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Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della
crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando
soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe
d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.

Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al
suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-
geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio
costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra
i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di
contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le
ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione
ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli
interventi necessari a supportarla.

Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da
utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui
si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti
territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa,
difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale –
aveva quantizzato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190
miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto
ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di
emergenza.

Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale
o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul
territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di
ritorno sempre più ravvicinati.

Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE,
lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e
urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il
premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento
(rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione,
consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di
grande opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.

A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque
una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati
alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a
meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli
allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti
ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che
necessarie, erano urgentissime.

La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una
mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi
finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31
miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture –

stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere
previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse
investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione
intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con
lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che
rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove
trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per
Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative
continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.

Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la
logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che
spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o
aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli
insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.

C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti
“dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi
istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno,
e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica
dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza,
educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di
produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR
decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.

da “il Fatto Quotidiano” del 17 ottobre 2022
Foto di Hans da Pixabay

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

L’aspetto più incoraggiante di questi ultimi giorni, nei quali
riflettiamo con delusione e frustrazione sui risultati elettorali di
Unione Popolare, è la volontà, espressa da tutti coloro che
intervengono coi loro commenti, di continuare la nostra avventura. Si
legge la stessa determinazione con cui abbiamo affrontato, nelle
condizioni più avverse, la sfida quasi impossibile di raccogliere, nel
cuore di una delle estati più torride del millennio, le decine di
migliaia di firme richieste per la partecipazione alla campagna
elettorale. E bisogna aggiungere che pari ostinazione hanno mostrato
migliaia di cittadini, i quali hanno affrontato in paziente fila, il
sole ustorio di agosto per potere apporre la loro firma.

Dunque volontà di continuare il nostro progetto come del resto avevamo
promesso. Ma come? In che forma, con che modalità organizzativa?
Dobbiamo fare il salto da una lista elettorale imbastita
precipitosamente – ma, bisogna riconoscere, ammirevolmente ben fatta –
a una struttura più stabile, pensata accuratamente nei suoi organismi
rappresentativi, in grado di garantire democrazia ed efficienza
operativa. Non è un obiettivo che si raggiunge in un giorno, ma
bisogna, con il concorso di tutti, gettare da subito le prime
fondamenta su cui costruire l’edificio.

A mio avviso sarebbe molto utile organizzare intorno a metà ottobre
quella Assemblea costituente di due, tre giorni che De Magistris aveva
proposto prima che dovessimo affrontare le elezioni anticipate.
Sarebbe innanzitutto um modo di reincontrarci o di conoscerci per la
prima volta. I compagni e le compagne sentono anche un gran bisogno di
raccontarsi, di narrare le loro esperienze, esprimere le loro
critiche, suggerimenti, proposte. La volontà militante – che
purtroppo, di questi tempi, non è una virtù civile diffusa – si
rafforza se tutti si sentono protagonisti di un progetto, se hanno
diritto di parola, alla pari con gli altri.

Naturalmente occorre arrivare all’appuntamento con qualche idea
organizzativa. L’appuntamento deve essere in parte una festa ma deve
concludersi con indicazioni operative ben chiare, perchè tutte e tutti
tornino a casa sapendo come proseguire. Provo perciò a buttare giù
delle idee da prendere come contributo sperimentale alla discussione
che seguirà. E la prima cosa che mi sento di dire è che – con tutte le
variazioni, declinazioni originali che possiamo immaginare –io non
vedo organizzazione più efficiente, capace di tenere insieme
pluralismo delle idee e capacità di azione, del partito.

Il partito, non dimentichiamolo, è “l’organizzazione della volontà collettiva”
(Gramsci) è una grande conquista della modernità, ha sottratto gli
individui al loro isolamento molecolare e ne ha fatto una comunità di
lotta, un protagonista di prima grandezza dell’età contemporanea in
tutto il mondo. Anche se adesso i partiti non sono, almeno in Italia,
che agenzie di marketing elettorale, noi dobbiamo tentare questo
modello, sapendo che abbiamo intorno altre forze di sinistra con cui
dobbiamo dialogare e un arcipelago vastissimo di associazioni,
circoli, gruppi che non faranno mai parte di un partito, ma che
saranno i nostri compagni esterni nelle varie battaglie e mobilitazioni
che condurremo.

Un partito necessita di un portavoce e noi l’abbiamo.Chi ha seguito De
Magistris anche nelle poche apparizioni televisive ha potuto
constatare la sua capacità di rappresentarci e di dare calore
comunicativo ai punti del nostro programma. Questo al netto della sua
esperienza politico-amministrativa che nessuno di noi possiede.
Naturalmente, come ho sempre sostenuto, se il suo ruolo e la sua
figura nel nostro collettivo, sono naturaliter preminenti, dobbiamo
evitare di imboccare la strada del partito del leader.

Questa tendenza, ormai dominante dappertutto, va contrastata come effetto
dello svuotamento di democrazia che i partiti hanno subito negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia. In concomitanza, del resto, con
la torsione autoritaria che ha investito l’intera società, a
cominciare dai sistemi elettorali. Il neoliberismo non ha liberato
nessuno, ha creato nuovi vincoli e nuove servitù. Mentre la società
dello spettacolo tende a rappresentare la politica come un gioco di
società tra leader facendo scomparire tutti gli altri.

Quindi il portavoce deve avere attorno un gruppo
dirigenterappresentativo delle varie anime di UP, che al momento sono
i dirigenti delle forze politiche che la compongono. Potremmo
chiamarla Segreteriao Direttivo, si vedrà. Naturalmente in seguito
bisognerà inventare procedure elettive che garantiscano un
funzionamento pienamente democratico. E va da sé che occorrerà
elaborare uno statuto. Potrebbe essere il caso di convolgere un gruppo
di saggi – personaggi di prestigio esterni a UP – che ci aiutino in
questo compito di selezione e fondazione delle regole di democrazia
interna.

Un altro organismo che al momento io vedo necessario, per un primo
assetto organizzativo, è un Comitato territoriale, vale a dire un
organo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i territori,
che si riunisce con una periodicità da stabilire. Si dovrà poi capire
se una rappresentanza di dimensione regionale sia la misura più giusta
e meglio gestibile.

Scendendo al livello organizzativo di base, cioé alla necessità di
creare delle unità organizzative che possiamo chiamare
circoli,sezioni, presidi , case del popolo o in altro modo, si pongono
dei problemi politici rilevanti, anzi, il problema politico principale
per la costruzione di un partito. Vale a dire il passaggio di
Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, Dema e tutte le formazioni
minori alla nuova creatura chiamata Unione Popolare.

Voglio premettere che io sono uno storico e per giunta un vecchio militante e posso
capire forse più di altri l’attaccamento quasi carnale di tanti
compagni alle proprie bandiere. So che in quel legame c’è un pezzo di
storia della propria vita, battaglie, sacrifici personali, marce e
nottate. Per questo ho il massimo rispetto per tali sentimenti di
fedeltà, che davvero splendono di nobiltà di fronte alle giravolte dei
voltagabbana della nostra scena parlamentare e partitica.

Ma la politica, specie quella che ha l’ambizione di cambiare il mondo, è
consapevolezza del proprio tempo e coscienza della propria storia. E
la nostra, non dimentichiamolo, negli ultimi decenni è stata una
storia di divisioni e lacerazioni. Dobbiamo essere consapevoli che se
non vogliamo limitarci a fare opera di testimonianza, ma abbiamo
l’ambizione di ottenere largo consenso dagli italiani, diventare forti
per aiutare chi è stato emarginato, noi non possiamo presentarci come
i resti di un esercito sconfitto.Diciamo la verità: Rifondazione,
Potere al Popolo, Dema appaiono agli osservatori esterni come la
testimonianza della sempiterna divisione della sinistra. Aggiungo qui
un’altra considerazione: è il nostro vasto e disperso popolo di
militanti e semplici elettori, deluso e scoraggiato, che vive come un
dramma le nostre divisioni. Ne ho avuto ulteriori, molteplici prove
durante la campagna elettorale. E il fatto di non accorgercene è la
nostra maggiore colpa e una delle causa della nostra perdurante
marginalità.

Dunque l’Unione Popolare è un passo in avanti, una conquista a cui
occorre guardare con fiducia e generosità, puntando a rendere
tendenzialmente ancora più vasto il campo dell’ unità con le altre
forze anticapitalistiche che esistono in Italia. Ricordo che
Melanchon, Iglesias, Corbin, Ken Loach, non avrebbero espresso il loro
autorevole appoggio alle singole forze se esse non si fossero
presentate sotto il simbolo unitario dell’Unione.

Passando perciò ai più terrestri problemi organizzativi io credo
necessario,con tempi di maturazione che varieranno da situazione a
situazione, che occorre creare dovunque sia possibile circoli,
sezioni, case del popolo, ecc , con l’insegna di Unione Popolare,
magari unificando le poche forze che abbiamo anche in uno stesso
locale. Bisogna imparare a vivere insieme: anche questa è intelligenza
politica, lavoro di costruzione del partito. Quanto più realizziamo ed
esprimiamo spirito unitario tanto più diventiamo e appariamo forti e
credibili.

E qui vorrei concludere con tre osservazioni e proposte. Dobbiamo
trasmettere ai cittadini il senso della nostra utilità sociale. Oggi,
fondatamente, la maggioranza degli italiani – come testimonia anche il
crescente astensionismo – considera gli esponenti dei partiti come un
ceto sociale parassitario. Vendono propaganda elettorale e in cambio
ricevono i nostri voti: cioé soldi, potere, privilegi, visibilità
mediatica in cambio di nulla. Quando non compiono scelte
antipopolari…

Noi siamo diversi, abbiamo programmi alternativi, ma
non abbiamo ancora fatto niente, come Unione Popolare,per convincere i
cittadini che siamo diversi e che potremmo realizzarli.Molto
opportunamente, De Magistris ha cercato di smarcarsi da questa
immagine, di rendersi credibile nel grande frastuono pubblicitario
della campagna elettorale, ricordardo la propria esperienza di
sindaco.Ma noi siamo agli inizi e dunque dico che i nostri presidi nel
territorio devono assomigliare a sedi di volontariato.

I cittadini del quartiere devono vedere in esse non soltanto il luogo dove si discute
di politica, ma dove si insegna un po’ di italiano agli immigrati, si
organizzano i GAS per portare le cassette di cibo a casa degli
anziani, si aiutano le persone inesperte a risolvere al computer i
loro problemi amministrativi. Attenzione a quest’ultimo aspetto:
l’anafabetsimo informatico di tanti cittadini costituisce oggi una
limitazione dei loro diritti. E’ come l’analfabetismo totale degli anni
’50. Ma questi nostri centri dovrebbero essere in grado, con altre
forze, di organizzare campagne ambientaliste con i giovani, i quali
oggi sembrano interessati solo a questa forma di militanza. Quindi
giornate dedicate alla pulizia dei giardini pubblici, delle spiagge,
per la piantumazioni di alberi in città, ecc.

Ma c’è un altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra
attenzione:noi dobbiamo distinguerci nel linguaggio, parlare davvero
ai sentimenti delle persone, scambiare esperienze umane anche senza
volontà di coinvolgimento politico.L’ideologia neoliberistica ha
ridotto la società a una giungla competitiva e noi dobbiamo
combatterla a partire dal nostro comportamento, dalle nostre parole.

I cittadini non hanno solo bisogno di vedere abbassate le bollette e
aumentati i salari, vorrebbero sentire risuonare di nuovo le parole
dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza e della
sorellanza. Prendiamone atto: un Grande Inverno ha inaridito i
sentimenti che avevano tenuto insieme milioni di persone, unite dalle
stesse speranze e dagli stessi sogni.Le nostre città sono aggregati di
solitudini frettolose: perciò occorre creare momenti di pausa, di
fermo, di incontri senza fini utili, di festa, di bighellonaggio, di
sberleffi alla società agonistica, spietata e stupida della corsa al
danaro.

Organizziamo giornate di rivolta civile spese per strada e
nelle piazze a chiacchierare con gli amici, giocare con nostri figli e
nipoti, coi nostri animali.Rendiamo consapevoli le persone di essere
incalzate dal potere in ogni momento della loro vita, insegniamo loro
a liberarsi. Al tempo stesso dobbiamo esprimere un atteggiamento di
cura verso l’altro perché oggi lo dobbiamo avere anche per la natura,
ferita dal nostro saccheggio. Noi saremo davvero il nuovo mondo
possibile se riusciremo a legare insieme la fratellanza fra di noi con
quella per tutte le altre creture viventi oggi in pericolo.Il rapporto
con il mondo cattolico sensibile al messaggio di papa Francesco, ma
anche con le compagne e i compagni che si raccolgono nella Società
della cura, con tanti movimenti ambientalisti, i ragazzi di Fridays
for Future, ecc. diventa in questo modo possibile.

Infine una proposta che ho già avanzato e che ripeto.Io ho i rapporti
personali necessari per poter organizzare una Scuola di cultura
politica e ambientale online, capace di diventare, con una lezione da
remoto ogni settimana, un nostro marchio culturale e al tempo stesso
uno strumento di formazione, di allargamento della nostra influenza,
di arricchimento e unificazione della soggettività politica di tanti
italiani, di dialogo con le altre forze di sinistra.Ogni settimana uno
studioso terrà una lezione su un tema di sua competenza, che gli verrà
richiesto secondo un calendario da costruirsi, così che centinaia di
migliaia di persone possano ascoltarla in ogni angolo d’Italia.

Ma per fare questo occorre una grande piattaforma informatica.Lo strumento,
tra l’altro, che ci può consentire l’informazione alternativa alla
manipolazione sistematica della TV capitalistica. Questione non solo
tecnica, ma anche politica. Occorre che le mailing list di Dema,
Rifondazione, Potere al Popolo e delle altre formazioni si fondano.
Ancora una volta dunque occorre un altro salto verso l’unificazione di
Unione Popolare.

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Solo mettendo insieme i fatti, le scelte compiute in una prospettiva storica, è possibile comprendere la natura di un partito.La vicenda delle forze di centro-sinistra e poi del PD è paradossale: considerati da milioni di italiani una formazione progressita e popolare hanno operato invece come una forza di destra contro la classe operaia e i ceti poveri, contro gli interessi del Paese.

