Tag: autonomia differenziata

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Da qualche anno è stato lanciato l’allarme relativo al cosiddetto “inverno demografico”. Diciamo subito che, a livello globale, se i paesi industrializzati hanno fatto registrare tutti un netto calo delle nascite nel nuovo secolo, è una fortuna in quanto abbiamo superato la soglia degli 8 miliardi ed è un bene che si inverta una tendenza iperbolica: agli inizi del XX secolo eravamo 1,6 miliardi!

Detto questo, per mettere in chiaro che non si tratta di una epidemia, per alcuni paesi industrializzati il fenomeno presenta seri problemi che finora sono stati male affrontati. Il calo delle nascite, il tasso di fertilità delle donne è, in generale, correlato al grado di sviluppo economico e di modernizzazione/occidentalizzazione di un determinato paese. In Niger, Mali, Ciad ogni donna mette al mondo più di sette figli, nella Ue 1,4 e in Italia 1,2.

Ci si sposa sempre più tardi, le donne mettono al mondo figli in età avanzata (per l’Italia in media a 32 anni il primo figlio) e spesso si preferisce non farne o al massimo arrivare a farne due. È un fatto culturale. Non ci sono incentivi e politiche per la famiglia che possano spostare questi comportamenti esistenziali se non in modo marginale.

Nella Ue, ad esempio, nel 2022 sono nati 388.000 bambini rispetto a quasi 1,4 milioni del 2008! In Cina, nel 2022 si è registrato un netto calo demografico, con saldo negativo tra nati vivi e morti di 850.000 unità. Contemporaneamente aumenta in tutto il mondo l’età media della popolazione che nei paesi industrializzati comporta un vistoso aumento di persone over 65 anni che debbono essere assistiti dal welfare (pensioni, assistenza sanitaria, ecc.).

In base ai dati dell’OMS il Giappone è il paese con l’aspettativa di vita alla nascita la più alta (82 anni per i maschi e 86 per le femmine), seguito dalla Svizzera e con l’Italia che si colloca al settimo posto. E per il nostro paese la gestione di questo calo demografico, da una parte, e l’aumento dell’invecchiamento dall’altra, è particolarmente complesso e problematico dato il rapporto debito pubblico/Pil. Non siamo i soli, certo, ma da noi la questione delle pensioni può diventare esplosiva perché non possiamo più aumentare l’indebitamento e la contribuzione dei lavoratori e imprese è ogni anno più insufficiente. In altri termini, è chi lavora oggi che paga le pensioni e l’assistenza sanitaria per gli anziani. E il numero delle persone in età di lavoro diminuisce ogni anno e in un prossimo futuro diventerà drammatico.

Non voglio fare la cassandra ma i numeri ci dicono che nei prossimi anni, anzi a partire dal 2025, diversi governi nella Ue prenderanno provvedimenti per aumentare l’età pensionabile e/o ridurre la spesa con un taglio alle pensioni medie ed alte. Oltre al ceto medio, da dove verrà prelevato il maggiore contributo, saranno le aree più povere del nostro paese che verranno ulteriormente impoverite, a cominciare dalla Calabria dove il peso delle pensioni sul reddito regionale è il più alto d’Italia. Se dovesse altresì passare l’autonomia differenziata allora la situazione delle regioni meridionali sarebbe, sul piano sociale, davvero insostenibile.

Ci sarebbe un modo per contrastare questo inverno demografico? Lo scrive con chiarezza Francesco Billari, Rettore della Bocconi, nel suo ultimo saggio “Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia”. Con dati inconfutabili il Prof. Billari sostiene che non abbiamo alternative: dobbiamo organizzarci per accogliere, formare, inserire nella nostra società centinaia di migliaia di immigrati ogni anno. E invece cosa va l’Ue e il nostro governo?

Paga i paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo per tenere nei lager i giovani che scappano da guerre e fame, impedisce agli aerei e navi delle Ong di salvarli in mezzo al mare con un cinismo che rasenta la strage intenzionale. La stessa Confindustria italiana dice che rimangono vuoti oltre trecentomila posti di lavoro, ma questo governo che ha fondato il suo successo sull’invasione dei nuovi barbari non demorde.

Se si moltiplicassero i corridoi umanitari, come ha fatto il Canada, se si creasse una aspettativa positiva per entrare nella Ue milioni di persone aspetterebbero il loro turno. Ne ho fatto esperienza diretta occupandomi dei corridoi umanitari con il Libano, prima di questa guerra maledetta guerra condotta da Israele. Per una famiglia che parte con i corridoi umanitari ce ne sono centinaia che aspettano il loro turno. È questo il modo più sicuro per contrastare i viaggi della disperazione sui barconi della morte.

da “il Quotidiano del Sud” del 2 ottobre 2024

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Molte importanti vicende relative all’autonomia differenziata sono state e continuano a essere caratterizzate dal segreto: per i suoi promotori è opportuno che i cittadini non siano informati (se non a cose fatte), di quel che si viene decidendo. È quel che è successo con la lista delle 500 funzioni trasferibili alle Regioni, prodotta da Calderoli e mai resa pubblica. È quel che continua a succedere riguardo ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni): si tratta dei diritti che devono essere garantiti, con apposite risorse, a tutti gli italiani, ovunque vivano. Quante risorse? Dove? Tema caldo, come si vede anche dalle recenti prese di posizione di Forza Italia. La questione è complicatissima, ma il suo senso profondo dovrebbe essere chiaro.

Il Clep è un importante Comitato guidato da Sabino Cassese, che dopo iniziali posizioni molto preoccupate è divenuto uno dei principali sostenitori del progetto leghista di differenziazione, fatto proprio dall’intero governo. Il Clep ha compiuto una ricognizione legislativa dei Lep. Lo ha fatto, come ha tenuto a scrivere l’ex governatore Visco prima di lasciare la carica, “in termini troppo generici”. E non per quelli relativi alle materie già di competenza regionale, che dovrebbero essere il punto di partenza dei meccanismi finanziari validi per tutti; solo di quelli relativi alle materie che le regioni “secessioniste” pretendono che lo Stato ceda loro. Ora si tratta di associare a questi diritti numeri precisi: il fabbisogno finanziario.

