Tag: bevilacqua

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

Un segnale di quanto sia profondo e stratificato, il distacco del ceto politico dal comune sentire dei cittadini è la sottovalutazione del loro sentimento morale, della considerazione che una vasta platea di essi conserva per la coerenza delle idee, dell’attaccamento ai principi, ai valori del comportamento umano.

Vivendo in una vera e propria bolla, in una sorta di sopramondo in cui sembra che tutto sia lecito, i nostri uomini di partito, parlamentari, leader di varia taglia credono di superare indenni il giudizio dei cittadini se un giorno sostengono una tesi e un mese dopo il suo contrario, se militano in un partito e dopo un anno si trasferiscono in altro raggruppamento, se votano una legge considerata ingiusta e sbagliata per l’ambito di valore che orienta il campo elettorale che lo ha eletto. Immaginano che il loro cinismo travestito da Realpolitik sia lo stesso dei loro elettori.

Vero è che dopo decenni di devastazione dello spirito pubblico, dopo l’umiliazione storica del Parlamento italiano, che ha riconosciuto in una giovane in cerca di fortuna la nipote di Mubarak – per dirne una – il senso morale in Italia si è gravemente deteriorato. Tra politica ed etica pubblica si è aperto un evidente divorzio. La sensibilità per la dignità e l’onore che la Costituzione pretende dai parlamentari è stata in buona parte corrotta. E in tale opera di dissoluzione dei vincoli etici, che dovrebbero limitare la condotta pubblica degli uomini politici, una parte rilevante ha avuto anche la nostra stampa e soprattutto la televisione.

Io sono convinto che se non fosse stato per gli ostacoli frapposti dalla legge, per l’ergastolo e il 41 bis, i talk show della Tv pubblica e privata avrebbero fatto a gara per una intervista esclusiva a Totò Riina in prima serata. Non ignoro la potenza neoliberistica della competizione.

Resta da aggiungere per la verità che le varie leggi elettorali maggioritarie degli ultimi anni non hanno consentito ai cittadini elettori di scegliere i propri candidati, ancora oggi selezionati dalle segreterie dei partiti. Entrando nelle urne non hanno potuto premiare o sanzionare i loro rappresentanti in base alle scelte compiute. Nessuno può sapere, ad esempio, se gli elettori del Partito democratico avrebbero riconfermato Marco Minniti dopo che questi, con iniziativa di governo, ha affidato alla guardia costiera libica il compito di dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo.

E tuttavia è esattamente allo sdegno morale dei cittadini più sensibili, insieme alle reiterate delusioni, ai tradimenti delle speranze e delle aspettative, che bisogna guardare per spiegare la crescita vertiginosa del non voto, l’altra faccia della luna dell’astensione.

Esiste ancora, soprattutto nell’ambito degli elettori di sinistra, una moltitudine di cittadini che hanno letteralmente abbandonato l’interesse per la politica a causa di alcune scelte dei propri leader. Lo hanno fatto in seguito al varo di alcune leggi, per scelte di politica interna o estera: atti che talora hanno creato ferite non rimarginabili nell’animo delle persone.

Credo che migliaia di italiani abbiano sperimentato lo stesso sentimento di rabbia, delusione, incredulità che ho sperimentato io nel 2006, quando Romano Prodi autorizzò il governo Usa ad allargare la base militare di Vicenza

In quel caso un governo, capeggiato da G.W. Bush, che aveva appena condotto una guerra di invasione contro l’Iraq, uccidendo centinaia di migliaia di iracheni (vedi collateral murder di Wikileaks ndr), che già possedeva centinaia di basi in tutto il mondo, Italia compresa, chiedeva di espandere la propria presenza militare nel nostro territorio. E il governo di centro-sinistra disse sì. Da allora i miei convincimenti sono stati sconvolti e io ho cominciato a guardare a quell’ambito politico come a un potenziale avversario dei ceti popolari del nostro Paese. La storia ha confermato la mia lettura di allora. Attraverso scelte meno gravi sul piano simbolico, ma simili, o più dirompenti sul piano sociale, la sinistra si è allontanata dai suoi tradizionali insediamenti operai e popolari perdendo il suo elettorato storico.

