità, di capire il Sud; di interrogarsi sulle leve possibili del suo sviluppo; di intraprendere concrete iniziative.

Tanti meridionali non hanno ceduto alle lusinghe della destra, ma hanno dato prima fiducia ai 5 Stelle e poi si sono astenuti. Fenomeni nazionali, ma al Sud assai più intensi.

Perché il Pd non parla con il Sud, non costruisce e persegue iniziative politiche? Non sembra difficile capirlo. Da un lato, la questione delle disuguaglianze ha perso da tempo centralità nella sua riflessione. Esse non sono, si è sentito spesso dire in questi anni, che il frutto del merito e dell’impegno; che siano di tipo sociale, di genere o territoriali non possono essere la stella polare della strategia politica di un partito «riformista».

Se il Sud è indietro, è prevalentemente per colpa dei suoi cittadini e delle sue classi dirigenti; destinare risorse è controproducente (Rossi, ex parlamentare Pd); o, al meglio, inutile. Dall’altro, e parallelamente, è forte la sfiducia nella centralità dell’azione pubblica: meglio lasciar funzionare il mercato e magari aggiustarne un po’ gli esiti; favorendone i meccanismi, ad esempio differenziando sempre più i salari fra Nord e Sud (Ichino, altro ex parlamentare Pd).

Non appare casuale che alcune delle scelte più antimeridionali degli ultimi anni portino la firma di parlamentari (allora) del Pd: dall’autonomia differenziata di Gian Claudio Bressa al federalismo fiscale di Luigi Marattin. E che proprio la strada dell’autonomia regionale differenziata sia stata aperta dall’intesa siglata a febbraio del 2018 dall’attuale presidente del Pd Bonaccini e dall’attuale commissario europeo Gentiloni.

Certo, il quadro è oggi un po’ diverso, quantomeno in alcuni protagonisti. La nuova segreteria apre speranze. Ma la concreta azione politica sembra ancora limitarsi ad agire di rimessa sulle iniziative del governo. Non che ne manchi ragione. Ma questo sembra insufficiente a ricreare fiducia e a rendere più tangibile un diverso esito elettorale.

Se non si sana questo divorzio entrambe le parti vanno incontro a un futuro difficile. Il Pd non può pensare di costruire uno schieramento che vinca le elezioni senza i voti del Sud. Il Mezzogiorno, lasciato alle dinamiche spontanee della demografia e dell’economia, in condizioni strutturali di evidente minorità rispetto al Centro-Nord e a gran parte dell’Europa, non può che vedere rinsaldarsi le sue «trappole del sottosviluppo».

Come farlo? Più facile dire cosa sarebbe bene evitare: dal lasciare carta bianca a presidenti di regione meridionali che da tempo ormai giocano in proprio, al tirare fuori dal cilindro iniziative estemporanee, come fatto da alcuni ministri della coesione, destinate a sfiorire rapidamente.

Per il resto, non si sfugge all’impressione che occorra una lunga e paziente ricostruzione di un pensiero politico generale, che parta proprio dalla centralità della lotta alle disuguaglianze (come suggerisce Carlo Trigilia in un bel libro recente) e delle grandi politiche pubbliche, a cominciare da sanità, istruzione e welfare; e in questo quadro occuparsi dei venti milioni di abitanti della più grande area in ritardo di sviluppo d’Europa. Come sempre nella storia, il futuro del Sud dipende molto più dalle grandi politiche generali del paese che da misure specifiche.

Una splendida occasione per allenarsi, e per fare i conti con franchezza con il proprio passato, potrebbe essere proprio quella dell’autonomia differenziata. Da contrastare non solo ed esclusivamente al Sud, come sembra stia avvenendo, per raccogliere qualche voto per le prossime europee, ma glissando sul tema nel resto del paese. Ma da leggere come grande questione politica nazionale ad opera di un grande partito nazionale.

Un progetto scellerato non perché è «contro il Sud», e quindi implicitamente «a vantaggio del Nord», che per bontà dovrebbe evitarlo. Ma perché frammenta e indebolisce le grandi politiche pubbliche nazionali e la loro capacità di costruire un paese migliore; perché lega i diritti dei cittadini ai luoghi dove essi vivono; perché esclude il Parlamento dalle scelte più importanti, oggi e in futuro (una concreta anticipazione del premierato).

