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Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.

Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.

La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.

Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.

Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.

Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.

Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.

Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Il presidente Santelli ha emanato, nel corso della tarda serata di mercoledì, un’ordinanza che, a dispetto dei suoi precedenti proclami e provvedimenti reclusorî, riapre a moltissime attività e a molti spostamenti, in barba alle raccomandazioni degli epidemiologi e in spregio alle norme del DPCM.

Quello stesso Presidente che non ha ancora detto ai calabresi: quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale all’inizio della pandemia; quanti guariti ci sono per ricoverati; quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio; quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria; se sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio ; se sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione; se e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita per i tamponi e per l’esame sierologico.

Il Presidente che aveva negato con tutte le forze il ritorno, fino a ieri, dei calabresi che studiavano o che lavoravano in altre regioni, nella notte di mercoledì ha emanato una ordinanza con la quale si è premurata che, con i primi due articoli del provvedimento, fossero consentiti gli sport extra-comunali e gli spostamenti per raggiungere le imbarcazioni di proprietà (da diporto) da sottoporre a manutenzione e riparazione, ma, per carità, una sola volta al giorno.

Con i rimanenti articoli, invece, dà il via libera all’apertura di bar, pasticcerie, pizzerie e ristoranti che servano all’aperto e di tutti i negozi di fiori e sementi, anche ambulanti. I calabresi, dunque, avranno la possibilità di mangiare una pizza all’aperto, magari dopo aver passato un paio di mani di antivegetativo alla carena della barca e comprato un mazzo di fiori alle fidanzate che non vedevano un paio di mesi. Non potranno, però, fare un’ecografia e le analisi del sangue in un laboratorio o farsi operare d’ernia addominale in una clinica, perché l’attività degli Ospedali è limitata alle urgenze indifferibili.

L’ordinanza della Santelli e l’occupazione del Senato da parte dei leghisti fanno parte, è evidente, di una ben orchestrata manovra politica tesa a mettere in crisi l’azione del Governo in uno dei momenti più difficili del nostro Paese, dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Jole Santelli avrebbe dovuto, e dovrebbe, occuparsi di intervenire sulle disastrose condizioni in cui versa la Sanità calabrese, predisponendo piani sanitari, implementando le scarsissime dotazioni, strutturali e di personale sanitario, dei nostri Ospedali e della medicina del territorio per affrontare, con meno terrore, il lungo periodo nel quale dovremo convivere con il virus, invece di compiere spericolate fughe in avanti con una del tutto improvvida riapertura.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

Il presidente della Regione Santelli ha deciso di impedire alle Asp di fornire le notizie riguardanti l’epidemia in corso, in ordine sparso, ma di raccoglierle e darle per mezzo di un unico bollettino emanato dalla Regione Calabria. La decisione, per quanto dal tenore un po’ troppo autoritario, non mi ha irritato più di tanto perché l’ho attribuita ad una necessità di coordinamento e di validazione delle notizie. Non accetto, però, la totale assenza di informazioni riguardanti lo stato, già poco rassicurante in tempi normali, della Sanità calabrese alle prese con la pandemia.

Al netto della sempre più incomprensibile ed inquietante vicenda della RSA di Torano, potrei, potremmo tutti noi calabresi, sapere quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale? Quanti guariti ci sono per ricoverati? Corrisponde al vero che, come ha scritto “la Repubblica”, il contagiato numero 1, il sessantenne di Cetraro, è morto dopo 40 giorni di degenza solo perché non è arrivato in tempo un pacemaker? Quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio? Quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria?

Sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio e, se sì, in quali territori? Sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione? Sono state attivate, come in Emilia-Romagna, sinergie con il privato per il prelievo e le analisi dei tamponi e, in seguito, del sangue, atteso che, purtroppo, lo Stato non ha strutture sufficienti per farlo? Sono state realizzate residenze per tutti quei sanitari in prima linea che non vogliono contagiare la propria famiglia tornando a casa, per convalescenti ancora infetti e per contagiati asintomatici? Quanti tamponi sono stati eseguiti e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita?

La Regione Calabria ha preparato un programma di prelievo sierologico, quando ce ne sarà uno definitivamente approvato? Sono state create residenze per la quarantena dei poveri calabresi emigrati che sono stati licenziati dalle aziende del nord o che hanno perso un lavoro precario o in nero e che non possono nemmeno tornare a casa, come hanno testimoniato le molte disperate lettere meritoriamente raccolte da Annarosa Macrì nella sua rubrica, su questo giornale?

Se si fosse voluto esser coerenti con l’autocertificazione di calabresi accoglienti che ricevono “l’altro” sempre con un mitopoietico “trasite, favorite…”, non si sarebbe dovuta levare, dai social, quella canea contro gli sconsiderati untori che tornavano dal nord a infettare la Calabria, ma si sarebbero studiate delle strategie per far trascorrere loro una quarantena in sicurezza nei tantissimi alberghi vuoti della nostra Regione. Possiamo ancora farli tornare, questi poveri disoccupati, studenti, precari e lavoratori in nero che non reggono più, economicamente e sentimentalmente, questa lontananza.