L’Italia, tuttavia, non dimentichiamolo, è un grande Paese. A dispetto degli arretramenti degli ultimi tempi e nonostante le vaste aree di corruzione e di malaffare che ne condizionano la vita, il cinismo di gran parte dei suoi gruppi dirigenti, possiede al suo interno formidabili anticorpi. Conserva presidi di democrazia e di senso morale nel mondo della cultura, dell’informazione, nella scuola, nel volontariato, in una vastissima area di cittadini comuni. Dunque, contrariamente a quanto immaginano gli stessi analisti che si occupano della politica italiana, il senso morale che ancora perdura in milioni di cittadini orienta anche il loro comportamento elettorale.

Esiste una vasta area di consenso potenziale tra milioni di italiani nei confronto delle forze politiche eticamente intransigenti. Si fanno illusioni i dirigenti di Sinistra italiana se credono di uscire indenni, agli occhi dei loro militanti ed elettori, dalla prova poco onorevole che hanno fornito nei giorni di apertura della campagna elettorale.

Che si voglia credere o no, una condotta intransigente sotto il profilo della fedeltà ai programmi annunciati, della coerenza di comportamento dei dirigenti, può favorire la crescita nel tempo di un partito come Unione Popolare, capeggiato da un ex magistrato come Luigi de Magistris.

Da qui potrebbe partire una inversione storica nel costume civile degli italiani: i partiti che tornano ad essere anche educatori, formatori di una consapevolezza di cittadinanza. Il ruolo che per alcuni decenni hanno svolto i partiti usciti dalla Resistenza, fondatori della Costituzione repubblicana.

da “Left” del 23 agosto 2022
Immagine: Francesco Lena

Lo spirito Fabiofazico.-di Filippomaria Pontani

Lo spirito Fabiofazico.-di Filippomaria Pontani

“Grande sovrana è la parola: minuta e invisibile, essa compie azioni assolutamente

divine”. Forse memore del detto del sofista Gorgia di Lentini (V secolo a.C.),

e sensibile a quelle che ravvisa come le “ferite del nostro linguaggio”, Gianrico Carofiglio

rimanda in libreria, aggiornandolo, un volumetto feltrinelliano

del 2010, ora “La (nuova) manomissione delle parole”.

L’autore non è solo uno dei nostri scrittori più popolari, ma anche un ex deputato

e uno dei “saggi” che coordinano le “agorà democratiche ” tese a rinnovare

il lessico e l’agenda della politica italiana (mozione pedante: uno dei

tanti esperti pugliesi di cose antiche potrebbe ricordare la prima declinazione

e restaurare il plurale corretto che è agorài ?). Una voce dunque quanto mai

autorevole per demistificare la corrupta eloquentia del discorso pubblico.

Carofiglio ha in verità poco di nuovo da dire: il libro, denso di riferimenti

e corredato da 30 pagine di note erudite a cura di Margherita Losacco, è

sostanzialmente un “gioco personalissimo”(p. 107) che saccheggia e assimila

alcuni autori classici e altri libri di scrittori “da festival” (Belpoliti sulla vergogna,

Nussbaum sull’etica, Harari sull’homo deus, Müller sul populismo,

Canfora sulla democrazia…). Nel proclamare a più riprese la necessità della

“ribellione” (non si sa bene a cosa), l’autore finisce per inanellare una serie di

citazioni che più midcult non si può: Bob Dylan e l’Attimo fuggente, don Milani

e i discorsi di Obama, Bartleby lo scrivano e Primo Levi. Il tutto farcito da

qualche facile etimologia greca e qualche riferimento a Tucidide o Sallustio,

che hanno almeno (siamo il Paese di Andrea Marcolongo!) il pregio di essere

precisi.

Rispetto alla prima edizione, dominata dall’indignazione per le giravolte

leguleie e le intemperanze verbali ed etiche di Silvio Berlusconi, l’obiettivo è

in parte cambiato: sussistono, certo, sezioni sul lodo Alfano o sulle leggi ad

personam, ma ora si constata (p. 36) che “sia Berlusconi che Bossi… utilizzavano

un lessico nonostante tutto pertinente alla sfera politica” (e alle sfere

senz’altro pertengono il celoduro e la patonza). Mentre l’abisso, signora mia,

si è toccato con il turpiloquio di Beppe Grillo e con il populismo dei Cinque

Stelle, quelli che nel loro delirio eversivo pensavano di essere “l’unico argine

alla violenza” (“se va male questo movimento, che è l’unico pacifico, è finita”

disse Grillo anni fa: ed ecco infatti che come i 5Stelle arretrano ci troviamo la