Essi hanno impresso una torsione autoritaria alle nostre istituzioni e svuotato in punti fondamentali la Costituzione.
A partire dalla legge 1999,n,1 (governo D’Alema) il Presidente della Giunta Regionale viene eletto a suffragio
universale, creando cosi un presidenzialismo territoriale, che non ha contrappesi, perché l’opposizione è privata di poteri. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, votata dalla maggioranza di centro-sinistra viene avviato il federalismo fiscale il cui principio di fondo è che ogni regione ha diritto a usare per sé la ricchezza che
produce.

E’ il principio che apre la strada al regionalismo differenziato, voluto dalla Lega, che distrugge la solidarietà tra i
territori, mettendoli in competizione e dissolvendo di fatto lo Stato unitario. Nel 2011 il PD vota l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio limitando costituzionalmente la possibilità dello Stato di aiutare i cittadini più deboli.

A partire dal Pacchetto Treu, assando per il Job’s Act del governo Renzi, sono stati smantellati i diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotta e fatto dilagare i lavori precari. Con la Buona scuola si completa l’aziendalizzazione
della scuola, trasformando la formazione in apprendistato, mai agendo per recuperare i miliardi sottratti dai governi precedenti.

Senza contare i governi dell’Ulivo, il PD è stato al governo per 10 anni e oggi siamo l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%.’ Secondo la relazione dell l’INPS del luglio 2022, il 28% dei lavoratori non arriva a guadagnare 9 euro l’ora lordi. Oggi i poveri assoluti sono oltre 5 milioni e quelli relativi oltre i 7. Un paese lacerato dalle disuguaglianze con una moltitudine di poveri e un pugno
di ricchi che diventano sempre più ricchi. Nonostante questo il PD ha votato a favore della decisione di portare al 2% del PIL la spesa in armamenti e continua ad appoggiare la guerra in Ucraina.

Ma i governi nazionali e locali del PD infliggono danni anche all’ambiente. L’ultimo Rapporto nazionale ISPRA denuncia che negli ultimi 10 anni abbiamo perso 19 ettari di suolo al giorno, per effetto di cementificazione.

Nonostante questo disastroso bilancio, in cui abbiamo segnalato solo alcune voci, il PD continua a fare le Feste
dell’Unità come se fosse il vecchio PCI. E’ un inganno, il trucco che ha permesso ai governi,con o senza il PD, di varare leggi impopolari neutralizzando ogni opposizione sociale.Il fatto che esso abbia sostenuto battaglie a favore dei diritti civili non ne cambia la natura: in Europa le destre liberali lo fanno da tempo.

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Ogni anno la stessa storia. Anzi peggio, perché con l’innalzamento delle temperature e la siccità prolungata il propagarsi degli incendi diventa ancora più facile. Non è possibile che si ripeta pedissequamente lo stesso rito estivo: allarme incendi, analisi e denunzie, grandi dibattiti televisivi e poi…ad ottobre tutto è finito, ne parliamo un altro anno.

Se si va a guardare la mappa della Nasa sugli incendi che hanno attraversato il nostro pianeta nel 2021 scopriamo che l’area più colpita è l’Africa sub-sahariana seguita dall’Amazzonia, California, Siberia, ecc. E’ davvero incredibile la scarsa o nulla informazione rispetto agli incendi che colpiscono l’Africa Sub-Sahariana: nel 2021 la superficie forestale percorsa dal fuoco in questa parte del mondo è stata pari a quasi il 50 per cento degli incendi forestali nel nostro pianeta. E non si è trattato di un anno eccezionale. Da almeno un decennio un numero impressionante di incendi sta “silenziosamente” bruciando le foreste di Angola e Repubblica Democratica del Congo.

Nel bacino del Congo che ospita la seconda foresta pluviale più grande della Terra, ma non ha l’appeal dell’Amazzonia, si sono registrati solo nel 2021 oltre 3000 incendi! Certo, l’uso del fuoco ha una antica tradizione in diverse aree agro-pastorali del pianeta e, soprattutto nelle zone tropicali è stato tradizionalmente usato per accrescere la superficie coltivabile. Ma, la crescita della popolazione e la sua pressione sulle risorse, sia da parte dei pastori che dei contadini, ha rotto l’equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente facendo degenerare una pratica sociale che ha una lunga storia alle spalle. Il mutamento climatico non ha fatto altro che rendere ancora più grave questa situazione.

Se per la prevenzione degli incendi, il pronto intervento, si spendesse un decimo di quanto si spende per la spesa militare si riuscirebbe a ridurre il fenomeno entro limiti tollerabili. Certo, bisogna distinguere tra piccoli e grandi incendi che colpiscono vaste aree forestali, come nel Centro Africa, Siberia, Australia, ecc. In Europa è soprattutto con i cosiddetti “piccoli incendi” che dobbiamo fare i conti e non sappiamo farli. Basterebbe un presidio del territorio per spegnere immediatamente il fuoco quando parte. C’è un detto francese che recita più o meno così: quando parte il fuoco dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio, dopo un’ora i vigili del fuoco. In sostanza è la velocità con cui si interviene che è decisiva e questa dipende dalla presenza umana nel territorio.