Punto cruciale: più basso è, più resta lo status quo (a danno dei cittadini delle regioni più deboli) e si giustifica la pretesa del governo di non stanziare risorse aggiuntive. Per definire i principi su cui basarsi per i conti è stata nominata da Cassese una Commissione di dodici esperti. Praticamente tutti sostenitori dell’autonomia differenziata. Il presidente, un ex deputato veneto del Pd (Stradiotto) che lavora da tempo sul federalismo fiscale: anche nel periodo in cui fu deciso che laddove non c’erano asili nido, il fabbisogno era conseguentemente pari a zero.

E che le donne si sarebbero dovute arrangiare. Fra gli altri, la potente presidente (D’Orlando) della importantissima Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctes, di cui si dirà fra un attimo), fino a poco fa consulente di Zaia; un docente (Giovanardi) che è tuttora contemporaneamente consulente di Zaia e componente della Ctes; un altro (Guzzetta) determinatissimo sostenitore della “secessione dei ricchi” e già consulente della Lombardia. L’elenco potrebbe continuare, includendo alcuni esponenti meridionali assai contigui al governo, fra cui l’onnipresente presidente dell’Anvur, Uricchio.

Cassese ha convocato per il 25 settembre una riunione del Clep per approvare il documento predisposto dai 12: che nonostante l’avversione di alcuni suoi componenti per la discussione pubblica è stato possibile visionare. Un documento snello ma politicamente esplosivo; in esso si sostiene che i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”.

Dunque, i fabbisogni (e quindi i diritti) vanno differenziati. Innanzitutto, in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, e cioè il supposto diverso costo della vita: dato che al Sud la vita costa meno, gli stipendi possono essere più bassi, e quindi il servizio deve costare meno; bastano meno soldi. Magari bastano già quelli che ci sono, e il governo fa tombola. Poi vanno differenziati in base alle dinamiche demografiche. Possibile interpretazione: dato che al Sud nascono meno bambini, perché spendere per gli asili nido? Invertendo la logica socioeconomica e politica, dato che la bassa natalità è anche conseguenza della relativa carenza di servizi. Chissà come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. E c’è poi un jolly: le “caratteristiche dei diversi territori”.

In base a questi principi, la Ctes presieduta dall’ex consulente di Zaia, di cui si diceva, farà i calcoli: con metodologie estremamente complesse, sensibili ai criteri di partenza (specie se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere). I suoi numeri, i fabbisogni finanziari, saranno impossibili da ricostruire e quindi da discutere. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovranno passivamente accettarli, perché prodotti dagli “esperti”.

Un processo pericolosissimo, sul quale sarebbe opportuna una attenzione assai maggiore dei parlamentari di opposizione. È la politica, e non dodici “esperti”, che deve definire alla luce del sole i criteri di calcolo: e questo prima che i dati vengano prodotti. È indispensabile un aperto dibattito pubblico. Non ne va solo della “secessione dei ricchi”, ma delle stesse modalità di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2024

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Dire no al regionalismo differenziato si deve, e opporsi allo scellerato progetto che sta prendendo corpo per iniziativa del governo e segnatamente della Lega di Salvini è un atto che si deve perseguire non soltanto da parte dei cittadini del sud ma di coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia intera.

Dire no significa mobilitarsi nelle piazze, sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo, far sentire al palazzo che i problemi del mezzogiorno e del paese sono un unicum, che sarebbe un errore gravissimo puntare sullo spaccottamento piuttosto che sul riequilibrio.

Un riequilibrio cui si rinuncio allorché ormai quasi venticinque anni fa il governo di centrosinistra modificò il Titolo V della Costituzione-da lì è partito tutto, è bene ricordare-investendo nell’operoso nord e lasciando alla deriva il sud in perenne sofferenza: l’eufemismo più in voga era ‘in ritardo di sviluppo’.

La questione meridionale, il dualismo fra le parti simmetriche del paese venivano risolte in maniera tranchant, semplicemente eliminando uno dei corni del dilemma, quello più fragile.

Il dibattito che si è sviluppato da allora ha risparmiato poche pieghe delle tante che rivestono l’affaire: mettere alla prova il sud, i LEP, i servizi essenziali, era meglio non fare L’Unità d’Italia, con i Borboni si stava meglio, facciamola dal sud, la secessione. Perché un dibattito c’è stato, e c’è, anche nelle regioni meridionali, e anche con evidenti distinguo nelle forze politiche, a cominciare dalla moderata Forza Italia che mostra di non gradire. Un dibattito che però si sviluppa esclusivamente sul versante difensivo e d’opposizione al disegno di Salvini, come se conservare lo status quo fosse la soluzione.

Invece no, non è la soluzione perché è sotto gli occhi di tutti la divaricazione sempre più stridente fra allocazione delle risorse, disponibilità di servizi, occasioni di lavoro, efficienza delle prestazioni, capacità di spesa, treni che partono con direzioni e versi privilegiati se non esclusivi.

Perché il sud è rimasto indietro, c’è stato chi documenti alla mano ha indicato d’indagare sulla inadeguatezza delle classi dirigenti a sud di Roma: se per un periodo la tesi ha mostrato la sua fondatezza non di meno la parzialità della diagnosi balza comunque agli occhi con l’incalzare degli eventi. Non già per assolvere l’indifendibile ma per assegnare a un intero sistema ruoli e responsabilità che non possono che essere collettivi, plurali bisogna dire che un impegno diffuso e costante è ciò che attende la comunità politica e civile, culturale ed economica delle regioni del sud.

Perché è dal sud, se si vuol dare per davvero il segno della credibilità della svolta, che si deve dare inizio a ridisegnare funzioni e attribuzioni, assegnare equilibri e risorse, secondo un assetto della macchina pubblica che non nasconda zone d’ombra, riconosca limiti e introduca correttivi secondo criteri di equità e di merito, in uno Stato del terzo millennio.

Può partire dal sud un ragionamento siffatto, ci sono da noi intelligenze e passioni capaci di mostrare la via, con spirito unitario e non subalterno, propositivo e non rivendicazionistico?

