Categoria: Dalla Stampa

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Mettere al centro della propria riflessione la felicità può facilmente apparire, di primo acchito, occuparsi del godimento effimero, dell’edonismo individualistico che domina l’epoca. Fraintendimento a cui sfugge subito chi un po’ ricorda l’origine storica di questo lemma e soprattutto chi conosce l’autore che ne tratta. Domenico De Masi nell’agile e denso libretto La felicità negata (Einaudi), fuga subito il possibile equivoco, mostrando come il termine sia figlio dell’Illuminismo. Esso compare nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 quale diritto di tutti gli uomini alla «vita, la libertà, la ricerca della felicità».

Sappiamo peraltro che la felicità civile di cui parla De Masi diventa lo scopo del buon governo nelle teorizzazione degli illuministi napoletani, da Galiani a Filangeri e si ritrova nella Costituzione giacobina del 1793 in Francia. Ma l’autore la rintraccia addirittura nel 1759, addirittura in Adam Smith. Il fondatore dell’economia politica, che per decenni è stato evocato da migliaia di politici e intellettuali orecchianti per nobilitare il più sfrenato mercatismo, considera virtuosa la ricerca della felicità. Come fa nella Teoria dei sentimenti morali, dove tuttavia considera vera virtù solo la ricerca della felicità comune, mentre «il meno virtuoso… è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo». Quale grandezza in questa borghesia del Settecento, di fronte alla famelica ottusità di quella dei nostri anni.

In questo testo arioso, scritto con il nitore narrativo di chi ha lunga familiarità con i temi trattati, l’autore compie a mio avviso un’operazione compositiva geniale, che contiene alla fine una critica dirompente al sistema capitalistico giunto a questa fase estrema di sviluppo. Un’apertura di orizzonte di cui dovrebbero impossessarsi e trasformare in discorso corrente la politica radicale, le nuove generazioni. De Masi, dopo una breve introduzione in cui elenca tutte le conquiste grazie alle quali potremmo essere tutti felici, ricostruisce la vicenda di due grandi e contrapposte scuole di pensiero: la Scuola di Francoforte e la Scuola austriaca, che da cui è nato neoliberismo. Seguono due capitoli, uno dedicato al lavoro, com’era e come è diventato, e un altro all’ozio, nel quale l’autore offre 5 soluzioni possibili per risolvere il problema della sua crescente rarefazione del lavoro nella società postindustriale e per il conseguimento della felicità civile.

Non mi soffermerò sulla vicenda delle due scuole nelle quali il lettore, oltre a una ricostruzione agile ma circostanziata, troverà un vero repertorio di notizie particolari, che rendono l’analisi ricca di sorprese. A dispetto della vasta letteratura accumulatasi su queste due grandi correnti che hanno attraversato il Novecento, De Masi rende nuova questa pagina storica soprattutto grazie alla sua competenza e al suo sguardo di osservatore dei nostri anni. Egli può mostrare le ragioni per cui il rinnovato marxismo incarnato dalla Scuola di Francoforte, portatore di originalissimi contributi di analisi dei fenomeni culturali della società capitalistica, abbia avuto scarsa efficacia politica.

Fatta eccezione per l’annus mirabilis 1968 e la fine di quel decennio, in cui Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, diventarono testi sacri per una intera generazione, il resto della produzione non ebbe l’ influenza che arrise alla scuola avversaria. Intellettuali della statura di Theodor Adorno, Max Horkheimer, autori di un testo memorabile come Dialettica dell’illuminismo, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Walter Benjamin che ancora gettano luce sul nostro tempo, non andarono oltre una influenza di natura intellettuale. Ma quasi tutti i grandi studiosi che diedero vita all’Institut für Sozialeforschung fondato nel 1923, erano ricchi borghesi che fecero poco o nulla per diffondere le loro idee e per imprimere ad esse efficacia politica.

Diversamente da come operarono Böhm Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e altri economisti, che nella Vienna tra fine Ottocento e primi del Novecento (formidabile crogiolo intellettuale prima del tramonto), diedero vita a quella corrente che verrà chiamata neoliberismo. Costoro, anch’essi ricchi borghesi, erano intenzionati a combattere il socialismo e la classe operaia e misero in piedi circoli per diffondere le loro idee, entrarono nei consigli delle banche, delle imprese, nelle università, nelle redazioni delle riviste più prestigiose. Insomma misero in piedi, sul piano culturale, una esplicita lotta di classe. Alcuni di loro guardarono con favore perfino al nazifascismo.
De Masi ricostruisce la fortuna di questa scuola che negli ultimi decenni si è trasformata nel pensiero unico dell’umanità, la «nuova ragione del mondo» e ci regala anche una pagina storica di applicazione di quel pensiero all’economia italiana: la svendita del patrimonio industriale pubblico da parte di Mario Draghi.

Ma il messaggio più profondo e dirompente del libro, in pagine ricche di analisi in cui splendono i pensieri di Marx, di Keynes, di Simon Weil è che l’infelicità presente, il disorientamento psichico e morale dell’epoca è frutto dello sfruttamento sempre più totalitario del lavoro. Sfruttamento e disoccupazione strutturale che, come dice André Gorz, «è anche un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese». Uno strumento di ricatto con cui il potere non contrastato del capitale distrugge per cieca ricerca del profitto la società e saccheggia le risorse della Terra. Eppure, ricorda l’autore: «Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità».

Noi potremmo consentirci, grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, la possibilità «di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria». La felicità civile è a portata di mano ma l’enorme squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro, ha come esito una società ingiusta, frenetica, fonte di alienazione e malessere. Eppure, luminoso messaggio affidato alle parole di Marx, può esserci felicità anche nella lotta, nell’impegno a migliorare la vita degli altri: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, egoistica, limitata, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».

da “Left” del 27 agosto 2022
immagine: La risata, Umberto Boccioni

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I sondaggi dicono che il Mezzogiorno è l’area del Paese nel quale più ampio sarà il successo della coalizione delle destre il prossimo 25 settembre. Secondo l’Istituto Cattaneo, che ha stimato la possibile distribuzione, a questa coalizione andrebbero infatti 44 dei 50 seggi da assegnare con uninominale alla Camera e addirittura 24 su 25 al Senato. I restanti seggi, inoltre, ad eccezione di Napoli dove si profila una possibile vittoria del centrosinistra, sono considerati contendibili (Istituto Cattaneo, 9 agosto 2022). A cosa si deve questo eccezionale risultato? È l’ultimo dei paradossi cui ci ha abituati la storia del nostro Mezzogiorno perché i tre alfieri delle destre portano ciascuno il proprio dono agli elettori meridionali. Ma sono doni avvelenati.

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e aspirante presidente del Consiglio, promette l’abolizione del reddito e della pensione di cittadinanza con qualche guarentigia per i disabili, le persone con oltre 60 anni di età, le famiglie senza reddito e con minori a carico. Attualmente i nuclei beneficiari di queste prestazioni sono 1,15 milioni e coinvolgono in totale 2,46 milioni di persone. Di queste 1,69 milioni (69%) risiedono al Sud o nelle Isole. La regione che più ne beneficia è la Campania (22% del totale delle prestazioni erogate), a seguire la Sicilia (19%) (Report Inps, luglio 2022).

Silvio Berlusconi, padre padrone di Forza Italia e aspirante presidente della Repubblica, ha da sempre il suo cavallo di battaglia elettorale nella riduzione delle tasse da attuarsi, in spregio alla Costituzione e a ogni elementare criterio di equità sociale, con flat tax estesa a tutti i contribuenti. Ad avvantaggiarsene, come già sappiamo, sarebbero i redditi più alti. Il 78% dei redditi al di sopra dei 26.000 euro annui si trova al Centro-Nord e solo il 22% è a Mezzogiorno dove risiede il 34% della popolazione italiana.