Come è stato altre volte raccontato, nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, nel Pollino e in altri parchi nazionali e regionali è stato in passato affidato il territorio a soggetti del Terzo Settore con contratti di “responsabilità territoriale”, in base ai quali veniva dato un contributo economico in ragione inversa alla superficie bruciata. Meno terreno bruciava più la cooperativa o associazione veniva premiata. Gli incendi non si possono prevedere, ma si possono spegnere sul nascere. Ed è quanto facevano un tempo gli agricoltori.

Il problema in gran parte dell’Europa mediterranea è che diverse aree interne sono state abbandonate e non c’è chi presidia il territorio, per questo ha funzionato quello che è stato chiamato “il modello Aspromonte”. Certamente questo modello non entusiasmava la lobby dell’antiincendio, il business delle società private che gestiscono elicotteri e canadair, e non è un caso se è stato abbandonato.

Più difficile è il controllo del territorio quando si tratta di vaste foreste disabitate o scarsamente abitate. «Gli scienziati nella previsione dei ’grandi incendi’ hanno lo stesso successo che in campo sismologico» scriveva Mark Buchanan nel suo saggio “Ubiquità”, ma questo non significa che non bisogna investire in studi e ricerche finalizzate a trovare le soluzioni più adatte ai diversi contesti.

Se pensiamo ad un nuovo mix di uomini e mezzi tecnici (come i droni) che possono presidiare il territorio anche a distanza di molti chilometri, crediamo che un serio contrasto ai “grandi incendi” si possa organizzare con successo. E dovrebbe avere una priorità per risparmiare tante vite e contrastare il mutamento climatico: questa crescita esponenziale degli incendi aumenta la quantità di CO2 nell’atmosfera, diminuisce la capacità di assorbimento che svolgono le piante, e quindi fa aumentare lo squilibrio dell’ecosistema con il conseguente aumento della temperatura, dei periodi di siccità, alluvioni sempre più frequenti, ecc. Il circolo vizioso che ci ha reso familiari gli “eventi estremi” e rischia di coinvolgerci in maniera irreversibile se non c’è un netto cambio di rotta che in questo momento non si vede. Anzi, si vede ma in senso nettamente contrario a quello che doveva essere, prima della guerra in Ucraina, la cosiddetta “transizione ecologica”.

da “il Manifesto” del 20 luglio 2022

Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Da oltre un mese l’Italia è sotto assedio. Il popolo ucraino, cui va tutta la nostra incondizionata solidarietà, è martoriato dalle bombe russe, noi dalla propaganda di un sistema informativo unilaterale e totalitario.

I nostri media infliggono una grave ferita alla democrazia italiana. E’ evidente che questa schiacciante attenzione alla tragedia ucraina ha diversi scopi. Essa cancella le gravi responsabilità dell’Europa, che negli ultimi 30 anni ha affidato la propria politica estera alla Nato a guida Usa, assecondandola in tutte le guerre condotte nei vari angoli del pianeta.

Oggi la guerra ce l’abbiamo in casa, gli Usa sono lontani, ma è l’Europa a sostenere i contraccolpi delle sanzioni, i costi dell’accoglienza, il flagello dell’inflazione. Ma Tv e grande stampa vogliono far dimenticare agli italiani i problemi irrisolti della sanità pubblica, dopo due anni di devastazione pandemica, della scuola dove gli studenti possono morire per incidenti sul lavoro, del Mezzogiorno dilaniato dalla disoccupazione di massa, della corruzione e del prosperare indisturbato delle mafie. Mentre contribuiscono a mettere da parte i programmi di transizione ecologica, a cedere alle lobbies dell’energia fossile. Ma lo scopo principale è ora far digerire agli italiani la proposta di portare al 2% del nostro Pil la spesa in armamenti.

Rimanere nel cono d’ombra della Nato, vale a dire piegarsi alla pretesa degli Usa di restare l’unica superpotenza del globo, è un errore strategico mortale: significa accettare un progetto di guerra perpetua, e soprattutto rinunciare a un ordine mondiale fondato sulla pace, il multilateralismo e la cooperazione fra gli stati.

Di fronte alle minacce del riscaldamento climatico e dell’esaurimento delle risorse, accrescere gli armamenti, alimentare i conflitti, è un delitto contro l’umanità, una corsa deliberata verso l’abisso.

Di fronte a questa prospettiva, alle forze politiche e di governo che sono diventate un unico raggruppamento di centro, impegnati a difendere il proprio recinto elettorale e dunque lo status quo, l’immobilismo che trascina il Paese nel declino, appare drammaticamente urgente intraprendere una iniziativa politica.

E’ necessario muoversi contro la guerra e per un accordo tra le parti. Ma occorre avviare con urgenza un percorso di confronto tra le forze democratiche e progressiste, in grado di dar voce ai bisogni dei cittadini e una speranza ai giovani.

Servono a questo scopo forze sociali e culturali che si mettano al servizio di un compito preciso, testimoniato anche da altri gruppi che hanno già intrapreso questo percorso. Scandagliare il territorio italiano, nella sua varietà policentrica, per far emergere i problemi veri del Paese e delle persone: dalla sanità alla scuola e alla ricerca, dalla questione del salario minimo al lavoro delle partite iva, dalla riforma del welfare ai temi di genere, dall’autonomia differenziata alla transizione ecologica, dall’economia della cittadinanza alla lotta alle rendite, senza mai dimenticare che operiamo in un pianeta in pericolo.

Un percorso che dia voce ai soggetti marginalizzati, a chi non ha voce e potere ma solo bisogni insoddisfatti, se non prospettive di una vita spezzata. Una voce che rimetta senza indugio al centro della sua azione le disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento; e che torni a parlare di giustizia fiscale e ambientale, di rafforzamento dell’occupazione pubblica, di diseguaglianze e povertà, di un nuovo stato sociale, di spiazzamento delle posizioni di rendita, sia private che pubbliche.

Pensiamo a un rivolo che si accresce via via, raccogliendo affluenti dai vari punti delle Penisola, dai sindaci, dagli insegnanti, dagli operai, dai sindacalisti, dai semplici cittadini, alle organizzazioni delle cittadinanza attiva, dai militanti dei tanti collettivi politici e culturali, al mondo delle imprese a impatto sociale.

L’esito di questo percorso dovrebbe portare anche all’individuazione di nuove figure, nuovi candidati e candidate che nutrano il rinnovamento del ceto politico. Una nuova politica culturale mobilitante, per ottenere degli effetti, richiede nuove persone che si vogliano sperimentare in progetti e azioni collettive.

Pensiamo di chiedere questo sforzo generoso d’avanguardia intellettuale a persone con esperienza politica e militanza a favore delle donne, come Laura Marchetti e Tiziana Drago, a insegnanti che da anni si battono per una scuola democratica e contro l’autonomia differenziata, come Renata Puleo, a docenti universitari impegnati nel dibattito pubblico come Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni e Rossano Pazzagli, a uomini politici di lunga esperienza, ma fuori dai partiti, come Luigi De Magistris, insieme a tanti altri che qui non è possibile menzionare.

Questo movimento dovrebbe anzitutto individuare un certo numero di proposte concrete e operative, all’altezza della radicalità delle sfide che si devono oggi affrontare, mettendo al centro i bisogni delle persone, la loro vita quotidiana e capacità di aspirare a un futuro migliore.

L’esito di questo confronto articolato e diffuso dovrebbe concretizzarsi nella grammatica minima per costruire – insieme agli altri soggetti del “Paese vivo” che si stanno orientando nella stessa direzione – una aggregazione plurale ma con un indirizzo chiaro.

In un Paese con un astensionismo al 40% e un’offerta politica ormai schiacciata verso il centro-destra, occorre restituire rappresentanza a una domanda di democrazia sostanziale e di sinistra che ha ormai perso la voce perfino per potersi lamentare. Occorre elaborare al più presto un programma in pochi punti a cui lavorare nei prossimi mesi.

Primi firmatari

Piero Bevilacqua, Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni, Guido Ortona, Domenico De Masi, Ginevra Bompiani, Piero Caprari, Tiziana Drago, Maurizio Fabbri, Marina Leone, Ernesto Longobardi, Antonio Castronovi, Gaetano Lamanna, Vezio De Lucia, Enzo Scandurra, Domenico Cersosimo, Giuseppe Giuliano, Battista Sangineto, Ignazio Masulli, Salvatore Romeo Bufalo, Andrea Battinelli, Giuseppe Aragno, Laura Marchetti, Eugenio Occhini, Franco Trane, Renata Puleo, Raul Mordenti, Paolo Favilli, Pino Ippolito, Lucinia Speciale, Franco Santopolo, Sergio Simonazzi, Franca Grasselli, Pietro Soldini, Armando Vitale, Gregorio De Paola, Alberto Ziparo, Umberto Ursetta, Roberto Scognamillo, Luigi Vavalà, Mario Fiorentini, Roberto Musacchio, Amalia Collisani, Franco Novelli, Rossano Pazzagli, Rita Castellani, Salvatore Cingari, Vera Pegna, Gloria Sirianni, Dino Greco, Pierluigi Panici, Sandro De Toni, Umberto Carbone, Marcello Paolozza, Franco Blandi, Gianni Principe, Tiziana Colluto, Franco Toscani, Sonia Marzetti, Paolo Cagna Ninchi, Giuseppe Panuccio, Bruna De Andreis, Isabella Temperelli, Roberto Giordano, Susanna Crostella, Emilia Galtieri, Fabio Marcelli, Vito Teti, Ferdinando Laghi, Maurizio Pelliccia, Marco Cordella, Mara Rossetti, Alessandro Renzi, Marco Tassarotti, Riccardo Tranquilli, Laura Ceccarelli, Carla Grandi, Vincenzo Benessere, Nunzia Di Maria, Massimo Arcangeli, Eduardo Cimmino, Marina Castagneto, Daniela Lourdes Falanga, Ileana Capurro, Salvatore Panico, Franco Arminio, Agnese Palma, Enza Talciani, Gianfranco Argentero, Rodolfo Cilloco, Leonardo De Angelis, Enrico Chiavini, Franco Lufani, Luca Fontana, Giuseppe De Gregori, Piero De Luca.