Provare a misurarsi in tale impresa val la pena, altrimenti sarà il cartello del no a vincere ancora una volta, o il perpetuarsi dell’eterno pantano.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 settembre 2024

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Sull’autonomia differenziata infuria la buriana politica soprattutto dopo la raccolta firme per il referendum (è andata al di là di ogni più rosea aspettativa per i promotori) e in vista della prevedibile battaglia elettorale. Ma è nel merito che ci si sofferma poco, al Nord come al Sud, nonostante studi e ricerche non manchino.

Proviamo a fare due conti, con l’aiuto dell’Osservatorio dei conti pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In attesa che vengano definiti i famigerati LEP (livelli essenziali di prestazione) che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, tre economisti dell’Osservatorio (Rossana Caccamo, Alessio Capacci e Giampaolo Galli) hanno fatto un paio di conti e viene fuori che, dato che l’economia del centro nord vale il 78% del PIL nazionale contro il 22 del Sud, ogni punto del PIL trattenuto dalla Regioni piu’ ricche peserebbe tre volte e mezzo in più per quelle più povere.

Si tratterebbe di un guadagno relativamente piccolo per le prime ma di una perdita consistente per le seconde finendo di mettere a rischio la tenuta dei servizi. Prendiamo la Calabria nella simulazione effettuata: su una spesa primaria di 24,5 (tutti i valori sono in miliardi di euro) c’è una entrata di 16,4, con un residuo fiscale di più 8,2.

La Lombardia ha invece una spesa primaria di 140,5, entrate per 189,3 e dunque un residuo fiscale in negativo di 48,5. Dunque la legge Calderoli finirebbe con l’estremizzare le disparità che già oggi dividono l’Italia anziché ridurle e non responsabilizzando la politica locale. In più il sistema della verifica anno per anno dell’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale renderebbe ancor più farraginoso il problema.

Anche su questo insistono due noti economisti italiani – Francesco Drago e Lucrezia Reichlin – in aperto contrasto con Sabino Cassese. Prendono in esame la sanità e scrivono: ‘’…La storia dei LEA (livelli essenziali di assistenza, già introdotti nel nostro paese nel 1999) insegna che quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud e la questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti del Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono’’.

I principi su cui poggia la riforma, inoltre, spiegano Drago e Reichlin – sono difficilmente attuabili e se ne discute dal famigerato anno 2001. Come hanno evidenziato la Banca d’ Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio in piu’ di 20 anni poco o nulla e’ stato fatto. Determinare il finanziamento dei LEP è molto difficile ed occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio che viene erogato in maniera efficiente, determinare il livello di prestazione minima e stabilire i fabbisogni. Missione quasi impossibile.

In sostanza i due economisti alzano l’allarme sul fatto che saranno allontanate le forze piu’ dinamiche della società e della politica locale e invece della responsabilizzazione delle classi dirigente del Sud si otterrà il contrario. ‘’Comunque si rigiri la frittata – secondo Drago e Reichlin – questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno’’.

Ora la parola passerà nuovamente ai partiti e alle istituzioni, forse alla Corte Costituzionale e probabilmente agli elettori. I dubbi espressi a livello scientifico sono quelli sopra espressi. Vedremo che accadrà nell’immediato futuro.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 settembre 2024

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Poi dici che il turismo va male, che la Calabria è abbandonata, che le cose vanno male etc etc. Poi tenti una narrazione un po’ diversa , meno catastrofica e un tantino più ottimistica. Ma poi ti imbatti in una notizia peraltro un po’ datata anche ma di cui nessuno parla nella vergogna più assoluta e allora ti cadono le braccia e dici: nooo! Dal 22 al 25 luglio cancellati tutti i treni in partenza ed in arrivo dalla Calabria per una interruzione nel tratto Sapri-Battipaglia.

Sono settimane che è accaduto un incidente e i disagi sono pesantissimi per pendolari, turisti etc. Il tutto nel silenzio assoluto di istituzioni nazionali e regionali che promuovono stratosferici risultati per export e turismo. La verità è quella che ha ben riassunto il segretario regionale della Cgil angelo sposato, l’unico che abbia detto una cosa. “Ci troviamo ancora una volta una Calabria isolata e con costi proibitivi per i voli in entrata ed uscita.

Il tema della mobilità, della sanità, delle politiche ambientali, non sono un affare privato, sono i cardini del sistema pubblico di una regione e di un Paese.Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, già in passato interpellato sul tema dei servizi e delle tariffe, intervenga su Rfi e Trenitalia per capire quello che sta succedendo e poi spieghi ai cittadini calabresi che fine hanno fatto i fondi del Pnrr per l’alta velocità in Calabria”.

Potremmo finirla qui e invocare pietà per noi tutti, dimenticati da dio e dagli uomini sulle cose più semplici. Ancora una volta ci viene in aiuto il grande poeta Franco califano: tutto il resto è noia.

da “il Quotiando del Sud” del 20 luglio 2024

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

Per il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, la strada sull’autonomia differenziata si fa sempre piu’ stretta, tra alleati interni e opposizioni. Da un lato Occhiuto ribadisce le perplessità sui modi e sui tempi dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e per ultimo al consiglio nazionale di Forza Italia ha usato parole nette. «Il ddl Calderoli, purtroppo, è arrivato all’ok finale delle Camere senza che contemporaneamente sia giunto al traguardo anche il superamento della spesa storica.

Spero che Forza Italia, così come ha sempre detto il nostro leader Antonio Tajani, metta al centro della sua azione proprio il superamento delle differenze territoriali, archiviando definitivamente la spesa storica a favore dei fabbisogni standard. Il mio auspicio è che Forza Italia non voti in Consiglio dei ministri e in Parlamento alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep, e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud».

Forza Italia ha anche dato vita all’Osservatorio sull’Autonomia differenziata costituito dai massimi responsabili istituzionali e politici del movimento, il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, il sottosegretario all’Economia Sandra Savino, i presidenti delle Regioni di Forza Italia, i capigruppo alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo, i vice segretari nazionali, e una selezionato gruppo di tecnici, economisti e studiosi, che avrà il preciso compito di vigilare sugli effetti pratici dell’attuazione della legge, che deve valorizzare tutte le regioni, con particolare attenzione a non penalizzare il Sud.