Ma il dono che dovrebbe risultare più indigesto ai meridionali viene dalla Lega. Matteo Salvini, che è capolista al Senato in Basilicata, Puglia e Calabria, vuole portare a compimento il progetto di autonomia differenziata avanzato da Lombardia, Veneto ed Emila Romagna che il 28 febbraio del 2018 hanno siglato una pre-intesa con l’allora governo Gentiloni.

L’intesa prevede, in estrema sintesi, la distribuzione della spesa pubblica con il criterio della spesa storica che già oggi premia largamente il Centro Nord e contemporaneamente sottrae di fatto al parlamento la possibilità di legiferare, con uniformità per tutto il territorio nazionale, su temi di particolare rilevanza come la sanità, l’istruzione, l’ambiente, le infrastrutture. Il solo vincolo sarebbe quello della definizione dei livelli essenziali di prestazione ma anche qualora venissero infine stabiliti e soprattutto rispettati, cosa tutt’altro che scontata considerata la gravissima disparità territoriale già in essere fra le regioni meridionali e il resto d’Italia, si riferirebbero a un nucleo ridottissimo di garanzie sociali. Sarebbe la fine dello stato unitario. Un risultato pervicacemente perseguito dalla Lega sin dalla sua nascita e che avrebbe esiti catastrofici per tutta l’Italia, questo stentano a capire i dirigenti leghisti, e non per il solo Mezzogiorno.

In conclusione le tre proposte flag della destra (abolizione del reddito di cittadinanza, flat tax e autonomia differenziata), se attuate, comporterebbero un trasferimento netto di risorse dalle aree più povere a quelle più ricche del Paese, dal Sud al Nord dell’Italia. Negli ultimi trent’anni il reddito pro-capite dei meridionali si è ridotto a poco più del 50% di quello del Centro Nord, restituendosi ai livelli dell’immediato dopoguerra. Un nuovo record potrebbe presto essere raggiunto ma i meridionali, se bene informati, possono ancora impedirlo.

da “il Manifesto” del 26 agosto 2022

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

Un segnale di quanto sia profondo e stratificato, il distacco del ceto politico dal comune sentire dei cittadini è la sottovalutazione del loro sentimento morale, della considerazione che una vasta platea di essi conserva per la coerenza delle idee, dell’attaccamento ai principi, ai valori del comportamento umano.

Vivendo in una vera e propria bolla, in una sorta di sopramondo in cui sembra che tutto sia lecito, i nostri uomini di partito, parlamentari, leader di varia taglia credono di superare indenni il giudizio dei cittadini se un giorno sostengono una tesi e un mese dopo il suo contrario, se militano in un partito e dopo un anno si trasferiscono in altro raggruppamento, se votano una legge considerata ingiusta e sbagliata per l’ambito di valore che orienta il campo elettorale che lo ha eletto. Immaginano che il loro cinismo travestito da Realpolitik sia lo stesso dei loro elettori.

Vero è che dopo decenni di devastazione dello spirito pubblico, dopo l’umiliazione storica del Parlamento italiano, che ha riconosciuto in una giovane in cerca di fortuna la nipote di Mubarak – per dirne una – il senso morale in Italia si è gravemente deteriorato. Tra politica ed etica pubblica si è aperto un evidente divorzio. La sensibilità per la dignità e l’onore che la Costituzione pretende dai parlamentari è stata in buona parte corrotta. E in tale opera di dissoluzione dei vincoli etici, che dovrebbero limitare la condotta pubblica degli uomini politici, una parte rilevante ha avuto anche la nostra stampa e soprattutto la televisione.

Io sono convinto che se non fosse stato per gli ostacoli frapposti dalla legge, per l’ergastolo e il 41 bis, i talk show della Tv pubblica e privata avrebbero fatto a gara per una intervista esclusiva a Totò Riina in prima serata. Non ignoro la potenza neoliberistica della competizione.

Resta da aggiungere per la verità che le varie leggi elettorali maggioritarie degli ultimi anni non hanno consentito ai cittadini elettori di scegliere i propri candidati, ancora oggi selezionati dalle segreterie dei partiti. Entrando nelle urne non hanno potuto premiare o sanzionare i loro rappresentanti in base alle scelte compiute. Nessuno può sapere, ad esempio, se gli elettori del Partito democratico avrebbero riconfermato Marco Minniti dopo che questi, con iniziativa di governo, ha affidato alla guardia costiera libica il compito di dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo.

E tuttavia è esattamente allo sdegno morale dei cittadini più sensibili, insieme alle reiterate delusioni, ai tradimenti delle speranze e delle aspettative, che bisogna guardare per spiegare la crescita vertiginosa del non voto, l’altra faccia della luna dell’astensione.

Esiste ancora, soprattutto nell’ambito degli elettori di sinistra, una moltitudine di cittadini che hanno letteralmente abbandonato l’interesse per la politica a causa di alcune scelte dei propri leader. Lo hanno fatto in seguito al varo di alcune leggi, per scelte di politica interna o estera: atti che talora hanno creato ferite non rimarginabili nell’animo delle persone.

Credo che migliaia di italiani abbiano sperimentato lo stesso sentimento di rabbia, delusione, incredulità che ho sperimentato io nel 2006, quando Romano Prodi autorizzò il governo Usa ad allargare la base militare di Vicenza

In quel caso un governo, capeggiato da G.W. Bush, che aveva appena condotto una guerra di invasione contro l’Iraq, uccidendo centinaia di migliaia di iracheni (vedi collateral murder di Wikileaks ndr), che già possedeva centinaia di basi in tutto il mondo, Italia compresa, chiedeva di espandere la propria presenza militare nel nostro territorio. E il governo di centro-sinistra disse sì. Da allora i miei convincimenti sono stati sconvolti e io ho cominciato a guardare a quell’ambito politico come a un potenziale avversario dei ceti popolari del nostro Paese. La storia ha confermato la mia lettura di allora. Attraverso scelte meno gravi sul piano simbolico, ma simili, o più dirompenti sul piano sociale, la sinistra si è allontanata dai suoi tradizionali insediamenti operai e popolari perdendo il suo elettorato storico.

L’Italia, tuttavia, non dimentichiamolo, è un grande Paese. A dispetto degli arretramenti degli ultimi tempi e nonostante le vaste aree di corruzione e di malaffare che ne condizionano la vita, il cinismo di gran parte dei suoi gruppi dirigenti, possiede al suo interno formidabili anticorpi. Conserva presidi di democrazia e di senso morale nel mondo della cultura, dell’informazione, nella scuola, nel volontariato, in una vastissima area di cittadini comuni. Dunque, contrariamente a quanto immaginano gli stessi analisti che si occupano della politica italiana, il senso morale che ancora perdura in milioni di cittadini orienta anche il loro comportamento elettorale.

Esiste una vasta area di consenso potenziale tra milioni di italiani nei confronto delle forze politiche eticamente intransigenti. Si fanno illusioni i dirigenti di Sinistra italiana se credono di uscire indenni, agli occhi dei loro militanti ed elettori, dalla prova poco onorevole che hanno fornito nei giorni di apertura della campagna elettorale.

Che si voglia credere o no, una condotta intransigente sotto il profilo della fedeltà ai programmi annunciati, della coerenza di comportamento dei dirigenti, può favorire la crescita nel tempo di un partito come Unione Popolare, capeggiato da un ex magistrato come Luigi de Magistris.

Da qui potrebbe partire una inversione storica nel costume civile degli italiani: i partiti che tornano ad essere anche educatori, formatori di una consapevolezza di cittadinanza. Il ruolo che per alcuni decenni hanno svolto i partiti usciti dalla Resistenza, fondatori della Costituzione repubblicana.

da “Left” del 23 agosto 2022
Immagine: Francesco Lena

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico.

Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone.

Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

da “Left” del 10 agosto 2022

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Ormai l’hanno capito tutti che il Rosatellum non è il nome di un buon vino giulian-friulano, ma di una pessima legge elettorale, che blocca non solo le liste elettorali ma anche la libertà e la personalità di voto nei collegi uninominali, con il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità. Un obbrobrio non previsto dal Mattarellum, che alla Camera consegnava 2 schede e al Senato scorporava per la parte proporzionale i voti utilizzati per eleggere i candidati uninominali maggioritari.

Se non si aveva la forza numerica e la volontà politica di modificare la legge elettorale, come promesso in caso di taglio dei parlamentari, sarebbero bastate queste due piccole modifiche per rendere costituzionalmente potabile il Rosatellum: non ci hanno nemmeno provato.

La ragione è, come ha ben scritto Gian Giacomo Migone sul manifesto, nell’articolo “Quel Rosatellum che piace a tutti i partiti”, che fa comodo nominare i parlamentari, per aggirare di fatto l’art. 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo, in attesa di introdurlo con modifiche dei Regolamenti parlamentari di Camera e Senato e pertanto sottratte al controllo della Corte Costituzionale.

Altro vantaggio del Rosatellum è che assegna, in caso di coalizione, al partito egemone della coalizione, il diritto di proporre, in caso di vittoria, al Presidente della Repubblica il nome del/della presidente del consiglio dei ministri, sempre che non scattino veti informali europei o atlantici.
Il Rosatellum va bene anche alla coalizione arrivata seconda, che avrebbe il monopolio dell’opposizione, perché decide chi ammettere come lista minore della coalizione.

Se lo scopo è quello di salvare la Costituzione, come ha suggerito Gaetano Azzariti, non si possono mettere paletti programmatici: la coalizione deve essere aperta a tutti, a cominciare dal M5S e dalle liste rosso-verdi di ogni ispirazione socialista, comunista e ambientalista. La nostra Costituzione prevede il voto, oltre che segreto, eguale, libero, personale e diretto: il voto utile non è una prescrizione costituzionale, ma una scelta politica, una coalizione larga con scopo limitato ad impedire che il centro-destra prenda il 70% dei seggi uninominali. Diventa un voto utile, ma se è una coalizione con un ruolo politico e programmatico privilegiato per Calenda, senza un’apertura a soggetti di sinistra, è inutile perché non competitiva per vincere i collegi uninominali maggioritari.

Alle votazioni partecipa appena il 28% delle classi popolari e più sfavorite, quel voto va recuperato altrimenti non c’è partita, come non è seria un’alleanza elettorale col solo scopo di far eleggere un paio di leader politici, garantiti dal Pd.
Infine per mettere in salvo la Costituzione basta chiedere fin da subito a tutti i partiti un impegno per un Ddl costituzionale, che ogni modifica della Parte Prima della Costituzione, della forma di governo e della elezione e composizione degli organi costituzionali debba essere approvata con referendum, anche se approvata con i 2/3 dei membri del Parlamento.

In questo scorcio di legislatura si è approvata con decreto-legge (art. 6 bis d.l. 41/2022 una norma in materia elettorale che esenta dalla raccolta firme liste coalizzate che avessero raccolto almeno l’1% alle elezioni del 2018: una norma che viola gli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione, perché esclude liste non coalizzate che hanno raccolto la stessa percentuale di voto sia alla Camera, che al Senato. O si rimedia con urgenza ovvero si chieda l’assoluta neutralità del governo in caso di ricorso: è possibile e urgente prima della scadenza del termine per la presentazione delle liste.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2022

Con queste leggi elettorali il voto è una beffa.-di Felice Besostri

Con queste leggi elettorali il voto è una beffa.-di Felice Besostri

Votiamo subito! Lo chiede a gran voce chi pensa di vincere le elezioni, con la scusa di dare la parola al popolo, perché decida da chi farsi rappresentare?

Siamo in una democrazia, ancorché limitata dalla pandemia, dalla crisi energetica, dalla crescita produttiva stentatissima, dall’emergenza ambientale e, per non farci mancare nulla dalla guerra provocata dall’aggressione russa all’Ucraina, e pertanto, la parola il popolo ce l’ha naturalmente, senza garanzia di essere ascoltato e nemmeno di aver capito bene. Infatti, lo statista francese Georges Clemenceau ricordava che “In politica le promessa impegnano soltanto chi le ascolta”. Penso alla promessa di cambiare la legge elettorale in senso proporzionale, se il referendum costituzionale avesse avuto successo.

Se volete votare dovete prima ridarci, il diritto di voto, che ci avete rubato con il Porcellum e mai più restituito, nemmeno dopo che la Corte Costituzionale ha annullato le liste bloccate e il premio di maggioranza nel 2014, dopo che era stato usato nel 2006, 2008 e 2013 per rinnovare il Parlamento. Un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale non ha la Costituzione nel suo Dna e pertanto ha cercato di cambiarla, ma il popolo italiano l’ha bocciata e la Corte costituzionale per la seconda volta dichiara incostituzionale la legge elettorale, la n. 52/2015.

Si approva in gran fretta e con 8 voti di fiducia, tra Camera e Senato, una nuova legge elettorale, la n. 165/2017, Rosatellum, studiando bene i tempi per rendere impossibile, che fosse controllata prima della sua applicazione. Per essere sicuri la modificano in peggio con la legge n. 51/2019 e tagliano i parlamentari in media del 36,50% e alla vigilia delle elezioni esentano, quasi tutti quelli che ci sono, dal raccogliere le firme di presentazione delle liste, con buona pace dell’art. 51 Cost. che assicura che “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”.

Ridateci il diritto di voto, quindi di eleggere, uno per uno, i nostri rappresentanti, con qualunque sistema maggioritario, proporzionale o misto e non di ratificare quelli nominati dai partiti. Questo è il punto più difficile, perché il blocco delle liste e delle candidature uninominali, piace a troppi, di quelli che decidono: è la fonte del loro potere, più importante delle elezioni.

da “il Manifesto” del 20 luglio 2022
Foto di mohamed Hassan da Pixabay

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Ogni anno la stessa storia. Anzi peggio, perché con l’innalzamento delle temperature e la siccità prolungata il propagarsi degli incendi diventa ancora più facile. Non è possibile che si ripeta pedissequamente lo stesso rito estivo: allarme incendi, analisi e denunzie, grandi dibattiti televisivi e poi…ad ottobre tutto è finito, ne parliamo un altro anno.

Se si va a guardare la mappa della Nasa sugli incendi che hanno attraversato il nostro pianeta nel 2021 scopriamo che l’area più colpita è l’Africa sub-sahariana seguita dall’Amazzonia, California, Siberia, ecc. E’ davvero incredibile la scarsa o nulla informazione rispetto agli incendi che colpiscono l’Africa Sub-Sahariana: nel 2021 la superficie forestale percorsa dal fuoco in questa parte del mondo è stata pari a quasi il 50 per cento degli incendi forestali nel nostro pianeta. E non si è trattato di un anno eccezionale. Da almeno un decennio un numero impressionante di incendi sta “silenziosamente” bruciando le foreste di Angola e Repubblica Democratica del Congo.