Meloni al 20%, precisamente come Le Pen e Zemmour, l’AfD, Vox, Alba Dorata;

ma Carofiglio non registra manomissioni verbali da parte della destra

estrema). Uno studio incrociato dei discorsi di Bossi, Berlusconi e Grillo ha

mostrato che tra le 20 parole “esclusive” del comico genovese (non usate cioè

dagli altri due) ricorrono “cazzo”, “culo” e “merda” – o forse il problema sta

negli altri lemmi, ancor più ostici alla pruderiedei benpensanti dimentichi di

Aristofane (“inceneritore”, “pregiudicato”, “cemento”, “Tav ”,

“bocconiano”…)?

Verso la fine di questo campionario di spirito faziofabico, di questa santa messa

di rito gruberiano, Carofiglio ostende ‘en entier’ il celebre articolo di Antonio

Gramsci Odio gli indifferenti (1917), per argomentare la necessità di prendere

posizione, perché (p. 95) “la scelta è un atto di coraggio e di allegria; di responsabilità e di

intelligenza; di rivolta e di scoperta”. Evviva. C’è da chiedersi se l’autore abbia

letto gli articoli che Gramsci pubblicava sull’Avanti! negli stessi mesi del ’17,

in cui i rivali politici erano definiti “Stenterello”, “tafano inconcludente”,

“abiezione lurida”, “morto della vita sociale”, “re degli zingari”, “pagliaccio del pensiero”.

Inquietanti risvolti cripto-grillini (o travaglieschi?) ante litteram.

Infine, lavorando sulla distorsione delle parole non si può non citare 1984

di Orwell, e Carofiglio lo fa a più riprese (pp. 24, 71 etc.). Ma a chi, pur allergico

al turpiloquio, non ritenga né che la Neolingua totalitaria s’incarni nelle sparate

di Grillo né che cammini sulle gambe di Spadafora, Appendino e Patuanelli,

consiglierei di investire i suoi 15 euro in un altro volumetto meno

pubblicizzato in tv ma senz’altro più originale: le Contronarrazioni dell ’Officina dei Saperi

(a cura di Tiziana Drago ed Enzo Scandurra, Castelvecchi 2021) raccolgono una serie di

microsaggi che mettono a tema alcuni slogan

ormai diventati luoghi comuni (questa sì, una vera neolingua che trasforma

dolosamente il nostro modo di pensare) e in poche mosse ne mostrano l’in –

consistenza, li demistificano, li perculano. “Prima i meritevoli”, “le grandi

opere aiutano lo sviluppo”, “la crescita illimitata è irrinunciabile”, “la tutela

del paesaggio impedisce lo sviluppo economico”, “aiutiamoli a casa loro”, “au –

tonomo è bello”: tutte parole d’ordine di quell’ideologia neoliberista che ha

permeato di sé anche la lingua e la prassi di certa sinistra, assurgendo a inopinata

koinè financo in larghi settori del partito di Carofiglio (il quale, sia

detto per chiarezza, è un colto galantuomo e non ne è mai stato alfiere in

prima persona).

Certo, non tutte le analisi raccolte da Drago e Scandurra (essi pure severi

coi Cinque Stelle, ma per le loro promesse tradite) saranno condivise da tutti

i lettori: esse però, anche quando giudicate troppo “radicali ”, getteranno semi

utili a chiunque voglia acquisire una prospettiva critica (o semplicemente sia

aperto a qualche sospetto) circa le smart cities e il Bosco Verticale, il project

financing e la “sostenibilità”, la digitalizzazione forzata e la performance, la

meritocrazia e la didattica a distanza, il portfolio di competenze e il problem

solving. Le Contronarrazioni servono a orientare il dibattito linguistico sulla

base non di colti riboboli o di ovvi manifesti, ma di esperienze precise di cosa

implichi, nella vita quotidiana, il cedere alla retorica dominante, e di come si

possa ricucire una lingua sincera, sfuggendo all’ipocrisia.