Ma ci sono precise puntualizzazioni. «E’ un Osservatorio – ha detto subito la Casellati – che deve solo monitorare questo processo, perché noi abbiamo una legge cornice e adesso c’è tutto il procedimento da mettere in atto, che va dalla definizione dei Lep agli accordi tra lo Stato e le Regioni».

Dell’Osservatorio dunque fa parte anche, nella duplice veste di presidente di Regione e vicesegretario nazionale di Forza Italia, anche il governatore calabrese Roberto Occhiuto. Secondo diversi analisti politici, in realtà, la nascita dell’Osservatorio sarebbe stata dettata dalla necessità per Foza Italia e il suo leader nazionale Tajani di venire incontro alle richieste dei governatori forzisti nelle regioni del Sud, tra cui Occhiuto e il lucano Vito Bardi, che hanno manifestato molte preoccupazioni per le ricadute territoriali del Ddl Calderoli, entrando in rotta di collisione anche con la Lega.

Ma questa strada e’ stretta assai. L’ex Governatore Agazio Loiero, ad esempio, non gliel’ha certo mandato a dire ad Occhiuto. Loiero infatti definisce «tardive» le critiche dell’attuale presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, al Ddl Calderoli’’ ed ha dato un consiglio al governatore: «Può accodarsi alle cinque Regioni del centrosinistra che presentano ricorso e che presentano due ricorsi, uno di abrogazione totale e uno di abrogazione parziale. Si accodi a queste regioni e lui diventa un alfiere, un difensore del proprio territorio, che viene sempre prima del partito e della coalizione».

Ovviamente piu’ drastico il segretario del Pd Nicola Irto: «Serve una battaglia meridionalista e da sud, serve una battaglia calabrese. Sono inaccettabili e anche un po’ ridicole le giravolte di Occhiuto, che prima vota la legge che poi contesta’’.
Insomma Occhiuto e’ stretto ed alla fine una posizione netta e chiara dovra’ pure assumerla: o sarà ligio alla disciplina del suo partito o sceglie il mare aperto della battaglia meridionalista. Restiamo in attesa di capire.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 luglio 2024

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio.

In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.

Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali?

Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.

Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.

Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite.

Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.

Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su

da “il Manifesto” del 29 giugno 2024

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Questi giochini tattici, i distinguo in punta di penna, le fandonie che si stanno leggendo a due settimane dal voto in Parlamento per cercare di giustificare lo scempio che si consumerà sull’autonomia differenziata hanno, in verità, stancato. Ora che Mattarella ha promulgato la legge sarebbe l’ora di pensare a che fare.

La maggioranza di governo (che intanto in Calabria è già andata sotto ai ballottaggi di domenica e lunedì a Vibo, dopo essere stata ridicolizzata al primo turno a Corigliano-Rossano, ed è già un segnale per chi vuol capire) è invece testarda ma i fatti lo sono ancora di più. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata emerge, infatti, in tutta evidenza la realtà di un’Italia già ammalata di regionalismo e che avrebbe bisogno, semmai, di maggiore coesione. Ci pensano però diversi istituti di ricerca a dimostrare dove porta la narrazione del Ddl Calderoli: l’Italia della salute si presenta, ad esempio, già fratturata in più punti con il federalismo che c’è e quello che verrà rischia di spaccarla definitivamente con la Calabria fanalino di coda.

Il rapporto del «Centro per la ricerca economica applicata in Sanità» dell’università di Tor Vergata, presentato a Roma, parla chiaro: la mappa che ne riassume il contenuto si mostra in verde al di sopra dell’Umbria, gialla dal Lazio in giù e tristemente rossa in Basilicata, Calabria e Sicilia. I colori rispecchiano le performance di salute, sintetizzate in un indice che tiene conto di equità, esiti, appropriatezza e innovazione del servizio sanitario.

«La valutazione 2024 delle Performance regionali in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini – si legge nel rapporto – oscilla da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria». Desolante la conclusione: «Il divario fra la prima e l’ultima Regione è decisamente rilevante: un terzo delle Regioni non arriva a un livello pari al 40% del massimo ottenibile».

Se «sembra essersi registrato una significativa riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute fra Meridione e Settentrione», spiega il rapporto, è perché le Regioni con le performance migliori hanno smesso di migliorare «probabilmente a indicare l’esistenza di limiti strutturali nell’attuale assetto del sistema sanitario».

Un altro rapporto, quello dell’Istat, conferma in «Noi Italia 2024» pubblicato 5 giorni fa con un capitolo su «sanità e salute». Anche l’Istat mostra che l’Italia è fatta da più Paesi in uno. Gli abitanti di Calabria e Campania, ad esempio, dispongono di 2,2 e 2,5 posti letto in ospedale ogni mille abitanti e la Calabria è quella che ne ha tagliati di più tra il 2020 e il 2022 (-17%).

In Emilia-Romagna (3,6) e in Trentino (3,7) sono quasi il doppio e in entrambe le Regioni si è registrato un aumento di posti letto del 7% in un biennio. Il risultato in termini clinici è crudo quanto diretto: nel Nord-est il tasso di mortalità evitabile è di 16,9 decessi per diecimila abitanti e nel sud di 21,8, quasi 5 in più. Campania, Molise e Sicilia sono le regioni in cui si muore di più sia per patologie trattabili (cioè che potrebbero essere curate con un’assistenza migliore) che per quelle prevenibili con interventi su stili di vita e vaccinazioni. Persino la mortalità infantile del mezzogiorno (3,2 ogni mille nati vivi) è più alta rispetto alla media nazionale (2,6).

La mobilità sanitaria, cioè il numero di pazienti che si spostano da una regione all’altra per le cure, infine è in aumento. La regione più ricercata è l’Emilia-Romagna, dove l’immigrazione sanitaria è in costante aumento dal 2018 e il saldo tra chi arriva e chi parte supera anche quello della Lombardia.

Dopo la lettura dei dati assumono un significato sinistro le parole con cui il ministro della salute Schillaci commenta l’impatto della riforma sul diritto universale alla salute: «L’autonomia differenziata già esiste in sanità – ha provato a rassicurare il radiologo – Le Regioni hanno grande autonomia e in questo settore cambierà poco». In peggio ovviamente. Questi, dunque, sono i fatti, il resto chiacchiere.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 giugno 2024.