Un’occasione per una riflessione sui propri principi politici di fondo applicata ad un caso concretissimo. Non facile, certamente. Ma in fin dei conti, considerare che su questo tema la Conferenza Episcopale e la stessa Banca d’Italia sono più «a sinistra» del Pd di oggi potrebbe far riflettere e dare coraggio.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2024

Fermate quella scure sui grandi Pini di Rende.-di Battista Sangineto

Fermate quella scure sui grandi Pini di Rende.-di Battista Sangineto

Mi tocca scrivere di nuovo a proposito dell’imminente abbattimento di grandi alberi a Rende perché, come ha già denunciato la sezione rendese della Lipu, è comparsa una locandina -affissa per conto dei Commissari del Comune di Rende – nella quale si avvisano i cittadini che, in attuazione di una delibera approvata dalla precedente Giunta, nei prossimi giorni verranno tagliati i pini piantati più di 60 anni fa sui due lati di Via Don Minzoni.
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Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o domestici, alcuni ormai centenari, che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo -che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto.

La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato. La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini domestici e/o marittimi e i Pini d’Aleppo.

Tutti i suddetti alberi non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati, come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, nell’estate scorsa, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni e si vuole procedere, ora, ad altri devastanti tagli?

Al posto dei Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera della precedente Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento (ci metteranno alcuni decenni prima di raggiungere la frondosità dei Pini) – a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro.

Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vorranno sospendere i tagli di via Don Minzoni e, anche, vigilare sulla celere e appropriata ripiantumazione dei lecci al posto dei Pini già tagliati, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi nella scorsa estate e dopo le reazioni di sconcerto che, subito, si sono levate alla notizia della ripresa degli prossimi ingiustificati tagli.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi”.
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Non si possono e non si devono più tagliare alberi nelle città, perché sono le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo- che formano le “isole di calore” (UHI, Urban Heat Island) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

da “il Quotidiano del Sud” del 19 gennaio 2024

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

Besostri, ostinato difensore della Costituzione.-di Enzo Paolini

Besostri, ostinato difensore della Costituzione.-di Enzo Paolini

Con la scomparsa di FELICE BESOSTRI proprio nel giorno in cui il Senato avvia l’esame delle norme di stravolgimento dell’assetto costituzionale del Paese, se ne è andato non solo un raffinato giurista ed avvocato di grande prestigio ma soprattutto un ostinato e generoso difensore della nostra Costituzione.

Partecipando come codifensore alla sua ultima udienza tenutasi al Tribunale di Castrovillari, dinanzi al Giudice Di Pede ho ascoltato, insieme al gruppo di amici presenti nell’occasione, una straordinaria, lucidissima lezione sui meccanismi di elezione del Parlamento europeo e sul difetto di rappresentanza delle minoranze linguistiche.

Combatteva contro la malattia ma combatteva soprattutto, con la sua forza d’animo, le battaglie in difesa dei principi e dei valori della Costituzione. Riteneva le leggi elettorali varate un vulnus al diritto del cittadino di scegliere e decidere la rappresentanza parlamentare.

In lui cultura giuridica e passione politica interagivano simbioticamente facendone un personaggio di altissimo livello. Senatore nelle liste dell’Ulivo, non si è mai allontanato dall’appartenenza socialista contribuendo, dopo l’estinzione giudiziaria della Prima Repubblica, ad alimentare il dibattito politico con iniziative di matrice autenticamente socialista.

Ho avuto il privilegio di beneficiare dell’insegnamento e della esperienza di Felice Besostri, della sua competenza affiancandolo, nelle battaglie contro il parlamento dei “nominati” e le astuzie manipolatrici della “casta”.

Grazie a Felice Besostri non si è spenta – e non si spegnerà – la resistenza contro la deriva antiparlamentare ed antidemocratica. Ha fatto vedere a me e ad altri avvocati come si affrontano le battaglie politiche e giudiziarie senza timore essere in pochi, quasi da soli, senza rimanere in retroguardia, senza appiattirsi sulle convenienze, senza assecondare l’andazzo del momento, resistendo alle frustrazioni determinate dalla subcultura vincente.