“Scrivere è essere qui” conclude Carofiglio citando Nadine Gordimer, e il

“qui” è il mondo immateriale dell’intellettuale pensoso. “Il varco è qui” si

chiudono le Contronarrazioni citando Montale, e il “qui”è l’aula deserta della

III C, e i suoi ragazzi che aspettano di leggere Dante.

da “il Fatto Quotidiano” dell’11 dicembre 2021

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

Le regressive sorti di un capitalismo disastroso.- di Piero Bevilacqua

Le regressive sorti di un capitalismo disastroso.- di Piero Bevilacqua

I disastri in Veneto e in Lombardia con le improvvise tempeste dei giorni scorsi e i violenti incendi che hanno distrutto interi boschi della Sicilia occidentale, rientrano solo in parte nel quadro consueto dei dissesti italiani. Li comprendono certamente, ma entro una dinamica nuova e più grave.

Alluvioni, incendi, frane hanno legami invisibili. Il cosiddetto riscaldamento globale non si esaurisce nell’innalzamento medio della temperatura, ma si esprime anche nel caos climatico.

Nella ricorrenza accentuata dei fenomeni estremi, caterratte d’acqua in poche ore e perfino trombe d’aria, accanto a prolungate siccità, che offrono ai criminali, la possibilità di appiccare incendi alle foreste con sicuro successo.

Un mutamento nella storia della natura, dovuto all’azione umana, che si inscrive, in questo caso, nella vecchia storia d’Italia, lo stato nel quale il territorio acquista valore quando viene ricoperto da edifici, se si trasforma nello scenario della propria distruzione attraverso le cosiddette grandi opere.

In Italia, il paese più franoso e fragile d’Europa, le campagne necessiterebbero di una manutenzione costante, di una presenza operosa di figure umane, di lavori di controllo e sistemazione continua delle frane, dei corsi d’acqua, di pulizia e vigilanza sui boschi – come ricordava Tonino Perna su queste pagine a proposito degli incendi – di monitoraggio insomma del suolo, la base delle nostre vite e delle nostre economie, ormai sempre più esposta a drammatiche rotture.

Ma l’indifferenza inveterata del ceto politico e della cultura italiana nei confronti dei fenomeni naturali e della sorte del territorio oggi valica una soglia di gravità che potremmo definire storica. Il riscaldamento globale non comporta solo caos climatico con i disastri dell’oggi, ma, in una prospettiva non lontana, l’innalzamento dei mari. Lo scioglimento dei ghiacciai, che ha sorpreso anche gli scienziati per la sua recente accelerazione, comporterà l’invasione delle acque marine di vaste aree costiere e vallive, in tempi che nessuno può prevedere, ma che non saranno tempi geologici.

E qui mi torna in mente una definizione fisica dell’Italia da parte da un grande commis d’état del primo ‘900, Meuccio Ruini, il quale, volendo rilevare il carattere prevalentemente montuoso-collinare della Penisola, disegnava un quadro che oggi ha colori inquietanti: «Se il mare, alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la Valle Padana, l’Italia sarebbe una sola e grande montagna». Quei pochi metri, come ognuno può comprendere, sarebbero sufficienti a cancellare l’Italia dal novero dei paesi industrializzati, con perdite immense di beni e ricchezza.

Non voglio indulgere in prospettive catastrofiche, ma se i fenomeni presenti e quelli futuri prossimi minacciano in maniera così rilevante e rovinosa il nostro habitat, non dovrebbe mutare radicalmente la nostra attenzione e la nostra cura per il territorio, già oggi e sempre più bene scarssissimo e prezioso?

E allora, com’è possibile che ancora si cementifichino le periferie urbane – Lombardia e Milano, capitale morale, in testa – anziché ristrutturare edifici abbandonati, restaurare quartieri, valorizzare il già costruito? Perché si insiste con le cosiddette grandi opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde? Perché si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte, si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare dei paesi e villaggi, che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne?

Quando è evidente a tutti che questi territori diventeranno la nostra salvezza nei prossimi decenni, allorché il disordine climatico si aggraverà, tante aree costiere diventeranno inabitabili, come appare inevitabile di fronte alla colpevole inanità delle classi dirigenti dei paesi ricchi.

Eppure, sul piano politico si può ancora agire per avviare una svolta, non solo coi vincoli al cemento, ma già, ad esempio, con un salto culturale della Politica Agricola Comunitaria. Con l’assegnazione di un reddito di base ad ogni piccolo contadino europeo, che non solo produce, ma fa manutenzione del territorio.