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Tra le fake news che – come denunciato da Massimo Villone sul manifesto – circolano in tema di autonomia differenziata, assai radicata è quella secondo cui la posizione dell’Emilia-Romagna sarebbe qualitativamente diversa da quella del Veneto e della Lombardia.

È la tesi sostenuta dal presidente regionale uscente, Stefano Bonaccini in molteplici occasioni, l’ultima delle quali in una recente intervista a Repubblica, in cui formula due argomentazioni: che la decisione emiliano-romagnola di unirsi al Veneto e alla Lombardia è stata «condivisa con tutte le parti sociali e senza mai un voto contrario in consiglio regionale» e che «la richiesta dell’Emilia-Romagna riguardava solo alcune delle 23 materie potenzialmente previste, soprattutto limitate e specifiche funzioni all’interno di queste».

LA PRIMA ARGOMENTAZIONE è, tecnicamente, una chiamata di correi (politici): mira a ricordare che le associazioni, i sindacati e tutte le forze politiche a sinistra e a destra del Pd (incluso il M5S, ovunque lo si voglia collocare) hanno sostenuto la decisione emiliano-romagnola di imboccare la via dell’autonomia differenziata. In questo, Bonaccini ha le sue ragioni: se è vero che la forma di governo regionale iper-presidenzialista assegna al presidente un peso preponderante, è altresì vero che nessuno tra coloro che operavano attorno a lui – nemmeno l’ex vice-presidente dal 2020 della regione, Elly Schlein – ha provato a fare da contrappeso. Non è vero, però, che questo schieramento unanime sia una peculiarità emiliano-romagnola, dal momento che, sia pure a parti inverse, esattamente lo stesso è accaduto ai referendum consultivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia (sebbene, in quest’ultima regione, con qualche indecisione da parte delle forze di centrosinistra).

Quanto alla seconda argomentazione, occorre ricordare che la gran parte delle richieste delle tre regioni copre, in modo identico, i medesimi ambiti: il Veneto chiede tutte e ventitré le materie in astratto richiedibili, la Lombardia ne chiede venti e l’Emilia-Romagna sedici. Al di là delle materie, è corretto, come dice Bonaccini, guardare alle funzioni in cui ogni singola materia si articola. Chi lo facesse scoprirebbe, però, una realtà diversa da quella edulcorata dal neoparlamentare europeo. Se una differenza d’approccio connota la posizione dell’Emilia-Romagna è, infatti, la propensione ad avanzare richieste forse meno estese, ma all’atto pratico non di rado persino più incisive rispetto a quelle delle regioni a guida leghista.

PARTICOLARMENTE RILEVANTI sono i casi dei musei (che la regione vorrebbe vedere tutti, inclusi quelli statali, acquisiti al proprio governo), del governo del sistema dei trasporti (che include tutte le reti viarie e ferroviarie), dell’ambiente e del territorio (ambiti in cui le richieste regionali mirano alla facoltà di agire in deroga alla normativa statale in modo da allentare gli attuali vincoli di tutela) e degli enti locali (rispetto ai quali l’Emilia-Romagna rivela una spiccata volontà di centralismo regionale).

Il caso forse più eclatante è però quello dell’istruzione, in cui la regione a guida Pd mira a dar vita a un sistema scolastico regionale parallelo a quello statale, da porre in concorrenza con quest’ultimo in modo che le famiglie scelgano se iscrivere i figli a frequentare l’uno o l’altro. Merita ricordare le parole usate nella bozza d’intesa Stato-regione trapelata nel maggio 2019, secondo cui l’obiettivo è «garantire in ambito regionale la realizzazione di un sistema unitario e integrato di istruzione secondaria di secondo ciclo e di istruzione e formazione professionale (Iefp) che, nel rispetto delle autonomie scolastiche, permetta di sviluppare le competenze dei giovani in coerenza con le opportunità occupazionali del territorio e con le professionalità richieste dalle imprese, assicurando il diritto effettivo dei giovani di scegliere se assolvere il diritto-dovere all’istruzione e formazione nel “sistema di istruzione”, di competenza statale o nel “sistema di istruzione e formazione professionale” di competenza regionale».

In tal modo, il più importante strumento di costruzione dello spazio simbolico di appartenenza collettiva, la scuola, passerebbe al controllo regionale: difficile non cogliere le conseguenze negative che ne deriverebbero per la tenuta del sentimento di solidarietà – politica, economica e sociale – nazionale sancito, come dovere inderogabile, dall’articolo 2 della Costituzione.

Insomma: se tra il regionalismo differenziato di Veneto e Lombardia, da una parte, ed Emilia-Romagna, dall’altra, vi è una qualche (modesta) differenza quantitativa, dal punto di vista qualitativo è difficile cogliere uno scarto davvero significativo.

da “il Manifesto” del 26 giugno 2024

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

L’avevo previsto e l’ho scritto: Forza Italia non può accettare supinamente la legge che vara l’Autonomia Differenziata. La sua base elettorale, le Regioni che governa, sono tutte nel Sud. D’altra parte non può, e non vuole, uscire dal governo, far cadere questa solida maggioranza di destra, rischiando di restare in mezzo al guado, non più alleata con la Destra-destra, ma neanche accolta dal Centro Sinistra.

In mezzo alla corrente si rischia di scomparire, di essere travolti se non si trova una via d’uscita. Probabilmente, Forza Italia potrà uscirne da questa imbarazzante situazione sperando di mettere bastoni burocratici alla implementazione di questa legge “spacca Italia”. Ma, si tratta di tattica, di prendere tempo mentre avanza la richiesta di austerità da parte della Ue, finisce la sbornia del Pnrr, la droga del 110 per cento, e bisognerà restituire la parte di prestito contratto che va ad aggiungersi ad un debito pubblico insostenibile.

Con una recessione alle porte, sperando che i sempre più preoccupanti venti di guerra non ci travolgano prima, l’Autonomia Differenziata rappresenta il colpo finale, la mannaia che taglierà la testa a chiunque pensi di governare le regioni meridionali.