L’ho visto nelle situazioni più disparate, determinato in aula, convincente nei confronti, gioviale nei momenti conviviali, mai banale e attento ad ogni aspetto del contesto in cui si trovava.
Ci lascia un esempio di rara coerenza politica e passione civica che le nuove generazioni dovrebbero assumere come punto di riferimento.

Per me se ne va un amico col quale ho intrattenuto intensi rapporti che andavano al di là delle condivisioni professionali poiché riconducibili a quella produzione culturale che si intreccia con la politica e la nobilita.

Era diventato un estimatore del Premio Sila e ne è stato un attento ed acuto osservatore. Anche per questo sentiremo la sua mancanza.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 gennaio 2024

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

Di antifascismo c’è ancora bisogno, perché non è ancora finita come la vergognosa farsa dei giorni scorsi a Roma, con centinaia e centinaia di saluti romani ad Acca Larentia e il più o meno silenzio imbarazzato della politica di Governo. Ma c’e’ bisogno soprattutto oggi di un antifascismo a difesa e a tutela della Costituzione, attaccata su piu’ fronti concreti dai provvedimenti legislativi in discussione nei due rami del Parlamento.

Premierato e autonomia differenziata sono i piu’ importanti di questi strumenti legislativi che la nuova destra al Governo propone e che alla fine contrastano con alcuni principi di fondo della nostra carta Costituzionale, frutto – è sempre bene ricordarlo soprattutto in questi giorni – della lotta partigiana. Di tutto questo ne ha fatto motivo di un interessante libro (che martedì 16 sarà presentato a Catanzaro) il presidente nazionale dell’ANPI, l’associazione dei partigiani italiani, Gianfranco Pagliarulo.

Anche l’ANPI infatti è seriamente preoccupata del tema dell’autonomia differenziata ‘’perché’ – dice Pagliarulo – aumenterebbe il divario, e dunque le diseguaglianze, tra aree forti e aree deboli del Paese aggravando ancora di piu’ il differenziale negativo del Mezzogiorno’’.

È pur vero – per tornare ai nodi anticostituzionali – che l’art.116 della nostra Carta prevede forme particolari di autonomia come possibilità ma è verissimo che al suo art.5 c’è il principio dell’unicità e della indivisibilità della Repubblica. Essere antifascisti oggi significa dunque, oltre lo smascheramento del ritorno a forme che ricordano il fascismo storico (i fattacci di Acca Larentia seguono decine e decine di altri casi mai repressi o semplicemente impediti da chi ha invece il preciso dovere di farlo), proporre un’alternativa che è tutta contenuta nella Costituzione, mai interamente applicata, che va difesa nella cura della memoria partigiana e con una nuova narrazione della Resistenza.

L’ANPI da questo punto di vista è avviata ad un racconto del passato come guida per l’azione del presente, per una ripartenza civile e sociale, non trascurando i mali di fondo che affliggono il Paese. Primi tra tutti povertà, disoccupazione, sfiducia.

In questa direzione serve, e in che forme, l’associazionismo democratico? Serve perché le forze politiche eredi di quelle che furono protagoniste della Resistenza non esprimono più l’egemonia esercitata nei decenni successivi alla Liberazione, sono addirittura scomparsi quei partiti e lo stesso contrasto agli attacchi piu’ veementi alla Costituzione, come è appunto il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata, vive momenti alti e bassi, a volte confusi e non pienamente percepibili dall’opinione pubblica.