https://ilmanifesto.it/ridiamo-la-parola-ai-cittadini-italiani

La sfida ecologica alla società dei consumi.-di Tonino Perna

La sfida ecologica alla società dei consumi.-di Tonino Perna

In questi giorni tutti i mass media riportano il dato della crescita del Pil italiano che quest’anno dovrebbe attestarsi oltre il 6 per cento, recuperando i due terzi di quanto si è perso nel 2020. Come è noto, il motore di questa crescita economica è stato il balzo in avanti dei consumi, un dato che ci aspettavamo come reazione alle restrizioni che hanno costretto i consumatori ad una drastica riduzione dei consumi nel 2020, con relativo netto incremento dei risparmi delle famiglie.

Se, da una parte, questa ripresa ci fa piacere, dall’altra si scontra con la necessità di una transizione ecologica che non può non toccare il modello dei consumi, il paniere scelto dai consumatori. Come si suol dire, non possiamo avere la botte piena (pil) e la moglie ubriaca (ecologia). O detto con un altro motto: non si possono servire due padroni. Bisognerà rivedere la qualità dei nostri consumi sul piano dell’impatto con l’ecosistema.

Se prendiamo, ad esempio, l’usa e getta dei contenitori delle bevande (acqua, vino, birra, succhi, ecc.) non possiamo non considerare il fatto che nel nostro paese solo la metà dei contenitori di vetro o plastica viene riciclato, il resto finisce nell’indifferenziata.

In Italia, ogni anno, 7 miliardi di contenitori di bevande sfuggono alla differenziata e finiscono nei rifiuti! Nella Ue il “vuoto a rendere” funziona e ha portato la raccolta differenziata, nei paesi nordici, al 90%. Per questo l’Associazione nazionale Comuni Virtuosi chiede l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale per facilitare il riciclo delle bottiglie di plastica.

In Calabria, un sistema di questo tipo ridurrebbe la massa del “tal quale”, ovvero dell’indifferenziata che non riusciamo a smaltire, darebbe una mano all’ecologia e un’altra agli enti locali. In fondo si tratta di riprendere vecchie pratiche (i più anziani ricordano le bottiglie per il latte) e collegarle alla filiera dell’economia circolare, che altrimenti è solo uno slogan.

Il governo regionale potrebbe incentivare, usando le risorse comunitarie per la transizione ecologica, quegli esercizi commerciali che adottano questa pratica. E si potrebbe anche andare oltre. Per esempio, riducendo l’uso della plastica nel confezionare i prodotti alimentari da banco. Non dico di tornare alla carta oleata, ma non è nemmeno accettabile questi giri e rigiri di film di plastica su tutti i prodotti.

Per non parlare degli sprechi energetici, che certo fanno crescere il Pil, ma fanno male all’ambiente e alle tasche dei consumatori. Basti guardare a quegli esercizi commerciali che in piena estate tengono le porte spalancate e l’aria condizionata al massimo, o nelle case dove in pieno inverno si sta in maniche corte. Almeno su questo piano non imitiamo il Nord, dove, dagli Usa alla Ue, passando per la Cina, assistiamo da decenni ad un uso perverso dei climatizzatori, sia d’estate che d’inverno.

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I Nuovi Comuni, ente intermedio al posto delle Regioni.-di Arturo Lanzani e Filippo Barbera

I Nuovi Comuni, ente intermedio al posto delle Regioni.-di Arturo Lanzani e Filippo Barbera

Le Regioni italiane sono molto diverse, ci ricorda Piero Bevilacqua nel suo recente articolo (il manifesto, 25 novembre). In questa diversità, hanno una comune “qualità”: sono enti iper-legiferanti, mini-Stati. Le Regioni gestiscono e distribuiscono risorse scarse a gruppi in competizione, a discapito dell’adozione di politiche pubbliche e strategie di interesse collettivo, organizzate per missioni e progetti. All’inadeguatezza delle Regioni si è sommato il fallimento della Legge Del Rio che ha istituito le città metropolitane, Enti di area vasta ma privi di un governo politico. Il sindaco della città metropolitana non è un sindaco: non governa politicamente il territorio di competenza. Non negozia o contratta con l’insieme dei sindaci strategie di sviluppo, infrastrutture connettive e politiche pubbliche.