Di fronte a questa sfida di portata storica le popolazioni del Mezzogiorno, in misura crescente, stanno prendendo coscienza che è necessaria una mobilitazione, scendere in piazza e partecipare in massa alla raccolta firme per il referendum. Ma, attenzione, a non creare, nei fatti, una Lega Sud contro il Nord che ci porterebbe a sbattere contro un muro. Intanto il Nord non è un blocco omogeneo, ma esistono forti differenze al suo interno.

Per esempio, la Liguria è una regione che riceve dallo Stato più di quanto versi attraverso le imposte, circa il 13% del suo budget scomparirebbe con l’Autonomia Differenziata (A.D.). ma anche regioni del Nord a Statuto speciale, come il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, avrebbero solo da perdere dalla A.D. , visto che lo Stato contribuisce in maniera importante, soprattutto in Valle d’Aosta, a mantenere il livello attuale di reddito e consumi.

Naturalmente stessa sorte toccherebbe alle regioni autonome del Sud, Sicilia e Sardegna, malgrado rassicurazioni varie da parte del governo. E non a caso, al di là del colore politico, governatori delle due isole maggiori hanno apertamente espresso il proprio dissenso.

Pertanto, c’è un lavoro determinante da portare avanti. Fare conoscere, con numeri alla mano, l’impatto sulle singole regioni che l’A.D. comporterà se non viene fermata prima. Ci sono poi singole categorie che non accettano di essere frantumate, parcellizzate, come ad esempio i Vigili del Fuoco che hanno già espresso in Veneto la loro contrarietà alla A.D. Così come tra gli insegnanti che non accettano una regionalizzazione dei programmi scolastici per diverse ragioni, sia didattiche, sia di mobilità territoriale, sia di qualità dei programmi.

Credo che si arriverà, con i Consigli regionali o con la raccolta firme, ad un referendum per abrogare questa legge. La risposta del governo Meloni sarà quella di usare l’arma più semplice ed efficace per vincere: chiedere agli italiani di non andare a votare. Dato che per essere valido un referendum abrogativo deve far registrare oltre il 50 per cento di votanti tra gli aventi diritto, basterà che gli elettori della Destra si astengono per perdere anche se i Sì raggiungessero il 100 per cento. Quindi bisogna evitare che passi come una ennesima sfida meloniana: o con me o contro di me. Ovvero: après moi le déluge.

Innanzitutto, bisognerà convincere dell’utilità del voto quel 50 per cento di elettori che negli ultimi anni non hanno partecipato alle elezioni politiche e amministrative. Compito non facile ma non impossibile se le argomentazioni saranno convincenti, basate su dati e non su slogan o invettive, salvo il richiamo all’Unità del nostro paese che questa legge mette seriamente in crisi, facendo aumentare in maniera insostenibile le disparità territoriali. Anche dentro il mondo elettorale dei FdI ci sono e ci saranno coloro che non vogliono che questo partito ( condizionato dal baratto con la Lega “ io ti do l’A.D. e tu mi dai il premierato”), si trasformi in Brandelli d’Italia, secondo l’efficace espressione della Elly Schlein.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 giugno 2024

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata siamo in una terra di mezzo. La legge Calderoli ha stabilito una procedura per giungere alla devoluzione delle materie alle Regioni che le richiedono. La strada è spianata, restano le intese per completare l’opera.

Sarà così raggiunto un traguardo storico irreversibile. Non spetterà più allo Stato salvaguardare i diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, ma alle singole Regioni in base ai negoziati definiti separatamente con il governo. Sarà la fine della solidarietà nazionale e di ogni idea di Paese unitario.

Un esito posto al riparo anche da eventuali ripensamenti: le intese, che verranno definite dal governo in carica e dall’attuale ministro per le autonomie, verranno approvate da un parlamento silente a maggioranza assoluta e non potranno neppure essere sottoposte a referendum abrogativo. In vigore per l’eternità, nonostante l’ipocrita previsione di una durata decennale delle intese (e poi che succede se non c’è il consenso della regione a recedere?). Tutto è ormai pronto perché si cambi volto alla Repubblica.

Che fare per impedire quest’esito annunciato? Qualcosa si può ancor tentare, ma è necessario attivarsi subito e avere ben presente virtù e limiti entro cui si può operare. Sono misure che sono state discusse più volte da questo giornale, ma è bene ricordarle.

LA PRIMA PAROLA spetta alle Regioni. Esse possono portare la legge appena votata difronte alla Consulta. Basta che una regione eserciti quel diritto che l’articolo 127 della Costituzione gli attribuisce. In questo articolo si stabilisce che entro 60 giorni dalla pubblicazione di una legge le Regioni possono promuovere una questione di legittimità per lesioni della propria sfera di competenza. Sino ad ora abbiamo sentito molti presidenti, soprattutto di Regioni meridionali, alcuni anche di destra, denunciare i rischi che l’adozione delle intese produrrebbero sulla stabilità del Paese. Ora hanno la possibilità di far valere le loro ragioni difronte alla Consulta.

Una verifica sul punto mi sembrerebbe doverosa e persino rispettosa dei reciproci ruoli dello Stato e delle Regioni. Sarebbe invece pessimo il segnale se non ci fossero questi ricorsi. Perché si dimostrerebbe che i rappresentanti istituzionali non sono in grado di reagire facendo invece prevalere calcoli politici o (nel caso delle regioni attualmente governate dalla destra) fedeltà di maggioranza. Una dimostrazione di come l’autonomia regionale abbia operato nel profondo.

Quale sarà l’esito del ricorso, cosa deciderà la Consulta, non può essere detto. Per ora si tratta di far valere tutte le ragioni che determinerebbero violazioni di articoli e principi costituzionali a partire da quello d’eguaglianza e la ritenuta lesione dei diritti fondamentali nelle diverse parti del territorio nazionale. Poi la parola passerà alla Corte.

La seconda strada che è possibile percorrere è quella della richiesta di abrogare la legge appena approvata per via referendaria. Non è una via alternativa alla prima, semmai complementare. Non riguarda la illegittimità costituzionale della legge Calderoli, ma il merito politico. Può essere attivato da 500mila elettori o da cinque consigli regionali. Anche in questo caso sarebbe fisiologico che una legge tanto controversa e contrastata da vasti settori dell’opinione pubblica provocasse l’attivazione di quello strumento di partecipazione che la Costituzione mette a disposizione: il referendum, appunto.