La questione territoriale italiana oggi mostra un fenomeno inedito nella storia del capitalismo. Da quando esiste questo modo di produzione la realizzazione del profitto da parte del capitalista ha coinciso anche con la creazione generale di beni e ricchezza. Tale coincidenza, per via della produzione di beni sempre più imposti e superflui, si è da tempo indebolita.

Ma oggi, specie in Italia, la creazione del profitto, religione dell’imprenditoria occidentale, ha perso i suoi fondamenti metafisici, come le religioni rivelate, e in vasti ambiti dell’economia, con crescente evidenza, non produce più vantaggi e benessere, ma danni, per il presente e per l’avvenire.

da “il Manifesto” del 3 settembre 2020

Foto di Tumisu da Pixabay

Un diario che arriva da lontano a interrogare il nostro presente. -di Laura Marzi La recensione all'ultimo romanzo "Lettere da un altro tempo" di Piero Bevilacqua.

Un diario che arriva da lontano a interrogare il nostro presente. -di Laura Marzi La recensione all'ultimo romanzo "Lettere da un altro tempo" di Piero Bevilacqua.

Le iniziative editoriali e di quotidiani durante il confinamento sono state numerose, inevitabilmente. La necessità di soffermarsi, di riflettere e quindi di scrivere a proposito della segregazione in casa e della pandemia era impellente. La narrativa anche inizia a proporci i primi frutti di quel tempo, ancora attuale e potente l’impressione che quei mesi chiusi in casa hanno lasciato su ognuno di noi.

NEL ROMANZO di Piero Bevilacqua “Lettere da un altro tempo”, edito da Castelvecchi (pp. 128, euro 15), la protagonista è Francesca. Si tratta di una giovane donna alle prese coi suoi studi di letteratura, in particolare una ricerca universitaria sugli arredi nelle opere di Marcel Proust. Nelle prime pagine, in questo romanzo scritto in terza persona, la incontriamo mentre cerca, inutilmente, di concentrarsi su una bibliografia sconfinata degli studi sul grande scrittore francese.

Francesca, però, è preda dell’angoscia: ciò che sta avvenendo intorno a lei, negli ospedali, nelle case di riposo non le dà pace: «erano giorni e giorni, settimane ormai, che i telegiornali della sera aprivano con la notizia di migliaia di contagiati, centinaia di scomparsi, altre centinaia di infermi in rianimazione». Per lei è impossibile concentrarsi e vorrebbe tanto, nel caos della sua libreria, riuscire a scovare dei fumetti, perché è certa che potrebbero garantirle quella dimenticanza di cui ha bisogno. Trova invece una lettera che non sapeva di aver ricevuto, ancora sigillata, che le aveva scritto sua nonna Beatrice, morta ormai da due anni, con cui Francesca aveva sempre avuto un rapporto di affetto e complicità.

RIESCE con molta fortuna, visti i divieti, a soddisfare la richiesta dell’anziana donna: andare a Napoli per recuperare, prima che la casa venga venduta, una scatola con le lettere d’amore e il diario. Rientra quindi a Roma e si immerge nella vita di sua nonna, a Napoli, nel 1939. Sono proprio le lettere che Beatrice e Nino si scambiano per qualche anno e il diario di lei che costituiscono il corpo del romanzo.

In particolare, il racconto epistolare dell’innamoramento di sua nonna per quest’uomo di cui Francesca ignorava l’esistenza e la partenza di lui, disertore, per la Francia, quando l’Italia entra in guerra. In seguito, le pagine di diario di Beatrice che racconta del conflitto a Napoli. Leggiamo dei bombardamenti che in un primo momento risparmiano gli obbiettivi civili e poi di un crescendo di violenza cieca e di orrori, fino alle quattro giornate di Napoli, il primo episodio della Resistenza italiana contro gli invasori tedeschi.

Accanto ai racconti dettagliati degli avvenimenti – Bevilacqua insegna Storia contemporanea – troviamo la distruzione che la guerra generò nelle vita dei due innamorati e della famiglia di Francesca.Questa digressione storica che è poi la materia principale del romanzo ben si inserisce all’interno del presente della narrazione del confinamento e della pandemia di Covid-19, per varie ragioni. Prima di tutto, Francesca ha ereditato da sua nonna la vis polemica, la rabbia contro le ingiustizie dei potenti, come risulta dalle conversazioni telefoniche col compagno Gianni, economista che lavora in un’azienda in Lombardia. In queste occasioni, puntualmente Francesca si scaglia contro gli orrori della società neoliberista.