Le proposte di revisione dell’assetto istituzionale dei poteri locali non mancano. Una proviene dai lavori della società geografica italiana e guarda in una direzione “cantonale”, che si affranchi dalle sirene della finta abolizione delle Provincie – più radicate delle Regioni nella storia e nelle forme di vita del nostro paese – ma lavori per un ridisegno e riduzione del loro numero (una trentina di provincie “rafforzate”) come unico livello di governo, sostitutivo di quello regionale e provinciale. Una sorta di livello intermedio tra Comuni (lasciati però nella loro numerosità e frammentazione) e il livello centrale, le cui funzioni non sono precisamente definite.

Una proposta meritoria, ma con scarse probabilità di trovare ascolto politico. Chi mai si mobiliterebbe in questa direzione? Con quali alleanze? Una seconda proposta, di chi scrive, è quella di ritenere che nella storia d’Italia contino solo i Comuni come altra gamba del livello nazionale, anzi che debba contare un “Nuovo Comune” che si vorrebbe rafforzare nella sua funzioni politica e istituzionale – ma non tanto con l’illusione leaderista dell’elezione diretta del sindaco – ma articolandolo, da un lato in N “tipi di città” – maturate attorno ai legami di storici distretti industriali, di valle (spesso riproducendo le forme di coesione delle più felici comunità montane gravitanti su centri o conurbazioni di valle o pedemontane), di costa attorno urbanizzazioni interconnesse, di distretti rurali o di campagna urbanizzata con più tradizionale gravitazione su una città media, ma anche più originalmente “città” unificate da un tratto profondo comune dell’ambiente e del paesaggio che si è fatto fattore identitario e di sviluppo-secondo principi plurali e aggregativi, capaci di dare luogo a 500-1.000 città per l’intero paese.

Dall’altro, articolando queste N città in Municipi, calibrati in un intervallo compreso tra i 3.000-50.000 abitanti, corrispondenti ai vecchi Comuni a suddivisioni di quelli più grandi e ad aggregazioni di quelli più piccoli. Questi “Nuovi Comuni” dovrebbero quindi essere articolati in due livelli: al primo livello, strutture territoriali esito di variegati processi ecologico-sociali che diventano a loro volta strutturanti le stesse pratiche sociali e dinamismi ecologici, si organizzerebbero le tecno-strutture e le istituzioni culturali che sono indispensabile supporto di qualsiasi politica e progetto e si svilupperebbero alcune politiche sistemiche (usi del suolo, mobilità, reti verdi); il secondo livello, maggiormente riconfigurabile nei suoi stessi confini alla luce di progettualità e visioni complesse di medio e breve periodo, diventerebbe presidio ed espressione delle forme di cittadinanza attiva, ambito della redistribuzione dei poteri e dei saperi, con il compito di rinforzare e curare la capacità di “voce” e “azione” di persone, associazioni e corpi intermedi. Questo “Nuovo Comune” sarebbe così il luogo di incontro generativo delle due istanze, delle città e dei municipi, così come lo strumento per costruire visioni di futuro condivise.

Questa proposta avrebbe qualche probabilità in più di trovare ascolto politico, perché potrebbe essere presentata come una riforma e un rilancio del “municipalismo virtuoso” contro la “burocratizzazione regionale”: una riforma che spinge ad aggregarsi superando particolarismi strumentali, incapaci di affrontare i problemi che interessano la vita quotidiana delle persone, senza cancellare identità locali che rimangono sentite e capisaldi di ogni forma di civismo. I “nemici” qui sarebbero ben identificabili nei governatori regionali e nei sindaci delle grandi città, una lotta ancora impari che richiederebbe una alleanza con la classe dirigente nazionale per uno Stato che riconosca il policentrismo come tratto unificante e si faccia carico – dal centro – sia di strategie-missioni territoriali relative a cinque grandi questioni nazionali.

Tre almeno parzialmente riconosciute e relative allo sviluppo del mezzogiorno, alla riorganizzazione degli ambiti metropolitani-grandi città del paese e alla promozione dello sviluppo e alla garanzia dei fondamentali diritti di cittadinanza per le aree interne. Due invece di nuova concettualizzazione ma egualmente urgenti e relative, al riordino del territorio costiero con il suo enorme carico insediativo e a fronte degli effetti del cambiamento climatico e alla sempre più urgente riconversione ecologico-ambientale della dinamica, ma poco vivibile e salubre, pianura padana. Sia di strategie più specifiche relative ai bacini fluviali, alle aree sismiche, ai sistemi di mobilità sovraregionali e ai rapporti di scambio e di flussi tra territori metro-montani e metro-rurali (nord-ovest, nord-est, arco ligure, dorsale adriatica, etc.) Una alleanza che, dall’alto e dal basso, provi a imporre al Paese un nuovo assetto dei livelli di governo coerenti con il policentrismo del Paese, non basato sulla facile e inutile indignazione che ha portato alla cancellazione degli enti intermedi e all’istituzione di enti territoriali privi di guida politica.

da “il Manifesto” del 2 dicembre 2020
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