Vedo che l’intera opposizione, finalmente unita, afferma di voler precorrere questa strada. Bene, una reazione decisa. Qual è lo scandalo se chi non ama una legge così importante vuole sottoporla al giudizio popolare? Anche in questo caso potrebbe dirsi: se non in questo caso, quando?

da “il Manifesto” del 25 giugno 2024

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Che cosa è successo ieri con la definitiva approvazione della legge sull’autonomia differenziata? Da un punto di vista giuridico ben poco. Non è stato concesso alcun potere. Per quello, bisognerà attendere la firma, e poi la ratifica, di intese fra lo Stato e ciascuna regione. Il confronto politico, delle idee, si sposta quindi sul piano della conoscenza e della discussione di quei contenuti. Tra l’altro, essendo quella approvata una legge ordinaria, qualsiasi sua disposizione può essere modificata da una norma successiva. La battaglia è ancora lunga.

Ma sono stati raggiunti almeno tre importanti obiettivi. Il primo è la rinnovata coesione nella maggioranza, a qualsiasi condizione. Anche a costo di approvare una norma, che deriva dall’antica predicazione leghista, che può disarticolare lo Stato e trasformare l’Italia in un Paese arlecchino. Che cozza frontalmente con la cultura politica di Fratelli d’Italia: girano in Rete le bellicose dichiarazioni di Giorgia Meloni del dicembre 2014, con le quali presentava la sua riforma costituzionale per abolire le regioni, fonte a suo dire di ogni spreco. Oggi le trasforma in Stati-regione dall’ampia sovranità. Una maggioranza che preoccupa: per tanti motivi ma anche perché è disposta a compiere qualsiasi scelta pur di restare al potere.

Il secondo è l’auto-mortificazione del Parlamento. I deputati di maggioranza, con questa legge, hanno deciso di privarsi del diritto-dovere di discutere a fondo i contenuti delle intese, cioè di riflettere su quali poteri, a oggi incardinati nel legislativo nazionale, saranno ceduti. Con un anticipo del premierato, scegliere che cosa e quanto concedere lo decide la presidente del Consiglio; a deputati e senatori spetterà, al termine del percorso un voto di mera ratifica; di giubilante approvazione delle scelte del capo. Così, con queste tristi pagine di storia parlamentare potrebbero avere fine il Servizio sanitario nazionale, la scuola pubblica unitaria, il sistema delle infrastrutture e dell’energia.

Il terzo è che si fornisce un’arma di propaganda. Si dice: con questa legge saranno garantite pari condizioni nei servizi nel Mezzogiorno grazie ai famosi Lep. Che sia una bufala, nonostante le predicazioni di Sabino Cassese è facile intuirlo: chi potrebbe mai ragionevolmente pensare che Luca Zaia e Attilio Fontana abbiano fatto questa lunga lotta per far arrivare più risorse al Sud? Come è evidente da tutti i documenti, l’obiettivo è esattamente il contrario: trattenerne il più possibile nei propri confini. Questo si otterrà grazie a una percentuale garantita del prelievo fiscale nazionale che rimarrà in regione (la “compartecipazione”).

Altro che responsabilizzazione delle classi dirigenti. Un bengodi. Lo Stato, cattivo, tassa; la Regione, buona, spende, senza vincoli di destinazione. Quanto ai Lep, abbiamo un impegno con l’Unione europea a stabilirli, e a mettere a regime tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, nel Pnrr. Richiedono comunque risorse che non ci sono. Ma a ogni buon conto, il governo ha pensato bene di nominare presidente della commissione tecnica che dovrà fare i conti, una consulente ufficiale della Regione Veneto. Non si sa mai.

E ora? La strada per i sostenitori della secessione dei ricchi si è fatta più agevole, ma è ancora lunga. Per chi vuole opporsi, ci sono più piani. Il primo è quello della mobilitazione politico-culturale generale su questa assurda idea di Paese arlecchinesco. Coinvolgendo i cittadini, del Sud e del Nord. Cercando di far pagare un prezzo politico elevato a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. Nel Mezzogiorno ci sono possibilità, come mostrano le posizioni molto perplesse del presidente forzista della Calabria, ma questo va fatto anche e soprattutto nelle città del Nord, finora troppo distratte.

Il secondo, è quello di marcare stretto il governo sui possibili contenuti delle intese, che inizialmente possono riguardare solo alcune materie (cosiddette non-Lep). C’è certamente una trattativa regioni-ministeri in corso, di cui Parlamento e cittadini non sanno nulla. E allora chiedere alla presidente: se questo cambiamento fa così bene all’Italia, perché ne nascondete gli effettivi contenuti? Parliamo della follia di spezzettare la Protezione civile, ad esempio?

Infine, come ricorda Massimo Villone, c’è la possibilità dei ricorsi in via principale di alcune regioni (auspicabilmente del Nord e del Sud) alla Corte Costituzionale. Assai meno importante la strada referendaria, per i suoi tempi e contenuti (anche se si abolisse questa legge le intese successive resterebbero valide).

Insomma, il 19 giugno non resterà nella memoria della Repubblica come una giornata felice. Ma tempo e modo per contrastare la secessione dei ricchi ancora ci sono.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 giugno 2024

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano.

A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo?

Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori.
Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Dopo il Molise, l’Abruzzo; e poi la Basilicata. Certo, ogni regione ha la sua storia, e c’è stata la Sardegna; i risultati si inquadrano in dinamiche nazionali.Ma non si sfugge: le forze del centro-sinistra, e in particolare il Pd, non riescono ad offrire agli elettori del Sud, che pure sono più mobili nelle proprie scelte di quelli del resto d’Italia, forti motivazioni per il voto.

La tendenza era già visibile alle politiche: se nel 2018 solo 11 elettori meridionali su cento si erano recati alle urne per votare Pd e Avs/Leu (il dato tiene naturalmente conto anche degli astenuti) nel 2022 la percentuale era scesa al 9 (17% al Centro-Nord), nonostante il fortissimo declino dei 5 Stelle.