Nel bacino del Congo che ospita la seconda foresta pluviale più grande della Terra, ma non ha l’appeal dell’Amazzonia, si sono registrati solo nel 2021 oltre 3000 incendi! Certo, l’uso del fuoco ha una antica tradizione in diverse aree agro-pastorali del pianeta e, soprattutto nelle zone tropicali è stato tradizionalmente usato per accrescere la superficie coltivabile. Ma, la crescita della popolazione e la sua pressione sulle risorse, sia da parte dei pastori che dei contadini, ha rotto l’equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente facendo degenerare una pratica sociale che ha una lunga storia alle spalle. Il mutamento climatico non ha fatto altro che rendere ancora più grave questa situazione.

Se per la prevenzione degli incendi, il pronto intervento, si spendesse un decimo di quanto si spende per la spesa militare si riuscirebbe a ridurre il fenomeno entro limiti tollerabili. Certo, bisogna distinguere tra piccoli e grandi incendi che colpiscono vaste aree forestali, come nel Centro Africa, Siberia, Australia, ecc. In Europa è soprattutto con i cosiddetti “piccoli incendi” che dobbiamo fare i conti e non sappiamo farli. Basterebbe un presidio del territorio per spegnere immediatamente il fuoco quando parte. C’è un detto francese che recita più o meno così: quando parte il fuoco dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio, dopo un’ora i vigili del fuoco. In sostanza è la velocità con cui si interviene che è decisiva e questa dipende dalla presenza umana nel territorio.

Come è stato altre volte raccontato, nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, nel Pollino e in altri parchi nazionali e regionali è stato in passato affidato il territorio a soggetti del Terzo Settore con contratti di “responsabilità territoriale”, in base ai quali veniva dato un contributo economico in ragione inversa alla superficie bruciata. Meno terreno bruciava più la cooperativa o associazione veniva premiata. Gli incendi non si possono prevedere, ma si possono spegnere sul nascere. Ed è quanto facevano un tempo gli agricoltori.

Il problema in gran parte dell’Europa mediterranea è che diverse aree interne sono state abbandonate e non c’è chi presidia il territorio, per questo ha funzionato quello che è stato chiamato “il modello Aspromonte”. Certamente questo modello non entusiasmava la lobby dell’antiincendio, il business delle società private che gestiscono elicotteri e canadair, e non è un caso se è stato abbandonato.

Più difficile è il controllo del territorio quando si tratta di vaste foreste disabitate o scarsamente abitate. «Gli scienziati nella previsione dei ’grandi incendi’ hanno lo stesso successo che in campo sismologico» scriveva Mark Buchanan nel suo saggio “Ubiquità”, ma questo non significa che non bisogna investire in studi e ricerche finalizzate a trovare le soluzioni più adatte ai diversi contesti.

Se pensiamo ad un nuovo mix di uomini e mezzi tecnici (come i droni) che possono presidiare il territorio anche a distanza di molti chilometri, crediamo che un serio contrasto ai “grandi incendi” si possa organizzare con successo. E dovrebbe avere una priorità per risparmiare tante vite e contrastare il mutamento climatico: questa crescita esponenziale degli incendi aumenta la quantità di CO2 nell’atmosfera, diminuisce la capacità di assorbimento che svolgono le piante, e quindi fa aumentare lo squilibrio dell’ecosistema con il conseguente aumento della temperatura, dei periodi di siccità, alluvioni sempre più frequenti, ecc. Il circolo vizioso che ci ha reso familiari gli “eventi estremi” e rischia di coinvolgerci in maniera irreversibile se non c’è un netto cambio di rotta che in questo momento non si vede. Anzi, si vede ma in senso nettamente contrario a quello che doveva essere, prima della guerra in Ucraina, la cosiddetta “transizione ecologica”.

da “il Manifesto” del 20 luglio 2022

Contro i diritti, riecco l’autonomia differenziata.-di Alessandra Algostino

Contro i diritti, riecco l’autonomia differenziata.-di Alessandra Algostino

Lo spettro dell’autonomia differenziata si riaffaccia alla ribalta dell’attulità politica e rischia di prendere forma con la bozza del “disegno di legge Gelmini” di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost.

In coerenza con l’istituzionalizzazione della diseguaglianza veicolata dall’autonomia differenziata, apre ad un trasferimento ampio di materie, in una cornice che, con il riferimento alla spesa storica, tende a fotografare e riprodurre le sperequazioni nella concretizzazione dei diritti. Tutto attraverso un processo, ça va sans dire, inscritto nella logica della verticalizzazione del potere e dell’esautoramento del Parlamento (il cui coinvolgimento, nella bozza, è relegato al parere reso dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali e alla ratifica del “disegno di legge di mera approvazione dell’intesa”).

Quanto alla salvaguardia di una tutela uniforme dei diritti che sarebbe assicurata dai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale, si può rilevare come, anche se fossero prestabiliti in relazione a tutte le materie devolute, essi non si riferiscono che ad un nucleo minimo, non alla tutela piena, effettiva e concreta dei diritti. I livelli essenziali non garantiscono eguaglianza. Il disastro della regionalizzazione della sanità è un tragico dato di fatto che la pandemia ha reso evidente in modo inoppugnabile.

La regionalizzazione si è rivelata un volano per la dismissione della garanzia dei diritti attraverso il servizio pubblico, quando non per l’abdicazione tout court al compito di tutela dei diritti: con l’autonomia differenziata si compie un altro passo verso la diseguaglianza e verso l’abbandono di un progetto di emancipazione sociale. “Diritti diseguali” è un ossimoro e i diritti sganciati dall’uguaglianza si trasformano in privilegi.

L’autonomia differenziata si pone in contrasto con il senso dell’autonomia sancita all’art. 5 della Costituzione. L’inserimento dell’autonomia tra i principi fondamentali sottolinea la connessione che esiste tra essa e principi quali democrazia, sovranità popolare, uguaglianza, solidarietà: l’autonomia è impregnata di tali principi e il riferimento all’unità, sempre nell’art. 5 Cost., ribadisce la sua inclusione in un comune orizzonte incardinato intorno alla dignità e ai diritti.

L’autonomia non è contro l’unità nazionale, ma ne è parte. È un’autonomia – quella costituzionale – che esprime un’idea di territorio come luogo vissuto, spazio di riconoscimento della pari dignità sociale, di esercizio dei diritti, di soddisfazione dei bisogni. Attraverso l’autonomia passano il pluralismo, la sovranità del popolo e intrinsecamente plurale, la valorizzazione della partecipazione, la limitazione del potere.

La prossimità in questo senso è garanzia, attraverso la vicinanza e l’effettività, di concretizzazione dei diritti, in armonia e al servizio del progetto costituzionale di uguaglianza sostanziale (art. 3, c. 2, Cost.). Nulla toglie l’autonomia così declinata alla garanzia dei diritti sulla base di un principio di universalità e di uguaglianza sul territorio nazionale.

La Costituzione all’art. 3 ragiona di uguaglianza effettiva, di differenziazioni e redistribuzione che possano garantirla, muovendosi nello spazio della solidarietà e della giustizia sociale; l’autonomia differenziata sponsorizzata da alcune ricche regioni del Centro-Nord si situa in un orizzonte competitivo e, dietro una perequazione dal sapore meramente retorico, stabilizza e incrementa le diseguaglianze. Si scorge in controluce l’utilizzo della categoria del merito come strumento di legittimazione delle diseguaglianze e giustificazione dell’abbandono della redistribuzione della ricchezza e della solidarietà.

L’autonomia differenziata si declina, dunque, in senso autoreferenziale, come egoismo territoriale, e si pone dalla parte della diseguaglianza. Costituisce una distonia nel testo costituzionale e va rimossa (come l’altro elemento disarmonico, il principio di pareggio di bilancio, appartenente alla stessa razionalità). Certo, si è consapevoli dei rapporti di forza: la distonia è la nota dominate e parte della melodia, egemone, che eleva la massimizzazione del profitto di pochi a grundnorm. Ma almeno non rinunciamo a far sentire che altra è la voce dei diritti, dell’uguaglianza, dell’emancipazione.

da “il Manifesto” del 25 giugno 2022

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Ci lamentiamo del caldo, ma qualcosa sta cambiando e non di poco conto. Inutile nascondere la testa sotto il cuscino mentre la vita sul Pianeta diventa sempre più complicata e messa a dura prova.