C’è perciò bisogno di un rinnovato e corale impegno civile, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invocato nel suo tradizionale messaggio il 31 dicembre scorso, ma senza una difesa e una piena attuazione dei principi costituzionali la deriva che si sta prospettando è quella di un espandersi di un impasto di nazionalismo camuffato da primato patriottardo, di razzismo come paura patologica dell’altro, di dirigismo autoritario, persino di pensiero anti scientifico. Alla fine erano tutti elementi propri del fascismo. Oggi si sono rinnovati e la cultura antifascista ha urgente bisogno anch’essa di un rinnovamento chiaro e netto.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 gennaio 2023

Si fermino i Saturnali in Calabria.-di Battista Sangineto

Si fermino i Saturnali in Calabria.-di Battista Sangineto

I Saturnali erano una festa popolare -diffusa in tutto il mondo romanizzato a partire dal V secolo a.C. fino all’affermarsi del cristianesimo- che si celebrava tutti gli anni, dal 17 al 23 dicembre. Una festa sfrenata durante la quale gli schiavi godevano delle stesse libertà dei cittadini liberi perché, per esempio, erano autorizzati al gioco d’azzardo, ad ubriacarsi in pubblico e a sbarazzarsi del decoro che dovevano avere in qualsiasi altro momento dell’anno.

Dedicata a Saturno, la festa prevedeva una serie di banchetti ufficiali e, anche, di banchetti privati nelle abitazioni nelle quali s’invitavano parenti ed amici e che, spesso, degeneravano in orge e crapule: a tavola s’imbandiva quanto di meglio potevano produrre le cucine e le cantine, e dopo ci si abbandonava al giuoco dei dadi che le leggi proibivano negli altri giorni. I Saturnali costituivano, insomma, una valvola di sfogo ideata dall’élite romana per allentare le pressioni sociali ed economiche che si andavano creando nel corso dell’anno.

Dagli anni ’10 di questo secolo si è imboccata, a Cosenza come in molte altre città calabresi e italiane, la medesima strada dei Saturnali della Roma antica che si festeggiano con fiumi di alcol e musica a volume intollerabile dalla vigilia di Natale fino al primo dell’anno. Un delirio che tocca l’acmé il 24 e la notte di Capodanno lasciando dietro di sé ‘giovani’ di tutte le età ubriachi fino al coma etilico da Pronto soccorso, strade lastricate di immondizia e di bottiglie vuote, statue e monumenti imbrattati, arredi urbani sfasciati e divelti. Molti cosentini e calabresi avranno visto, e udito, di persona o le immagini dei Saturnali in corso di svolgimento e le conseguenze che ne sono derivate.

Sono convinto che le Amministrazioni, le Forze dell’ordine e le Prefetture debbano intervenire per prevenire ed impedire questo collettivo comportamento incivile e pericoloso.
Pericoloso per la salute pubblica perché il 118 è dovuto, a Cosenza per esempio, intervenire decine di volte a causa del grave stato di ubriachezza di cittadini, soprattutto giovani, che in alcuni casi sono stati trasferiti al Pronto Soccorso. Pericoloso per gli altri cittadini, sobri, che sono stati molestati e sbeffeggiati dai cittadini ubriachi mentre passeggiavano o mentre percorrevano alcune strade, ancora più pericoloso, in auto.

Incivile perché non si può permettere un disturbo della quiete pubblica, durato ore e ore, dovuto alla musica ad altissimo volume e alle schiere di cittadini ubriachi che schiamazzano, cantano e urlano senza che nessuno vi abbia posto rimedio.

In moltissime città italiane i Sindaci hanno emesso ordinanze che vietano la distribuzione di alcol e la diffusione di musica all’esterno per tutta la durata delle festività. Mi piacerebbe che i Sindaci e i Commissari delle città calabresi facessero altrettanto per far rispettare le elementari regole del decoro e del rispetto della quiete pubblica. In ogni caso si deve far osservare, con rigore, il divieto di vendere alcolici ai minorenni che sembrano essere i più fragili e i più attratti dal ‘cupio dissolvi’ etilico.

Sono convinto che l’avere imboccato, da più di 10 anni, la strada dei Saturnali non sia stato né bello né buono (mi si passi la parafrasi di uno slogan di qualche anno fa), ma che il continuare a seguirla favorisca solo l’ulteriore involgarimento e impoverimento culturale e civile delle città e dei cittadini.