Quelle forze politiche avevano perso, nel 2018-22, il 19% dei voti (il 10% al Centro Nord). Il Pd non riesce a recuperare voti al Sud; ma, senza quei voti, non si potrà mai determinare una vittoria delle attuali forze di opposizione alle elezioni politiche generali.

Perché? A mio avviso per due ordini di motivi: perché il Pd, ormai da tempo, ha “divorziato” dal Sud; perché il Pd, in particolare al Sud, “non esiste”.

Gli elettori meridionali non riescono a vedere proposte politiche del Partito Democratico che possano influire sulle loro vite, sulle loro opportunità e speranze. Dagli esponenti di quel partito vengono declamazioni assai generiche; e proposte di interventi principalmente per destinare più incentivi alle imprese perché investano e assumano al Sud.

Poco, molto poco, quasi niente, che possa migliorare concretamente la loro vita: proposte per potenziare i servizi di istruzione per chi frequenta la scuole (mense/orario prolungato) o le ha abbandonate; per migliorare i livelli di assistenza in sanità, tanto nella fondamentale prevenzione, quanto nei servizi territoriali e ospedalieri; per accrescere e sviluppare qualitativamente il welfare locale, che al Sud ha dimensioni infinitesime, e che inchioda la condizione di molte donne negli obblighi di cura; per garantire ragionevoli servizi di mobilità a corto e medio raggio ai ragazzi e agli anziani prigionieri in piccoli comuni interni.

Un filo rosso lega questi temi: attengono tutti alla disuguaglianza nelle condizioni di vita fra i cittadini; disuguaglianza che non dipende solo dalle caratteristiche socioeconomiche degli individui (età, genere, ceto, lavoro) ma anche dalla situazione dei luoghi in cui essi vivono. E che non si combatte con piccole provvidenze speciali destinate “al Sud” ma con politiche nazionali di ampio respiro ispirate al perseguimento di una maggiore uguaglianza. Che partono dalla definizione e quantificazione di quell’insieme di diritti di cittadinanza di cui ogni italiano dovrebbe godere indipendentemente da dove vive (che pur previsti in Costituzione non sono mai divenuti realtà) e che da essi traggono principi e criteri per tutte le politiche pubbliche, correnti e di investimento.

Insomma, quello che si sta dicendo è che il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno perché ha abbandonato il perseguimento della lotta alle disuguaglianze come grande riferimento della sua proposta politica. Ma vi è di più. È anche da esponenti di quel partito che è venuto un forte sostegno a scelte che hanno significativamente aumentato quelle disuguaglianze.

Dalle politiche di “contrazione cumulativa e selettiva” del sistema universitario italiano, che hanno esplicitamente favorito la migrazione di studenti da Sud a Nord (quanti sanno che dal 2013 la possibilità di reclutare docenti dipende anche dall’ammontare delle tasse universitarie e quindi è maggiore per gli atenei con gli studenti che provengono da famiglie più abbienti?) all’assenza della “deprivazione sociale” come criterio allocativo del fondo sanitario nazionale, pur previsto dalla legge.

Non è un caso che sia stato l’attuale presidente del Pd ad aprire in misura decisiva la strada alle richieste di autonomia regionale differenziata (la “secessione dei ricchi”); lo stesso esponente politico il 5 aprile scorso ha lamentato che il criterio di riparto del Fondo Sviluppo e Coesione sia “troppo sbilanciato sul Sud e poco sul Nord”.

Al Sud il Pd si presenta come una coalizione di singole personalità, ciascuna con il proprio seguito di consenso. Non è organizzato con una rete di comunità, presenti sul territorio, che mirano ad allargarsi, ad avvicinare altri cittadini; che discutono di politica, che perseguono obiettivi comuni su base locale o nazionale. Eppure, il tessuto associativo al Sud è molto più ricco di quanto si possa immaginare: ma molto raramente si tratta di gruppi che si caratterizzano con le insegne del Pd. Se si vuole fare politica non si va in un partito.

Si dirà che questo caratterizza più forze politiche, più luoghi del paese. È vero. Ma per il Pd al Sud si tratta di un tratto fondamentale, dirimente. I suoi due maggiori esponenti, i presidenti di Campania e Puglia, hanno una rete di consenso di carattere strettamente personale; le loro scelte di governo sono innanzitutto finalizzate al mantenimento e all’allargamento di questa rete. Come si è visto dalle recenti vicende giudiziarie pugliesi, questo porta a includere nel perimetro della propria coalizione altri esponenti politici, non per le loro idee, ma in quanto portatori di ulteriori “pacchetti” di sostenitori. Anche indipendentemente dai modi usati per metterli insieme.

Non si aderisce al Pd: si entra nella cerchia di De Luca o di Emiliano. Nel recente caso lucano, le elezioni regionali sono state vinte dal centrodestra (con un Presidente che non risiede nemmeno in Basilicata) perché alcuni esponenti già del Pd sono trasmigrati da quel lato, portando con sé il proprio, cospicuo, “pacchetto” personale di sostenitori.

Una eccellente classe dirigente di origine popolare o diessina caratterizzava tutta la Basilicata: era tenuta insieme da valori comuni, le assicurava un governo locale e regionale di qualità, garantiva un consenso da regione “rossa”. Si è liquefatta nell’ultimo decennio a seguito di una lotta senza quartiere fra singole personalità del Pd. Fino all’incapacità di scegliere un candidato presidente a pochi giorni dalla presentazione delle liste. Si dirà, giustamente, che il quadro a destra non è certo molto differente. Ma, forse, se si vuole riportare alle urne gli Italiani che non votano più, è anche dal segnare questa diversità che si può ricominciare.

Sinora, l’azione della nuova Segretaria si è rivelata, purtroppo, impalpabile. Si guardi la recentissima proposta sulla sanità a firma Schlein: non affronta il tema delle disuguaglianze nel diritto alla vita esistenti in Italia; della circostanza che, specie in Calabria e in Campania, si muore di tumori curabili perché il diritto allo screening preventivo non è garantito e li si affronta quando è troppo tardi. Si leggano le cronache: sugli assetti del partito, sulle giunte, sulle candidature. Cambiare il Pd non è certo una passeggiata. Ma, continuando così, la Basilicata rischia di diventare la regola e la Sardegna l’eccezione.

da “il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2024