Il 28 maggio scorso a Turbat nella regione del Belucistan (Pakistan) si è toccato un nuovo record nelle alte temperature arrivando a 53,7 °C. Nell’ultimo decennio anche in altri paesi asiatici si sono superati i 50°C, in particolare in India, Iran e Iraq.

Ma questo dato non ci ha riguardato, non ci ha interrogato su dove stiamo andando, come è successo con i conflitti armati che infettano tanti paesi dall’Africa all’Asia all’America Latina, finché non è arrivata la guerra alle porte di casa non ce ne siamo preoccupati.

Mentre d’estate i picchi di temperatura si vanno alzando di anno in anno, d’inverno avviene il contrario con temperature sotto lo zero che hanno sfondato il tetto dei 60°C (un fenomeno di cui sono occupato in passato, analizzando alcune serie storiche, nel saggio “Eventi Estremi”, Milano, 2011).

Diciamo meglio: mentre la temperatura media del nostro pianeta si alza dal tempo della rivoluzione industriale, i picchi di temperatura, verso l’alto e verso il basso, continuano a sfondare i limiti estremi, rendendo la vita dei viventi, dalle piante agli animali, estremamente difficile.

La vita sul nostro pianeta è stata resa possibile dentro questo intervallo di temperature. In tutti gli altri pianeti le temperature minime e massime vanno ben al di là dei 100°C, e soprattutto le escursioni termiche, come avviene anche sulla Luna, sono insostenibili per come conosciamo la vita sulla Terra.

L’affascinante Venere che va in scena nelle notti d’estate ha una temperatura di 475°C di giorno e di –185°C di notte, che è pari alla temperatura media del gelido Saturno, mentre Mercurio è più bollente dell’inferno dantesco con i suoi 430°C che di notte scendono a -185°C.

Dovremmo avere la consapevolezza di vivere in un posto speciale, ma allo stesso tempo fragile, con un equilibrio che è il risultato di una evoluzione avvenuta in milioni di anni e che noi nell’arco di una generazione stiamo mettendo a repentaglio. Viviamo una profonda contraddizione esistenziale: abbiamo una informazione globale, sappiamo quello che avviene in tante parti della Terra, ma ci preoccupiamo solo di ciò che ci riguarda da vicino, nello spazio e nel tempo.

Noi umani che abitiamo il Pianeta non abbiamo sviluppato una coscienza all’altezza del progresso tecnologico, anzi ci siamo rinchiusi nel nostro “particulare” nell’accezione di Guicciardini, cioè nella sola sfera in cui pensiamo di agire e contare. Solo quando veniamo colpiti direttamente prendiamo coscienza di un determinato fenomeno.

Così sta avvenendo con gli effetti del mutamento climatico che finora ci hanno solo sfiorato rispetto a quegli eventi estremi che si registrano in altri paesi del Sud del mondo.

E’ bene sapere, invece, che dovremmo prepararci ad affrontare anche questi picchi di temperatura, che come è avvenuto in Francia nel 2003, possono provocare migliaia di vittime tra tutti gli esseri viventi. A partire dagli enti locali, dovrebbe essere previsto un piano di emergenza per le ondate di calore così da mettere in sicurezza le fasce più fragili della popolazione.

Le misure necessarie non sono difficili da individuare.

Bisogna evitare gli sprechi della risorsa idrica che sta diventando, e ce ne accorgiamo in questi giorni, sempre più preziosa, così come andrebbe vietato il consumo irresponsabile dell’aria condizionata con le porte aperte degli esercizi commerciali, mentre persone anziane e povere non possono più permettersi di accendere un ventilatore per gli aumenti della bolletta elettrica.

Allo stesso tempo dovremmo adesso cominciare ad occuparci di come ci potremo riscaldare in inverno se dovesse prevalere lo scenario peggiore (zero gas dalla Russia), con un piano che punti al risparmio energetico e ad un uso ben più diffuso delle energie rinnovabili. Dovremmo operare come i grandi marchi della moda che presentano oggi le novità per la prossima primavera/estate.

Infine, dovremmo unire i nostri sforzi, almeno a livello europeo, per affrontare questa crisi climatica e invece facciamo di tutto per alimentare la guerra in Ucraina, ritorniamo ad usare il carbone, non vogliamo operare nessuna riduzione dei nostri consumi inquinanti, e tutto questo lo chiamiamo “ritorno alla normalità”.

da “il Manifesto” del 24 giugno 2022
Foto di Sven Lachmann da Pixabay

Autonomia differenziata, cacofonia di governo.-di Massimo Villone

Autonomia differenziata, cacofonia di governo.-di Massimo Villone

Alla Camera il 15 giugno abbiamo visto la ministra Carfagna battere un colpetto. Di più proprio non possiamo concedere per la sua risposta in question time ai deputati Conte e Fassina, che ponevano interrogativi sui rischi derivanti per l’unità del paese dall’autonomia differenziata. L’approccio di Carfagna è in apparenza assai bellicoso. Pone tre «questioni imprescindibili»: livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e fondo perequativo tra regioni; abbandono del principio della spesa storica; pieno coinvolgimento del parlamento nel processo attuativo. Peccato che il primo sia un miraggio. Mentre il secondo e il terzo sono esplicitamente contraddetti dal testo della cosiddetta legge-quadro uscito dagli oscuri cassetti del ministero delle autonomie.

È una bozza aperta al confronto, come dice Carfagna, o è un disegno di legge ormai alla soglia del consiglio dei ministri, come dice Gelmini? Certo, se arrivasse in consiglio così com’è, a questo punto Carfagna dovrebbe solo votare contro. E allora qual è l’indirizzo di governo sull’autonomia differenziata?

Qui si rischia un compromesso al ribasso, di scambio tra Lep e perequazione da un lato, autonomia differenziata dall’altro. L’ipotesi è già venuta in campo, forse anche nelle «questioni imprescindibili» poste da Carfagna. Ma Lep e perequazione sono un miraggio, o magari uno specchietto per le allodole. Richiedono, per essere davvero efficaci nell’attaccare diseguaglianze nei diritti e divari territoriali, un ciclo economico duraturo di crescita sostenuta che assicuri le compatibilità di bilancio necessarie per risorse aggiuntive ai meno fortunati sufficienti a ridurre, nel tempo e progressivamente, il distacco. Diversamente, rimarranno marginali.

Questo perché in politica Robin Hood non esiste. Togliere gli asili nido a Reggio Emilia per darli a Reggio Calabria è politicamente impraticabile. Una stagione di vacche magre, di stagnazione e di crescita stentata, non può essere una stagione d’oro per Lep e perequazione. È quel che è accaduto in passato, e che probabilmente accadrà con la guerra in Ucraina. Già vediamo che il tasso di crescita crolla, i conti pubblici peggiorano, lo spread rialza minacciosamente la testa.

E dunque le perequazione sono in sé cosa buona e giusta e vanno perseguiti, ma certo non bastano. La vera «questione imprescindibile» per un tempo nuovo di coesione e di eguaglianza è una crescita sostenuta e duratura. Per questo la scommessa è sul rilancio del Sud come seconda locomotiva del paese, come da più parti si chiede. Al tempo stesso, bisogna evitare scelte che rendano difficili o impossibili le forti politiche pubbliche – nazionali – necessarie a tal fine. In questa prospettiva l’autonomia differenziata reca danno a tutti, e non solo al Sud.