Sono, altresì, convinto che agevolare e promuovere, durante tutto l’anno, una perenne movida per compiacere esercenti e ‘giovani’ di tutte le età, non solo non sia rispettoso della vita dei cittadini che non partecipano assiduamente a queste feste mobili, ma anche che la movida non porti ad alcun vantaggio economico e/o occupazionale a breve o medio termine e, meno che mai, ad un aumento del turismo, come è dimostrato dalle più recenti indagini socio-economiche (G. Bei-F. Celata 2023).

da “il Quotdiano del Sud” del 30 dicembre 2023

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il “Quotidiano del Sud” ha avviato un importante dibattito sull’uso dell’energia eolica che spero continui e coinvolga anche chi ha ruoli di governo del territorio. La questione delle energie rinnovabili è una cosa seria, ma spesso viene affrontata superficialmente e con categorie ideologiche. Tra i contributi più interessanti c’è stato quello del Prof. Ferdinando Laghi, consigliere regionale e vicepresidente dell’Associazione Medici per l’Ambiente. Il contributo di Ferdinando laghi è prezioso perché pone una questione di metodo.

Ogni fonte di energia, infatti, ha i suoi vantaggi e svantaggi rispetto all’ambiente e non va vista in assoluto ma relativamente ad altre fonti energetiche e al territorio che viene coinvolto. I pannelli solari, ad esempio, sono un’ottima fonte di energia rinnovabile, ma nessuno si sognerebbe di metterli sul Colosseo o sulla Cattedrale di Gerace o la Cattolica di Stilo. Invece, purtroppo, per sfruttare gli incentivi diverse imprese agricole li hanno impiantati su terreni agricoli togliendo spazio alla produzione di beni vitali per l’alimentazione umana ed animale.

Lo stesso approccio problematico, ma non preconcetto, bisogna avere rispetto alla installazione di pale eoliche, entrando nello specifico di singoli interventi. Intanto va ricordato che esistono pale eoliche di diverse dimensioni e forme, così come esistono condizioni climatiche che rendono antieconomica questa fonte (ad esempio nel Nord Italia) per la scarsa frequenza di venti con un minimo di intensità. Va quindi utilizzato, per un periodo congruo, un anemometro prima di installare una pala eolica. In secondo luogo va scelta con cura la localizzazione tenendo presente l’impatto acustico, i campi elettromagnetici, l’incidenza sul paesaggio, la vicinanza di insediamenti umani.

Chi scrive, quando era presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, ha promosso la prima installazione di un parco eolico in Calabria, costituendo una società denominata Eolo 21 con la partecipazione dei Comuni aspromontani interessati. Per scegliere la localizzazione sono stati consultati, fra gli altri, il WWF, la Lipu, la Facoltà di Ingegneria di Roma La Sapienza, e naturalmente l’amministrazione comunale coinvolta nella scelta. Abbiamo costituito una società a maggioranza pubblica affinché i Comuni, oltre ad essere protagonisti nella localizzazione di eventuali impianti eolici, ne traessero anche un maggior vantaggio economico rispetto a quanto normalmente offre il privato.

Infine, credo che vada fatta chiarezza sulla presunta autosufficienza energetica della Calabria. E’ vero che questa regione è esportatrice netta di energia ma lo fa grazie agli impianti termoelettrici presenti, mentre la produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico e solare) coprono circa i tre quarti del fabbisogno. Per arrivare all’autosufficienza energetica “pulita” e rendere veramente green questa regione dovremmo cominciare, come suggerisce Ferdinando Laghi, a spegnere progressivamente le centrali termoelettriche mentre aumentiamo la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Facendola finita con inerzie e sprechi, a partire dal completamento di opere rimaste inspiegabilmente sospese, come le previste centrali idroelettriche che dovevano entrare in funzione collegandole alla diga sul Metramo e a quella sul Menta. Per non parlare delle Comunità energetiche che si stanno diffondendo in tutto il Nord Italia dove le condizioni climatiche non solo favorevoli e stentano a partire nella nostra regione. D’altra parte è noto il paradosso: ci sono più pannelli solari per abitante a Bolzano che a Reggio Calabria.

Se si puntasse seriamente ad una vera transizione energetica in Calabria, si potrebbe non solo vivere meglio con minore inquinamento, ma anche rivendicare a livello nazionale ed europeo questo contributo alla riduzione della CO2. Con un programma che utilizzasse veramente questa grande risorsa ci sarebbe una rilevante ricaduta in termini di lavoro qualificato, di riduzione della bolletta elettrica per famiglie e enti pubblici.
Cosa ci manca?

da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2023.