Non sembrerebbe esistere, dunque, alcun “modello Calabria” perché le uniche misure adottate contro la pandemia sono quelle dell’isolamento fisico che sembrerebbero, qui, più efficaci che altrove a causa della bassa e lasca densità abitativa e della consapevolezza, terrorizzante, di risiedere in una regione particolarmente arretrata da un punto di vista sanitario.

Il presidente Santelli, la sua giunta, il suo Comitato tecnico-scientifico, il direttore della Protezione civile hanno una strategia o, almeno, un programma per la cosiddetta Fase 2, quella nella quale, a partire dal 4 maggio, si dovrebbe iniziare a “riaprire” le attività? Se la risposta alle domande che ho fatto sopra sarà negativa o dubitativa, credo che saremo davvero nei guai perché quando il Governo disporrà una riapertura, anche parziale, non si potrà più opporre una ordinanza di “chiusura” della sola Calabria, intanto perché, come ha già scritto Sabino Cassese a proposito delle molte ordinanze regionali e nazionali di queste ultime settimane, potrebbe essere anticostituzionale e poi perché non può durare per sempre. Presidente Santelli, per favore, non si faccia trovare con in mano solo l’arma dell’isolamento, potrebbe essere scarica.

da “il Quotidiano del Sud”. 20 aprile 2020

Foto di Jeff Balbalosa da Pixabay

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

È in corso da anni, anche nel settore dei Beni culturali, una violentissima battaglia ideologica per sopprimere le strutture e le prerogative dello Stato, conforme all’ideologia dello Stato leggero posto al servizio del mercato che, secondo il pensiero unico neoliberista, si autoregolamenterebbe. Abbiamo avuto modo di vedere, come nel caso della pandemia in corso, quanto ingannatrici e portatrici di sventure fossero le sirene liberiste nelle privatizzazioni, nella precarizzazione del lavoro, nelle liberalizzazioni e nella globalizzazione.

Si vuole convincere, con ogni mezzo di comunicazione di massa, la pubblica opinione dell’insufficienza e dell’incapacità da parte dello Stato di custodire e, soprattutto, di valorizzare il Patrimonio storico e artistico lasciatoci dai nostri progenitori. Quel Patrimonio così strettamente legato al nostro sentirsi italiani da essere protetto, caso quasi unico nel mondo, da un articolo della Costituzione della Repubblica: l’articolo 9. Perché dovremmo pensare che il legato storico e ambientale dei nostri progenitori sarebbe meglio custodito e valorizzato se fosse affidato alle mani dei privati?

Un paio di settimane fa, Pierluigi Battista ha scritto un articolo sul Corriere della Sera per sollecitare un “piano di salvezza culturale nazionale” derivante dalla difesa settoriale resasi necessaria per l’epidemia causata dal coronavirus e che ha, tra l’altro, fatto precipitare la relativa domanda. Battista ha fatto bene a richiamare l’attenzione sul Patrimonio culturale italiano, perché non v’è settore, sociale ed economico, che non debba e non possa essere salvato.

L’epidemia ha messo in crisi tutti i settori e sul piano normativo si è concesso di continuare a operare nei propri “mercati”, con riferimento ai circuiti completi, sostanzialmente solo alla sanità e ai negozi di generi alimentari. Tuttavia, non meravigliano i richiami di attenzione settoriale perché tutti i settori sono negativamente influenzati dalla crisi economica generale derivante dalla pandemia. D’altro canto, il riferimento ai “teatri, musei, librerie, siti archeologici, orchestre” non ci sorprende, sia per il generale sentito richiamo che proviene da tutti i settori, sia per la nota rilevanza anche economica che questo settore ha nel nostro Paese.

Tuttavia, gli aspetti citati dal giornalista, nel suo generico articolo, ci lasciano perplessi. Molto in sintesi, l’articolista, per la salvezza dei musei, dei teatri, dei cinema e di altro ancora, non considera che il declino della domanda settoriale e della mancanza di “consumo” non riguarda solo l’Italia, ma pure il resto del mondo. L’articolo citato, così come anche gli immediati favorevoli commentatori (FAI, Federculture, Teatro dell’Opera di Roma, due deputati, Biennale di Venezia e la Fondazione MAXXI), sembra resti legato a una antica quanto erronea convinzione teorica dell’economica.

Un noto economista francese, nei primi anni del XIX secolo riteneva che fosse l’offerta a determinare la domanda. Se ciò si ritenesse vero, allora sarebbe sufficiente la ripresa delle manifestazioni citate, curando, sostenendo, l’offerta che da sé determina una eguale domanda. Come? Anche in questo caso si adopera, da parte dei propositori, un linguaggio confusionario ed improprio, lasciando che siano, poi, gli esperti a meglio definire gli strumenti.