È la continuazione delle politiche che hanno condotto le nostre eccellenze del Nord – Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana – a una caduta rovinosa nelle classifiche territoriali europee, come dimostra la Svimez (Rapporto 2021). Ma questo non intendono i fan dell’autonomia differenziata, come il professor Andrea Giovanardi, membro della delegazione trattante del Veneto, che sul Foglio del 16 giugno attacca frontalmente chi osa criticare la legge-quadro a firma Gelmini. Il suo ragionare conferma che abbiamo fatto bene a presentare in senato il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare per una revisione mirata degli articoli 116 (autonomia differenziata) e 117 (riparto di potestà legislative tra stato e regioni), di cui ha dato notizia ieri questo giornale.

Per Giovanardi l’emarginazione del parlamento è inevitabile perché la legge di approvazione dell’autonomia differenziata è adottata sulla base di intesa tra Stato e regione. Se è così, bisogna cancellare non l’autonomia differenziata, ma il principio dell’intesa come fondamento necessario. Come noi proponiamo. Se la legge quadro non può ridurre il numero delle aree di competenza devolvibili, allora bisogna togliere dal catalogo delle potestà concorrenti – tutte devolvibili – quelle strumentali a politiche pubbliche nazionali strategiche, in più introducendo un principio di supremazia della legge statale in vista dell’unità giuridica ed economica del paese e dell’interesse nazionale. Come noi proponiamo. Invero, altre interpretazioni sarebbero possibili, ma sono proprio i Giovanardi – che a palazzo Chigi è ascoltato – a rendere una riforma opportuna, se non necessaria.

Il film del Giovanardi-pensiero l’abbiamo già visto. Errare è umano, perseverare è diabolico. Il presidente Zaia ci ha anche informato che sul tema dell’autonomia differenziata c’è un patto tra gentiluomini, da rispettare. Non sappiamo di chi si tratta, ma dubitiamo che – politicamente – lo siano davvero.

da “il Manifesto” del 16 giugno 2022

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.

All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.

In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.

Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.

A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.

Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.

Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.

Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).

Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).

Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.

I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.

Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.

Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.

da “il Manifesto” del 14 giugno 2022
Foto di Mediamodifier da Pixabay

Democrazia e ricorsi elettorali in Calabria.- di Felice Besostri, Caterina Neri, Enzo Paolini

Democrazia e ricorsi elettorali in Calabria.- di Felice Besostri, Caterina Neri, Enzo Paolini

La legge elettorale vigente, costituita dalla legge165/2017 (Rosatellum come integrata e modificata dalla legge n. 51/2019 e completata dal decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 sui nuovi collegi elettorali), presenta profili di contrasto con norme costituzionali fondamentali, quali gli articoli 3, 6. 48, 51, 56 e 58, che garantiscono un voto eguale, libero e personale oltre che diretto e il diritto di candidarsi in condizione di eguaglianza alla luce dei principi affermati nelle sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 e n. 35/2017.

La situazione si è aggravata con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1/2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari con la Camera che passa da630 a 400 membri e il Senato da 315 a 200 membri elettivi, e con la conseguente estensione dei collegi uninominali maggioritari (3/8) e quindi dei loro voti, che alterano i risultati della quota proporzionale (5/8), senza la possibilità del cosiddetto “scorporo”.

Tecnicismi che non interessano a nessuno perché con quello che ci succede intorno, dalla pandemia alla guerra, c’è altro cui pensare. Ma questo non è un argomento.

La legge elettorale è la legge che regola il rapporto tra rappresentati e rappresentanti, non proprio una minuzia nella vita democratica. Dalla legge elettorale discende la selezione della classe dirigente e la sua qualità, dal Parlamento fino all’ultimo Comune e all’ultima ASL. Solo che siccome è difficile da capire giornaloni e TV hanno deciso di non occuparsene, cosi i cittadini non se ne interessano e restano sudditi.

Il fatto è che – come acutamente osservato da Silvia Truzzi sul Fatto Quotidiano, -più una legge elettorale è difficile da capire, meno bisogna fidarsi.

Gli elettori si sono stancati di fare ricorsi per affermare il loro diritto di votare in conformità alla Costituzione e d’aver avuto ragione, ben due volte, dalla Corte Costituzionale e constatare che i parlamentari non ne tengono conto, anzi se ne infischiano. La ragione è semplice:con le liste bloccate devono solo ubbidire agli ordini dei capi partito, che li nominano collocandoli nelle teste di lista e non rendere conto agli elettori, che non possono esprimere preferenze e neppure contrarietà a singole candidature.

In vista delle elezioni municipali del 12 giugno è ripreso il dibattito sulla legge elettorale per il rinnovo del Parlamento. Le prossime elezioni alla scadenza naturale della primavera 2023 o anticipate in caso di crisi del Governo Draghi saranno le prime con il Parlamento tagliato in media del 36,50%, come conseguenza della legge costituzionale n.1/2020.

Con il voto congiunto obbligatorio, l’assenza di scorporo dei voti ottenuti nel maggioritario, le soglie nazionali anche per il Senato, (benché l’art. 57 Cost. preveda la sua elezione su base regionale,)c’è il rischio che nel prossimo parlamento siano rappresentate non più di 4/5 liste e al Senato ,nelle regioni più piccole ,non più di 3. Sono inoltre favorite le coalizioni, che non hanno più, dopo la riscrittura dell’art. 14 bis del dpr n. 361/1957, un unico capo politico e nemmeno un programma comune.

Le liste coalizzate per essere conteggiate a favore delle coalizioni nella parte proporzionale basta che superino la percentuale dell’1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere la soglia del 3%. La violazione degli articoli 3, 48 e 51 Cost., nonché degli artt. 56 e 58 è evidente. Non c’è voto diretto, eguale. libero e personale.

E’ una legge elettorale “di palazzo” fatta per perpetuare il potere e tenere fuori i cittadini elettori che non contano assolutamente niente . Poche persone nominano l’intero parlamento . Dall’entrata in vigore del Porcellum nel 2005 e del Rosatellum nel 2017 sono 18 anni che non possiamo scegliere i parlamentari causa delle liste totalmente bloccate delle elezioni 2006, 2008 e 2013 e nel 2018 nemmeno scegliere liberamente il candidato uninominale maggioritario, a causa della sanzione della nullità del voto disgiunto.

Tuttavia, questa legge non sarà cambiata, se non viene mandata in Corte Costituzionale quest’anno, affinché si possa pronunciare prima delle elezioni 2023. Ed e’ questo il senso di questo articolo . Attualmente pendono 3 ricorsi presso le Corti d’ Appello di Bologna, Messina e Roma e 4 presso i Tribunali di Catanzaro e Reggio Calabria e di recente Torino e Trieste.

Quelli presso i Tribunali calabresi evidenziano più di altri le disparità di trattamento, quindi la incostituzionalità della legge elettorale perche sottopongono ai Giudici l’incredibile disparità che le normative applicabili comportano ad esempio in Calabria e nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol.

Nel Senato il Trentino-Alto Adige/sudtirol, che aveva 7 seggi come Abruzzo e Friuli-V.G., con il trucco di dare il minimo di 3 alle Province Autonome ne avrà 6, quindi il taglio è stato del 14,28% e non del 36,50% come nelle altre regioni.

Con 6 senatori il Trentino A.A. ne ha più dei suoi ex-compagni di 7 ABRUZZO e FRIULI, che ne hanno 4 ma anche di Liguria, Marche e Sardegna che ne avevano 8 ed ora 5. Tutte queste 5 Regioni sono più popolate del Trentino-Alto ADIGE, che al censimento 2011 aveva 1.024.000 abitanti.

MA E’ IL CONFRONTO CON LA CALABRIA CHE E’ SCANDALOSO .
Con 1.959.000 abitanti, quasi il doppio (i trentini-sudtirolesi sono il 52,27% dei calabresi) aveva 10 senatori ed ora ne ha 6, con un taglio del 40%. Prima per eleggere un senatore bastavano 195.900 residenti calabresi, ora ne servono 326.500, mentre nella regione trentina-sudtirolese ne bastano 170.666.

Ma i privilegi non finiscono qui: per la legge 51/2019 sia alla Camera che al Senato ci sono 3/8 di seggi maggioritari e 5/8 proporzionali.

Ebbene alla Camera, in Trentino A.A. i seggi maggioritari sono 4 e i proporzionali 3. Al Senato sono 6 maggioritari., mentre in Calabria ,con il doppio degli abitanti ,sono 2 maggioritari e 4 proporzionali.

L’altra discriminazione è per le minoranze linguistiche, che hanno norme speciali di favore solo nelle Regioni Autonome a statuto speciale, eppure la Calabria ha tre minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/1999, di cui la grecanica antichissima, millenaria e l’albanese di insediamento plurisecolare.

Gli albanofoni, peraltro colpiti dall’emigrazione, hanno una consistenza numerica superiore alle minoranze linguistiche slovena, ladina e francese, tutelate in regioni a statuto. Nei ricorsi si censura la discriminazione tra minoranze linguistiche e tra le minoranze linguistiche tutelate e le minoranze politiche con la stessa consistenza elettorale.

Queste discriminazioni degli elettori ed elettrici calabresi meritano un vaglio di costituzionalità, che spetta ai Tribunali Civili di Catanzaro e Reggio Calabria promuovere dovendo giudicare sui ricorsi da noi proposti .

da “il Quotidiano del Sud” del 13 giugno 2022

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Di pochi giorni fa la notizia che il governo indiano bloccava l’export di grano, poi ridimensionata accettando di far passare l’export già passato, al 14 maggio, alle procedure doganali. Malgrado l’India non sia tra i primi dieci paesi esportatori di grano, è il secondo produttore al mondo di frumento dopo la Cina, che soddisfa essenzialmente il mercato interno.

Con questa mossa il governo del presidente Modi avrebbe voluto assicurarsi che il grano prodotto nel subcontinente indiano restasse all’interno del paese, evitando che l’alto prezzo del cereale favorisse l’export a danno della popolazione più povera. Misura eminentemente politica perché le “guerre per il pane” stanno per ritornare all’ordine del giorno.

I primi paesi importatori al mondo, sono anche paesi, sovrappopolati, con una parte rilevante dei cittadini sotto la soglia della povertà o bordenline. E sono nell’ordine: Egitto (che importa mediamente 12 milioni di tn annue), Indonesia, Algeria, Turchia, Brasile. I primi quattro paesi sono nel Mediterraneo, a cui va aggiunta anche la Tunisia non in termini quantitativi ma relativi, dove anche in tempi recenti sono scoppiate le rivolte per il pane e complessivamente importano ogni anno qualcosa come 37-38 milioni di tn. di grano tenero.

Per inciso, il grano duro, che viene usato per la pasta, rappresenta solo il 5% del mercato mondiale del frumento e viene prodotto in pochi paesi, soprattutto nel Mediterraneo e in Canada, con l’Italia come primo produttore al mondo, ed anche primo importatore data la sua specializzazione nel settore.

Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale. Stesso discorso, in parte, vale per il mais, usato prevalentemente per gli allevamenti zootecnici. In questo caso l’Ucraina ha un peso rilevante, rappresentando il 15 % dell’export mondiale, e la Ue è uno dei principali importatori di mais, soprattutto per la domanda proveniente dagli allevamenti industriali, disallineati rispetto alle risorse agricole del territorio in cui operano.

Stiamo tornando, senza accorgercene, ai tempi delle città-Stato in Grecia, in cui Solone proibì l’export dei beni alimentari, ad eccezione dell’olio d’oliva, ritenendoli come una riserva strategica in caso di guerra. E la Ue che fa in questo nuovo scenario?

E’ il principale esportatore di grano al mondo, con circa 33 milioni di tn, ma è anche un importatore per circa 7 milioni di tn. Dato che è un esportatore netto potrebbe battersi per porre un tetto al prezzo del grano e sostenere, anche con un contributo proprio, il prezzo all’esportazione per i paesi del Mediterraneo più minacciati da questa nuova situazione. La pace si conquista prima che scoppi un conflitto o che un paese precipiti nel baratro di una guerra civile.

È arrivato il tempo in cui la Ue potrebbe pensare seriamente ad un Mercato Comune Mediterraneo con una strategia di integrazione delle economie della sponda Nord e Sud-est, partendo dall’energia e dai beni alimentari, e varando una intelligente politica di accoglienza e gestione dei flussi migratori. Dobbiamo prendere atto che questa guerra, ancor più della pandemia, ha dato un colpo pesante alla globalizzazione capitalistica, alla creazione di un mercato unico mondiale.

La lotta fra gli imperi, richiamata da chi scrive prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sta ridisegnando le mappe dei diversi mercati “interni” in cui il “prezzo politico” diventa prevalente rispetto a quello economico. Ma, questo processo di de-globalizzazione è anche una occasione storica per ripensare alle politiche economiche in campo energetico e agro-alimentare. In particolare, è arrivato il momento di rivedere radicalmente la P.A.C. (Politica Agricola Comunitaria) che ha privilegiato grandi aziende ad alto consumo energetico e impatto ambientale a favore di una agricoltura contadina, l’unica in grado di proteggere la biodiversità e l’autosufficienza di un territorio.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Pexels da Pixabay

Evitiamo il consumo di suolo, mettiamo i pannelli sui tetti.-di Alberto Magnaghi

Evitiamo il consumo di suolo, mettiamo i pannelli sui tetti.-di Alberto Magnaghi

Su una questione relativa alle conseguenze della guerra c’è unanimità: la necessità per l’Italia, dato il primato della dipendenza dalla Russia, di accelerare le strategie per aumentarne l’autosufficienza alimentare e energetica. Ma qui finisce l’unanimità, in particolare sulla questione energetica, e si aprono almeno tre strade. La prima una capriola “tattica”: lo spostamento su altri paesi della dipendenza, il ritorno al carbone e all’estrazione di metano, l’opzione nucleare, e così via.

La seconda un’accelerazione della produzione già in atto di energie rinnovabili con grandi impianti impattanti sul territorio e di scarsa accettabilità sociale. La terza la promozione di comunità energetiche di produzione e consumo, che valorizzano mix energetici di risorse locali. Ammettiamo che questa terza strada, quella strategica, se pur già avviata e in forte sviluppo in molte regioni, abbia effetti quantitativi di medio e lungo periodo, soprattutto nei piccoli comuni e nelle aree interne. Come accelerare nel breve periodo, attraverso il Pnrr, questa terza strada? Indico una possibile proposta.

Il nostro territorio si caratterizza per una straordinaria permanenza patrimoniale (culturale, ambientale, paesaggistica-urbana e rurale) che ne costituisce una potenziale base di risorse (i patrimoni materiali e immateriali dei contesti rurali e urbani marginali) per affrontare le crisi socioambientali globali; questa permanenza (scarsamente valorizzata, se non in chiave turistica) è stata brutalmente affiancata, con un gigantesco consumo di suolo, da urbanizzazioni diffuse di bassa qualità edilizia, ambientale, urbanistica, paesaggistica: periferie omologanti che attanagliano città storiche piccole, medie e grandi; zone industriali e commerciali; piattaforme di capannoni prefabbricati (non oggetto di insegnamento nelle facoltà di architettura!) disposte con sommarie e scomposte lottizzazioni.

Ora i decisori, anziché direzionare gli impianti energetici verso questo territorio degradato comprendono, nella selezione delle aree, l’Italia dell’alta qualità paesaggistica e ambientale. E i nemici dichiarati della necessaria accelerazione degli investimenti del Pnrr sulla produzione di impianti energetici rinnovabili diventano le soprintendenze, i piani paesaggistici, i piani urbanistici, le VIA, le VAS e cosi via: ovvero notoriamente gli strumenti di tutela e valorizzazione della prima Italia che ho nominato, quella della permanenza diffusa di un alto valore patrimoniale del territorio.

Ma come pensano i decisori di superare gli ostacoli alle autorizzazioni, l’accettabilità sociale degli impianti, la lentezza delle comunità energetiche in questa Italia dei valori patrimoniali?

Oltre alle gravi forzature ministeriali proposte per bypassare le autorizzazioni delle soprintendenze, le regioni stanno proponendo procedure (ad esempio in Toscana sospendere parti della legge di governo del territorio 65/2014, già ripetutamente erosa, e i processi partecipativi ivi previsti) per rendere inoperanti le regole e le tutele urbanistiche per le opere finanziate dal Pnrr; un quadro di totale deregulation, destinato a incidere profondamente sull’abbassamento di valore del nostro patrimonio territoriale; pur essendo sotto gli occhi di tutti che il paesaggio dello sviluppo contemporaneo è denso di milioni di metri quadri di tetti piani di zone industriali, artigianali, commerciali, adatti a grandi impianti di fotovoltaico e minieolico.

Nessuna soprintendenza o Prg o associazione di abitanti metterebbe in discussione la copertura energetica di queste piattaforme che non sono sottoposte in massima parte (se si escludono opere di pregio o di archeologia industriale) per la loro bassa qualità architettonica e degrado urbanistico, ad alcun vincolo artistico, storico o paesaggistico.

Peraltro si tratta in molti casi di strutture gestite in forma organizzata (consorzi e altre forme societarie), già adatte alla potenziale gestione collettiva dell’opera (anche in forma di comunità energetica). Ogni Regione potrebbe dunque: a) operare una analisi speditiva delle principali zone industriali, artigianali e commerciali del proprio territorio regionale; b) costituire un tavolo con i soggetti pubblici e privati che gestiscono tali zone per l’utilizzazione energetica delle coperture attraverso forme di gestione collettiva, (comunità energetiche); c) attivare agevolazioni e incentivi generali e specifici (per coperture obsolete, tetti di amianto, ecc.

La proposta, utile per accelerare le misure d’ emergenza senza far ricorso alla deregulation, riscatterebbe in parte il degrado del territorio produttivo e commerciale, trasformandolo in risorsa concorrente alla sovranità energetica del paese.

da “il Manifesto” del 19 marzo 2022
foto Pixabay

ll bando borghi manca di strategia: che senso ha dare 20 milioni a un Comune solo?di Rossano Pazzagli

ll bando borghi manca di strategia: che senso ha dare 20 milioni a un Comune solo?di Rossano Pazzagli

Il 18 settembre 2021 il Fatto Quotidiano pubblicò “Non chiamateli borghi, sono paesi”, un mio intervento in cui si richiamava la centralità del paese, inteso come comunità locale, per scongiurare la retorica del piccoloborghismo e curare le disuguaglianze del Paese con la P maiuscola.

L’attuazione del PNRR è andato in direzione opposta, destinando oltre 1 miliardo di euro al cosiddetto piano Attrattività dei Borghi sul quale stanno piovendo critiche da tutte le parti, specialmente dagli stessi enti locali che dovrebbero beneficiarne, come ha riportato ancora il Fatto il 13 febbraio scorso. Tutto è centrato sul borgo.

Ma il borgo esprime una visione parziale: è solo una parte, una definizione retorica di chi guarda dall’esterno. Il paese è tutto, è comunità, territorio, casa; il posto dove tornare o dove restare, non solo il luogo da cui andare via. La questione non è solo terminologica e sottende una visione che ragiona a sistema invariato, cioè tende a riproporre per le zone interne lo stesso modello che le ha marginalizzate, cioè quello della competizione, della crescita economica e dei consumi, seppure ammantato dalle parole magiche che percorrono il Pnrr: sostenibilità, transizione ecologica, digitalizzazione.

Nella sua attuazione pare che si sia presi innanzitutto dalla necessità di spendere e di spendere presto, più che dalla elaborazione di una vera e propria strategia di intervento, da un programma calato dall’alto piuttosto che da una pianificazione partecipata dal basso, di fatto smentendo e rendendo così meno credibile l’impegno profuso con la Snai (Strategia Nazionale Aree Interne) negli ultimi anni in decine di aree italiane. Ne abbiamo una prova nel bando per la presentazione di Proposte di intervento volte alla rigenerazione culturale e sociale dei piccoli borghi storici da finanziare nell’ambito del Pnrr (misura “Attrattività dei borghi storici”, Missione 1). Un avviso pubblico che chiama i Comuni sotto i 5.000 abitanti a presentare progetti economicamente consistenti, alla svelta (entro il 15 marzo), quindi difficilmente agganciati a strategie coerenti di rinascita territoriale e a metodologie partecipative delle comunità locali.

Il miliardo di euro è ripartito in due linee.
Una linea A riservata a 21 progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di un borgo individuato da ciascuna regione o provincia autonoma (progetti da 20 milioni di euro ciascuno); una linea B per progetti locali di rigenerazione culturale e sociale di piccoli borghi storici (progetti fino a 1,6 milioni). Appare ovvio che la maggior parte delle risorse (linea A) sarà attribuita a pochi luoghi, scelti dalle rispettive regioni, secondo la logica di creare “eccellenze” e lasciare tutto il resto nelle condizioni in cui si trova. Non è creando punti di eccellenza, ammesso che ci si riesca) che si attenuano le disuguaglianze territoriali e sociali. Ha ragione il presidente Uncem Marco Bussone che proprio su questo giornale ha parlato di una “lotteria da azzerare”.

Intanto ogni regione si è affrettata a individuare il borgo miracolato. L’avviso è uscito alla vigilia delle vacanze di Natale, i sindaci lo hanno visto in gennaio, la scadenza ministeriale è al 15 marzo, ma le regioni l’hanno generalmente anticipata al 15 febbraio per fare la loro scelta: il piccolo Molise, ad esempio, ha già destinato 40.000 euro alla istituzione di una commissione di valutazione per scegliere tra i 27 che si sono fatti avanti quello che potrà ricevere i 20 milioni (Det. Dir. 23 del 16.2.22).

Il Pnrr dovrebbe assicurare futuro e benessere al Paese, ma in questa modalità di attuazione manca in sostanza una visione strategica, sociale e ambientale, manca una effettiva partecipazione senza la quale pochi e frettolosi progetti si riveleranno interventi episodici, o addirittura cattedrali nel deserto, non in grado di durare e di alimentare una vera strategia di rinascita, guidati solo dalla logica di portare a casa qualcosa e di creare qualche rara ‘eccellenza’ per poi poter dire “l’abbiamo fatto”.

La generalità dei comuni delle aree interne avrebbe bisogno di qualche decina di migliaia di euro per vivere, per i servizi fondamentali – sanità, scuola, mobilità – per mantenere una strada, una linea di trasporto locale, per incentivare l’agricoltura, la cultura, il paesaggio. Invece si è deciso di dare 20 milioni a un comune solo, magari per creare una eccellenza che nasconda il persistente degrado generale.

da “il Fatto Quotidiano” del 13 marzo 2022
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