I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto dicendo di voler “imprimere un’accelerazione”, come affermato dall’attuale Sindaco Franz Caruso, alla ripresa dei lavori di costruzione del Museo Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora Direzione generale del Mibac che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza, Mario Pagano.
I sottoscritti chiedono che il MiC per mezzo dei suoi organi centrali, Direzione generale, e periferici, Soprintendenza Abap di Cosenza, impedisca la costruzione di un qualsivoglia manufatto- che, del resto, sarebbe del tutto privo di reperti attribuibili ad Alarico o ai Goti- ai piedi del Centro storico della città di Cosenza che ha già un vincolo diretto e un vincolo paesaggistico sin dal 1969.
Un qualunque edificio costruito in quel luogo con forme, tecniche e materiali moderni sarebbe del tutto fuori contesto rispetto al tessuto architettonico e urbanistico della città antica. Auspichiamo che al posto dell’ormai abbattuto ex Hotel Jolly venga allestito, invece, un giardino pubblico alberato, un luogo destinato alla visione paesaggistica della confluenza dei due fiumi, come è stato già dagli anni ’20 del XX secolo (in foto).
I sottoscritti si chiedono, ancora una volta, cosa spinga anche questa Amministrazione comunale, a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- intitolato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C., secondo un racconto poco attendibile del solo Iordanes, l’apologeta dei Goti vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.
Dal racconto di Iordanes, se pure fosse verificato, si deduce che, a causa dell’accidentale morte del re nei pressi di “Consentia”, centinaia di antichi cosentini furono costretti dai Goti prima a deviare il fiume e, poi, a seppellire Alarico con il bottino frutto del saccheggio di Roma e di tutta l’Italia meridionale. Per evitare di lasciare testimoni ed eventuali, futuri cercatori di tesori, i Goti assassinarono tutti i prigionieri cosentini che avevano partecipato alla sepoltura. Perché, dunque, celebrare Alarico e i Goti che avrebbero trucidato, milleseicento anni or sono, centinaia di progenitori dei cosentini?
I sottoscritti ritengono che l’intitolazione di un museo ad un personaggio storiograficamente controverso e il seduttivo vagheggiamento del ritrovamento di una sepoltura leggendaria, della quale non è stato rinvenuto neanche il più piccolo frammento, siano elementi che concorrono attivamente all’offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia che conduce all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa ed infondata invenzione identitaria.
I sottoscritti ritengono che la costruzione di un Museo Alarico, che non potrebbe contenere nulla che sia materialmente riconducibile ad Alarico o ai Goti, sia non solo storicamente sbagliata e socio-antropologicamente manipolatoria, ma anche umiliante per una città -dal IV sec. a.C. capitale dei Brettii e, poi, importante municipium romano- ed una popolazione che, nel corso dei secoli, hanno saputo esprimere ben altre, e più alte, personalità: Aulo Giano Parrasio, Bernardino Telesio, Sertorio Quattromani, Valentino Gentile, Francesco Saverio Salfi, Giovan Battista Amico, Alfonso Rendano, Pasquale Rossi et cetera.
I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.
I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Alessandro Giuli, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del cadente Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.
Battista Sangineto, archeologo, Unical
Armando Taliano Grasso, archeologo, Unical
Salvatore Settis, archeologo, Accademia dei Lincei
Pier Giovanni Guzzo, archeologo, Accademia dei Lincei
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Univ. Stranieri Siena
Vito Teti, antropologo e scrittore, Unical
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Lucia Faedo, archeologa, Univ. di Pisa
Franco Cambi, archeologo, Univ. di Siena
Alessandra Anselmi, storica dell’arte, Univ. di Bologna
Alberto Ziparo, urbanista, Univ. di Firenze
Roberto Budini Gattai, urbanista, Univ. di Firenze
Tonino Perna, economista, Univ. di Messina
Francesco Raniolo, politologo, Unical
Mariafrancesca D’Agostino, sociologa, Unical
John Trumper, linguista, Unical
Marta Maddalon, linguista, Unical
Enzo Scandurra, urbanista, Univ. La Sapienza Roma
Donatella Loprieno, costituzionalista, Unical
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già funzionario Mibac
Maurizio Pistolesi, archeologo, Cosenza
Pino Ippolito Armino, storico
Annarosa Macrì, giornalista, Cosenza
Paolo Veltri, ingegnere idraulico, Unical
Alessandra Carelli, storica dell’arte, Cosenza
