Tag: crisi climatica

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L “PIANO MATTEI” DI GIORGIA MELONI. Qualcuno potrebbe perfino dare atto alla presidente Meloni della sua determinazione nel convocare venticinque capi di stato e di governo africani, coinvolgendo anche i vertici della Ue. Finalmente, si potrebbe dire, l’Italia e l’Ue capiscono che non possono ignorare un Continente con il più alto tasso di crescita demografica del mondo, con i più bassi livelli di reddito, trafitto da guerre interminabili e che per giunta subisce, come poche altre aree al mondo, gli effetti perversi del mutamento climatico.

C’è da dire in realtà che l’attuale presidente del Consiglio ha capito come pochi leader politici che viviamo nella società dello spettacolo, come scrisse Guy Debord nel ’68, per cui non hanno importanza i contenuti ma conta solo la kermesse, la qualità e quantità della comunicazione di un evento. Usando un apparato retorico capace di comunicare con la maggioranza degli italiani che non conoscono le realtà africane se non attraverso luoghi comuni, la Meloni ha rispolverato categorie come la cooperazione e lo sviluppo, ormai obsolete per chi si occupa da decenni di questi temi.

Il primo messaggio falso è che la povertà dei paesi africani è dovuta alla mancanza di investimenti che generano il cosiddetto sviluppo. Se si vanno a osservare i 20 paesi in fondo alla classifica relativamente all’ ISU (Indice Sviluppo Umano) troviamo che per i due terzi si tratta di paesi che sono attraversati da conflitti interni, da guerre di lunga durata, da permanente instabilità politica, come emerge chiaramente dai Report Last Twenty 2022 e 2023. Se si continuano ad alimentare questi conflitti, che in diversi casi durano da decenni, parlare di investimenti e sviluppo è offendere l’intelligenza umana, e pure quella artificiale. Ma, in questa performance della Patriota parlare di armi e guerre è vietato.

Una seconda causa di impoverimento è legata all’indebitamento esterno che nell’Africa sub-sahariana ha raggiunto nel 2020 il 72% del Pil, di cui il 20 per cento è detenuto dalla Cina e il resto da Usa, Ue e Arabia Saudita/Emirati. Un rapporto debito/Pil più basso di quello europeo che si sta avvicinando al 90%, ma che per essere rifinanziato costringe i governi africani a pagare rendimenti altissimi sui titoli di Stato.

Una terza causa di impoverimento è lo scambio ineguale. Non sono mancati grandi investimenti in Africa negli ultimi venti anni, soprattutto da parte cinese, ma la forbice tra l’andamento dei prezzi delle materie prime e beni alimentari che vengono esportate dall’Africa e quello dei beni di consumo è aumentata. Soprattutto, nella catena del valore ai contadini e operai africani rimane una misera parte di quello che producono. Se non si interviene su questa struttura del commercio internazionale, come ci ha insegnato l’esperienza del fair trade, è fare demagogia parlando di sviluppo e cooperazione.

Infine, una buona notizia che viene volutamente taciuta: sono quasi 40 milioni di famiglie africane, vale a dire circa quattrocento milioni di persone, un terzo della popolazione africana, che sopravvive grazie alle rimesse dei migranti. Sono gli immigrati che con il loro sudore, rischiando la vita, facendo enormi sacrifici inviano mediamente 200 dollari/euro al mese nei paesi africani e, più in generale, nei Sud del mondo.

A livello globale, secondo la Banca Mondiale, si tratta di una cifra enorme: 626 miliardi nel 2022, di cui oltre 50 sono andati nell’Africa sub-sahariana. Insomma, sono gli africani che salvano l’Africa, mentre noi ci salviamo la coscienza con quello che chiamiamo “aiuto allo sviluppo”. Ma, quello che è grave e dove potremmo intervenire è sugli alti costi delle transazioni bancarie. In altri termini, per inviare il denaro alle proprie famiglie gli immigrati devono pagare una sorta di “pizzo” al sistema bancario internazionale. Si tratta in media di circa il 9% , ma i dati sono variabili, si può arrivare anche al 20 per cento di commissioni bancarie. Una vera e propria rapina su cui si dovrebbe intervenire.

Così come noi tutti dobbiamo prendere coscienza del fatto che la prima forma di cooperazione internazionale, la più efficace, è una buona accoglienza dei migranti, consentendogli di avere un lavoro dignitoso e legalmente retribuito, con cui possono sostenere direttamente, e meglio di tanti altri soggetti istituzionali, le loro famiglie.

da “il Manifesto” del 31 gennaio 2024

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della
crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando
soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe
d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.

Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al
suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-
geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio
costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra
i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di
contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le
ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione
ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli
interventi necessari a supportarla.

Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da
utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui
si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti
territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa,
difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale –
aveva quantizzato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190
miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto
ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di
emergenza.

Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale
o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul
territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di
ritorno sempre più ravvicinati.

Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE,
lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e
urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il
premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento
(rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione,
consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di
grande opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.

A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque
una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati
alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a
meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli
allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti
ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che
necessarie, erano urgentissime.

La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una
mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi
finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31
miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture –

stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere
previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse
investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione
intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con
lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che
rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove
trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per
Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative
continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.

Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la
logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che
spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o
aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli
insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.

C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti
“dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi
istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno,
e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica
dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza,
educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di
produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR
decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.

da “il Fatto Quotidiano” del 17 ottobre 2022
Foto di Hans da Pixabay