POI, durante il confinamento è stato molto dibattuto il paragone, spesso abusato, tra la pandemia e la guerra: dalle pagine di diario di Beatrice l’orrore del conflitto mondiale esplode con chiarezza.
Ciò non toglie che la narrazione parallela dei due momenti storici induca a una riflessione aperta sul presente, specie a partire dalla lettura delle pagine finali del diario di Beatrice.

Infine, la lingua merita attenzione, soprattutto il lessico. Bevilacqua fa uso di parole precise, quelle che molto spesso non vengono più utilizzate: «sferragliando»; «smanducando»; «sgrumulando», dando alla scrittura un’impronta inconfondibile.

da il “Manifesto” del 28.8.20

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della popolarità che, almeno l’espressione verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.

Ricordo che il sintagma riconversione ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.

Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco.

Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence, l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con un profondo rivolgimento culturale.

Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in anno, mentre diminuisce la popolazione?

Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo drammatico dello sviluppo italiano. I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.

Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide tecnologiche. Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia, costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.

Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di fiume le strade cittadine appena piove.

Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.

Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi ambientalisti locali.

Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare. In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si da una mano allo sviluppo. Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di territori vergini più appetibili. Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per ecologicamente compatibili.

da il Manifesto, 31.07.2020
https://ilmanifesto.it/tutti-ecologisti-della-domenica-se-non-cambia-il-modello-industriale/?utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3ftUd1NfNK-ngiCosQpdj6PsI5RRko_sOQPslsYgyGJpXwitFyNPsBwuc#Echobox=1596193761

I partigiani calabresi.-di Piero Bevilacqua

I partigiani calabresi.-di Piero Bevilacqua

Un importante contributo alla storia, alla memoria civile e all’immagine pubblica della Calabria – forse la regione più gravata di stereotipi denigratori dell’intera Penisola – è appena uscito presso un editore calabrese, per merito di Pino Ippolito Armino, Storia della Calabria partigiana, Luigi Pellegrini Editore Cosenza, 2020, pp. 351.

Si tratta di un voluminoso testo di ricerca che corrisponde pienamente all’ambizione del titolo, e che innanzi tutto si fa apprezzare per la luce che getta su un aspetto poco esplorato della nostra storia, oltre che per meriti morali. Vale a dire per l’onore che rende ai tanti ignoti, o dimenticati, che pagarono con la vita la loro generosità e il loro coraggio di combattenti.

Dopo un originale saggio di storia economica comparativa, meritevole di più ampia diffusione, Quando il Sud divenne arretrato, pubblicato nel 2018, Ippolito torna ai suoi temi di storia politica con un lavoro che muove da una dichiarata intenzionalità etico-politica, come diremmo con vecchio linguaggio crociano. La illustriamo con le stesse parole dell’autore, che contengono, in breve, anche una sacrosanta rivendicazione storiografica del carattere non casuale e forzato, ma volontario e progettuale della Resistenza italiana.

Se, ricorda Ippolito, «accertato è il contributo niente affatto marginale, che i meridionali diedero alla lotta di liberazione nei venti mesi in cui l’Italia del Nord si oppose all’occupante tedesco. Se tutto questo può considerarsi ampiamente acquisito, è ancora dura a morire l’opinione che i meridionali vi parteciparono in quanto soldati sbandati, impossibilitati a far ritorno alle proprie case, in un certo senso costretti dalle circostanze a entrare nella Resistenza.

La tesi contiene elementi di verità ma non può essere considerata assorbente ed esplicativa di ogni situazione, per non cadere nella trappola di chi, con analoga semplificazione, ritiene che i partigiani settentrionali fossero in larga parte giovani che sfuggivano alla leva della Repubblica Sociale Italiana(RSI) o alla tradotta in Germania». Tesi importante che Ippolito convalida persuasivamente in 350 pagine di testo con uno sforzo documentario davvero ammirevole, portando un ulteriore contributo alla stessa storia della Resistenza italiana, oltre che al ruolo svolto dai calabresi nelle sue file.

