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Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Giuramento, previsto dall’art. 93 Cost., del Governo Draghi nelle mani del Presidente della Repubblica, 12 febbraio 2021. La formula del giuramento (art. 1 c. 3 l.n. 400/1988) è solenne “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.
Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021, fiducia al Governo Draghi con 262 senatori favorevoli, 40 voti contrari, 2 astenuti e 17 non partecipanti al voto. Camera dei Deputati, 18 febbraio 2021 con 535 favorevoli, 56 contrari, 5 astenuti e 33 assenti.
Questi sono i fatti, tutto nella norma, a parte la curiosità della data in cifre 12.02.2021, che è palindroma, fatto di un certo interesse per numerologi pitagorici, schiera, cui siamo estranei.

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La discussione
Nella sinistra, cui le gatte da pelare non mancano, stiamo assistendo a una discussione, che se volesse mettere in luce la sua irrilevanza politica, non si potrebbe inventare niente di meglio: il giudizio negativo, senza appello, su chi si appresta a votare in Parlamento la fiducia al Senato e alla Camera, in quanto insensibili ai suoi valori tradizionali e corrotta dal potere e dalle lusinghe dei poteri forti, fino al punto di accettare la Lega ex Nord nella maggioranza e sdoganare il suo leader Salvini.

Fossimo ai tempi dei processi staliniani, che qualcuno ancora rimpiange, ci si spingerebbe fino a qualificarli come servi del nemico di classe o agenti della CIA e/o del sionismo internazionale.
Stiamo parlando di una sinistra, che alle elezioni del 2018 per la Camera dei Deputati ha avuto, nel suo complesso di 5 liste, di cui solo LeU sopra la soglia del 3%, il 4,97%, cioè meno del 5.9% del PSU, (il più votato delle tre liste di sinistra (PSU-PSI-PCdI,) del 5,03% del PSI e appena lo 1,2% in più del PCdI), ai primi vagiti alle elezioni del 6 aprile 1924, mentre i suoi eredi hanno avuto da allora 97 anni di pratica politica.

E non bisogna, dimenticare che si trattava di elezioni svolte, – in un clima di brogli e violenze squadriste denunciate da Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso del 30 maggio 1924 – con la legge Acerbo, la prima con premio di maggioranza, seguita dalla legge 31 marzo 1953, n. 148, meglio nota come legge-truffa, per le elezioni politiche del 7 giugno di quell’anno, dalla legge n. 270/2005 (Porcellum) berlusconian-leghista e, annullata la renziana legge n. 52/2015 (Italicum) prima che fosse applicata, infine la gentiloniana legge n. 165/2017 (Rosatellum), approvata, grazie al precedente Boldrini del 2015, di sconfessione del “Lodo Lotti” del 1981, con ben 8 voti di fiducia: una legge peggiorata con la legge n. 51/2019 del Conte I, giallo-verdebruno, e non modificata, malgrado il taglio del Parlamento ad opera della maggioranza giallo-rossa del Conte bis.

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La costituzione
Se il perimetro della sinistra fosse determinato dalla fedeltà alla Costituzione, nata dalla Resistenza e dalla Liberazione dal nazi-fascismo, avremmo già dovuto amputarla prima delle elezioni del 2018, ma giustamente non è stato fatto, anche se la violazione dei principi costituzionali con le leggi elettorali del centro-sinistra e con le revisioni costituzionali, fallita quella Renzi-Boschi nel 2016 e approvata nel 2020 quella voluta sotto i due governi Conte, sia, in termini valoriali, molto più grave di un voto di fiducia a Draghi, che non ha nominato la Costituzione nel suo primo discorso parlamentare. Tuttavia, a meno di accusarlo a priori di essere uno spergiuro, ricordo che altri, che pure avevano giurato nelle mani del Presidente della Repubblica e nominato la Costituzione, hanno tentato di manometterla e approvato leggi elettorali incostituzionali.

Il governo Draghi è privo di una qualificazione politica fin dall’investitura presidenziale e non l’ha acquisita, fortunatamente, nemmeno dopo, come maggioranza Ursula. La maggioranza URSULA era inaccettabile perché comprende un PPE, con dentro FORZA ITALIA di Berlusconi e la FIDESZ di Orban, e i 26 voti decisivi (è passata per appena 9 voti sopra la maggioranza assoluta) dei clerical-conservatori polacchi di Diritto e Giustizia (PiS) del gruppo politico, ora presieduto dalla Meloni ed esclude la Sinistra europea e i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi. La Lega dopo la sua conversione europeista, per quanto improvvisa e improvvisata, oltre che strumentale, ora potrebbe farvi tranquillamente parte.

