Tag: autonomia differenziata

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

Di antifascismo c’è ancora bisogno, perché non è ancora finita come la vergognosa farsa dei giorni scorsi a Roma, con centinaia e centinaia di saluti romani ad Acca Larentia e il più o meno silenzio imbarazzato della politica di Governo. Ma c’e’ bisogno soprattutto oggi di un antifascismo a difesa e a tutela della Costituzione, attaccata su piu’ fronti concreti dai provvedimenti legislativi in discussione nei due rami del Parlamento.

Premierato e autonomia differenziata sono i piu’ importanti di questi strumenti legislativi che la nuova destra al Governo propone e che alla fine contrastano con alcuni principi di fondo della nostra carta Costituzionale, frutto – è sempre bene ricordarlo soprattutto in questi giorni – della lotta partigiana. Di tutto questo ne ha fatto motivo di un interessante libro (che martedì 16 sarà presentato a Catanzaro) il presidente nazionale dell’ANPI, l’associazione dei partigiani italiani, Gianfranco Pagliarulo.

Anche l’ANPI infatti è seriamente preoccupata del tema dell’autonomia differenziata ‘’perché’ – dice Pagliarulo – aumenterebbe il divario, e dunque le diseguaglianze, tra aree forti e aree deboli del Paese aggravando ancora di piu’ il differenziale negativo del Mezzogiorno’’.

È pur vero – per tornare ai nodi anticostituzionali – che l’art.116 della nostra Carta prevede forme particolari di autonomia come possibilità ma è verissimo che al suo art.5 c’è il principio dell’unicità e della indivisibilità della Repubblica. Essere antifascisti oggi significa dunque, oltre lo smascheramento del ritorno a forme che ricordano il fascismo storico (i fattacci di Acca Larentia seguono decine e decine di altri casi mai repressi o semplicemente impediti da chi ha invece il preciso dovere di farlo), proporre un’alternativa che è tutta contenuta nella Costituzione, mai interamente applicata, che va difesa nella cura della memoria partigiana e con una nuova narrazione della Resistenza.

L’ANPI da questo punto di vista è avviata ad un racconto del passato come guida per l’azione del presente, per una ripartenza civile e sociale, non trascurando i mali di fondo che affliggono il Paese. Primi tra tutti povertà, disoccupazione, sfiducia.

In questa direzione serve, e in che forme, l’associazionismo democratico? Serve perché le forze politiche eredi di quelle che furono protagoniste della Resistenza non esprimono più l’egemonia esercitata nei decenni successivi alla Liberazione, sono addirittura scomparsi quei partiti e lo stesso contrasto agli attacchi piu’ veementi alla Costituzione, come è appunto il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata, vive momenti alti e bassi, a volte confusi e non pienamente percepibili dall’opinione pubblica.

C’è perciò bisogno di un rinnovato e corale impegno civile, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invocato nel suo tradizionale messaggio il 31 dicembre scorso, ma senza una difesa e una piena attuazione dei principi costituzionali la deriva che si sta prospettando è quella di un espandersi di un impasto di nazionalismo camuffato da primato patriottardo, di razzismo come paura patologica dell’altro, di dirigismo autoritario, persino di pensiero anti scientifico. Alla fine erano tutti elementi propri del fascismo. Oggi si sono rinnovati e la cultura antifascista ha urgente bisogno anch’essa di un rinnovamento chiaro e netto.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 gennaio 2023

Autonomia, manca la vera ribellione.-di Filippo Veltri

Autonomia, manca la vera ribellione.-di Filippo Veltri

Il percorso dell’autonomia differenziata del leghista Roberto Calderoli corre e nessuno protesta sul serio. Martedì scorso il testo il testo e’ arrivato nell’aula del Senato, dopo essere stato licenziato dalla Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama.

Pietro Massimo Busetta ha lanciato un allarme ma i sordi e i ciechi continuano ad essere la maggioranza. Tutti sanno infatti che l’autonomia cosi’ voluta dal ministro leghista danneggera’ ulteriormente il Sud e in assenza di una crescita a due cifre la spesa storica rimarra’ invariata. La domanda che Busetta si e’ posta e’, dunque, scontata e naturale: se cosi’ e’ come mai non si ribella una realta’ che sia nel passato che oggi e’ penalizzata, dove non arriva manco piu’ il Giro d’ Italia ciclistico? Come mai il Sud non si ribella e anzi (sempre Busetta) continua a dare consenso e aiuti agli ascari locali che da Roma governano il Paese?

C’e’ davvero un punto politico irrisolto in questo assordante silenzio e in questo vuoto di iniziative continue (e non episodiche e marginali come purtroppo stiamo assistendo da mesi e anni). Riguarda destra e sinistra dello schieramento politico, ma ovviamente piu’ la sinistra non fosse altro che per la provenienza del DDL Calderoli, ora oggetto di scambio per il disegno della Meloni sul premierato. Invece unica voce forte delle ultime ore paradossalmente (ma poi non tanto) e’ stata quella del presidente di Forza Italia della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, il quale in un’intervista alla ‘Stampa’ di Torino nei giorni scorsi non ci e’ andato leggero. Anzi.

Leggete quello che ha detto: ‘’…il percorso che Calderoli propone per l’Autonomia differenziata non è quello che avevamo pattuito’’. Il ministro leghista vorrebbe prima approvare la legge sull’Autonomia, poi garantire le risorse per finanziare i Lep, ”ma è un approccio sbagliato. Le due cose devono viaggiare insieme, altrimenti – ha ancora detto il governatore azzurro, molto ascoltato a Roma e assai vicino al vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani – per il Sud l’Autonomia rischia di diventare una trappola”.

E ancora: “temo che il primo vagone del treno, quello con la legge sull’Autonomia, arrivi puntuale in stazione mentre gli altri vagoni, che contengono il finanziamento dei Lep e il meccanismo di perequazione, finiscano su un binario morto.
Senza il finanziamento dei Lep e senza il fondo perequativo (destinato ai territori con minore capacità fiscale pro-capite, ndr), i vantaggi per il Mezzogiorno sarebbero pochi. L’effetto finale, in altre parole, sarebbe quello di avere un aumento del divario tra Sud e Nord. Esattamente il contrario di quello che potremmo ottenere. Trovo quindi assurdo che per la possibilità dell’Autonomia si vada di corsa e ci sia un’attenzione spasmodica, mentre per ottemperare a due obblighi costituzionali non ci sia alcuna fretta.

Anche l’idea di permettere delle pre-intese è una fuga in avanti, se non sono finanziati i Lep. Questo modo di procedere non va bene a me e penso non vada bene nemmeno a Forza Italia. Credo di non parlare a titolo personale. I governatori del Sud hanno le mie stesse preoccupazioni. Anche il gruppo parlamentare ha molti deputati e senatori meridionali che come me non hanno pregiudizi verso l’Autonomia, ma vogliono garanzie sulle risorse per i servizi da fornire ai cittadini. Altrimenti la conclusione è chiara a tutti: l’Autonomia non sarebbe più un’opportunità per il Mezzogiorno’’.

Domanda finale: perché al di là degli schieramenti, delle cose dette e fatte in precedenza dallo stesso Occhiuto (pesa come un macigno il suo sì in Conferenza Stato Regioni al progetto Calderoli), dei posizionamenti tattici etc etc (si ha notizie di un tardivo anche in questo in caso ravvedimento del fratello di Occhiuto, il senatore Mario nella Commissione di Palazzo Madama) non si raccoglie, si amplia, si fortifica questo seppur tardivo grido d’allarme?

Se ci sono strumentalismi o giochini da politicanti si verificherà (al tavolo del poker, grande metafora della politica, si arriva fino in fondo e se e’ un bluff le carte bisogna svoltarle) ma intanto si prenda per buono quanto detto e si allarghi schieramento e lotta comune. Il resto e’ altrimenti solamente silenzio o grida nel deserto!

da “il Quotidiano del Sud” del 18 novembre 2023

La Banca d’Italia e l’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

La Banca d’Italia e l’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Il Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco ha scritto una lettera al prof Sabino Cassese sui lavori della Commissione istituita dal Ministro competente per la definizione dei Livelli effettivi di prestazione (Lep).

Come è ormai noto i Lep sono considerati un passaggio indispensabile per arrivare a decidere in materia di autonomia regionale differenziata e la lettera di Visco è un potenziale siluro alla discussione in corso al Senato sul disegno di legge di legge Calderoli. Ma a questa posizione esplicita e argomentata non è stato dato dagli organi di informazione il peso che ha. Del resto le guerre in corso hanno ormai preso il sopravvento su tutto.

Per questo vale la pena di farne comprendere l’importanza. La lettera è argomentata e richiama l’attenzione su una operazione politica che rischia di creare seri problemi per la finanza pubblica, senza che il parlamento sia stato messo in condizione di pronunciarsi sulle scelte da fare. In sostanza si rischia un furto con destrezza di denari pubblici senza alcuna decisione parlamentare, con conseguenze imprevedibili su rating e spread.

Se stiamo alla Nadef che il Governo ha fatto approvare dal parlamento non ci sono risorse previste per l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione che prevede che vi siano interventi di riequilibrio a favore delle regioni e delle aree del nostro paese che hanno meno risorse e meno servizi, quindi che non sono in grado di garantire diritti costituzionali fondamentali agli stessi livelli di altre aree del paese che dovrebbero invece essere uniformi. La norma del Ddl Calderoli che esclude nuovi oneri per lo Stato dovrebbe portare a togliere l’aggancio alla legge di bilancio, che è palesemente finto, infatti se una legge non ha oneri (o risparmi) come può essere una legge collegata a quella di bilancio ?

Proprio questo collegamento con la legge di bilancio porta altri argomenti alle osservazioni della Banca d’Italia che infatti afferma che “le relazioni finanziarie tra Stato e regioni e gli strumenti di finanziamento delle prestazioni (debbono essere) definiti in modo trasparente, efficiente e coerente”.

Queste affermazioni chiamano in causa direttamente non solo il Ministro dell’Economia che non può continuare a fare come le 3 scimmiette e che giustamente la Commissione affari costituzionali del Senato ha convocato per avere la sua opinione ma anche l’insieme del Governo che ha lasciato Calderoli andare fin troppo avanti e che ora dovrebbe semplicemente bloccare l’esame del progetto per consentire un ripensamento di fondo. Ad esempio non è accettabile che la commissione Cassese in sostanza rinvii alla “Commissione tecnica fabbisogni standard” l’assorbimento delle funzioni di definizione, rendicontazione e verifica delle prestazioni prestate, quindi una commissione che rinvia ad un’altra commissione, con conseguenti difficoltà a controllare le spese ma anche e soprattutto i diritti che verranno effettivamente garantiti.

La lettera del Governatore entra nel merito di diversi capitoli: sicurezza del lavoro i cui Lep sono definiti spesso generici; istruzione, anche in questo caso Lep generici e viene sollevato, ad esempio, il rapporto tra Pnrr e tempo pieno, per non parlare del personale di cui viene ricordato che alcune regioni rivendicano dimensionamento ed aspetti retributivi; tutela e valorizzazione dei beni culturali da cui si evince con chiarezza che i vincoli di uniformità assoluta servono in realtà a togliere il vincolo dei Lep da rispettare; tutela della salute; ordinamento sportivo; porti e aeroporti e grandi reti di trasporto e navigazione; punti che per brevità elenco soltanto.

Quello che si comprende è che la definizione del Lep in realtà è un’operazione sostanzialmente finta, per arrivarci seriamente sarebbe necessario ben altro tempo da quello annunciato da Cassese, fine ottobre, e quindi in realtà le questioni vengono risolte o con generiche definizioni e con rinvii della definizione del merito alle Commissioni tecniche che sono una sorta di circolazione extra corporea e ed extra istituzionale. Questo per consentire alle Regioni di procedere anche in assenza di Lep o con Lep che sono tali solo nel titolo, ma non contengono vincoli reali di prestazione e poi per lasciare ai tecnici delle regioni di concordare direttamente con i tecnici del governo soldi e poteri da trasferire.

In altre parole siamo arrivati di nuovo al nodo denunciato da tempo. Ciò che interessa Calderoli è garantire comunque alle regioni (ben note) di ottenere i poteri e le funzioni, ottenendo l’assegno dello Stato per quanto le riguarda e lasciando le altre regioni nella situazione attuale, in attesa di risorse che non ci sono e non arriveranno, alla faccia del regionalismo solidale. Come si possa riuscire a dare più risorse ad alcune regioni senza sottrarle alle altre e per di più ad invarianza complessiva di spesa è un vero mistero. Anzi non lo è, è chiarissimo che alcune regioni si approprierebbero di più risorse e altre ne soffrirebbero, visto che risorse aggiuntive non ci sono.

Il Governatore offre a tutti l’occasione per comprendere la posta in gioco e di trarne le conseguenze. Del resto questo allarme viene dopo quello dell’Ufficio parlamentare di bilancio e le dimissioni di Amato, Bassanini ed altri dalla Commissione sui Lep sostanzialmente per i motivi ripresi dal Governatore.

Vale la pena di leggere la lettera del Governatore e ricavarne la conseguenza che il percorso parlamentare del Ddl Calderoli va fermato e si deve tornare ad una riflessione più di fondo ridando al parlamento il ruolo decisionale centrale che deve avere, togliendo di mezzo l’intesa tra singola regione e governo, ridando alla legge il ruolo di affidare e togliere poteri, se necessario, definendo effettivi standard nazionali di diritti che tutti i cittadini debbono avere garantiti in modo uniforme, senza subire discriminazione per il codice postale.

Inoltre siamo vicini al tempo previsto per portare in aula al Senato il disegno di legge costituzionale popolare su cui sono state raccolte 106.000 firme con l’obiettivo di fare vivere la richiesta di discutere le modifiche degli articoli 116 c.3 e 117, perché prima di pensare alla legge ordinaria, come è il Ddl Calderoli, occorre chiarire quale sarà il testo della Costituzione che come sappiamo ha bisogno di essere modificata come abbiamo indicato.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 ottobre 2023

Gli egoismi del paese arlecchino.-Intervista a Gianfranco Viesti di Roberto Ciccarelli

Gli egoismi del paese arlecchino.-Intervista a Gianfranco Viesti di Roberto Ciccarelli

Un paese arlecchino, fondato su piccoli staterelli regionali, devastato dagli egoismi territoriali e dal nuovo fronte della guerra dei ricchi. È il probabile esito dell’«autonomia differenziata» prospettato dalle richieste di alcune regioni e che sta procedendo grazie al disegno di legge presentato dal ministro Roberto Calderoli. Il progetto è stato fatto proprio dal Consiglio dei Ministri ed incombe sul futuro del governo e della legislatura. Questo è lo scenario inquietante, ancora troppo poco considerato nel dibattito politico e culturale, denunciato da Gianfranco Viesti in un pamphlet acuminato ed energico pubblicato da Laterza: Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale (pp. 184, euro 14).

Gianfranco Viesti, questo non è il primo libro che lei dedica ai problemi dell’attualità politica e sociale più stringente. Cosa implica l’impegno contro l’autonomia differenziata per un economista in una disciplina definita «una scienza triste»?
Sono un professore all’antica e credo che gli universitari abbiano tre doveri: insegnare, fare ricerca scientifica, partecipare al dibattito pubblico locale e nazionale. Abbiamo un ruolo importante di traduttori di temi complessi per i cittadini. Ruolo che, nell’Italia di oggi, è ancora più importante perché mancano sostanzialmente i partiti e le altre organizzazioni che hanno ricoperto questo ruolo in passato. I cittadini sono disinformati e smarriti. Personalmente cerco di imitare, senza riuscirci vista la loro statura, alcuni grandi maestri del passato, da Giorgio Fuà a Paolo Sylos Labini. Ci hanno insegnato che l’indispensabile rigore formale, l’attenzione ai numeri e alle fonti accademiche vanno sposate con l’interpretazione dei fenomeni sociali e politici per contribuire al dibattito pubblico.

Nella storia degli intellettuali meridionali ha avuto un peso importante l’idea della trasformazione sociale. Lei che vive e insegna all’università di Bari si sente parte di questa storia?
La carica civile e sociale di questa storia è decisiva. Alla sua base c’è un’idea: il Mezzogiorno non è altro dall’Italia, ma è un pezzo più debole dell’Italia. Oggi vanno senz’altro studiate le politiche territoriali, ma quello che conta davvero sono le grandi politiche nazionali e globali. Chi si occupa di economie regionali, non può che rivolgere la propria attenzione alle grandi questioni che influenzano tanto le diseguaglianze tra le persone quanto quelle tra i luoghi. Il libro l’ho scritto partendo da questa impostazione culturale.

Che cosa intende per «secessione dei ricchi»?
È un processo politico volto a creare regioni-stato, a partire da Lombardia e Veneto, dotate di poteri enormi sulle politiche pubbliche e con risorse finanziarie proporzionalmente maggiori rispetto ad altre regioni nel resto del paese. Ci possono essere secessioni esplicite e implicite. La strada che si sta seguendo è quella di una vera rottura del paese lasciando formalmente intatto l’involucro nazionale.