L’indicazione di massima proposta nell’articolo citato è un non meglio definito ‘Fondo Nazionale per la Cultura’, oppure un ‘Prestito Nazionale’, ma, ancora, anche ‘Cultura Bonds’. ‘Prestito Nazionale’, fu termine molto adoperato nell’epoca dell’obbligo degli italiani a finanziare la prima guerra mondiale, i Bonds il più delle volte risultano strumenti del debito pubblico. Quindi, quali caratteristiche avrebbe un ‘Fondo Nazionale’? Neanche questo ci è chiaro, non solo perché nell’articolo si rinvia alla conoscenza tecnica degli economisti, ma anche per la inquietante presenza nel ‘Fondo’ di istituzioni private.

Insieme al ‘Fondo’ vengono sollecitate, inoltre, generiche politiche governative, defiscalizzazioni, diretta assistenza, “polmoni finanziari”. Insomma, si diano soldi al ‘Fondo’ e se poi non si riesce “a tenere in vita quel polmone”, come del resto già non si riesce con ‘Art Bonus’, pazienza. Occorrerà, comunque, compensare coloro che han fatto prestito, magari con una cessione di parte o, addirittura, di tutto il Patrimonio culturale.

La sola possibilità di una apertura ad un qualsivoglia genere di privatizzazione -non esplicitata, ma sottilmente sottintesa- non solo ci vede del tutto contrari, ma sarebbe in netto contrasto con il dettato dell’art. 9 della Costituzione che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 aprile 2020

Foto di Kent DuFault da Pixabay

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

Spero che ora, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, sia chiaro a tutti che aver concesso la regionalizzazione della Sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani degli amministratori delle Regioni che, com’è evidente, non solo sono stati incapaci di opporre il primo contrasto al virus come avrebbero dovuto e potuto, ma, ora, si rivolgono allo Stato per ogni ulteriore esigenza dei cittadini che amministrano.

La sciagurata modifica del Titolo V del 2001, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito moltissimo il Sistema Sanitario Nazionale spezzettandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Questa occasione dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma alla reale utilità delle Regioni. L’esperimento delle Regioni è luttuosamente fallito e si deve tornare all’assetto politico-amministrativo, storicamente fondato, dell’Italia che era costituito dal rapporto istituzionale che Province e Comuni avevano con il Governo centrale.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le ‘regiones’ augustee assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà.

L’estremo lembo della Penisola, per fare un altro esempio, era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’. I criteri utilizzati da Augusto per la ripartizione del territorio della Penisola in ‘regiones’ erano soprattutto di ordine etnico e politico, tenendo in considerazione la valorizzazione di tradizioni storiche e culturali, ma è ancora più probabile che le ‘regiones’ fossero solo “circoscrizioni elettorali” utili, anche, per la realizzazione del ‘census’, operazione accessoria al progetto augusteo di modifica del sistema di tassazione.

Le ‘regiones’, comunque, non avevano alcuna competenza di amministrazione della giustizia, di esercizio della fiscalità, di reclutamento o di leva obbligatoria. La suddivisione di Augusto aveva il compito, ideologico, di conferire centralità e unitarietà nell’ambito dell’assetto geografico-politico dell’impero, allo spazio italiano, pur nella diversità delle sue componenti etnico-territoriali: etruschi, latini, italici etc. Esattamente il contrario di uno spezzettamento in tante regioni, insomma.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II nel Sud d’Italia, poi le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri, fino ai vari disegni regionali di epoca rinascimentale del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni sempre di tipo storico-culturale del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia.

Solo con l’Unità d’Italia due patrioti appassionati di statistica, Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti intermedi per il governo della nazione, ma che, invece, continuarono a servire solo per ‘meri’ fini statistici, ossia per raggruppare e dare senso geografico ai dati forniti dai servizi di rilevazione del Regno appena costituito.

L’Assemblea Costituente, nell’immediato secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto all’eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali. Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di Autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò: quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese e si ritrovarono all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi – almeno a livello regionale – possibili spazi politici nuovi. Le Regioni nascono, dunque, solo con la Costituzione emanata nel 1948, ma fino al 1970 non è esistito alcun potere regionale.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità regionale che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali fittizie perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”. Dopo questa tragica ‘débâcle’ sarebbe ora di iniziare a pensare di abolire le Regioni, inutili e corrotti carrozzoni, ridare forza ai Comuni e ripristinare, come ente territoriale di maggiore prossimità ai cittadini, le Province.

È, forse, pleonastico scrivere che, se si dovesse stilare un calendario, la Calabria dovrebbe essere la prima regione ad essere abolita, non solo e non tanto per le cose che si son viste a proposito della Sanità in una recente trasmissione televisiva, ma per l’evidente, verificata, quarantennale incapacità e inanità di questo Ente, chiunque l’abbia governato, ad affrontare tutte le competenze che ad esso sono state assegnate.