Mauro Minervino, antropologo, Accademia Belle Arti CZ
Teresa Liguori, Consigliere nazionale Italia Nostra
Maria Cristina Lattanzi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Liliana Gissara, Consigliere nazionale Italia Nostra
Laura Comi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Federazione provinciale Rifondazione Comunista Cosenza
USB, Federazione di Cosenza
Associazione La Base, Cosenza
Forum Ambientalista Calabria
Antonio Trimboli, ingegnere, Cosenza
Massimo Ciglio, dirigente scolastico, Cosenza
Ida Selene Broccolo Tommasi, operatrice culturale, Cosenza
Sergio Nucci, medico, Cosenza
Stefano Catanzariti, attivista civico, Cosenza
Sergio Aquino, imprenditore, Cosenza
Ercole Barile, imprenditore, Cosenza
Argia Morcavallo, architetto, Cosenza
Francesco Saccomanno, attivista politico, Cosenza
G. Pino Scaglione, architetto, Univ. di Trento
Monica Nardi, chimica, Università Magna Grecia
Francesco Gaudio, docente, Fermi-Brutium” Cosenza
Angelo Broccolo, medico, Corigliano
Vincenzo Reda, vicepreside Fermi Brutium Cosenza
Emilio Nigro, poeta, Cosenza
Luigi Gallo, docente, Cosenza
Valerio Formisani, medico, Cosenza
Antonio Curcio, bibliotecario, Cosenza
Maria Pia Funaro ingegnere ambientale, Cosenza
Rosanna Tedesco, docente, Liceo Classico Telesio
Giuseppe Bornino docente, Liceo Amantea
Antonio Romeo, docente, Liceo Classico Telesio
Simona Serra, docente, Liceo Fermi
Lisa Sorrentino, cittadina, Cosenza
Franca Garreffa, sociologa, Unical
Pino Scarpelli, cittadino, Cosenza
Maurizio Nuccio, avvocato Cosenza
Giusy Branda, docente ” Scorza” Cosenza
Francesco Cirillo, giornalista e scrittore
Andrea Bevacqua docente, IstC Cosenza
Pierluigi Grottola, docente Convitto Nazionale Telesio
Giorgio Marcello, sociologo, Unical
Eliodoro Loffreda, docente, Liceo Telesio
Giulia Fragale attivista, Cosenza
Francesco Morelli, cittadino, Cosenza
Maria Grazia Francesca Cavaliere, cittadina, Cosenza
Giuseppina Calvelli, cittadina, Cosenza
Patrizia Gallo, dottore commercialista, Cosenza
Sergio Crocco, Associazione Terra di Piero
Giuseppe Cirò, cittadino, Cosenza
Giovanni Sole, storico e antropologo, Unical
Ida Rende, sociologa, Cosenza
Loredana Bruselles, cittadina Cosenza
Massimo Sisca commerciante, Cosenza
Alessandro Iantorno cittadino, Cosenza
Paola Pietramala, matematico, Cosenza
Francesca Canino, giornalista, Cosenza
Eduardo Zumpano, storico, pres. Anppia Cosenza
No all’ondata edilizia speculativa a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’
Il coordinamento “Diritto alla Città” (un insieme di associazioni cosentine, di cittadini, di soggetti formali ed informali) rivendica da tempo il diritto di contribuire alle decisioni riguardanti la città e il quartiere in cui vivono per salvaguardare il patrimonio territoriale inteso come bene comune, e più volte hanno espresso una domanda di nuove forme di democrazia partecipativa.
Soprattutto ha denunciato con forza i rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta su Cosenza negli ultimi anni e anche più recentemente: demolizione di edifici storici come quello primo-novecentesco di piazza Santa Teresa, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati ecc., inutili per la collettività. L’edificazione sulle rive del Crati sarà, a termine di legge, oggetto delle nostre osservazioni al vincolo paesaggistico della Soprintendenza che riteniamo, come avevamo già proposto, debba essere esteso ad entrambe le rive del fiume suddetto.
Decisioni di politiche urbanistiche di piccolo cabotaggio, meramente distruttive, avvolte da una inestricabile ragnatela di omissioni, sparizioni di atti, rimandi a presunte altre responsabilità, sempre eterodirette, comunque prese dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute, costituenti in ogni caso il prodotto di logiche di sviluppo cittadino fondate sulla produzione di profitto, sul calcolo utilitaristico, di interessi privatissimi e inconfessabili, sulla mancanza di qualsiasi idea di comunità locale.
Prendiamo il caso del nuovo PSC – Piano Strutturale Comunale, peraltro parzialmente pubblicato solo dopo nostre formali richieste, che, nonostante alcuni buoni propositi, appare in realtà il contenitore della precedente Amministrazione contenente i vecchi progetti che erano molto diversi tra loro (aumenti di volumetria e consumo di suolo, ristrutturazione di edifici e piazze, arredi urbani, i soliti e ormai irrispettosi murales sulle case popolari) e elaborati secondo una concezione che vede la nostra città solo come fonte di rendita e profitto dimenticandosi che Cosenza è un luogo abitato da uomini e donne, espressione di bisogni e relazioni.