Quali sono le differenze o le analogie con i processi di decentramento in Europa?
Il caso più rilevante è quello della Spagna. La comparazione dimostra che, nel caso italiano, non stiamo discutendo di autonomia, un concetto molto positivo a mio avviso, ma di differenziazione fra le regioni. Le autonomie, nei paesi europei, hanno un significato positivo rispetto alla forma-stato all’interno del quale il potere è organizzato su più livelli. La differenziazione è tutt’altro: è un processo in cui alcuni soggetti, all’interno dello stesso paese, diventano più potenti e ricchi rispetto ad altri. A scanso di equivoci preciso che, da parte mia, non c’è alcuna nostalgia per gli stati autoritari fortemente centralizzati.

Questi processi sono emersi da una trentina d’anni almeno. Che cosa li ha generati?
La crisi in cui versa il paese da allora e, in particolare, le politiche dell’austerità dal 2008 in poi. Il consenso verso strategie di egoismo territoriale è cresciuto per le palpabili difficoltà dei cittadini, anche in Lombardia e nel Veneto, abituate a un tenore di vita e a un livello di servizi molto alto.

Cosa chiedono le élite delle regioni più determinate?
Le loro richieste sono sterminate e sostanzialmente eversive dell’Italia così come la conosciamo. Vogliono tutte le principali politiche pubbliche in mano alle regioni e, al livello statale, frammenti residuali di competenze.

Prospetta una realtà inquietante: il processo dell’autonomia differenziata è stato concepito per «tenere l’opinione pubblica il più possibile all’oscuro». Cosa sta succedendo?
C’è un pericoloso silenzio dei mezzi di informazione di massa e i cittadini ne sanno pochissimo. L’esplicita strategia è ottenere il risultato alzando cortine di fumo, ad esempio con la discussione che si sta facendo sui cosiddetti «Livelli essenziali di prestazione» (Lep): discussione poco utile in mancanza di risorse per finanziarli. Non pretendo che la si pensi come la penso io ma mi pare difficile sostenere che si tratti di questioni marginali. Sono temi della massima importanza e dovrebbero essere oggetto di un dibattito politico e parlamentare nel paese di cui non c’è traccia.

Perché?
Per due ragioni. Sin da quando si è iniziato a parlare di «autonomia differenziata» nessuna delle forze politiche ha coerentemente e sistematicamente avversato il progetto. Poi c’è il ruolo dei media che hanno sempre dedicato poco spazio alla questione, derubricandola quasi a una questione dei meridionali. Purtroppo, pensano di acquisire benemerenze nei confronti del governo non sollevando un problema che può provocare spaccature profondissime nella maggioranza.

Lei è molto duro anche con il Partito democratico e con i responsabili politici dell’Emilia Romagna. Perché?
Perché la regione Emilia-Romagna si è affiancata dal 2017 a Lombardia e Veneto, con mia grande sorpresa e dispiacere. Il governo Gentiloni ha poi aperto loro la strada nel 2018, al contrario di quel che aveva fatto Berlusconi nel 2008.

Si prospetta uno scambio tra il «presidenzialismo» sostenuto da Fratelli d’Italia e l’autonomia differenziata della Lega?
Così sembra. Personalmente sono contrario a entrambi gli ingredienti, ma noto che siamo in presenza di un governo assai approssimativo con basi culturali molto deboli. Ho l’impressione che non sappia esattamente bene quello di cui parla e metta insieme due riforme opposte.

Cosa accadrebbe se le realizzassero entrambe?
Un disastro. Un paese con meno democrazia, con fortissime concentrazioni di potere nelle mani di poche persone; un paese arlecchino e inetto, incapace di realizzare le proprie politiche. Uno scenario davvero molto preoccupante.

Che fine farebbe il servizio sanitario nazionale?
Morirebbe. La secessione dei ricchi creerebbe sistemi regionali del tutto indipendenti; con tutta probabilità con un ruolo del privato ancora maggiore rispetto ad oggi.

E la scuola, le politiche industriali e sociali?
Sulla scuola vedo un po’ più di ostacoli, ma tutto può accadere. L’intenzione è creare sistemi scolastici regionalizzati, selezionando gli insegnanti. Con gli insegnanti dipendenti dalle regioni verrebbe meno la loro tutela sindacale nazionale. Sulle politiche industriali la secessione darebbe tutti i poteri alle regioni: un percorso opposto rispetto alla necessità di disegnare una strategia nazionale nel quadro delle nuove, possibili, politiche europee.

Come si ferma tutto questo?
Dal basso, percorrendo le strade del Sud e del Nord, parlando ai cittadini. Creando al Sud problemi di consensi a Fratelli d’Italia e al Nord scuotendo l’opinione pubblica un po’ narcotizzata dalla modesta opposizione degli intellettuali e delle forze politiche di centrosinistra.

da “il Manifesto” del 18 ottobre 2023

Insieme per la Carta, ma non dimenticate la legge elettorale.-di Felice Besostri

Insieme per la Carta, ma non dimenticate la legge elettorale.-di Felice Besostri

Da Milano arriveremo in molti a Roma il 7 ottobre per la manifestazione nazionale “La via maestra-Insieme per la Costituzione”. Per quanto mi riguarda, tra le organizzazioni che hanno firmato ce sono alcune di cui sono associato da più di un decennio e di altre sono stato tra i fondatori. Respingere gli attacchi alla Costituzione è uno dei miei impegni permanenti. Ma devo esprimere una perplessità che è anche una seria preoccupazione. Nell’appello non c’è una parola sulla legge elettorale.