Mezzogiorno, gli allarmi più allarmanti.-di Filippo Veltri

Mezzogiorno, gli allarmi più allarmanti.-di Filippo Veltri

Lo Svimez nel suo rapporto annuale ha fatto un’analisi a 360 gradi sullo stato dell’arte del meridione italiano.
Due sono gli aspetti particolari che vanno pero’, a distanza di alcuni giorni, ripresi e amplificati. Sono allarmi più allarmanti in ottica Calabria, se ci si passa la bruttura linguistica.

In testa c’è sicuramente la questione demografica. La diminuzione delle nascite e il progredire della speranza di vita, che hanno portato l’Italia tra i paesi europei più anziani e’ ormai una emergenza ogni giorno di più. Le migrazioni interne e internazionali hanno ampliato gli squilibri demografici Sud-Nord. Se da un lato, le comunità immigrate si concentrano prevalentemente nel settentrione “ringiovanendo” una popolazione sempre più anziana; dall’altro, il Mezzogiorno continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati.

Dal 2002 al 2021 hanno lasciato il sud oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti. Le migrazioni verso ilCentro-Nord hanno interessato soprattutto i più giovani: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati.

Al 2080 Svimez stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080.

Ma non e’ finita qui: la popolazione in età da lavoro si ridurrà nel Mezzogiorno di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centro-Nord di circa un quarto (–6,3 milioni di unità). Il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.
Per invertire la tendenza pluridecennale al calo delle nascite Svimez propone politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare

Il secondo elemento tra i tanti sollevati da Svimez nel suo corposissimo rapporto e’ quello legato ai divari di offerta di servizi educativi che ormai riguardano anche la scuola primaria. Dai dati dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica del Ministero dell’Istruzione e del Merito relativi all’anno scolastico 2021-2022, emerge che solo il 21,2% degli allievi della primaria nel Mezzogiorno frequenta una scuola dotata di una mensa; il 53,5% al Centro-Nord.

Solo un allievo su tre (33,8%) frequenta una scuola primaria dotata di palestra. A livello nazionale, il tasso di occupazione dei giovani laureati (74,6%) è significativamente superiore rispetto ai diplomati (56,5%). Nel Mezzogiorno, il differenziale è di 26 punti percentuali (61,6% contro 35,6%), mentre nel Centro-Nord è di 13 punti (80,6% contro 66,8%).

Il premio per l’istruzione si riflette anche nelle retribuzioni, con un laureato al Sud che guadagna mediamente il 41% in più di un diplomato, mentre nel resto del Paese il vantaggio è del 37%. La promozione di politiche che convergano la percentuale di laureati verso la media dell’UE appare opportuna, specialmente considerando le maggiori opportunità occupazionali, soprattutto nel Mezzogiorno; quasi un allievo su due (45,8%) nel Centro-Nord.

Questi tipi di gap generano effetti negativi diretti sulla performance degli studenti e indiretti sulle famiglie e sul mercato del lavoro. La crescita complessiva dell’occupazione in Italia nel periodo post-Covid è stata del 1,8% tra il 2019 e il 2023, con un aumento degli occupati diplomati del 3,6% e dei laureati dell’8,3%. Nel Mezzogiorno, la crescita è stata del 15,4% per gli occupati laureati (+203 mila occupati). A livello nazionale, il tasso di occupazione dei giovani laureati (74,6%) è significativamente superiore rispetto ai diplomati (56,5%). Nel Mezzogiorno, il differenziale è di 26 punti percentuali (61,6% contro 35,6%), mentre nel Centro-Nord è di 13 punti (80,6% contro 66,8%).

Il gap istruzione si riflette anche nelle retribuzioni, con un laureato al Sud che guadagna mediamente il 41% in più di un diplomato, mentre nel resto del Paese il vantaggio è del 37%. Questi tipi di gap generano, infine, effetti negativi diretti sulla performance degli studenti e indiretti sulle famiglie e sul mercato del lavoro.
Tutto ciò moltiplicato per 4 in relazione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 dicembre 2023