Ci sarebbero oggi tutti gli elementi- politici, culturali, di innovazione economica, di composizione sociale (la città negli ultimi 10 anni è totalmente cambiata) per dare il via ad un’ampia e pubblica discussione tra cittadini, associazioni e istituzioni su come vivere tutti meglio a Cosenza. Avviare i laboratori di quartiere (come formalmente da noi chiesto e come obbligatorio per legge) sarebbe un guadagno per tutti: incontro tra le forme autonome di autorganizzazione dei cittadini e le esigenze dell’amministrazione, spostamenti in basso dei poteri e dei processi decisionali (è o non è una giunta di centrosinistra?), favorire l’affermarsi di un’idea di una città che abbia in mente la cura e la crescita di tutta la comunità locale e non solo dei soggetti economici privati.
Il Sindaco, invece, ha scelto la strada del rifiuto del dialogo: è chiaro che il modello Caruso, nonostante il suo programma elettorale, è quello secondo cui i politici decidono e i cittadini tacciono. Ne è riprova il fatto che pur essendo scaduto il termine previsto dalla legge, nessuna risposta ci è pervenuta alla nostra richiesta di accesso agli atti relativa all’abbattimento di un edificio su Corso Umberto (ma poi, se questa ennesima per noi scriteriata edificazione in atto ha le carte in regola perché, allora, non concedere l’accesso agli atti, peraltro non negabile per legge. Forse perché non segue, davvero, nemmeno i criteri di legge oltre che quelli del buon senso e del rispetto della collettività?).
Eppure eravamo stati lieti delle dichiarazioni dell’assessore Incarnato di impedire la costruzione di nuovi ecomostri anche alla luce dell’apposizione del vincolo paesaggistico e alla dichiarazione di “notevole interesse pubblico” dell’area 8/900esca cosentina fortemente perseguito nei mesi scorsi dal Coordinamento, e di avviare un percorso di confronto e di interlocuzione con le Soprintendenze e gli Ordini degli Architetti e degli Ingegneri. Ma evidentemente vale il detto “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. D’altra parte una piccola e civile richiesta di accesso civico, che in qualsiasi altra città del mondo occidentale sarebbe stata prontamente evasa, alle nostre latitudini diventa l’ennesimo episodio di scostumatezza civica, di arroganza e mal governo.
È quasi certo che il PSC alla fine sarà ratificato secondo quanto pattuito fra poteri forti e che su Corso Umberto sorgerà l’ennesimo ecomostro. Ciononostante chiediamo ancora e con più forza l’istituzione dei laboratori di quartiere e chiediamo all’assessore Incarnato e al Sindaco di includere nel costituendo tavolo tecnico-istituzionale anche la parte sociale (nello specifico il Coordinamento): riqualificare fisicamente il quartiere senza mettere in campo azioni interdisciplinari e senza coinvolgere gli abitanti sarebbe, con tutta evidenza, un’ipocrisia.
Questo modello, deliberare senza ascoltare, consultare e, tantomeno, conoscere, sopprimere le legittime istanze delle associazioni culturali dei cittadini, non ci piace perché non è democratico.
Per ultimo: non sempre chi vince ha ragione e soprattutto non sarà la mancata risposta ad una più che legittima richiesta di accesso agli atti a far cambiare le nostre idee e fermare le nostre azioni. Siamo più che convinti che un’altra città, un altro modo di stare insieme è possibile, e sappiamo che bisogna costruirlo giorno dopo giorno, nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nelle case delle culture, nelle ludoteche, nelle città dei ragazzi, dal basso. Offriamo collaborazione: fare e agire insieme e tramite ciò realizzare una città migliore per sé e per gli altri, un modo per affermare il sacrosanto diritto dei cosentini alla partecipazione attiva alla vita cittadina, al rispetto delle regole, alla bellezza e alla felicità.
Chiudiamo intanto con qualche domanda diretta al Sindaco Caruso e all’assessore Incarnato:
– come mai non avete istituito i laboratori di quartiere malgrado sia obbligatorio per legge e malgrado ve lo abbiamo chiesto formalmente già da circa 4 mesi?
– come mai non consentite l’accesso agli atti per un semplice titolo edilizio di una palazzina realizzata da un privato che utilizza fondi pubblici?
– come mai vi preoccupate di assegnare incarichi retribuiti per studiare come riqualificare il centro storico e ignorate la presenza delle associazioni di quartiere che offrono collaborazione senza aggravio di costi per il Comune?
Cosenza, 25 luglio 2024 Coordinamento ‘Diritto alla città’
Lettera aperta al Ministro Sangiuliano sul Museo di Alarico e sulla statua ‘Brettia’ a Cosenza.
LETTERA APERTA AL MINISTRO SANGIULIANO SUL MUSEO DI ALARICO E SULLA STATUA ‘DONNA BRETTIA’ A COSENZA.