Se è una dimenticanza è sorprendente, perché è stato definitivamente accertato dalla Corte Costituzionale che abbiamo rinnovato il Parlamento nel 2006, 2008 e 2013 con una legge incostituzionale non in aspetti secondari ma per l’assegnazione di un premio di maggioranza e la previsione di liste di candidati totalmente bloccate. Non solo. Maggioranze costituzionalmente illegittime hanno adottato, grazie all’imposizione al Camera di tre voti di fiducia, una successiva legge elettorale dichiarata costituzionalmente illegittima in parti qualificanti prima che fosse mai applicata. Ed è sufficiente una lettura di queste due sentenze per capire che anche la terza legge elettorale, quella in vigore con la quale abbiamo eletto due parlamenti compreso l’attuale, non è indenne da problemi di costituzionalità.

Basta un dato: la coalizione vincente, con un consenso del 43,79% alla Camera, ha 237 seggi su 400, cioè più del 59% dei seggi. Al Senato con il 44,02% ha ottenuto 115 su 200 elettivi, cioè il 57,5% dei seggi.

Se non aver citato la legge elettorale nell’appello di convocazione della manifestazione è stata una scelta, è una scelta grave. Se è stata fatta per non mettere in imbarazzo i partiti, responsabili delle leggi elettorali e del taglio eccessivo dei parlamentari, è ancora più grave perché senza una critica alla legge elettorale vigente (frutto dei governi Gentiloni e Conte 1 e delle mancate promesse del Conte 2) non è credibile la difesa della Costituzione. Ed è più debole anche l’opposizione a presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato.

Oggi, i vincitori delle ultime elezioni hanno nel parlamento in seduta comune il 58% dei seggi, decisivi per l’elezione del presidente della Repubblica – o per controllarlo attraverso l’articolo 90 della Costituzione. Se l’ottimo presidente in carica si agitasse, questa maggioranza potrebbe tenerlo sotto scacco. E se lasciasse potrebbe eleggere, anche grazie ai 31 delegati regionali su 58, alla quarta votazione, un suo candidato in solitudine.

La critica alla legge elettorale in vigore avrebbe reso più credibile anche la giusta e netta opposizione all’autonomia differenziata, perché senza questa maggioranza artificiale il progetto di Calderoli non avrebbe futuro.

Tutto ciò in sintesi è possibile grazie alla legge elettorale in vigore, che è incostituzionale per violazione dei principi ribaditi proprio dalle sentenze della Corte costituzionale. Se gli elettori non possono scegliere i candidati, questi una volta eletti non possono rappresentare la nazione senza vincolo di mandato, ma saranno agli ordini dei partiti che li hanno nominati con le liste bloccate e le multicandidature in violazione dell’articolo 49 della Costituzione.

Se non si contesta per incostituzionalità la legge elettorale si finisce con l’accettare il risultato dello scorso settembre, che è stato possibile solo grazie a una legge incostituzionale. È una posizione debole e controproducente. È una dimenticanza che andrebbe corretta.

da “il Manifesto” dell’11 agosto 2023
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Sulle politiche, non solo, culturali.-di Massimo Veltri

Sulle politiche, non solo, culturali.-di Massimo Veltri

È calato il sipario sull’edizione 2023 del Premio Sila e, lungo la scia degli anni precedenti, ha visto sfilare davanti a platee affollate e partecipi prodotti editoriali e personalità della cultura nazionale che hanno presentato libri e trattato argomenti di attualità e contenuti di estremo interesse.

Letteratura, saggistica, anche opere pittoriche e il consueto premio alla carriera destinato a chi si è distinto in maniera particolare nel proprio settore di attività in un premio che fu una felice intuizione di Giacomo Mancini e dopo qualche anno di silenzio è ritornato, una decina di anni fa, grazie a Enzo Paolini.

Erano altri tempi, si era nel 1949, e l’obiettivo era allora quello di rilanciare l’attività culturale calabrese dopo il periodo fascista e il secondo dopoguerra.

Il nuovo Premio Sila ha ripreso le fila di un discorso interrotto per stimolare, in un periodo storico complesso e difficile, la ricostruzione di un tessuto sociale attraverso percorsi culturali che richiedono attenzione, sensibilità e partecipazione, ribadendo il primato della cultura, della conoscenza, dell’esercizio dello spirito critico.

Gli statuti, differenti nell’articolazione della loro ragion d’essere, sono significativamente convergenti nelle finalità e nei contenuti: e parimenti urgente è la necessità di far leva sul coinvolgimento dei saperi nell’opera di costruzione di un tessuto connettivo improntato alla prefigurazione di un futuro che facendo tesoro del passato sia quanto mai scevro di contaminazioni passatiste e nostalgiche.

Sono stati moltissimi i giovani presenti agli eventi e non soltanto tramite la loro partecipazione attiva nella giuria popolare che affianca i giurati per così dire istituzionali mentre non è una notizia soltanto di quest’anno la relativa affluenza dei ceti intellettuali calabresi, inclusa quella delle università.

La borghesia professionale facente capo ai tanti rami delle attività, da quelle umanistiche a quelle economiche a quelle giuridiche, periodicamente fornisce una rappresentazione di sé in buona misura avulsa da momenti in cui potrebbe fornire contributi originali e attivi oltre che fruire di eventi stimolanti.

Non è fenomeno ascrivibile soltanto al premio Sila, in una città ricca almeno sulla carta di un cartellone intrigante e variegato, e proprio quando nel dibattito nazionale tengono banco temi in buona misura connessi. Quello del meridionalismo, nell’epoca del regionalismo differenziato, e l’altro della mancanza di contributi analitici e propositivi dei circoli della conoscenza nel delineare un profilo di crescita del paese.

È difficile dire quali possano essere le cause che presiedono a tale stato di cose che è si particolare ma anche con forti venature nazionali: per certo contribuiscono sfiducia e autoreferenzialità, non indifferente la non immediata individuazione di punti di riferimento cui rivolgersi: forse una discussione franca aiuterebbe.

dal “Quotidiano del Sud” del 28 giugno 2023

Autonomia differenziata, dopo la piazza i no della Svimez.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, dopo la piazza i no della Svimez.-di Filippo Veltri

Dopo la grande manifestazione di sabato scorso a Cosenza anche la SVIMEZ ritiene, perdipiu’ ora, necessario ribadire che per riprendere oggi le fila di un dibattito informato e razionale sul regionalismo differenziato sia necessario muovere da due considerazioni.

La prima. Le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’articolo 116 comma 3 della Costituzione sono legittime, ma sono parte integrante del Titolo V della Costituzione riformato nel 2001. Le richieste di regionalismo differenziato vanno perciò valutate, nei loro eventuali meriti e limiti, nel contesto di un’attuazione organica, completa, equilibrata, del nuovo Titolo V. Dunque, per realizzare la “compiuta armonia” occorre che i principi introdotti dall’art. 119 siano resi pienamente operativi, il che non è, visto che proprio la legge attuativa (la 42 del 2009), che mira a regolare il federalismo fiscale, non è stata mai, da allora, attivata.

Considerato ciò, il DdL Calderoli propone una sorta di avvio “a saldo e stralcio” del percorso per l’Autonomia differenziata che investe l’intera gamma delle materie di “legislazione concorrente” elencate dall’art. 117 comma 3 della nostra Costituzione. In altri termini, l’asimmetria che si chiede di introdurre deve essere, ad avviso della Svimez, armonicamente calata in un quadro di realizzato federalismo fiscale.

La seconda considerazione dell’istituto e’ la seguente. Bisognerebbe chiudere definitivamente con la stagione delle contrapposizioni territoriali. In realtà, benché questo aspetto sia rimasto dietro le quinte, le proposte di attuazione dell’autonomia differenziata hanno ricevuto critiche sul piano tecnico ben più ampie e articolate da diversi organismi estranei alla difesa di particolari interessi territoriali.

In particolare, le relazioni del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (DAGL) e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) che hanno bene messo in evidenza, insieme a un lungo elenco di criticità, il conflitto tra le richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il rispetto dei principi di eguaglianza, perequazione e solidarietà nazionale sanciti dal nuovo Titolo V.

Con il DdL Calderoli si va, insomma, potenzialmente verso un’attuazione “integrale” delle proposte di autonomia: la possibilità di chiedere il decentramento di tutte le materie previste, compresa l’istruzione, senza l’individuazione puntuale di criteri di accesso; l’inemendabilità da parte del Parlamento delle intese Stato-Regione; il finanziamento delle nuove competenze regionali extra-Lep sulla base della spesa storica; la previsione di una definizione dei Livelli essenziali delle Prestazioni entro 12 mesi ma ad invarianza di spesa.

Si tornerebbe, in sintesi, alle proposte di cinque anni fa, rimuovendo quanto avvenuto sino ad oggi sia nel contesto economico e sociale del Paese (Pandemia, PNRR e ora gli effetti della guerra in Ucraina) sia negli approfondimenti tecnici sulle precedenti versioni dell’autonomia.

Senza neanche recepire le indicazioni della Commissione istituita dalla Ministra Gelmini presieduta dal compianto prof. Beniamino Caravita che aveva chiaramente stigmatizzato il rischio che la devoluzione di tutte le competenze richieste avrebbe determinato non autonomie differenziate, ma vere e proprie nuove Regioni “speciali”.

Alla luce di queste circostanziate critiche, cade dunque la tesi che l’opposizione alle richieste del “fronte del Sì” venga da un “fronte del No” radicato territorialmente a Sud, nemico dell’efficienza e del cambiamento. Il tutto con buona pace per il ministro Calderoli il quale per ultimo ieri a Vibo Valentia nel corso di una iniziativa della Lega ha provato a difendere il suo disegno di legge parlando addirittura di una grande opportunita’ per il Mezzogiorno. Lo dicesse ai tecnici dello SVIMEZ!

da “il Quotidiano del Sud” del 17 giugno 2023

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

Non era mai successo. Come leggiamo su queste pagine, nessuno ha conoscenza o memoria alcuna di «bozze provvisorie» uscite dagli uffici della Camera o del Senato. Ma la voglia di innovazione della destra di governo produce l’impensabile. Che poi l’erronea pubblicazione di un testo non verificato sia credibile è tutt’altra faccenda.

Opportunamente Andrea Fabozzi precisa che il dossier è rimasto online per ben quattro giorni prima che si aprisse il caso. L’Ufficio bilancio del Senato non deve scuse ad alcuno. Piuttosto, deve scusarsi chi ha prevaricato su strutture che sono al servizio non della maggioranza ma della istituzione.

Quanto è accaduto conferma che Meloni ha commesso un errore lasciando in mani leghiste i ministeri chiave: Calderoli alle autonomie, Giorgetti all’economia, Salvini alle infrastrutture. Poi ha sbagliato lasciando Calderoli libero di scegliere tempi e modi delle sue mosse. Probabilmente ha perso l’ultima occasione di rallentare caterpillar Calderoli quando ha consentito il disco verde in Consiglio dei ministri senza uno straccio di discussione nel merito.

Forse la misura è stata colma quando Calderoli ha presentato il suo disegno di legge (AS 615) con la sola sua firma, e, ancor più, quando è emerso che aveva probabilmente già avviato contatti e trattative per la elaborazione delle future intese. Si è appreso, ad esempio, che il ministero dell’istruzione aveva stigmatizzato come inaccettabile l’ipotesi di ruoli regionali per i docenti.

Il punto è che la risposta del ministero comporta che qualcuno abbia posto sul punto una domanda. E chi può aver chiesto, se non il ministro delle autonomie? Sollecitato da chi? E quante altre domande ha posto a chi, di cui non sappiamo? È la nuova Italia, a firma Calderoli.

Ora Meloni deve aver capito che il suo partito di “patrioti” non può essere strumento decisivo nella costruzione di una patria nuova in salsa leghista. Ma fermare il treno in corsa è certo più difficile. Il dossier incriminato in fondo nulla dice che non sia stato già detto da esperti, studiosi, prestigiosi istituti di ricerca come la Svimez, soggetti istituzionali non sospetti di partigianeria come l’Ufficio parlamentare per il bilancio, la Corte dei conti, e persino la Banca d’Italia.

D’altra parte, quando si parla di una spesa regionalizzabile di circa 280 miliardi di euro, destinati ad andare in misura prevalente alle regioni più forti, è chiaro che alle altre non rimane che stringere la cinghia, con buona pace dell’eguaglianza dei diritti, del riequilibrio territoriale e della coesione sociale. L’Italia si frantuma, mettendo in discussione non solo la Costituzione del 1948, ma 160 anni di unità.

Che fare? Anzitutto, chiedere a Calderoli una piena informazione sull’operato del suo ministero. Inoltre, emendare l’AS 615 riportando nelle aule parlamentari ogni decisione nel merito delle intese e dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In parallelo, far emergere nel dibattito parlamentare la necessità di rivedere in modo mirato il framework costituzionale dell’autonomia, oggi scritto in modo tale che il rischio per l’unità del paese e l’eguaglianza esiste anche senza autonomia differenziata.

Per questo può essere utile la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta alla modifica degli articoli 116.3 e 117, sostenuta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Abbiamo raccolto oltre 100000 firme, di cui solo poche migliaia andranno perse per le difficoltà incontrate nella certificazione.

Un grande risultato, ottenuto su un oggetto per larga parte misterioso per un’opinione pubblica tenuta per anni all’oscuro dal silenzio dei mezzi di comunicazione di massa, e dall’assenza di un vero dibattito in parlamento e nei partiti. Ma proprio le firme raccolte ci dicono di un paese diviso. In tutto il Nord, dal Friuli-Venezia Giulia alla Liguria aggiungendo anche l’Emilia-Romagna, le firme raccolte sono pochissime. Tante, invece, dal Sud. Ed è mai possibile che con i tradizionali banchetti il Molise raccolga più firme dell’Emilia-Romagna?

Bisogna spiegare e dimostrare che l’autonomia differenziata non è la via giusta. E che l’unità e la coesione convengono a tutti, e sono il solo vero modo di rafforzare la competitività del sistema-paese sul piano europeo e globale. Calderoli minaccia dimissioni, ma se ne faccia una ragione. E Meloni dimostri di saper fare il necessario su fronti di guerra che non sono in paesi lontani, ma dalle parti di Palazzo Chigi.

da “il Manifesto” del 18 maggio 2023

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di disegno di legge del ministro Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione di 23 materie alcune delle quali, per prima la Sanità, riguardano aspetti fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione, la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il patrimonio della cultura ed il paesaggio. Il sentirsi italiani, il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese si basa sulla consapevolezza di essere i custodi di un patrimonio culturale unitario che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano e che non ha eguali al mondo.

Perché, come scrive Salvatore Settis: “…La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima.”

Il Dl leghista è dotato di un “Elenco delle materie che possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene (art. 117, secondo comma, lettera s) modifiche sostanziali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico, ora in capo alla Repubblica, affidandole alle 20 Regioni che diventerebbero veri e propri staterelli. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione – voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001 – la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono sciaguratamente diventate oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia-Romagna di Bonaccini. Le tre Regioni avevano chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.

Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato comunista costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché sapeva bene che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

Se dovessero passare le modifiche anticostituzionali ed antiunitarie proposte, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, verrebbero polverizzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine organico alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto il tessuto storico e sentimentale che tiene insieme il Paese, quel “nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima”, quel nostro sentirsi ed essere italiani.

da “il Manifesto” del 4 aprile 2023

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di D.L. di Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione, oltre che della Sanità (concordo con quanto detto a tal proposito da Enzo Paolini sul Quotidiano del Sud) , di molte materie che riguardano settori fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione (sono d’accordo con le argomentazioni di Filippo Veltri sulla scuola espresse sul Quotidiano del Sud), la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il Patrimonio della cultura ed il paesaggio

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente collegati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli: “L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità”.

Il sunnominato D.L. leghista è dotato di un “Elenco delle materie che, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene modifiche anticostituzionali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico affidandole alle 20 Regioni-staterelli. La potestà legislativa sul paesaggio e sul patrimonio -messa in discussione dal nuovo D.L. art. 117, secondo comma, lettera s – è, ad oggi, prerogativa della Repubblica, del Ministero dei Beni Culturali, non delle Regioni. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del Ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, a partire dal governo Gentiloni, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, in particolar modo la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna di Bonaccini.

Già Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché aveva ben presente che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

In preda ad un delirio secessionista, la Lega e il governo di destra vogliono mettere sotto il controllo politico regionale organi dello Stato che dovrebbero essere terzi. Un delirio assecondato dalla precedente riforma Franceschini (Renzi, del resto, aveva scritto che: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”) che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali dando la stura alla privatizzazione ed alla regionalizzazione del Patrimonio.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, non sarebbero più prerogative dello Stato, ma verrebbero sminuzzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine unitario alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto, per sempre, quello storico tessuto connettivo che tiene insieme il Paese, quel “particolare modo di essere che è l’essenza stessa della nostra personalità”, del nostro essere italiani.

L’eclisse dei valori della Costituzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 marzo 2023
La foto ritrae un gioco ideato dalle Scuole Montessori

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

Occorrerebbe parlare con cognizione di causa e conoscenza dei problemi. Soprattutto in materie delicate che riguardano ogni giorno la vita dei cittadini. Come la Sanità.- Non è per fare polemica pregiudiziale e “ideologica” ma davvero c’è da chiedersi perché da più parti viene detto che le prestazioni offerte dal settore privato accreditato (cioè senza oneri per il cittadino) o non accreditato (cioè a pagamento) sarebbero, così, tout court, viziate, inaccettabili, sporche, perché inquinate dal fatto che il proprietario/gestore della struttura privata ne trae un guadagno.-

Si badi, non si dice che la prestazione resa dal privato non risponde agli standard di qualità o che è il frutto di una truffa o di un accordo fraudolento. No. E’ solo che “se l’obiettivo è il rispetto del diritto le prestazioni saranno di un tipo, se invece lo scopo è il profitto, le stesse prestazioni saranno di altra specie” (Ivan Cavicchi Il Manifesto 2 febbraio 2023).-

Traduzione: se si vuol fare profitto non si può rispettare il diritto. Il che la dice lunga sul rispetto del lavoro e sul pregiudizio ottuso che semina una affermazione del genere.-

E ancora: “sulle strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento” (Milena Gabanelli, Corsera 6 febbraio 2023). Qui è chiaro che si ignora come e perché sono le Regioni che impongono tetti insuperabili (peraltro in violazione delle Leggi dello Stato) che inibiscono alle strutture private accreditate di rendere “prestazioni con il servizio sanitario nazionale”.-

Questa ostilità inspiegabile verso chi – lavorando onestamente – rende un servizio pubblico traendone un giusto e lecito profitto, non agevola affatto la discussione che dovrebbe – deve – agitarsi lucidamente intorno al tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Questione che in realtà ne nasconde una enormemente più importante e delicata, cioè la tutela della Costituzione e dei diritti basilari di ogni cittadino di questo Paese.-
I primi guasti enormi sono stati provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.

L’esigenza, sbandierata come “politica” ,di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.

In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato (avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.

La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo è figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati alla selezione dei partiti ed ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo è quello che occorre cercare per poter capire. Il bandolo è la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .

Spacciata nel 2012 per una norma virtuosa era, in realtà, il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati, alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in Costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci – perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo (chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno).

Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato, perché i “ricavi” da essi prodotti non sono iscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto, essendo fatti di cultura, senso della comunità, conoscenze, benessere, in un ideale ma ben percepibile, bilancio istituzionale e politico.

Ma la storia e’ che il parlamento totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.

Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni (terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato, cioè di un loro diritto. La salute come azienda,appunto).

Da qui vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario (ovvio, crescono le conoscenze e la tecnologia, aumenta la vita media, si scoprono e si praticano nuove cure, e dunque si incrementano i costi) ed in altra parte, la maggiore, dagli sprechi.
Ma i commissari non hanno fatto la lotta agli sprechi, neanche un centesimo è stato risparmiato in questo campo, sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti, è stata indotta l’emigrazione sanitaria a tutto beneficio delle Regioni del nord così da presentare (senza neanche riuscirci), bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.

Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio, per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .

Noi lo scriviamo, lo diciamo, lo urliamo da anni, inascoltati, ma ora il re è nudo: il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa, quella giusta, necessaria, e per fortuna, sempre maggiore se si vuole, come si deve, assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza, efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura, idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita, giusta ed equilibrata, del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve è questa: sostenere la scuola, tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze (che invece vanno sostenute con maggiori risorse). E men che meno con la spesa storica o con la storia dei Lep fissati dal Governo e non dal Parlamento e poi declinati in “intese” tra Regioni e Ministro. Non è così che si attua il ragionalismo costituzionale. Così si tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena, è questo ciò di cui gli italiani hanno bisogno.

Roba per la Politica con la P maiuscola.

P.S.: Per fare in maniera seria questo tipo di riforme occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

da “il Quotidiano del Sus” del 17 febbraio 2023

Legge Calderoli, il doppio gioco di centrodestra e centrosinistra.-di Pino Ippolito Armino

Legge Calderoli, il doppio gioco di centrodestra e centrosinistra.-di Pino Ippolito Armino

Per chi si ferma ai titoli di testa, con il decreto legge approvato lo scorso primo febbraio dal Consiglio dei ministri (Cdm) su proposta del ministro Roberto Calderoli, l’autonomia differenziata è cosa fatta, una questione procedurale da sbrogliare in pochi mesi. È questo sentire comune che consente alla Lega di esultare, di considerare il deliberato del Cdm un risultato storico e di spenderlo in campagna elettorale per mantenere il suo potere in Lombardia.

In realtà il testo approvato in Cdm, oltre a perseverare nel riproporre una riforma profondamente sbagliata, è quanto di più contorto e contraddittorio si possa immaginare. È lo stesso Calderoli ad aver spiegato in conferenza stampa, in assenza della presidente Meloni ma in compagnia di Casellati e Fitto, che – dopo l’approvazione da parte del Parlamento, la definizione e il varo dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) – si dovrebbe arrivare a inizio 2024 con l’esame delle richieste di autonomia differenziata deliberate dalle regioni che, seguendo l’iter appena approvato, dovranno essere valutate, sottoposte a un negoziato con la presidenza del Consiglio e il ministro per gli affari regionali e le autonomie per divenire uno “schema di intesa preliminare tra Stato e regioni” da approvare in Cdm e trasmettere alla Conferenza unificata e quindi alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari che esprimono un indirizzo utile al perfezionamento di uno “schema di intesa definitivo” da sottoporre a ulteriore negoziato che porterà, infine, a un nuovo schema da approvare in regione, deliberare in Cdm e sottoporre all’approvazione delle Camere, prima che l’intesa venga sottoscritta dal Presidente del Cdm e dal Presidente della Giunta regionale e possa, infine, essere portata in Parlamento per l’approvazione definitiva con maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.

da “il Manifesto” dell’8 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023