Il libro ha un carattere sistematico e ad ampio raggio, geografico e temporale. Inizia con la Resistenza prima della resistenza, come titola il primo capitolo e ricorda i primi tentativi e i primi programmi insurrezionali nel marzo 1943 a Reggio Calabria, da parte di gruppi di operai, studenti e professionisti, seguiti più tardi da vere forme di mobilitazione armata. È quella che si svolge in seguito allo sbarco degli inglesi fra Roccella e Caulonia, sullo Jonio, e a Palmi, sul Tirreno, che vede già protagonista Pasquale Cavallaro.

Il futuro artefice della Repubblica di Caulonia. In questa area della Calabria si ha la prima vittima della lotta antitedesca. In seguito a un atto di sabotaggio, contro le armate tedesche in ritirata, a Taurianova, viene ucciso Cipriano Scarfò, socialista, fucilato dopo un rito sommario.

Comincia da qui il racconto di stragi e uccisioni in cui i calabresi hanno sempre, a diverso titolo una parte. Ancora in Calabria, i tedeschi, che il 6 settembre cannoneggiano il paese di Rizziconi, lasciando a terra 17 morti, per lo più adolescenti, e 56 feriti, si fanno esecutori della fucilazione, ad Acquappesa, di 5 giovani militari originari della piana di Gioia, che avevano abbandonato il loro reggimento, probabilmente per unirsi agli anglo-canadesi appena sbarcati, e combattere contro i tedeschi.

Dalla Calabria, secondo un ordine temporale e al tempo stesso, come abbiamo detto, geografico, da Nord a Sud, quasi a ridosso della direzione della stessa guerra, Ippolito passa alla resistenza romana. E qui troviamo in posizioni spesso di primo piano, calabresi che vivono nella capitale, da più o meno tempo, come Giuseppe Albano, originario di Gerace, noto come il Gobbo del Quarticciolo, che si batte con altri sottoproletari contro i tedeschi a Porta San Paolo. Accanto a lui una figura presente nell’immaginario di tutti noi, Teresa Talotta Gullace, immortalata da Anna Magnani in Roma città aperta, di Roberto Rossellini.

E ritroviamo anche uno studente marinaio, Ettore Arena, di Catanzaro, militante di Bandiera Rossa, una delle principali formazioni antifasciste di Roma, fucilato a 21 anni a Forte Bravetta. Arena ha ricevuto la medaglia d’oro alla memoria. Ci sono anche quattro calabresi fra i morti nel massacro alle Fosse Ardeatine, tutti esponenti della Resistenza romana, a 3 dei quali sarà conferita la medaglia d’argento al valor militare.

Con grande passione documentaria l’autore segue vicende e destini dei calabresi anche fuori d’Italia, come per quei soldati che alla data dell’8 settembre si trovavano, ad esempio, in Montenegro, Slovenia, Erzegovina, dove si sviluppò la resistenza armata. Naturalmente l’autore non si limita a inseguire i singoli casi personali di eroismo, ma racconta le vicende storiche complessive, sia che si tratti, poniamo, della tragedia di Cefalonia, in Grecia, sia della Resistenza nel Regno del Sud e poi della Resistenza nel suo nucleo armato più consistente, sulle montagne del Nord d’Italia.

In una breve recensione non è possibile dar conto analiticamente di un libro, tanto più, come in questo caso, se si tratta di un testo ricco di vicende e di eventi, alcuni peraltro poco noti, che gettano luce su una pagina drammatica e dolorosa, ancora con tanti punti oscuri, della nostra storia. Ma quel che va detto e ripetuto al lettore, è che Ippolito non si limita a ritagliare, per amore di campanile, la vicenda dei suoi tanti eroi calabresi – in appendice si contano 165 partigiani caduti, molti dei quali con rispettiva città e provincia – dalla massa dei grandi fatti storici.

Rischio che naturalmente corre chi possiede una prospettiva culturale e storiografica provinciale. Accade, in questo libro, il contrario. E cioé che dalla ricostruzione dei grandi fatti collettivi della Resistenza italiana, dall’Appennino Umbro- Marchigiano alla Valle d’Aosta, Dall’Ossola alla Valsusa, finiscono con l’emergere anche i singoli eroismi in cui spesso si consumano le vite dei giovani combattenti calabresi. Quelle vicende singole che insieme fanno la stoffa di una storia complessa, ma unitaria , su cui si fonda la nostra Repubblica.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 maggio 2020