Nessuno a sinistra è in grado di dare lezioni. I ricorsi contro le leggi elettorali incostituzionali sono state o iniziative individuali di avvocati elettori, il Porcellum, o di giuristi democratici organizzati nel gruppo avvocati antitalikum, collegati al CDC (Coordinamento per la Democrazia Costituzionale). Tra i ricorrenti solo tre deputati di Sinistra, una della lista Monti e 15 M5S. Contro il Rosatellum i ricorsi diretti alla Corte costituzionale sono stati solo di parlamentari di M5S e di una deputata centrista. Nei ricorsi giudiziali, invece, è rimasto solo un parlamentare di Sinistra Italiana.

Contro Draghi? Ma per cosa in positivo, con quali programmi credibili e realistici per ridurre le diseguaglianze cresciute negli ultimi 25 anni, anche con governi di centro-sinistra? Il collante è stato di volta in volta l’antiberlusconismo, per di più avallando il suo schema bipolare e maggioritario, perché alla sera delle elezioni si deve sapere chi governerà, anche se lontano dalla maggioranza del corpo elettorale. Un impegno, peraltro mai rispettato tra ribaltoni e compravendite vincolo, invece, rispettato dal centro-sinistra, con democristiani e socialisti già investiti dalle inchieste giudiziarie di massa, nelle elezioni 1992. (53,24% e 358 seggi su 630 il pentapartito del governo Andreotti VI (1989-1991) ed anche il quadripartito dell’Andreotti VII(1991-1992) si conquistò 331 seggi, la maggioranza assoluta, con il proporzionale).

Poi il pericolo della rivincita della destra, favorito dalle leggi elettorali maggioritarie e bipolari, fatte saltare dal tripolarismo delle elezioni comparso nel 2013 ed esploso a danno della sinistra nel 2018 grazie ad una legge demenziale, come il Rosatellum, che avvantaggia coalizioni senza programma comune e capo politico unico, con liste bloccate e voto congiunto obbligatorio a pena di nullità e multi-candidature: il diritto ad un voto diretto, uguale, libero e personale è stato rubato agli italiani nel 2005 e mai più restituito, altro che dare la voce al popolo, che in democrazia se la prende da solo.

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Le elezioni
La verità è che non si può votare per queste ragioni, non per la pandemia, visto che nel settembre 2020 è stata creata un’illegittima concentrazione elettorale accorpando il referendum costituzionale e 7 elezioni regionali, ma né la ex maggioranza giallo-verdebruna, né l’uscente giallo-rossa lo possono dire perché la legge elettorale vigente l’hanno voluta loro e l’assenza di tempestivi efficaci controlli preventivi di costituzionalità ha consentito l’entrata in vigore di un taglio del Parlamento, che al Senato viola l’uguaglianza degli elettori e che nel complesso del Parlamento amplifica le distorsioni tra voti in entrata e seggi in uscita e facilita il controllo della maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune da parte di coalizioni con consenso compreso tra il 30 e il 35% dei votanti, in costante diminuzione.

Quella vigente è, quindi, una legge, che rende il vincitore delle elezioni il dominus della nomina del Presidente della Repubblica, in scadenza nel gennaio 2022, e delle nomine di un terzo della Corte costituzionale e del CSM e del rinvio a giudizio del Capo dello Stato, se non si piegasse ai suoi voleri: lo stesso obiettivo dell’Italicum e della deforma costituzionale Renzi-Boschi.

Con questi problemi da affrontare e risolvere, insieme con la pandemia, il risanamento finanziario, la ripresa economica, la disoccupazione di massa e la tutela ambientale, il voto di fiducia è inevitabile ma il suo significato dobbiamo considerarlo uno stato di necessità, derivante dall’assenza di alternative: non c’è un’altra maggioranza e non si può votare con questa legge e se si vota prima della fine del mandato del Presidente Mattarella, la destra deciderà da sola il nome del Presidente della Repubblica, cui spetterà di nominare altri 4 giudici costituzionali.
Il governo Draghi andrà giudicato sui singoli provvedimenti, questo è l’unico metro di giudizio di una sinistra, che voglia dare un segno di esistenza e non di testimonianza di un passato altrimenti glorioso.

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Il Presidente
Approfittiamo della tregua elettorale, che il Governo Draghi impone e del semestre bianco per preparare sia una maggioranza presidenziale, che metta in sicurezza la Costituzione repubblicana e la forma di governo parlamentare, sia una sinistra alternativa. Il governo o di opposizione, lo potrebbe decidere finalmente il popolo nella sua maggioranza reale solo con una legge a impianto proporzionale, che garantisca alle minoranze politiche la presenza e la rilevanza parlamentare prevista dai principi costituzionali.

Con la Costituzione messa in sicurezza, con l’elezione di un suo garante affidabile, l’altro compito del nuovo soggetto politico della sinistra ampia sarà finalmente l’attuazione della Costituzione e dei suoi diritti fondamentali di estensione delle libertà, di eliminazione delle diseguaglianze, del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, con gli strumenti previsti dal suo titolo III della Parte Prima, a cominciare dalla tassazione progressiva.

Nel 2022, 130° anniversario della fondazione del primo partito di massa dei lavoratori italiani, dovranno essere poste le fondamenta del nuovo soggetto politico dei lavoratori, che faccia la sua prova alle elezioni del 2023, scadenza naturale della legislatura, con salde radici nei movimenti sociali e la cui collocazione all’opposizione o al governo sarà deciso finalmente da un voto libero e uguale del popolo.

Allora e solo allora, quando sapremo chi siamo e dove vogliamo andare con un’idea forte di futuro, e non più soltanto da dove veniamo con nostalgia del passato, si stabilirà il perimetro della sinistra, senza mosche cocchiere o grilli parlanti che dettino la linea.
Chi non vota la fiducia, merita rispetto, per la scelta che fa responsabilmente. Non sarà per questo un avventuriero o un settario, e neppure, l’unico depositario della verità.

Per concludere, se il governo Draghi definisse, in un senso o nell’altro il perimetro della sinistra: NON CI STIAMO!
Ormai in politica il contingente, addirittura l’effimero, diventa determinante: purtroppo, dopo il voto di fiducia del Parlamento al governo Draghi i buoni e i cattivi saranno-reciprocamente-chi ha votato a favore o contro: una divisione deprimente.
Se la sinistra deve dividersi allora meglio tornare indietro al passato all’uso, denunciato da Alain Touraine, delle parole “socialdemocratico” e “stalinista”, semplici qualificazioni, che come fossero insulti.

Allora, sarebbe, su un altro piano più nobilmente ideologico, contrapporre LENIN a KAUTSKY, la LUXEMBURG a BERNSTEIN o, in casa nostra, in tempi commemorativi del centenario del 1921 TURATI a BORDIGA o MENOTTI SERRATI, o più recentemente NENNI a TOGLIATTI o BERLINGUER a CRAXI, almeno avremmo a che fare con grandi personaggi, per quanto tragica possa essere la divisione, che hanno comportato.
Diversamente, meglio stare a casa, in quarantena, fino all’elezione del Presidente della Repubblica: la maggioranza presidenziale, chi elegge il Presidente e chi è eletto è più importante della maggioranza di governo. Su Gramsci e Matteotti torneremo più avanti.

Verifica e arcipelago Pd.-di Franco Monaco

Verifica e arcipelago Pd.-di Franco Monaco

Renzi lo conosciamo. Egli fa conto di sopperire alla penuria dei consensi con uno spregiudicato
protagonismo nel Palazzo, facendo pesare il manipolo di parlamentati transfughi eletti nel Pd.
Nemesi del “nuovista rottamatore”: artefice di una “verifica” preceduta dalla richiesta di un
“rimpasto”. Parole e riti della vecchia politica.

E tuttavia non è un mistero che, ancorché di rincalzo e parandosi dietro Italia Viva, anche il Pd
abbia coltivato l’idea di rimettere mano agli organigrammi. Oggi lo negano, ma nelle scorse
settimane lo hanno proposto suoi autorevoli dirigenti: da Bettini a Orlando a Marcucci.
Naturalmente all’insegna di nobili intenti: ripartenza, rilancio, cambio di passo, salto di qualità,
rafforzamento del governo.

Per farsi una ragione del comportamento del Pd (o dei Pd, al plurale) dentro la verifica di governo è
utile riflettere, a monte, sulla sua natura e sulla sua composizione interna. Nella indole “governista”
del Pd allignano due profili: esperienza e cultura di governo di una classe dirigente sperimentata,
anche perché erede più o meno diretta dei partiti storici, ma anche – secondo profilo – una spiccata
vocazione/ambizione all’esercizio del potere.

Un’ambivalenza/ambiguità che si riflette nella costituzione materiale del partito, sempre meno
radicato nella società, sempre più interno allo Stato; articolato in componenti sempre meno
espressione di riconoscibili orientamenti politico-culturali e sempre più abitato da tribù e cordate
personali. Non è facile e tuttavia può essere utile disegnare una mappa, ancorché incompleta e
provvisoria, delle articolazioni piddine che non sempre coincidono con le effettive correnti
organizzate dentro il Pd. Una confederazione di Stati e staterelli i cui confini spesso si intrecciano.
La struttura appunto confederativa concorre a spiegare come, anche dentro la verifica, le attese e le
pretese, sommandosi, si dilatano.

Innanzitutto c’è da mettere in conto una generale eredità renziana tutt’altro che smaltita, anche
perché l’elezione di Zingaretti – il plebiscito di un giorno – non è passata attraverso una riflessione
congressuale che elaborasse la discontinuità e un effettivo ricambio del gruppo dirigente. Un
peccato d’origine che ne depotenzia la leadership.

Renziani per ascendenza. In senso lato e in certo modo, renziani lo sono tutti, nel vertice Pd.
Stavo da quelle parti e – fatta eccezione per la piccola pattuglia che ha seguito Bersani – faccio
fatica a fare un solo nome di chi si oppose per davvero al Renzi regnante. Lo ha osservato lui stesso,
a posteriori, bollando la legione degli ingrati. Al più si segnalava qualche voce solitaria e amletica
alla Cuperlo, utile da esibire. Se non vi fosse stata, Renzi se la sarebbe inventata. Non sorprende
che, a valle di tale generale allineamento, dopo la sconfitta di Renzi e l’ascesa di Zingaretti, si sia
prodotta la diaspora. Un riposizionamento non immune da una dose di trasformismo.
Teste di ponte renziane.

Non è necessario essere maliziosi. Basta non essere ingenui sino alla
dabbenaggine. Da subito ci si è chiesti perché mai – fuor di ipocrisia – sodali stretti come Marcucci
e Lotti non abbiano seguito il loro mentore. Poi è stato tutto più chiaro. Che la cosa sia stata
concordata o meno, sono manifesti e quotidiani i segnali di fumo e le pratiche convergenze.
Chiaramente una liaison tuttora operante.

Chi conosce la Toscana sa bene quanto stretto sia
l’intreccio di interessi politici, economici e personali riconducibili al Giglio magico.
Tardo-blairiani. Sono coloro che non la pensano in modo diverso da Renzi: coltivano una visione
neocentrista; hanno subito l’alleanza con il M5S; esorcizzano la disfatta del 2018; accarezzano
l’idea di ripercorre il sentiero della “terza via”. Una suggestione a dir poco anacronistica nella
nuova fase della globalizzazione.

Sono i Gori e i Bonaccini. Essi – anche in questo emuli di Renzi –
rivendicano come essenzialmente personali i loro successi, considerano il Pd quasi un ingombro e disdegnano l’alleanza con il M5S, come se vincere, rispettivamente, in un Comune o in Emilia,
fosse la stessa cosa che vincere in Italia.

Dispersi della diaspora. Vagano dispersi dentro il Pd i molti che, grazie alla loro organicità a
Renzi, hanno avuto un protagonismo in quella stagione e sono sopravvissuti parlamentarmente, ma
oggi sono comprensibilmente ai margini. Intendo politicamente, pur rivestendo magari ruoli
formali. Anche perché non hanno abbozzato una riflessione critica e autocritica al riguardo.
Vi figura anche qualche nome dai trascorsi di peso – è il caso di Fassino – altri meno. Tipo Delrio,
Martina, Serracchiani.

Essendo regola non scritta ma comune, essi sono formalmente ascritti a
questa o a quella corrente, ma in posizione ancillare e comunque privi di un loro riconoscibile e
riconosciuto profilo politico. Con una sua specificità, si potrebbe inscrivere nella categoria dei
dispersi anche Veltroni, primo segretario del partito: la sua ispirazione liberal(e), la sua visione di
una democrazia maggioritaria e d’investitura e la sua conseguente versione di un Pd leaderista e
autosufficiente ha in parte anticipato il renzismo. Ora Veltroni non ha ruoli politici e imperversa su
giornali e tv.

Neodemocristiani pragmatici. Moderati e pragmatici, dotati del consumato know-how
democristiano dell’adattamento alle mutevoli congiunture politiche. Cattolici decisamente laici.
Comprendono Franceschini e Guerini. Essi, nella Balena bianca, avevano referenti diversi
(Zaccagnini il primo, Andreotti il secondo) e pure ora militano in due diverse cordate. Ancorché
non di sinistra, in quanto eredi del centrosinistra storico e dunque dell’alleanza tra centro e sinistra,
sono tutto sommato tra quelli meno a disagio nell’attuale maggioranza di governo. Avendo la
cultura della coalizione.

Tuttavia, il loro pragmatismo, inteso come virtù, può risolversi in una disinvolta mobilità nelle
solidarietà interne (ne sa qualcosa Enrico Letta) e nelle alleanze esterne al partito.
Sinistra improbabile. Quella degli Orfini, che dalla scuola Pci ha assimilato il professionismo
politico, il politicismo, il gioco dei posizionamenti (l’importante è …. la segnaletica, cioè marcare
simbolicamente il territorio con estemporanee proposte bandiera come ius soli o patrimoniale, ben
consapevoli che non faranno alcuna strada). Non hanno avuto esitazioni in passato a contribuire ad
operazioni non esattamente di sinistra: alla sostituzione di Letta con Renzi, a fare da guardaspalle a
quest’ultimo e ad affossare il sindaco Ignazio Marino.

Socialdemocratici ex Pci. Penso ad Andrea Orlando. Ama accreditarsi come erede della
tradizione amendoliana e riformista del vecchio Pci (da Napolitano a Macaluso). Vicesegretario e
formalmente sostenitore del segretario Pd, ma, non da oggi, sembra seguire un suo percorso più
personale che politico. Sino a una sorprendente intervista a Repubblica, anzi… a sostegno della
campagna condotta da Repubblica per far fuori Conte.

Nella sostanza sposando le critiche di Renzi, solo con qualche dissimulazione, e adombrando l’idea
del commissariamento del premier. Tra i propugnatori del rimpasto. Nel solco della tradizione del
“partito più partito” (il Pci), Orlando si ispira all’idea del primato di esso o comunque alla
convinzione che il cuore della politica stia lì e dunque di un protagonismo del partito nel rapportarsi
a parlamento e governo. Così ha motivato la decisione di stare fuori dal Conte 2 per dedicarsi al
partito. Sin qui.

Cacicchi del sud. È il caso dei due “governatori” del sud, De Luca ed Emiliano. Ras territoriali,
uomini forti, a dir poco disinvolti sia nell’esercizio del potere, sia nella raccolta del consenso,
inclini – come usa dire – alle “reti a strascico”, cioè ad avvalersi del sostegno di un profluvio di liste

trasversali e al reclutamento di personale politico di ogni colore. Destra compresa. Senza andare
troppo per il sottile in tema di trasparenza e qualità etica. Due amministratori decisamente autonomi
(meglio: autocrati), che il partito è troppo debole per potersi permettere di toccare. Quasi
impossibile attribuire loro un’etichetta politico-ideologica.

Europeisti contiani. Penso a Gualtieri e al giovane Amendola. Forgiatisi alla scuola di partito e,
segnatamente, dalemiana. Politici professionali, di cultura riformista, espressione di una sinistra di
governo, con alle spalle esperienze in Europa. Gualtieri al parlamento di Strasburgo, Amendola a
Vienna tra i giovani Ds e all’Osce. Essi oggi occupano una posizione di rilievo nel governo sul
fronte strategico del rapporto con la Ue. Godono della stima di Conte e, forse per questo, sono
circondati dalla diffidenza di settori del Pd.

Il consigliere del Principe. Alludo a Bettini. Stratega della sinistra romana, dotato di abilità
manovriera. Ci prende gusto a rappresentarsi come ispiratore del leader. Ostentando la ricerca di un
ancoraggio ideologico per una sua nascente corrente, ha inventato sui due piedi l’impegnativa (alta
e improbabile) sigla “socialismo cristiano”.

In realtà, il suo, ha più l’aspetto di un concretismo che
lo conduce a scommettere sull’alleanza con il M5S (forse memore della sensibilità ingraiana per i
movimenti) e, insieme, ma anche con Renzi, generosamente interpretato come aggregatore di un
centro affidabile con il quale allearsi. Anch’egli fautore del rimpasto, a suo dire, al fine di rafforzare
Conte. Facciamogli credito di buone intenzioni. Ma si è visto quanto sia stato lungimirante aprire il
vaso di pandora del rimpasto.

L’enigma Zingaretti. In questo quadro, dominato da personalismi e logiche di corrente, egli si è
specializzato nella mediazione. Mena vanto per avere preservato una formale unità del partito,
tuttavia pagata al prezzo di una certa indeterminatezza di linea politica e della composizione
assemblearistica del gruppo dirigente. Lo si comprende, non è facile tenere la barra ferma. Certo, si
dovrebbe avere una bussola e una rotta coerente e decifrabile. Non oscillare tra la tesi del Conte
punto di riferimento alto dei progressisti e dando, a giorni alterni, un mezzo avallo alla guerra a
Conte ingaggiata da Renzi.

Tanti Pd rischiano di nuocere a una riconoscibile identità del Pd. Una confederazione di cordate per
lo più personali non riconducibili a una visione politica e che si regge su un mobile, precario
equilibrio anziché su una cultura politica comune. Intendiamoci: una questione che affligge tutti
i partiti, ma che dà ancor più nell’occhio nel caso di chi, sin dal nome e per le sue ascendenze, si
rappresenta come il più partito tra i partiti.

La classificazione qui abbozzata – certo, con approssimazione e non senza una punta di ironia –
suggerisce una più seria riflessione. La mappa e la denominazione assegnata alle varie tribù
testimonia che, a definire profili e appartenenze, sono essenzialmente due stagioni: quella, remota,
della prima Repubblica, e quella, più recente, del rapporto stabilito da singoli e gruppi con il
renzismo, che, ai miei occhi, ha rappresentato un deragliamento per un partito convenzionalmente
di sinistra.

Un partito personale e una torsione identitaria e tuttavia comunque un profilo definito. Per
converso, a qualificare le appartenenze, sembra non contino il presente e – spiace doverlo notare –
neppure il rapporto con i quindici anni dell’Ulivo. A mio avviso, il tempo più fecondo sia per
l’elaborazione di una cultura politica comune a sinistra, sia per la qualità dell’esperienza di governo.
Tuttavia, forse, per paradosso, se ne può ricavare una conclusione in positivo (e non depressiva e
rinunciataria): ancorati a passato prossimo e a passato remoto e con un presente privo di un ubi
consistam, si potrebbe dispiegare per intero, creativamente e coraggiosamente, la ricerca di una nuova soggettività politica del Pd e oltre il Pd. Aprendo il cantiere di una sinistra di governo larga,
plurale, inclusiva.

Dentro la società ci sono molte più energie di quelle raccolte nell’angusto recinto dell’attuale
sinistra politica. Basti un esempio: penso ai contenuti egualitari e ambientalisti, ma soprattutto al
metodo partecipativo da tempo messo in campo da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini con
centinaia di associazioni.

Ci sono lì molta più politica e molto più protagonismo giovanile di quanti non se ne rinvengano
nei partiti. Di sicuro esiste un mondo più ricco e più esteso di quel 20% al quale è stabilmente
inchiodato il Pd. Non è necessario spingersi sino alla tesi, comunque improbabile, dell’auto-
scioglimento del Pd, basterebbe che esso si facesse promotore e perno del processo costituente di un
soggetto però a tutti gli effetti nuovo. Sarebbe nell’interesse suo, della sinistra e del più esteso
campo democratico.

Talvolta sfugge che, dalla sua nascita, nel 2008, non una sola volta il Pd ha vinto le elezioni
politiche. Lo ha fatto il suo ascendente, l’Ulivo, nel 1996 e nel 2006. Poi non più. Finalmente il Pd
dovrebbe avere imparato che, fuori dalle chiacchiere politiciste, una ben intesa “vocazione
maggioritaria”, in concreto, banalmente, significa attrezzarsi perché finalmente, una buona volta, si
accedere al governo vincendo le elezioni.

Il che comporta, di sicuro, a) l’abbandono della velleitaria e oggi persino risibile illusione
dell’autosufficienza; b) l’impegno a organizzare un campo di forze più ricco e più largo; c) ma
soprattutto – quale precondizione – l’esigenza di ripensare criticamente se stesso, la propria visione
e la propria forma organizzativa.

da Huffpost 17.12.2020