I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto non opponendosi alla costruzione del Museo di Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora direttore generale del Mibac, Gino Famiglietti, che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza Mario Pagano.
I sottoscritti chiedono che l’Avvocatura dello Stato -su impulso del Ministro e della competente Soprintendenza- si appelli presso il Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar Calabria che, nel dicembre 2022, ha annullato il suddetto provvedimento del Mibac dando sostanzialmente il via libera alla costruzione del sunnominato Museo di Alarico.
I sottoscritti si chiedono cosa spinga a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- dedicato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C. -secondo un racconto del solo Iordanes, uno scrittore vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.
I sottoscritti segnalano, inoltre, che all’inutile e costosissima erezione di un Museo alariciano si è, di recente, aggiunto un altro tentativo di falsificazione della Storia costituito dal posizionamento nei pressi del Centro storico cosentino, da parte dell’Amministrazione comunale, di una discutibile opera bronzea, alta circa 2 metri, che raffigurerebbe, nelle intenzioni della scultrice e dei committenti privati, un mitico personaggio femminile la cui esistenza non è mai stata provata. ‘Brettia’ è una figura leggendaria dalla quale alcune mitopoietiche ricostruzioni vorrebbero far discendere non solo l’etnonimo degli abitanti di gran parte della Calabria di età ellenistica, ma persino l’ancor più fantasiosa fondazione di Cosenza.
I sottoscritti ritengono che questi due elementi facciano parte di uno stesso offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia e che esso conduca all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa e manipolatoria invenzione identitaria che, peraltro, poggia su basi palesemente false.
I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.
I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Gennaro Sangiuliano, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico ed il posizionamento su suoli e locali pubblici della statua della cosiddetta “Donna Brettia” e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.
Carla Maria Amici archeologa, Università del Salento
Alessandra Anselmi storica dell’arte, Università di Bologna
Pier Giorgio Ardeni storico, economista, Università di Bologna
Pino Ippolito Armino ingegnere nucleare, Politecnico di Torino
Paul Arthur archeologo, Università del Salento, presidente S.A.M.I.
Domenico Belcastro già Soprintendenza della Calabria
Piero Bevilacqua storico, Università La Sapienza Roma
Vittorio Cappelli storico, Università della Calabria
Club Telesio associazione, Cosenza
Comitato Piazza Piccola associazione, Cosenza
Massimo Covello sindacalista, dirigente CGIL Calabria
Mariafrancesca D’Agostino sociologa, Università della Calabria
Giovanna de Sensi Sestito storica, Università della Calabria
Massimo di Salvatore storico, Como
Lucia Faedo archeologa, Università di Pisa
Amedeo di Maio economista, Università l’Orientale Napoli
Mario Fiorentini giurista, Università di Trieste
Pier Giovanni Guzzo archeologo, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte
Donatella Loprieno costituzionalista, Università della Calabria
Maria Teresa Iannelli archeologa, Soprintendenza della Calabria
Marta Maddalon linguista, Università della Calabria
Mauro Francesco Minervino antropologo, ABACatanzaro
Tomaso Montanari storico dell’arte, Università per stranieri Siena
Enzo Paolini avvocato costituzionalista
Tonino Perna economista, Università di Messina
Maurizio Pistolesi archeologo, Cosenza
Edina Regoli archeologa, Rosignano Marittimo (LI)
Mimmo Rizzuti sindacalista, Osservatorio del Sud
Battista Sangineto archeologo, Università della Calabria
Francesco Santopolo agronomo, Università La Sapienza Roma
SeminAria cultura associazione, Cosenza
Enzo Scandurra urbanista, Università La Sapienza Roma
Salvatore Settis archeologo, Scuola Normale Superiore Pisa
Nicola Siciliani de Cumis pedagogista, Università La Sapienza Roma
Roberto Spadea archeologo, Soprintendenza della Calabria
Lucinia Speciale storica dell’arte, Università del Salento
Mara Sternini archeologa, Università di Siena
Armando Taliano Grasso archeologo, Università della Calabria
Vito Teti antropologo, Università della Calabria
Giovanni Turone
John Trumper linguista, Università della Calabria
Alberto Ziparo urbanista, Università di Firenze
foto di Ercole Scorza
per adesioni all’appello: osservatoriodelsud@gmail.com
Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto
Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.
Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.
Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.
Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.
I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.
In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.
Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.
Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.
Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.
L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.
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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”. (Stefano Mancuso)
II. Gli orti in città.
Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.
Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.
Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.
La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).
Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.
La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.
Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.
Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.
Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.
Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.
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III. Il verde nel Centro storico.
La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.
Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.
Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.
Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.
Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.
Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.
Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.
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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.
Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.
Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto
Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.
Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.
La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.
Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.
Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.
Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.
Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.
da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza