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Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Da Repubblica del 9 novembre Oscar Giannino ci informa, con un articolo dal titolo «I colpi della pandemia riapriranno le ferite del divario nord-sud», sugli esiti inevitabili della crisi. Il calo del Pil ridurrà le risorse prodotte dal Nord e devolvibili alla perequazione territoriale. Cita di passaggio il recente libro di Giovanardi e Stevanato Autonomia, differenziazione è responsabilità, in cui si legge che il trasferimento di risorse pubbliche al Sud è stato negli anni massiccio, e totalmente fallimentare.

Su una linea analoga si erano espressi il 2 ottobre Galli e Gottardo, autorevoli economisti della Cattolica, con un saggio sull’Osservatorio dei conti pubblici italiani. E già il 4 maggio 2019 Tabellini, ex rettore della Bocconi, in un articolo sul Foglio scriveva : «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli». In tutte queste prospettazioni il tentativo di ridurre il divario Nord-Sud, comportando uno spreco di risorse, reca al paese danno, e non vantaggio. Ne segue il corollario, esplicitato o meno, che è nell’interesse del paese concentrare le risorse disponibili sulla locomotiva del Nord. Meglio per tutti se il divario rimane.

Si rafforza e si manifesta lo schieramento che nega ad un tempo lo scippo di risorse a danno del Sud da parte del Nord, e la riduzione del divario tra le due Italie. È una cannonata contro l’opposta tesi che l’Italia non esce dalla crisi se non rilanciando il Sud come secondo motore produttivo del paese: solo così può essere fermato e invertito il declino che ha devastato il Sud ma ha colpito – sia pure in misura assai minore – anche il Nord. Tesi sostenuta dalla Svimez e da autorevoli economisti, e soprattutto, almeno prima facie, accettata dal governo nelle sue scelte di politica economica e negli orientamenti nella utilizzazione dei fondi Recovery, anche in osservanza delle indicazioni UE.

Le due narrazioni contrapposte trovano aggancio in due serie di dati divergenti, entrambe di matrice pubblica: una, dei Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione, per cui ai cittadini del Nord sono assegnate risorse pubbliche pro capite in misura maggiore che ai cittadini del Sud; l’altra, di provenienza Istat e Bankitalia e ora adottata da Galli e Gottardo e dall’Ocpi, che dice l’esatto contrario. Se fosse una contrapposizione accademica, potremmo non occuparcene. Ma sono ovvie le implicazioni per le scelte di politica economica e gli indirizzi di governo, inclusa la risposta alla crisi Covid.

Il 9 novembre, in un seminario presso la Fondazione Astrid su «Il ruolo del Mezzogiorno per la ripresa», il ministro Provenzano ha dato un’ampia informazione delle iniziative del governo. Nessuno dubita del personale e forte impegno del ministro a favore del Mezzogiorno. Ma può la sua posizione decisivamente orientare le politiche del governo nel suo complesso? Qualche domanda si pone.

Delle due serie di dati contrapposti prima richiamate, quale è adottata da Palazzo Chigi ai fini delle scelte e degli indirizzi di governo? Il ministro Provenzano assume quella dei Conti pubblici territoriali. Ma non sembra, ad esempio, di poter dire lo stesso per il ministro Boccia. Come conciliare con l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud la sua debole proposta di legge-quadro sull’autonomia differenziata, che vuole collegare al bilancio pur essendo tecnicamente inidonea a frenare le pulsioni separatiste? Andrebbe tolta dal tavolo.

Come scommettere sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) come elemento decisivo di equità territoriale, dopo il fallimento del loro equivalente sanitario (Lea) e la conseguente frantumazione del servizio sanitario nazionale? Come assumere le conferenze e la concertazione tra esecutivi come luogo e metodo di un nuovo regionalismo – come suggerisce in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali il 30 settembre – quando l’esperienza passata ne dimostra gli effetti negativi sulla coesione territoriale, e la crisi Covid oggi ne conferma in termini anche più generali le pesanti conseguenze?

Avremo un ritorno della questione meridionale o di quella settentrionale? Lo vedremo sul palcoscenico del dopo Covid, dove si recita a soggetto. Il che può anche andar bene, a meno che gli attori non mostrino di essere – magari con eccezioni lodevoli – guitti di secondo ordine.

da “il Manifesto” dell’11 novembre 2020

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Il generale dei carabinieri in pensione, Saverio Cotticelli, nominato commissario della sanità in Calabria dal primo governo Conte, sembra arrivato su quella poltrona da un altro pianeta.

Non sa niente sul piano sanitario anti- Covid, scopre che doveva essere proprio lui e non la Regione, a doverlo costruire. Questa storia, tragicomica, fa riflettere sul ruolo del giornalismo d’inchiesta, lavoro prezioso per tutta la comunità nazionale. Ma, allo stesso tempo, scoperchia negligenze, ritardi, mancanza di controllo. C’è da chiedere al ministro Speranza: a) perché non ha cacciato per tempo questo commissario, b) se esiste un sistema di controllo sull’operato di questi commissari o se, una volta nominati, purché non disturbino il potere romano, possono restare al loro posto. C’è da chiedere ai partiti del centro sinistra, all’opposizione nel Consiglio Regionale della Calabria, come mai non si siano accorti che a capo della sanità c’era questo personaggio inqualificabile, irresponsabile, assolutamente non competente.

Adesso se ne è accorto, grazie al giornalista Walter Molino, anche il premier Conte che ha immediatamente dimesso l’improbabile carabiniere-commissario.

Problema risolto? Assolutamente no. Il commissario Cotticelli deve rispondere penalmente dei gravi danni inferti alla salute dei cittadini calabresi, del danno economico alle imprese e ai lavoratori avendo determinato la dichiarazione di zona rossa per la Calabria, con la sua gravissima omissione di atti d’ufficio. Se un commissario rischia solo il licenziamento si pone un grave problema di discriminazione rispetto agli altri cittadini ed amministratori della res publica che rischiano processi penali e civili per ogni infrazione, sia pure senza scopo di lucro.

Ancora una domanda inevitabile: vorremmo capire in base a quale valutazione l’ex ministro Giulia Grillo (M5S) abbia scelto, per gestore un settore così delicato e complesso come la sanità calabrese, un generale in pensione. Siccome non credo che l’on Grillo abbia la voglia di rispondere le posso facilitare il compito.

Si nomina un generale dei carabinieri in pensione per gestire la sanità in Calabria, afflitta da debiti-corruzione-malgoverno, perché si riduce la questione sanitaria a questione criminale.

Così come questo governo ha nominato al ministero dell’ambiente un generale delle guardie forestali, come se la complessità dell’ecologia si potesse ridurre alla repressione delle mafie.

Da quando, anni ’90 del secolo scorso, la “questione meridionale” è stata ridotta a “questione criminale”, la Calabria è diventata l’avamposto di questo brand, per cui nessuno batte ciglio se commissariano decine e decine di Comuni, di enti pubblici, fino ad arrivare al sistema sanitario, comprese le Asp, anche loro commissariate.

Per quanto ne sappia non ho mai visto una commissione d’inchiesta insediarsi per monitorare l’operato di un commissario. Conosco commissari che hanno operato bene, e andrebbero premiati, ma quelli che hanno fatto poco e nulla, che hanno bloccato tutto, lasciando morire d’inedia intere città, preso uno stipendio giusto per tenere in caldo una poltrona, nessuno li ha mai giudicati.

da “il Manifesto” dell’8 novembre 2020

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dalla OMS, nel mese di settembre, come un modello da seguire a livello mondiale? L’Italia che guardava con sufficienza gli altri paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia e già pensava al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles. In meno di due settimane è cambiato tutto.

Gli esperti l’avevano preannunciato questa estate, sia pure con cautela, che una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo…- ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state assolutamente inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo di fronte a una tragedia che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. Insomma, siamo di fronte a quella doppia epidemia lucidamente disegnata da Norma Rangeri nell’editoriale di domenica scorsa.

Se possiamo fare un paragone, fatti i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra economia. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio.

Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione. La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro. Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo.

Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, ecc. un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.

da “il Manifesto” del 28 ottobre 2020
Foto di Sebastian Thöne da Pixabay

I luoghi comuni sul Sud palla al piede e mangiasoldi.- di Massimo Villone

I luoghi comuni sul Sud palla al piede e mangiasoldi.- di Massimo Villone

La crisi sanitaria si intreccia con l’economia, la politica e le istituzioni. L’attenzione è tutta sui conti quotidiani del contagio, ed è comprensibile. Ma altre vicende in atto, oggi in parte oscurate dal fracasso mediatico, peseranno sul paese anche dopo la pandemia.

Il 2 ottobre Galli e Gottardo, economisti della Cattolica e dell’Osservatorio per i conti pubblici italiani (Ocpi), attaccano il Mezzogiorno con un saggio che ho già citato su queste pagine. La tesi di fondo è che la spesa pubblica ha favorito e favorisce il Sud, ma non ne ha risollevato né può risollevarne le sorti, perché il Sud non riesce a beneficiarne per la debolezza delle istituzioni (in ipotesi, inefficienti, clientelari e quant’altro). Cottarelli e Galli ribadiscono la tesi (Domani, 14 ottobre). L’Agenzia per la coesione, voce pubblica e ufficiale, giunge nei Conti pubblici territoriali (Cpt) a conclusioni opposte. È seguita dalla Svimez, da studiosi e commentatori, tra cui io stesso. È censurata dagli economisti Ocpi. Qualcuno sbaglia, o magari imbroglia?

È semplice. Si espungono alcune voci dalla spesa pubblica computabile nel raffronto Nord-Sud, e per magia non è il Nord che scippa al Sud, ma il Sud che scippa al Nord. Ocpi espunge anzitutto società quotate in borsa come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo, essendo «pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e le opportunità d’affari sono tipicamente maggiori». Una questione esclusivamente di mercato? L’argomento prova troppo. Portandolo fino in fondo, qualunque politica di riequilibrio territoriale sarebbe preclusa a quelle società. Anzi, potrebbero solo dividere ulteriormente il paese. Ma allora come giustificare la presenza pubblica? La sola risposta sarebbe una privatizzazione integrale.

Si espunge poi la spesa pensionistica. Al Nord più lavoro, più reddito, più contributi, più pensioni. È un dato puramente fattuale, non una scelta. Quindi la spesa pensionistica non va conteggiata. Ma le pensioni in atto sono – e saranno per molti anni – basate anche sul metodo retributivo, e quindi almeno in parte a carico della fiscalità generale. Ancora, al Sud la vita costa meno. Dimenticando che i servizi di cui dispone il cittadino del Mezzogiorno sono di gran lunga inferiori. Infine, chiude la partita la debolezza istituzionale, perché in essa si bruciano le risorse pubbliche che non giungeranno mai a migliorare le sorti del Sud. Quindi, sono uno spreco che reca al paese danni, non vantaggi. Concorrono persino ad accrescere il debito pubblico.

Siamo chiari su un punto. Nessuno assolve il ceto politico e le classi dirigenti del Sud, certamente colpevoli. Né si nega la necessità di scelte oculate (come chiedono Drago e Reichlin (Corriere della Sera, 19 ottobre). Ma le false rappresentazioni e i luoghi comuni sul Sud, che sono alla base dell’autonomia differenziata, tali rimangono anche in panni di accademia. Oggettivamente, si spara a chi vorrebbe assumere tra le priorità essenziali per i fondi Ue un favor per il Sud allo scopo di ridurre il divario territoriale. Al tempo stesso, si offre un assist al separatismo dell’autonomia differenziata. Alla fine, secessione dei ricchi e spacchettamento in repubblichette diventano cosa buona e giusta.

E Boccia? Abbiamo già criticato la debolezza della sua proposta, e non ci ripetiamo. Quanto al nuovo regionalismo che predilige, tutto concertazione tra esecutivi e conferenze, è palesemente a rischio di letture strumentali e in malam partem. Vediamo poi commenti per cui il premier Conte vorrebbe evitare scelte impopolari mettendole nelle mani dei governatori, già sicuri di aver guadagnato come categoria un Oscar alla carriera per l’emergenza sanitaria. La sintonia con la strategia Boccia è evidente. Ma l’istinto di sopravvivenza di Conte si traduce in una debolezza di tutte le istituzioni nazionali.

Sono in campo letture alternative dell’Italia che verrà. Le truppe sono schierate. Si coglie la vacuità e in qualche punto la pericolosità della proposta riformatrice in giallorosso, dal taglio del parlamento ai correttivi di là da venire. Mentre a destra avanza un progetto ben più concreto e condiviso di frammentazione in chiave di autonomia differenziata bilanciata dal presidenzialismo. Bisogna vigilare e resistere. Ogni passo ci allontanerebbe dalla Costituzione e dalla Repubblica una e indivisibile.

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

“Ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro”, scrive papa Francesco ad avvio della sua enciclica ‘Fratelli tutti’, esprimendo un’impressione che domina oggi l’immaginario collettivo. Negli ultimi tre decenni si è aperto il vaso di Pandora da cui sono usciti odi e fanatismi dimenticati, l’individualismo sfrenato ha disfatto il tessuto delle relazioni umane, la competizione è diventata la regola di ogni rapporto fra le persone come fra i gruppi e gli stati, i conflitti politici e le dispute territoriali si trasformano in guerre sanguinose.

Ma come poteva essere diversamente? Sono trent’anni che le classi dirigenti, gli uomini politici, gli intellettuali, i media assediano giorno dopo giorno la nostra mente con un unico e ossessivo messaggio: occorre crescere, incrementare la produttività, rendere il sistema competitivo, il lavoro flessibile, accettare la sfida della globalizzazione, ecc. Poteva un dominio così esteso e durevole del pensiero unico sulle nostre società restare senza effetti sul fondo antropologico delle culture collettive, delle psicologie, dell’etica e del comportamento dei singoli come degli stati?

Ho sempre osservato con stupore la suprema indifferenza per gli esiti sociali, umani, morali (di quelli ambientali sarebbe pretendere troppo) con cui gli economisti di tutte le tendenze, anche progressisti, dettano le loro prescrizioni a sostegno della crescita. Ricordo qui per brevità il caso degli economisti agrari.

Non c’è un loro manuale che non prescriva oggi la formazione di aziende di grandi dimensioni, le monoculture, la crescita della produttività del lavoro attraverso le macchine, la proiezione verso i grandi mercati, l’abbassamento costante dei costi e quindi la competitività del prezzo dei prodotti.

Ma queste prescrizioni hanno come effetto la scomparsa degli uomini dalle campagne, e dunque la perdita di tanti territori che rimangono senza presidi, una agricoltura inquinante che produce in eccesso e impoverisce la fertilità dei suoli, la grande massa dei produttori strangolati dalla grande distribuzione, la rinascita in grande stile di un fenomeno scomparso: la schiavitù bracciantile nelle grandi aziende.

E tuttavia sarebbe fuorviante pensare che il ritorno indietro della storia sia un rinculo generale. Per il capitalismo in questi decenni non si è verificato alcun regresso. Forse che sono diminuite le ricchezze di tanti singoli magnati, e delle imprese? Non abbiamo continue notizie dell’ abnorme concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi? Non sappiamo che si sono formati colossi multinazionali che hanno un bilancio paragonabile a quello di uno stato?

In realtà il mondo a totale dominio capitalistico è andato avanti, e indietro sono tornate le classi lavoratrici, gli ultimi della Terra. Regredite sono le coperture del welfare, le sicurezze e stabilità di un tempo, e dunque anche i rapporti umani, avvelenati dalla precarietà, da una ideologia della corsa continua, della guerra economica tra stati.

La violenza diffusa e la conclamata decadenza morale che segna oggi la condizione umana, descritta con tanto coraggio da papa Francesco, sono l’esito di questo radicale dominio capitalistico, del venire meno di un efficace contrasto politico su scala globale, dell affermarsi della sua intima logica predatoria.

Si è consumato infatti un mutamento storico che è stato percepito in vario modo ma che segna un passaggio d’epoca: le società sono diventate un modo di produzione. Il modo di produzione capitalistico, sempre più privo di freni e mediazioni. La crisalide del capitale, motore segreto della società, ha rotto l’involucro e si è fatta suo corpo.
E’ questa indispensabile lettura che consente di afferrare alla radice i fenomeni in atto e di poter almeno immaginare le strategie di contrasto. Il capitalismo sta abbattendo tutte le mediazioni, quelle statuali e politiche, come quelle culturali.

Si è creduto a lungo che Silvio Berlusconi fosse un’anomalia “mediterranea”, ma oggi Trump ci mostra che il nostro ex presidente del Consiglio era un fenomeno d’avanguardia del capitalismo, non un suo residuo di arretratezza. Oggi è nello stato più potente del mondo che questo modo di produzione, in alcune sue espressioni più aggressive, ha piegato le mediazioni politiche dell’ordinamento liberale agli interessi di un magnate. Anche lo svuotamento dei partiti politici, il loro divenire semplici agenti del mercato elettorale si inscrive in questo processo di fagocitamento di tutte le espressioni della società civile dentro le logiche di un modo di produzione.

E oggi appaiono in tutta la loro nefasta erroneità le politiche europee e italiane di adattamento della scuola e dell’Università ai bisogni della crescita, il loro asservimento a criteri aziendali, la mortificazione del processo formativo ridotto ad apprendistato di mestieri e professioni. I nostri governanti devono sapere che queste politiche concorrono al declino morale, all’indifferenza, all’egoismo, all’odio per gli altri che compone oggi l’informe impasto della società rappresentata da ‘Fratelli tutti’.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2020
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Si torna a parlare di autonomia regionale differenziata; cioè delle richieste di alcune delle amministrazioni regionali di avere poteri più estesi, con le relative risorse finanziarie, rispetto alla situazione attuale. È bene ricordarlo: non di autonomia regionale; ma di autonomia regionale differenziata.

Nella discussione degli ultimi tempi sembrano mancare riflessioni, e proposte, su un fondamentale interrogativo: quali poteri e in quali materie sarebbe opportuno concedere a quali regioni?

La discussione su questo tema è resa difficile da due circostanze. In primo luogo, quelle che per prime e con maggiore enfasi hanno fatto richiesta di maggiori competenze, e continuano a chiederle (e cioè Veneto e Lombardia, e pur con alcune differenze, l’Emilia-Romagna) hanno proposto che fossero loro attribuiti maggiori poteri in tutti gli ambiti in cui ciò è teoricamente possibile in base all’articolo 116 della Costituzione, così come riformato nel 2001.

Le richieste coprono praticamente tutti gli ambiti dell’intervento pubblico, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’energia, all’ambiente, alle politiche industriali e molto altro ancora. Hanno chiesto, cioè, con una scelta dall’evidente significato politico, il massimo possibile.

In secondo luogo, da parte di tutte le Amministrazioni Regionali (non solo delle tre citate) c’è un evidente, diffuso, favore, ad ottenere nuove competenze, con le relative risorse, perché ciò aumenta il loro potere di gestione e di intermediazione, il loro peso politico. Altre si sono infatti accodate alle prime.

Tuttavia, non si tratta di una richiesta di aumentare le competenze di tutte le regioni. Sarebbe del tutto lecita, naturalmente; ma dovrebbe seguire un iter giuridico e politico completamente diverso. E chissà quale sarebbe a riguardo l’opinione degli italiani; specie dopo che la crisi del coronavirus ha mostrato e sta mostrando l’importanza fondamentale di regole e indirizzi nazionali, validi per tutti, anche in ambiti già fortemente regionalizzati come quello sanitario. Ciascuna regione sta chiedendo di ricevere maggiori competenze per se stessa, indipendentemente dalle altre.

In base a quali valutazioni dovrebbe essere opportuno spostare quella specifica competenza dal livello nazionale a quella specifica regione? Perché, ad esempio, il Veneto (e non le altre regioni italiane) dovrebbe acquisire dallo Stato maggiori poteri (e risorse) in ambito infrastrutturale? Per quanto paradossale possa sembrare, negli articolati documenti che in particolare le tre citate Regioni hanno messo a punto a sostegno delle proprie richieste non c’è mai una risposta precisa a questa domanda.

Spesso ci si limita a sostenere che l’amministrazione regionale è più efficiente di quella nazionale oggi competente. Ma, a parte che si tratta di auto-valutazioni piuttosto discutibili, e quantomeno da sottoporre a verifica indipendente (ancor più dopo le vicende lombarde di quest’anno), non pare un criterio sufficiente.

Bisognerebbe dimostrare i vantaggi per i cittadini di questa nuova organizzazione. Ad esempio sarebbe meglio per studenti e famiglie che (come richiesto da Lombardia e Veneto) gli insegnanti delle scuole fossero selezionati su base regionale e non nazionale, e che fossero dipendenti dall’Assessorato e non dal Ministero? Ma questo non basta. Perché spostando una competenza dal governo centrale ad un governo regionale bisogna capire cosa potrebbe accadere a tutti gli altri cittadini italiani; questo, anche indipendentemente da qualsiasi considerazione di natura finanziaria.

La scuola italiana funzionerebbe meglio se gli insegnanti di alcune regioni fossero (come oggi) dipendenti del Ministero, e quindi ad esempio con la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro, mentre in alcuni casi il loro status sarebbe diverso e la loro mobilità governata da regole specifiche, diverse da regione a regione? Che cosa succederebbe al sistema infrastrutturale nazionale, alle grandi reti, se alcune parti di esse finissero nelle potestà regionali, e fossero governate con regole diverse da caso a caso?

Si dice: nelle infinite richieste ve ne sono diverse che potrebbero comportare uno snellimento e una semplificazione delle procedure amministrative, a vantaggio dei cittadini e delle imprese. Come detto, la loro estensione è straordinariamente ampia: la legge approvata a riguardo dal Consiglio regionale del Veneto il 15.11.2017 consta di ben 66 articoli! È del tutto possibile che alcune delle richieste di carattere amministrativo possano essere opportune. Ma allora la domanda è: se spostare alle regioni il tale procedimento è chiaramente un bene, perché farlo solo per alcune e non per tutte?

Si ricade, insomma, ancora una volta sulla questione di fondo: non si sta discutendo di formulare nell’intero Paese il quadro dei livelli di governo, alla luce dell’esperienza dei venti anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Come sarebbe opportuno. Ma a patto di prevedere un ampliamento dei poteri regionali in alcuni casi ed una loro riduzione in altri, e di sancire con chiarezza la necessità di regole e principi nazionali di fondo in tutti gli ambiti più importanti.

Si sta discutendo di autonomia regionale differenziata: più poteri e risorse in alcuni territori ma non in altri. È per questo motivo di fondo che questo processo appare potenzialmente pericoloso. Se si vuole migliorare il funzionamento dell’intero Paese, sarebbe ora di ripensare, come appena si diceva, all’equilibrio fra centro e regioni nel suo insieme, in tutti gli ambiti. E di avviare parallelamente quel cammino previsto dalla legge 42 sin dal 2009 di profondo ridisegno delle regole di allocazione a tutte le regioni delle risorse finanziarie correnti, per esercitare i loro poteri, e di risorse finanziarie aggiuntive (ad alcune) per colmare i propri deficit infrastrutturali.

C’è un drammatico bisogno di rendere l’Italia un Paese più giusto ed efficiente; ancora più alla luce della terribile pandemia e di ciò che potrà scaturirne. Per farlo bisogna tornare a discutere a fondo di politica; di regole e criteri generali. Non disegnare scorciatoie straordinarie per alcuni.

da “il Messaggero” del 10 settembre 2020

Le troppe, confuse voci di governo e governatori.-di Massimo Villone

Le troppe, confuse voci di governo e governatori.-di Massimo Villone

È mancato due volte, martedì, il numero legale alla Camera. Dato l’argomento in discussione – comunicazioni del ministro Speranza sul contenimento del virus – una vicenda non banale. Incidente di percorso, o fibrillazioni nella maggioranza? Vedremo. Il voto amministrativo e i ballottaggi hanno rinsaldato Palazzo Chigi. Paradossalmente, la recrudescenza della crisi Covid aiuta, distogliendo l’attenzione dall’emergenza economica e sociale, che invece è già ora, e sarà, il vero punto focale.

Le domande di fondo restano le stesse: quale progetto di paese? Chi decide, come e dove? Come si distribuiscono le risorse Ue? A Bari, alla Fiera del Levante, il premier Conte ha sottolineato l’attenzione per il Mezzogiorno, affermando che “l’Italia intera può recuperare la visione e lo status di potenza economica e industriale del passato se si riparte soprattutto dalle regioni del Sud”.

Ha esaltato le risorse Ue come “opportunità per ricucire il paese”. Per la sede, scontiamo un minimo di dolus bonus. Il 29 settembre a Roma, assemblea di Confindustria, Conte ha richiamato il Sud solo per difendere la fiscalità di vantaggio introdotta. Tuttavia il Nord “non potrà mai crescere in modo sostenuto se non crescerà insieme al Sud e al resto dell’Italia”.

A Roma e Bari si intravede la tesi – copyright Svimez e altri – che nel Sud va avviato il secondo motore del paese. Il 15 settembre il ministro Gualtieri, nelle commissioni riunite bilancio e finanze della Camera, ha implicitamente riconosciuto che le risorse Ue per l’Italia sono correlate al ritardo del Sud. Che dunque – aggiungiamo – ha particolare titolo a beneficiarne. Ma è un indirizzo che non troviamo scritto in chiaro nella Nota di aggiornamento al Def (Nadef) appena pubblicata.

Dunque, si cambia o no rotta rispetto alla strategia di staccare e far correre la locomotiva del Nord, come avrebbero voluto i fautori dell’autonomia differenziata separatista? Forse. In ogni caso, con due interrogativi.

Il primo è sulla coerenza e adeguatezza della strategia operativa. La raccolta indifferenziata di circa 600 progetti da parte di amministrazioni di ogni livello – ora a quanto pare ridotti a un centinaio dal comitato interministeriale (Ciae) – non favorisce chiare priorità e un’idea di paese. Il secondo viene dall’autonomia differenziata. Come interagisce con il piano di recupero e la destinazione delle risorse Ue?

Il 30 settembre nella Commissione per le questioni regionali il ministro Boccia insiste sui Lep, sulla legge-quadro da lui proposta, sulla concertazione tra esecutivi. E a quanto risulta la legge-quadro è inserita tra i collegati alla Nadef, su un binario parlamentare veloce. Gli aspiranti separatisti festeggiano (Corriere del Veneto Venezia-Mestre, 7 ottobre).

È una strategia di cui abbiamo già criticato la debolezza verso la bulimia competenziale del separatismo nordista. Che ne pensa il ministro Boccia del (fallito) tentativo targato Pd di devolvere al Veneto per via di emendamento i servizi ferroviari interregionali da Bologna al Brennero (Giornale di Vicenza, 7 ottobre)? Si spacchetta l’Italia un pezzetto alla volta? Né la legge quadro bloccherebbe la conflittuale cacofonia politica e istituzionale evidenziata dal Covid, e da ultimo ribadita da Zaia (Corriere della Sera, 7 ottobre). Né ancora favorirebbe strategie nazionali di “ricucitura del paese” in settori cruciali: sanità, scuola, infrastrutture, ambiente.

A Bari, alla Fiera, Emiliano ci informa che proprio sui Lep c’è stata una rottura Nord-Sud: “ … insieme ad altre regioni del Sud, abbiamo deciso di non partecipare al tavolo della Conferenza Stato-Regioni che sembrava aver definito, nell’esclusivo interesse del Nord, la questione dell’autonomia e, conseguentemente dei Lep”. Nel modello conferenze gli interessi dei più forti hanno storicamente prevalso, e possono sempre prevalere.

In ogni caso, vittima designata è il parlamento, in prospettiva ridotto a recettore di scelte fatte altrove. E preoccupa che Conte a Bari per i progetti e i fondi Ue annunci strutture ad hoc al fine di “monitorare efficacemente e di realizzare nei tempi certi i progetti programmati”. Sarebbe il caso che tra le tante semplificazioni il governo ne praticasse subito una, su se stesso. Magari parlando un medesimo linguaggio.

da “il Manifesto” dell’8 ottobre 2020

Sud, quante fake news dai Borbone in avanti.- di Alessandro Barbero Prefazione al libro di Marco Esposito "Fake Sud".

Sud, quante fake news dai Borbone in avanti.- di Alessandro Barbero Prefazione al libro di Marco Esposito "Fake Sud".

Fake Sud l’ho divorato da cima a fondo con grande piacere, e dunque sono ben contento di condividere le mie sensazioni con chi si appresta a seguire lo stesso percorso. Questo è un libro che entro una cornice unitaria analizza due argomenti molto diversi, che hanno beninteso un nesso, ma anche una eterogeneità irriducibile; a cui però io, che faccio lo storico, sono forse troppo sensibile.

L’autore Marco Esposito è convinto che siano due facce della stessa medaglia o, per usare la sua immagine, due oscillazioni opposte d’un pendolo: pregiudizi contro il Sud, e fake news neoborboniche a favore del Sud; e s’impegna a smontare gli uni e le altre. A me colpisce di più il fatto che dei pregiudizi contro il Sud, tema che occupa i primi due terzi del libro, l’autore non si limita a dimostrare l’infondatezza.

Nel farlo, invece, imbastisce una formidabile analisi delle scelte politiche degli ultimi anni, e una critica argomentatissima agli effetti perniciosi del federalismo all’italiana.

I primi cinque capitoli, continuazione ideale del suo precedente Zero al Sud, rappresentano un’inchiesta di straordinaria efficacia che offre uno sguardo inedito, e drammatico, sul gioco degli interessi politici e dei meccanismi decisionali nell’Italia di oggi. Per me, che vivo queste cose da cittadino qualunque, informato, come quasi tutti, solo a metà e perlopiù poco interessato a saperne di più (anche se la mia regione, il Piemonte, come rivela Marco assomiglia più a quelle del Sud penalizzate da certe scelte, che non al felice e magico Nordest), questa prima parte di Fake Sud è stata davvero una lettura rivelatrice.

Gli ultimi tre capitoli sono invece dedicati a un fenomeno che conosco meglio, e che certo rappresenta una risposta alla situazione messa in luce nella prima parte, ma è in sé di natura profondamente diversa. È un fenomeno politico solo in modo tangenziale, in quanto spesso recepito in delibere di organi amministrativi locali, ma privo delle colossali ricadute a livello decisionale, di politica sociale ed economica, con cui ci siamo confrontati nelle prime due parti: è un fenomeno le cui ricadute sono tutte a livello di mentalità e di (invenzione della) memoria collettiva.

Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo a partire dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno borbonico e dell’Unità d’Italia. Qui, la gratitudine con cui ho letto i primi cinque capitoli in verità si smorza; perché a me non può non sembrare troppo timida la critica di Marco (…) e troppo compiacente la sua trattazione della tragicommedia dei cosiddetti primati delle Due Sicilie.

Ecco, scrivo quest’ultima frase e mi sorprendo a chiedermi: ma perché ce l’hai così tanto proprio con i primati delle Due Sicilie? Non è forse vero che parecchi di quei primati sono autentici, e che Marco ha ragione di sottolinearlo nel momento in cui garbatamente rileva l’insussistenza di altri? Provo a capire perché proprio questa faccenda dei primati mi fa infuriare, e chissà che non ne esca una chiave di lettura più generale di questi tre ultimi capitoli. Prima di tutto, è per il partito preso.

Se tanti di quei primati sono dimostrabilmente falsi, vuol dire che anche chi li ha messi in elenco poteva verificarlo, e invece non lo ha fatto. Io sono uno storico e so che fare delle affermazioni sulla base di un partito preso, rifiutandosi di verificare gli argomenti in senso contrario, è una cattiva azione e produce sempre risultati bacati.

Ma qui non si tratta di accertare dettagli di interesse puramente erudito, per cui la colpa resterebbe limitata all’ambito della deontologia professionale; si tratta invece di influenzare la mentalità collettiva nel nostro paese e di accendere passioni violente sulla base di informazioni false. Altrove ho scritto che si tratta di un fine immondo, e Marco non è d’accordo; ha ragione lui e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi. Ma il fine, per me, non giustifica mai i mezzi (…).

In questo orizzonte anche “Terroni” di Pino Aprile non è più soltanto una cattiva azione, come è, indiscutibilmente, se letto con gli occhi dello storico, ma diviene un intervento importante su cui è difficile dare un giudizio negativo, perché suscita comunque reazioni necessarie e mobilita coscienze che bisognava svegliare, e pazienza se lo storico si dispiace che per far questo si sia dovuta violentare proprio la storia.

Io, si capisce, non potrò mai seguire Marco Esposito su questa strada, ma posso accettare che il mio sia solo un punto di vista e che ce ne siano altri possibili; anche questa è una cosa che ho imparato leggendo il suo libro. Vorrà dire che, se un giorno mi scoccerò di rodermi il fegato per i primati delle Due Sicilie, scriverò io un libro per fargli le bucce, e chiederò a Marco di farmi la prefazione.

da “il Mattino” del 4 ottobre 2020.

Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico. -di Piero Bevilacqua

Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico. -di Piero Bevilacqua

Un sovrumano silenzio e una profondissima quiete gravano sulla vita dell’Università italiana e il fatto che il ministro che la governa sia un ex rettore, un uomo che viene da quel mondo, non sembra cambiare le cose. La nostra Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, non c’è più. E non l’ha uccisa il Covid 19, ma un insieme di processi e di scelte, che l’hanno radicalmente trasformata.

È antropologicamente cambiato il corpo dei docenti. Da 10-15 anni ha lasciato l’insegnamento un’ampia schiera, quella che potremmo chiamare la generazione dei maestri. Studiosi che dagli anni ’50 in poi hanno portato, accanto ai saperi delle loro discipline, un grande afflato civile, legato alle sorti del paese. È poi seguita un’altra generazione di insegnanti, quelli che da studenti hanno attraversato l’esperienza del ’68 e comunque si sono formati nell’Italia dei conflitti sociali e delle grandi manifestazioni di massa.

Oggi, nella fascia alta dei docenti, dominano figure anche scientificamente attrezzate, ma che vivono il proprio lavoro come un ritaglio specialistico, finalizzato a dei risultati da certificare presso agenzie di controllo. Sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, soffocati da compiti organizzativi mutevoli, spesso di difficile comprensione, da pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni che sottraggono tempo alla ricerca e a un insegnamento non di routine. È comprensibile che questi docenti non abbiano molti legami con la vita politica e culturale della società.

Più in basso lavorano le figure dei ricercatori, che devono attraversare un lungo purgatorio di precarietà, impegnati non a realizzare ricerche fondative per il proprio profilo di studiosi, ma per produrre quanto più possibile titoli – anzi “prodotti” come vengono definiti con gergo di fabbrica- per salire la scala della carriera accademica.

Qui, al gravissimo scadimento scientifico e culturale, che dà luogo a pubblicazioni seriali di brevi articoli e saggi di scarso valore, si accompagna una subalternità politica dei giovani ricercatori. Grazie alla riforma Gelmini queste figure, oggi come nel peggiore passato, debbono la propria possibilità di carriera alla fedeltà ai professori ordinari, e soprattutto alla propria latenza politica, al loro carrieristico conformismo.

Infine un altro grande mutamento ha cambiato i connotati degli studenti. In linea di massima – e questo appare in maniera parossistica nelle Facoltà umanistiche – non studiano per un itinerario formativo, ma vanno a caccia di crediti da mettere insieme secondo una disposizione cumulativa, finalizzata ai risultati, che distrugge alla radice lo studio quale esperienza di riflessione. I ragazzi oggi non ascoltano lezioni, ma corrono da una cattedra all’altra a raccattare punteggi. E occorre ricordare che mai una generazione era stata così tenacemente avversata, come quella dei nostri ragazzi, ai quali viene impedito di proseguire negli studi con ogni mezzo, dal numero chiuso in tante facoltà all’aumento delle tasse universitarie.

Da questo mondo regredito, schiacciato sotto il peso di una ideologia produttivistica che soffoca ogni visione generale, incatenato alla precarietà, non può più venire alcun moto di ribellione, né tanto meno un conato di revisione dello status quo. È necessario che a intervenire sia dunque il ceto politico di governo e lo deve fare al più presto, anche perché molti miglioramenti sono possibili senza esborsi finanziari.

È necessario abolire l’Anvur e i suoi criteri di valutazione industriale della ricerca, cancellare i crediti a partire dal lemma finanziario che li designa, rivedere il 3 più 2 e i percorsi delle lauree brevi, riformare i criteri dell’accesso alla docenza, bandendo la precarietà che è il vessillo funesto dell’ideologia neoliberistica, la pestilenza culturale universale da cui dipendono i fallimenti a catena del nostro tempo.

Nell’Università è urgente un’opera demolitrice di delegificazione. Liberiamo i docenti da compiti inutili di controllo produttivistico. Ma forniamo anche risorse per fare accedere una nuova leva di docenti, che ha accumulato studi ed esperienze e vive ai margini.

Nel momento in cui l’Ue rivede alcuni dei suoi erronei fondamenti costitutivi, occorre ricordarsi che l’Università è una loro vittima, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna”. Non avrei tante speranze, tuttavia, in queste possibilità, se non fosse che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha annunziato un convegno internazionale sul nuovo umanesimo. Dopo decenni di emarginazione dei saperi umanistici dalle nostre università e dalla considerazione pubblica, questa è una novità che sorprende e che ci da qualche speranza.

da “il Manifesto” del 2 ottobre 2020
Foto di Frits de Jong da Pixabay

Università, più fondi a quelle ricche. Beffa per il Centro-Sud- di Gianfranco Viesti

Università, più fondi a quelle ricche. Beffa per il Centro-Sud- di Gianfranco Viesti

Per rilanciare l’economia italiana dopo venti anni di crescita stentata e dopo i profondi danni che sta provocando l’epidemia di covid è indispensabile affrontare alcune grandi, ineludibili questioni. Due spiccano per importanza: i modesti livelli di istruzione delle forze di lavoro e dei giovani, i grandi squilibri territoriali.

Esse si incrociano nella situazione e nelle prospettive del sistema dell’istruzione del Mezzogiorno e in generale del Centro-Sud. Ma, mentre da più parti si sottolinea il suo fondamentale ruolo, e la necessità di un suo potenziamento, le politiche continuano ad andare in direzione opposta.

Ne è esempio il decreto appena predisposto dal Ministero per l’Università che assegna a tutti gli atenei italiani le possibilità di reclutamento di nuovo personale e di progressione di carriera dei docenti in servizio per il 2020. Queste possibilità sono espresse in percentuale rispetto ai pensionamenti di ciascun ateneo; un indicatore, quindi, di ricambio (turnover).

Il calcolo di questo indicatore segue regole complesse: la tabella che accompagna il decreto del Ministro è composta da ben 24 colonne. Ma ciò che pesa di più è l’indicatore che rapporta le spese di personale alle entrate complessive di ciascuna università.

Ora, ed è qui il punto dirimente, fra le entrate complessive si sommano i finanziamenti ministeriali e quanto ciascun ateneo incassa dai propri studenti. Il gettito della tassazione studentesca dipende dalle politiche che ogni ateneo è libero di fare. Ma è legato fortemente al reddito medio delle famiglie degli iscritti; se le famiglie hanno un reddito più alto, pagano di più; e quindi si incassa di più.

Con i forti squilibri territoriali che ci sono in Italia, il reddito medio delle famiglie, e quindi le tasse che esse pagano, sono molto diversi da regione a regione. Dati Istat riferiti al 2014-15 mostravano ad esempio, guardando alle principali sedi, che il reddito mediano delle famiglie degli studenti dell’Università di Catania era intorno ai 16.000 euro; il valore per il Politecnico di Milano circa il doppio, intorno ai 30.000.

Insomma il criterio premia gli atenei che sono insediati nelle città più ricche; che hanno studenti provenienti dalle famiglie più abbienti, che aumentano maggiormente la tassazione. Del tema ci si è già occupati su queste colonne nel novembre scorso: ma nulla è cambiato.

da “il Messaggero” del 26 settembre 2020
Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

Federazione di Regioni, non Macroregione.-di Massimo Veltri

Federazione di Regioni, non Macroregione.-di Massimo Veltri

A leggere alcuni articoli apparsi di recente sulla stampa nazionale pare di assistere a un risveglio della pianificazione e della coesione. Un risveglio che interessa il Sud e i fondi UE a disposizione e interessa più professionalità e soprattutto diversi ambienti culturali e politici. Si direbbe il risveglio del fare e delle competenze, nella cornice di un mai sopito empito meridionalista.

Da che cosa deriva questo ritorno di fiamma, dopo che passata la ‘gloriosa’ fase degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso in cui già solo il termine pianificazione sembrava la chiave di per sé bastevole a risolvere i problemi delle politiche territoriali, siamo precipitati nell’oblio e nella censura non tanto della parola quanto della pratica e dell’approccio riguardanti azioni conseguenti a un ordine razionale di interventi, insediamenti, salvaguardie dei diversi comparti?

L’oblio e la censura erano a loro volta il risultato di una serie di rigidità oggettivamente intrinseche, e penalizzanti, alla concezione prevalente di piano; della proliferazione di strumenti di piano quasi sempre sovrapposti fra loro con difficoltà irrisolvibili per quanto riguarda la prevalenza di uno sugli altri; della difficoltà nel poter prefigurare scenari economici e sociali alla luce delle dinamiche molto accelerate con cui si susseguivano i processi, non ultimo quello relativo alle aree urbane versus aree interne.

Andò a finire quindi che prevalsero la deregulation e l’occupazione indiscriminata di ogni particella di suolo, in barba per di più alle emergenze crescenti in materia di sensibilità, ed urgenze, ambientali e non solo in specie legate alla difesa del suolo, e all’esigenza da più parti avvertita di un indispensabile riequilibrio fra aree di pianura e aree collinari e montane: fra l'”osso e la polpa”.

Mentre per le politiche dedicate al sud è irrimediabilmente prevalsa la pratica del fai-da-te con un’omologazione al ribasso-tranne qualche timida eccezione, s’intende-, una lamentazione ossessiva, un nord-contro-sud esasperato negli ultimi mesi dal regionalismo asimmetrico e dalla malasanità al nord.

Gli scenari via via cangianti negli ultimi decenni sembrano ricevere di recente una nuova o perlomeno diversa connotazione nel dopovirus e nell’utilizzo delle risorse finanziarie di fonte europea: Claudio Signorile introduce la figura di ‘Meridione Federato’ e ritiene sia la soluzione alle evidenti distorsioni che sembrano essere le regole di un sud in eterno ritardo.

Il meridione può crescere, svilupparsi e diventare protagonista di un sistema produttivo del nostro Paese se impegna le energie della sua società in un progetto comune e di forte respiro politico-programmatico, è il senso delle parole dell’ex ministro. Dopo di lui e accanto a lui Ettore Lorio e Giulio De Donato arricchiscono le argomentazioni e le proposte sintetizzabili, per ora, come segue:
– mettere insieme le regioni del sud è il mezzo più efficace per superare ritardi e porre fine a autolamentazioni e, presunte, discriminazioni;
-la competizione fra poveri non aiuta mentre una visione unitaria pur nelle obiettive differenze può servire ad affermare dignità e ruolo;
– si possono coinvolgere, in questa non facile impresa le università, i centri di ricerca, lo Svimez, gli istituti di Fabrizio Barca e di Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS;
-avviare il riequilibrio fra nord e sud in un quadro di risorse che debbono essere considerate non sostitutive di quelle ordinarie, in considerazione del compito fondamentale che riguarda la messa in sicurezza del territorio e la sua infrastrutturazione materiale e immateriale.

Non mancano, è ovvio, le voci critiche, al momento sotto traccia, relative alla provenienza originaria della proposta, dimentiche, forse o solo maliziose, della radice genuina di chiara matrice socialista dell’istituto della programmazione e della pianificazione, grazie a Giorgio Ruffolo a datare degli inizi degli anni Sessanta, quelli del primo centrosinistra.

Si possono e si debbono liquidare come faziose, s’intende, o malinformate. Mentre a quelle del già ministro De Vincenti e del vicedirettore del Corriere della sera Polito è bene dedicare l’attenzione che meritano. Entrambi invitano a discutere e a scegliere fra Federazione di Regioni e Macroregione. E con forza tutt’e due pongono l’accento sul rischio di voler perseguire obiettivi separatisti o in ogni caso in grado di provocare contraccolpi e reazioni da parte delle regioni del nord, se ci si dovesse orientare verso la Macroregione.

Già nelle settimane passate abbiamo letto di durissime prese di posizione da parte del sindaco di Milano e dell’ex direttore del Corriere della Sera, per tacere qui, di esagitati leghisti tipo Fontana e Zaia per non parlar del vertice di Confindustria: tutti volti a magnificare le virtù al disopra dell’Arno e a introdurre, nei fatti, ulteriori elementi di distinguo fra le due Italie.

Parlare di Macroregioni significa, diciamolo, immettere elementi di competitività all’interno delle regioni stesse a tutto discapito di quelle più deboli e comporta allarmi reali e pericolosi per la tenuta del tessuto nazionale. Mentre mettersi insieme a un tavolo con davanti per oggetto le grandi opere di ammodernamento e adeguamento comuni: difesa del suolo, approvvigionamento idrico, trattamento delle acque, gestione dei rifiuti, le reti materiali e immateriali, insieme al recupero delle periferie e il disegno di uno sviluppo sostenibile… tutto questo non è materia di gelosia, di prevaricazione o, come pure alcuni lamentano, di cultura e prassi di pianificazione ex Unione Sovietica.

Più semplicemente e significativamente riassume in sè almeno tre elementi: Un sud che vuole fare, coniugandolo se è possibile con il Sud che sa fare; alzare la testa e affermare: Non si decide solo a Roma, o ognuno per sé; Superiamo angustie e indolenze.

La mole di risorse di provenienza UE è tale che farsi da parte ancora, e proprio qui, è senza esagerare delittuoso: c’è da far superare solo uno scoglio, quello della difficoltà di mettere insieme e di evitare un processo storico qual è quello del gallo ciascuno sopra la propria monnezza.
Forse un pronunciamento ampio, qualificato, autorevole che spinga in tale direzione potrebbe riuscire nel miracolo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 settembre 2020

Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Reddito di cittadinanza, una legge da migliorare non da affossare.- di Tonino Perna

Reddito di cittadinanza, una legge da migliorare non da affossare.- di Tonino Perna

Dal momento in cui in Italia è stato varato il reddito di cittadinanza, con Decreto Legge 4/2019, la gran parte della stampa non perde occasione per attaccare questo strumento. Basta scoprire che una persona che lo percepisce lavori in nero per arrotondare, o magari è un ex-terrorista o un mafioso per buttare fango fino a seppellire questa misura di welfare.

IL FATTO CHE la legge che l’ha istituito non sia priva di contraddizioni, che mettere insieme una misura di sostegno economico ai cittadini «poveri» con una politica attiva del lavoro sia stato un errore madornale, non può farci buttare il bambino con l’acqua sporca. Non dobbiamo dimenticarci che il reddito di cittadinanza, o misure simili di sostegno economico, è in vigore da diversi decenni nella gran parte dei Paesi europei, anche se in forme diverse e con impatto differenziato in base all’entità del reddito minimo garantito ai cittadini.

Il fatto che sia stato voluto fortemente dal M5S e varato durante il governo con la Lega (che era fortemente contraria ma ha dovuto accettare come scambio per avere quota 100), non significa che vada disprezzato e affossato come fanno tanti esponenti politici del centro sinistra, da Renzi a Calenda a diversi esponenti di spicco del Partito democratico.

COLPISCE inoltre anche il fatto che tra gli esponenti della sinistra radicale, intellettuali e politici di professione, che per anni hanno fatto questa battaglia, nessuno di loro si sia alzato in difesa di questa conquista sociale, sostenendo con convinzione una legge che certo va profondamente migliorata ma non abolita come vorrebbero, non a caso, la Lega, Confindustria e una gran parte delle forze politiche presenti in Parlamento.

Finora in Italia hanno usufruito del reddito di cittadinanza poco più di un milione di famiglie con un importo medio di 557 euro, mentre della pensione di cittadinanza – di cui non si parla mai – hanno usufruito 130.000 persone con un importo medio di 238 euro. L’impatto della pandemia e relativa chiusura delle attività si è fatta sentire: da gennaio a oggi è aumentato del 25% il numero di famiglie che percepisce il reddito/pensione di cittadinanza arrivando a coinvolgere oltre 3 milioni di persone.

COMPLESSIVAMENTE a oggi sono stati spesi circa 8 miliardi tra reddito e pensione di cittadinanza, con una distribuzione sul territorio nazionale che favorisce nettamente il Mezzogiorno (dove per altro i 5S avevano preso la maggioranza dei voti anche grazie a questo cavallo di battaglia).

Infatti, nel Mezzogiorno risiedono circa 3,4 famiglie su dieci che abitano in Italia mentre ricevono il reddito di cittadinanza 6 famiglie su 10. Insomma, per la prima volta da molto tempo è stata varata una misura di ridistribuzione territoriale del reddito nazionale, una misura che contrasta le diseguaglianze territoriali, che riduce significativamente la povertà assoluta, anche se non elimina certo le condizioni di povertà relativa, come sostiene l’ultimo Report della Corte dei Conti.

CERTAMENTE è stato un fallimento tutto l’ambaradan messo in campo per una politica attiva del lavoro attraverso i cosiddetti «navigator» che non hanno mai preso il largo. Anche il potenziamento dei centri per l’impiego è stato un flop: solo il 2,2%, secondo gli ultimi dati disponibili, dei beneficiari del reddito di cittadinanza ha ottenuto un lavoro.

Pertanto, va difeso il reddito di cittadinanza, migliorato e magari aumentato il sostegno economico per le famiglie più in difficoltà. Soprattutto, va aumentata la soglia legale entro la quale si possa percepire,lavorando, un reddito aggiuntivo senza perdere il Reddito di Cittadinanza (RdC), altrimenti continuiamo a favorire il lavoro in nero perché il solo RdC non è sufficiente per una vita dignitosa.

da “il Manifesto” del 18 settembre 2020

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Cari amici di Catanzaro,
poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, pur non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione.

Una premessa.

Benché sempre più coperto di cemento e di asfalto, che hanno cancellato, negli ultimi anni, tante campagne e terre incolte, il territtorio del comune di Catanzaro, esteso per poco più di 11 mila ettari, conserva ancora la metà della sua superficie occupata dall’agricoltura. Ospita al suo interno circa 900 aziende che producono prodotti agricoli. A questa informazione occorre aggiungere un altro dato poco noto, che riguarda l’intera regione.

La Calabria è una delle regioni, se non in assoluto la regione più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia. Il che significa decine, talora centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, ecc. Da questo sintetico quadro ci si aspetterebbe che nella città di Catanzaro tutte le mense scolastiche, gli ospedali, i dispensatori automatici degli uffici, fossero costantemente riforniti (anche attingendo alle campagne della provincia) da frutta fresca o trasformata, da succhi di frutta e spremute di vario genere, provenienti da agricoltura biologica o biodinamica.

Così come, almeno d’estate, quando la frutta abbonda di solito nei nostri mercati e mercatini, dovrebbe essere normale avere a disposizione decine di varietà di pesche, di susine, di uva, di fichi.

Invece è noto che niente o quasi niente accade di tutto questo. Poche scuole riescono a rifornirsi di frutta biologica durante l’anno. E d’estate è sempre più raro mangiare frutta prodotta nel nostro territorio o per lo meno in Calabria. Quel che abbonda è merce industriale, pochissime varietà, generalmente scadenti e di scarsa sapidità. Un paio di varietà di fichi del nostro territorio, (quando ne esistono centinaia) e la solita uva da tavola, buona certamente, ma limitata a un paio di varietà,Italia e Regina.

Qualcuno mangia più la nostra superba uva Zibibbo? Riuscite ancora ad assaggiare una delle nostre pesche, succose e gustose di un tempo? O le antiche, sode e saporite Percoche? Solo pesche belle a vedersi, ma senza sapore. In genere vengono dall’Emilia e dirò più avanti come sono prodotte.

A me è accaduto d’inverno, alcuni anni fa (mi auguro che nel frattempo la situazione sia cambiata) di chiedere in più occasoni, in vari bar della città, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere dal cameriere con una domanda: “Fanta?”.
Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta. Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto industriale di una multinazionale. E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza “coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura.

Noi non riusciamo a produrre ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico, culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per la salute. Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.

In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione.Per ottenere tale risultato gli imprenditori, poco tempo prima della raccolta, spruzzano sulle piante dei preparati con ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.

Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per la nostra salute? Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale.Nel 2006 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia scriveva “…A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali, la nostra antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo sempre più esposti alle malattie degenerative…”

Un polo agricolo e scientifico

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda più generalmente le nostre campagne? Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di appassionare i catanzaresi ed entusiasmare i nostri giovani più intraprendenti. La condizione preliminare di questa inversione è un mutamento culturale.

Occorre guardare al territorio non più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati altrove), ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

Qui vi risparmio tutti i problemi di cui soffre l’agricoltura calabrese, meridionale e italiana per responsabilità della Politica Agraria Comune. Cercherò di mostrare quel che è possibile fare anche nelle presenti condizioni. E il punto di partenza del progetto è un luogo dove si scontrano le due contrapposte visioni del territorio: quella che lo vuole utilizzare per costruire edifici e quella che vuole farne leva di economie, di attività agricole e artigianali. E dunque quale punto di partenza più importante per sfidare una vecchia cultura e imporre una nuova visione di economia, dell’area di Giovino?

L’area di questo quartiere nei pressi di Catanzaro Lido, caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio.

A Giovino potrebbe nascere un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi. Non si creda che sia un’operazione del tutto nuova.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito, anni fa, il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Ricordo che anche in Calabria esiste un “parco” costituito dalle varietà di una sola pianta: un ciliegeto nel quale alcuni agronomi, tra cui Antonio Scalise e Franco Santopolo, hanno raccolto decine di varietà antiche di nostri ciliegi che ora crescono nelle campagne di Zagarise. In questo stesso comune è stata realizzata una piantagione di varietà di peri, meli e susine tradizionali. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia, da Paolo Belloni. Qui, questo solitario amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud.Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante.La nuova agricoltura non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni d’Europa, nomerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee, fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne.

Ma in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa trasformazione dei prodotti (vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc), ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per i portatori di handicap, ecc. L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini, protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione, conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio.E questa è una battaglia in corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico straordinario.Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia, soprattutto, l’alimentazione.

Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non chimici. Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa, sesamo, malva, melagrane, ecc.

Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di possibilità di occupazione e di reddito.
Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione artigianale dei prodotti.

Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione, in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Va da sé che dove possibile, soprattutto nelle aree poco suscettibili ad uso agricolo, occorrerebbe impiantare pannelli fotovoltaici, per rendere il distretto potenzialmente autosufficiente per i suoi bisogni energetici. Così come è giusto immaginare spazi per il tempo libero, sport all’area aperta, giochi per bambini. Il diletto dei cittadini deve avere i suoi diritti a pari titolo dell’economia.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifca con i Paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.

Cari catanzaresi,
come sapete, nel territorio di Giovino il Comune di Catanzaro intende avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali. Dunque nuovo cemento e asfalto, che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilita del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare. Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma.

E’ evidente, dunque, che quello del Comune è un progetto vecchio, che dilapida in modo irreversibilie il patrimonio delle nostre terre fertili superstiti, e, anziché creare nuove economie, nuovi posti di lavoro, pietrifica i pochi capitali esistenti. Vi ricordo che oggi voi godete degli spazi e del verde del Parco della Biodiversità, perché quell’area non è stata destinata a edifici, altrimenti oggi questo patrimonio collettivo sarebbe cancellato. Lasciare ai figli e ai nipoti pietre, al posto di terre fertili, a me francamente pare un progetto insensato, ingiusto e sbagliato, contro cui ribellarsi.

foto tratta dal sito fb “Dune di Giovino-Ultima spiaggia”.

Un Paese in ostaggio della «questione settentrionale». -di Francesco Pallante

Un Paese in ostaggio della «questione settentrionale». -di Francesco Pallante

La vicenda dei verbali del Comitato tecnico scientifico, prima secretati dal governo e poi (parzialmente) resi pubblici per timore di una clamorosa sconfessione da parte della giustizia amministrativa, lascia davvero interdetti. Nel metodo e nel merito. Nel metodo. Riconoscere che il Covid-19 abbia costituito e costituisca un pericolo reale non significa ammettere che il governo abbia avuto e abbia carta bianca nel decidere le misure di contrasto.

Tanto più, perché la misura-chiave tra quelle adottabili per evitare la (ripresa della) diffusione della pandemia – la decisione di drastiche misure di distanziamento interpersonale – ha comportato e comporta la limitazione di numerosi e delicatissimi diritti costituzionali. Nei momenti di emergenza la controllabilità delle decisioni e dei comportamenti delle pubbliche autorità è più che mai un imperativo costituzionale, perché è proprio nelle situazioni di pericolo che si vede la saldezza di un regime democratico. Che il governo abbia cercato di tener nascosti i presupposti tecnico-scientifici delle proprie decisioni è, in quest’ottica, un fatto gravissimo e difficilmente comprensibile.

Naturalmente, nessuno pretende che la politica si adegui pedissequamente alle valutazioni degli esperti. Di fronte a ogni questione tecnico-scientifica permane un margine, più o meno ampio, di apprezzamento discrezionale che il governo, nell’esercizio delle proprie prerogative, ha tutto il diritto di utilizzare. Ciò comporta, però, l’assunzione di una responsabilità e, in un ordinamento democratico, il dovere di motivare politicamente le ragioni delle decisioni adottate.

Nel merito. Quel che, in particolare, emerge dai verbali desecretati è che il governo ha deciso – ripeto: nell’esercizio delle proprie prerogative – di disattendere due indicazioni rilevantissime del Comitato tecnico-scientifico.

La prima è quella relativa all’opportunità di istituire come «zona rossa» i comuni di Alzano Lombardo e Nembro: quelli da cui il virus è partito per devastare Bergamo e provincia (il fatto che, dato il quadro normativo, avrebbe anche potuto provvedervi autonomamente la Regione Lombardia non fa venir meno l’eventuale responsabilità politica governativa: una responsabilità più un’altra responsabilità fa due, non zero, responsabilità).

La seconda è quella relativa all’opportunità di decidere provvedimenti di lockdown localmente circoscritti alla Lombardia, al Veneto e ad alcuni territori limitrofi, anziché all’Italia intera. Entrambe le scelte del governo – non chiudere i comuni della bergamasca e bloccare l’Italia intera – sono risultate gravide di conseguenze. Zone importanti della Lombardia avrebbero potuto essere preservate? Il Centro e il Sud Italia avrebbero potuto patire conseguenze socio-economiche incomparabilmente minori? Può essere che il governo abbia avuto buone ragioni per decidere diversamente.

Forse la situazione lombarda è apparsa, nel suo complesso, oramai eccessivamente compromessa. Forse si è temuto che se il virus avesse iniziato a scendere lungo la penisola il Sistema sanitario nazionale sarebbe globalmente – e non solo localmente, come pure è successo – collassato. Forse. Di certo, solo il Presidente del Consiglio e il ministro della Salute potrebbero dirci qualcosa in più. E, a questo punto, dovrebbero sentire il dovere di farlo. Anche perché un dubbio inizia a serpeggiare. Che in misura più o meno incisiva, a seconda che la Lega sia al governo o all’opposizione, il Paese intero sia caduto in ostaggio della – impropriamente detta – questione settentrionale.

E, in particolare, delle regioni del Nord-Est. Dal segretario del Pd a cui nemmeno l’istinto di sopravvivenza impedisce di fiondarsi a Milano per l’aperitivo nel pieno precipitare della situazione sanitaria; alla riapertura generalizzata anziché selettiva, per non «lasciare indietro» il Nord; al ministro per gli Affari regionali che, anziché interrogarsi – apertamente, laicamente – sugli eventuali squilibri del regionalismo italiano rilancia la differenziazione ex articolo 116 della Costituzione, come nulla fosse accaduto;

alla gazzarra in atto sul trasporto pubblico locale (un mondo alla rovescia in cui le regioni meno colpite impongono severe misure di distanziamento e quelle più colpite ammassano senza limiti passeggeri seduti e in piedi); all’incapacità di utilizzare i poteri sostitutivi, attribuiti al governo dall’articolo 120 della Costituzione, contro misure regionali adottate in aperta sfida verso lo Stato centrale: il dubbio è che la sorte di tutti noi sia stata e sia legata agli egoismi politici e agli interessi economici di una parte soltanto del Paese.

da “il Manifesto” dell’8 agosto 2020

Foto di Stefano Ferrario da Pixabay

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

«Salvini allontana la Lega dal Nord», titolava la Repubblica di Lunedì 3 Agosto. Il titolo è stato ripreso prontamente da Giorgio Gori che in un tweet, con l’hashtag #ricominciodalNord, ha esortato il Pd a farsi rappresentanza della parte più moderna ed europea del Paese mettendo il lavoro, la produttività e la crescita in cima all’agenda politica. Non interessa qui entrare nel merito della tattica elettorale implicita nel messaggio, peraltro alla sua ennesima riedizione, quanto interrogarsi circa la sua consistenza fattuale: la rappresentanza politica dei ceti produttivi e dei territori più moderni ed europei del Paese.

O, MEGLIO, la reductio della «questione settentrionale» a una narrazione che cela in un cono d’ombra proprio quegli aspetti della realtà più divergenti rispetto alla condizione di molti paesi europei. Lavoro, produttività e crescita non sono problemi specifici delle regioni settentrionali ma riguardano il Paese nel suo insieme. Utilizzarle come parole d’ordine significa solo inseguire la retorica leghista della prima ora sul suo stesso terreno: la locomotiva dell’operoso Nord e la zavorra dell’assistito Sud.
Ciò non significa negare che le regioni settentrionali non abbiano bisogno di una rappresentanza politica da parte delle forze di sinistra e di centro-sinistra; piuttosto, è urgente sottolineare quali debbano essere i temi e le parole d’ordine di questa rappresentanza.

COME NON RICORDARE, anzitutto, che la pandemia ha portato in prima serata i problemi della fertile Pianura padana che, complice un modello agro-industriale intensivo, è diventata una delle aree più inquinate d’Europa, con conseguenze gravi per la salute dei suoi residenti? Inoltre, varie inchieste giornalistiche e studi accademici – tra questi ultimi Mafie del Nord a cura di Rocco Sciarrone (Donzelli, 2014) – documentano i «mali del Nord» nella sovrapposizione attiva tra mercati legali e mercati illegali.

Questi lavori fotografano un territorio intessuto di relazioni mafiose, sia con le imprese che con le politica locale; in alcune aree del Nord la criminalità organizzata è diventata un importante vettore dello sviluppo locale. L’inchiesta giudiziaria in corso verificherà se queste ombre si allungano anche sulla caserma Levante di Piacenza. A proposito di Nord.

Dal punto di vista politico e della classe dirigente, poi, in questi anni cruciali le regioni settentrionali non hanno dato alcuna prova di coordinamento strategico, pur in presenza di flussi e interdipendenze funzionali importanti. Le dinamiche del ciclo politico e del consenso a breve hanno dominato e annullato ogni capacità di pensiero «orientato al futuro». Di fronte a una progettualità politica macro-regionale carente, Il Nord si riduce a una entità geografico-amministrativa priva di capacità di azione collettiva.

UNA VISIONE STRATEGICA sulla rappresentanza del Nord dovrebbe dare prova di sé nell’evitare slogan semplificatori. Dal punto di vista territoriale, il Nord non esiste più da tempo, se mai è esistito. Come ci sono tanti Sud, allo stesso modo ci sono vari Nord: città medie in crisi, campagne produttive in spopolamento, periferie metropolitane sotto stress, aree interne, rurali e montane. L’Italia è il paese della diversità territoriale e il Nord non fa eccezione (si veda Il Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli, 2020).

Un’Italia in contrazione caratterizzata da vincoli demografici, edifici abbandonati, cantieri bloccati e proprietà invendute, ci ricordano A. Lanzani e F. Curci (in A. De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia, Donzelli, 2020, seconda edizione). Le differenze economiche, sociali e territoriali che ormai separano il Nord-Ovest dal Nord-Est sono per molti aspetti tanto rilevanti quanto quelle che distinguono il Nord dal Sud.

I problemi idro-geologici della Liguria sono paragonabili a quelli di altre Regioni del Mezzogiorno; lo spopolamento delle aree montane del Piemonte ha le stesse conseguenze nell’Appennino calabro; la perdita di valore degli immobili che caratterizza molte città del Nord Italia – dove una casa per una famiglia costa come l’ascensore di un alloggio in centro a Milano – non è dissimile dalle dinamiche dei valori immobiliari delle città del Sud Italia.

IL NORD NON É LA «LOCOMOTIVA» del Paese, come sottolineato nell’appello «Ricostruire l’Italia. Con il Sud» promosso da 29 esperti di Mezzogiorno. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è tatticamente errato, infondato dal punto di vista fattuale e strategicamente miope. I problemi specifici delle regioni settentrionali esistono eccome, ma non sono quelli della retorica che contrappone i «ceti produttivi» del Nord, vicini all’Europa, agli «individui assistiti» del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 7 agosto 2020

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Cara direttrice,

ho letto con interesse la lettera di Tonino Perna, Piero Bevilacqua e altri che ringrazio per le loro riflessioni. Pochi giorni prima del lockdown, abbiamo presentato il Piano Sud 2030, con una premessa e una conclusione: i giovani devono essere liberi di andare, ma devono avere l’opportunità di tornare; di più, il nostro compito è garantire un «diritto a restare».

Durante la pandemia abbiamo assistito a un certo ritorno al Sud, ma non quello a cui ambivamo. Tuttavia, anche il ritorno «forzato», frutto di contingenze tragiche, ci ricorda che la fuga non è un destino irreversibile.

E ora, che fare? Come offrire un’opportunità a questo straordinario patrimonio di energie e competenze che si temeva perduto alla causa del Sud? Come impedire che questo ritorno resti soltanto l’attesa di una nuova ripartenza?

La pandemia ha fatto giustizia di tanti luoghi comuni, a partire da quelli che inquinano da decenni il dibattito tra Nord e Sud, la rappresentazione per cui da una parte c’è la virtù e dall’altra il vizio, e il vizio coincide sempre con la povertà.

I cittadini italiani, tutti hanno mostrato grande senso di responsabilità, accettando sacrifici che hanno consentito di arginare il contagio.
Tra questi, anche i giovani rientrati, in larga maggioranza, hanno seguito scrupolosamente le prescrizioni delle autorità sanitarie.

Eppure qualcuno, che in loro avrebbe potuto vedere la potenzialità del domani o il riflesso delle proprie mancanze di ieri, li descriveva a mezzo stampa o sui social come «untori».

Nulla sarà più come prima, si dice, ma nessuno può sapere come sarà il dopo. Sappiamo solo che non dobbiamo tornare al mondo di ieri. Sarebbe uno spreco.

IN QUESTI MESI abbiamo mobilitato risorse senza precedenti e nuove vie di sviluppo discenderanno dalle scelte europee dei prossimi giorni. Dobbiamo essere pronti e vigili, si sta aprendo una partita che vorrebbe contrapporre sviluppo ed equità: un approccio ideologico di cui abbiamo misurato i fallimenti ma dietro cui ancora oggi si nascondono interessi potenti.

Senza giustizia sociale non può esserci ricostruzione. Senza un riequilibrio territoriale, non solo del Sud ma anche delle aree interne, non ci sarà uno sviluppo durevole, sostenibile.

LA PANDEMIA ha rivelato nuove disuguaglianze. L’innovazione, senza scelte politiche chiare, può essere anche un potentissimo fattore di esclusione sociale. Sull’infrastruttura e i servizi digitali registriamo ritardi inaccettabili. Io stesso ho richiamato più volte gli operatori della banda ultra larga alle loro responsabilità. Anche perché rischiamo di perdere fondi europei, che invece abbiamo riprogrammato con Ministeri e Regioni proprio per sostenere la digitalizzazione delle comunità, delle famiglie e delle imprese al Sud.

Lo dico perché anche così si possono creare occasioni di lavoro buono per i giovani che prima andavano a cercarlo altrove, trasformando aree marginalizzate in ecosistemi dell’innovazione: è accaduto a San Giovanni a Teduccio, può accadere altrove, ne stiamo discutendo con il Ministro Manfredi.

Lo stesso smart working, se accompagnato a nuovi diritti, compreso quello alla «disconnessione», a una più moderna e democratica organizzazione del lavoro, potrebbe diventare una forma strutturale di lavoro dei giovani meridionali, che possono restare al Sud, senza essere costretti a un difficile pendolarismo o a nuove vie di emigrazione.

O riconquistare le aree interne che, a dispetto della retorica sul «secolo delle città», non sono »piccolo mondo antico» ma luoghi in cui maturano modelli di sviluppo e di organizzazione più sostenibili, prossimi ai bisogni delle comunità. E lo abbiamo visto durante la pandemia.

Tra Legge di Bilancio e Dl Rilancio abbiamo destinato alle aree interne oltre 500 milioni, le abbiamo messe al centro della nuova programmazione dei fondi europei. Per garantire servizi ma anche per sostenere le attività economiche e commerciali.

OPPORTUNITÀ CONCRETE per i giovani, che si affiancano a strumenti specificamente rivolti ai giovani meridionali, come il potenziamento di «resto al Sud» o il «credito di imposta per ricerca e sviluppo».

Ma la verità è che, senza un’amministrazione più giovane, non potremo vincere la sfida dello sviluppo sostenibile e del digitale, al centro e nei territori.

Per anni è stato denigrato lo Stato, salvo poi riscoprirne il ruolo nell’emergenza. Ora dobbiamo tornare a dare opportunità di lavoro anche nel settore pubblico, dirlo senza timidezze: riportare nello Stato la generazione esclusa è un grande investimento.

È un impegno messo nero su bianco nel Piano Sud, servono da subito migliaia di giovani qualificati per garantire servizi e realizzare gli investimenti. E potremmo anche partire, grazie a un emendamento parlamentare, con una piccola ma significativa sperimentazione: i dottorati comunali.

LE ISTITUZIONI DA SOLE non possono farcela, devono costruire alleanze sociali. «Alleanza» è una parola chiave del Piano Sud, con cui abbiamo avviato due iniziative: una «Rete» per mettere in relazione chi è emigrato e chi sta nei territori, per far circolare progetti e buone pratiche e un «Osservatorio Sud 2030», per mobilitare la cittadinanza attiva sugli obiettivi di sviluppo del Sud e delle aree interne.

Questo è il succo della lettera-appello che voglio raccogliere: è qui la chiave per rendere i giovani meridionali protagonisti di uno sviluppo nuovo, che li renda liberi di tornare e restare nella loro terra.

Abbiamo vissuto una «lunga notte» del Sud, un’ombra lunga su tutta l’Italia, che via via ha ristretto anche altrove le opportunità per i giovani meridionali.

Ma è tempo di dire, con Rocco Scotellaro: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi».

* L’autore è ministro per il Sud e la coesione territoriale

da “il Manifesto” del 20 giugno 2020