Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto
Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.
Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.
La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.
Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.
Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.
Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.
Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.
da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza