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Lo scandalo della patrimoniale e la necessaria riforma fiscale.-di Alfonso Gianni

Lo scandalo della patrimoniale e la necessaria riforma fiscale.-di Alfonso Gianni

È ben noto che Cesare Beccaria nella sua opera principale non si limitò a pronunciarsi contro la pena di morte e la tortura (pensatore attualissimo come pochi, dato il persistere dei due flagelli), ma si spinse a mettere in dubbio il diritto di proprietà “terribile, e forse non necessario diritto”. Al punto da inquietare un filosofo come Jeremy Bentham, il quale considerava “sorprendente che uno scrittore giudizioso come Beccaria possa avere inserito, in un’opera dettata dalla più ragionevole filosofia, un dubbio sovversivo dell’ordine sociale”.

Ma la virulenta alzata di scudi che in queste ore si sta sollevando contro un emendamento alla legge di bilancio che vorrebbe introdurre una tassa patrimoniale, presentato da Fratoianni e Orfini, non ha nulla da spartire con le finezze di quella diatriba settecentesca.

Nell’accanirsi contro un elementare principio di giustizia fiscale non si teme di sfondare il muro del ridicolo, come Salvini che invita all’arresto immediato degli estensori della norma eversiva. Ma non molto meglio fanno gli altri della destra, nonché i massimi esponenti dei due partiti governativi, tra cui spicca un Di Maio non si sa se più incompetente o in malafede. Il nervo scoperto è stato colpito e la reazione non si è fatta attendere neppure un tempo di riflessione.

C’è chi, pur non privo di conoscenza di dottrine economiche, come De Nicola su La Stampa, scomoda Keynes per dire che non si possono alzare le tasse in un periodo di recessione. Infatti si tratta di vedere chi viene colpito da una tassazione patrimoniale. Non è una novità che la patrimonializzazione della ricchezza italiana sia tra le più alte in Europa. Stando a uno studio dell’Istat e della Banca d’Italia la ricchezza netta delle famiglie italiane è di circa 8 volte il loro reddito disponibile. Era il rapporto più elevato in Europa fino al 2014 poi è andato un poco riducendosi.

Non può esistere alcuna giustizia fiscale se non si incide sulla ricchezza data dal possesso di case e di titoli finanziari. Usciamo dal nostro paese: Warren Buffet nel 2015 ha pagato 1,8 milioni di dollari di tasse sul reddito, per un patrimonio stimato di 65 miliardi di dollari, quindi lo 0,003%. L’emendamento in questione, stando ai più recenti dati forniti da Oxfam, in realtà colpirebbe solo il 10% più ricco che in termini patrimoniali possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana. Secondo dati di Bankitalia risalenti al 2016 la linea di demarcazione in termini di ricchezza netta fra il nono e il decimo decile era di 462mila euro.

In sostanza si tratterebbe di colpire solo il decile più alto e, visto lo scalare delle aliquote previste, anch’esso in modo progressivo, mentre non vi sarebbero effetti ritorsivi sui decili più bassi e quelli intermedi. Senza contare che l’emendamento prevede l’esenzione per le persone fisiche a partire dal 2021 dal pagamento dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui conti di deposito dei titoli.

Naturalmente le grandi riforme, e quella fiscale sarebbe una delle maggiori e più significative quanto a impatto reale sulla distribuzione della ricchezza, non si fanno a colpi di emendamento. Ma poiché lo stesso governo ha ripetutamente affermato che intende avanzare nell’anno che viene una proposta di modifica complessiva del sistema tributario, è bene ricordare che senza l’introduzione di una tassa patrimoniale ordinaria anche il migliore sforzo risulterebbe vano.

Certamente bisognerebbe riordinare le patrimoniali “reali” già esistenti – l’Imu appunto ne è un esempio -; valutare la congruità delle imposte sostitutive sui redditi da capitale; per quanto riguarda la componente immobiliare va fatto riferimento al valore di mercato; vanno studiati tutti i modi per combattere le forme di elusione e evasione che a fronte di una patrimoniale verrebbero scovati.

Andrebbe introdotta una tassa di successione, la cui misura tenga conto dell’entità della patrimoniale ordinaria. Il che permetterebbe un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale sui redditi da lavoro, con una riduzione delle aliquote effettive, a favore di una maggiore progressività secondo il principio costituzionale che nei fatti è stato mortificato e scardinato dalla lunga serie di leggi e leggine che negli ultimi decenni hanno caratterizzato il nostro sistema tributario.

da “il Manifesto” del 1 dicembre 2020
Foto di Peter H da Pixabay

Rischiamo una governance da oligarchi. -di Massimo Villone.

Rischiamo una governance da oligarchi. -di Massimo Villone.

Miti e realtà del diritto costituzionale. Così potremmo definire la lezione che viene dalla lettura di alcune norme della legge di bilancio presentata alla Camera in data 18 novembre (AC 2790), e da altre notizie di contorno. L’art. 150 del ddl prevede la istituzione di un fondo di perequazione strutturale di 4.6 miliardi dal 2022 al 2033.

È in principio cosa buona e giusta, salvo che per la modestia delle cifre, poca cosa a fronte delle decine di miliardi che sarebbero necessari. Ma – si potrebbe dire – è un segnale. Già il 20 ottobre un comunicato (n. 3932) della Conferenza delle regioni dava così notizia del fondo: «Queste risorse … saranno a disposizione delle regioni del Mezzogiorno, delle aree interne e delle aree di montagna non appena sarà approvata la legge sull’autonomia».

Il riferimento era alla cd legge-quadro del ministro Boccia. Non è dato sapere, per la genetica oscurità delle conferenze, come e dove nascesse questa linea. Né in specie se e quali regioni interessate al fondo la accettassero, o chi la sostenesse a Palazzo Chigi. Ma qualcuno deve aver deciso, e certo lo sapeva il presidente della conferenza Bonaccini. Un baratto, melius ricatto: autonomia differenziata in cambio di perequazione infrastrutturale.

Lo stigmatizza duramente Giannola, presidente Svimez, sul Quotidiano del Sud del 31 ottobre. Non si costruisce così la solidarietà tra territori voluta dalla Costituzione. Ma non sorprende, considerando che proprio la concertazione nelle conferenze ha contribuito negli anni ad accrescere i divari territoriali. Nell’art. 150 del ddl bilancio non c’è una formale condizione nei termini indicati.

E si apprende ora che la legge-quadro non è tra i collegati alla legge di bilancio, come invece era stato auspicato e annunciato dal ministro. Non risulta sia mai giunta in consiglio dei ministri. Forse è resipiscenza su una personale strategia di Boccia, che ho più volte censurato come politicamente e tecnicamente sbagliata. Dunque, niente condizionalità e problema risolto.

Ma è proprio così? No. La valutazione delle esigenze e la assegnazione delle risorse passano per l’art. 150 attraverso decreti del premier (dpcm), in ogni caso previo concerto con il ministro delle autonomie e previa intesa della conferenza unificata o della conferenza stato-regioni (presiedute dallo stesso ministro). Concerti e intese sono forme di codecisione. È dunque evidente che se vengono subordinati – sia pure fuori da ogni ufficialità – al procedere del ddl sull’autonomia, questa diventa una condizione di fatto ancorché non prevista formalmente.

L’art. 150 può sembrare parva materia per le cifre, certo non in principio. In ogni caso, conferma sia il favor di Palazzo Chigi per modelli di governance fondati sulla concertazione tra esecutivi, le conferenze e le cabine di regia, sia i possibili effetti negativi. Chi governa davvero, dove, come?

Scelte e indirizzi decisi in modi obliqui, sotterranei, invisibili, e sottratti a forme efficaci di responsabilità politica? Può accadere, e accade. Già la lotta alla pandemia ha mostrato debolezze, soprattutto evidenti nella cacofonia politica e istituzionale dell’ultima fase. Lo stesso potrebbe accadere per la governance dei fondi Recovery. Si discute su una struttura di due ministri più il premier, con un ministro aggregato per i rapporti con la Ue. Comandano su sei manager, ciascuno assistito da 50 esperti (presumiamo di nomina governativa. Lottizzati?).

Qualcuno vorrebbe un direttore generale in capo ai manager. Si parla di poteri sostitutivi e commissari a ogni livello. È emarginato il parlamento, che Conte promette di coinvolgere senza dire come e quando. Con una prima assoluta, poi, il governo si auto-emargina a vantaggio di alcuni suoi membri.

Avremo modo di parlarne. Sarebbe necessaria una legge ad hoc, e non mancherebbero dubbi sulla creazione di un’architettura istituzionale parallela affiancata e sovrapposta a quella disegnata in Costituzione. Emerge un groviglio di competenze. E vogliamo sin d’ora richiamare l’attenzione sulla necessità di garantire la piena trasparenza, pubblicità e documentazione dei lavori, comunque e in ogni sede. Con buona pace della Costituzione e della democrazia, in una vicenda cruciale per il paese rischiamo una governance da oligarchi.

da “il Manifesto” del 1 dicembre 2020

Perché conviene ​difendere i più deboli. -di Gianfranco Viesti.

Perché conviene ​difendere i più deboli. -di Gianfranco Viesti.

Siamo certamente ad un tornante della storia del nostro paese. Questo 2020 ha chiuso un ventennio complessivamente poco felice. Quel che verrà dopo, gli anni Venti, sono ancora avvolti dal mistero, e dal non piccole preoccupazioni. Il futuro del Mezzogiorno, in particolare, è assai incerto: nel bene, e nel male; preoccupazioni e speranze. Riflessioni molto utili per capire un po’ meglio che futuro ci aspetta, e ancor più che futuro più positivo si può costruire, ci vengono dal Rapporto della Svimez, presentato ieri a Roma. Tre grandi temi: i danni certi del covid alla nostra economia e alla nostra società; le caratteristiche della possibile ripresa del 2021; le politiche per costruire scenari più favorevoli.

La conta dei danni è severa. La recessione indotta dalla pandemia farà cadere il PIL italiano di circa dieci punti, ormai lo sappiamo bene. La flessione dell’economia sarà un po’ più intensa nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, ma con uno scarto minimo. La Svimez, formula una domanda a cui non c’è risposta, ma che invita a riflettere su come sono costruite le politiche pubbliche in Italia: “lockdown regionali differenziati in base all’intensità del contagio, anche nella prima fase, avrebbero prodotto effetti economici e sociali diversi”?

Ma ciò che è stato, è stato: e le chiusure hanno prodotto una caduta dell’occupazione molto più forte al Sud: il 4,5% nei primi tre trimestri, il triplo che al Nord; frutto di una struttura dell’occupazione più debole, in cui sono più presenti dipendenti a termine e saltuari, stagionali; di una più vasta presenza di sommerso; di un maggior numero di giovani in cerca del primo lavoro. I giovani e le donne sono stati colpiti, per il tipo di lavori che svolgono, molto più intensamente.

E molto forte rischia di essere l’impatto sugli ancor più giovani: sugli studenti provenienti da famiglie meno agiate e con genitori con più bassi livelli di istruzione, che stanno soffrendo particolarmente la sospensione della didattica in presenza; e che rischiano di subirne un impatto permanente con il rischio di aumento della dispersione scolastica; con conseguenze durature sulle proprie opportunità di vita.

Incrociando le dita, il 2021 potrebbe segnare un significativo rimbalzo: ne abbiamo avuto chiari segnali questa estate; la seconda ondata peggiora il quadro, ma vaccini e fine della pandemia potrebbero innescare una ripresa molto significativa. Ma, nota la Svimez, questa ripresa sarà certamente più sensibile nelle regioni più forti del paese: grazie alla struttura della loro economia, ed in particolare alla presenza di più estese attività manifatturiere, maggiormente in grado di trarre profitto dalla domanda interna ed internazionale.

D’altra parte, è quel che è già avvenuto con la lunga crisi del 2008-14. La previsione, anche tenendo conto degli effetti della Legge di Bilancio (con il provvedimento molto positivo sulla decontribuzione nel Mezzogiorno), è di un +4,7% nel Centro-Nord e di un +1,6% al Sud.

Il covid è crudele: per i suoi tragici effetti sanitari, con i numeri di quanti si sono ammalati e sono morti; e perché i suoi effetti economici colpiscono di più le componenti più deboli della nostra società: da un punto di vista generazionale, di genere e territoriale. Qualitativamente è una crisi più incisiva di quelle precedenti: perché colpisce di più il terziario dell’industria e i lavoratori e le lavoratrici più deboli (ad esempio quelli che non possono lavorare a distanza) più degli altri.

Di qui occorrerà ripartire. E si può farlo, stavolta. Bene essere preoccupati; ma indispensabile nutrire la fiducia. La grande svolta delle politiche europee ci dà la possibilità del Piano per la Nuova Generazione (Png); è bene chiamarlo così, con il suo nome ufficiale (e non “piano di rilancio”) perché rende più chiaro chi devono esserne i principali beneficiari. Piano che si sommerà ad un nuovo ciclo di fondi strutturali.

Sarà cruciale che le risorse del PNG siano investite in modo molto attento alla dimensione territoriale: se un terzo andasse al Mezzogiorno (un valore che dovrebbe rappresentare un minimo, da incrementare), potrebbe farne crescere l’economia complessivamente di 5,5 punti nel 2021-24, ci dice la Svimez. Ma soprattutto potrebbe incidere su quelle condizioni strutturali che ne rallentano lo sviluppo; e sulle quali ben poco si è fatto negli ultimi venti anni. Potenziandone le reti urbane e di collegamento, ad esempio; valorizzando le sue attività energetiche, agroindustriali, logistiche; accrescendo fortemente i livelli di formazione e di istruzione tanto dei suoi giovani quanto di coloro che già lavorano. Investimenti pubblici che creano le condizioni anche per investimenti privati.

L’Italia degli anni Venti può essere molto diversa da quella di oggi: in peggio, ma anche in meglio. In questi mesi ci giochiamo molto: con il disegno del PNG e dei suoi progetti; con la capacità di avviare contemporaneamente un ciclo di fondi strutturali molto diverso da quelli del passato.

Ma soprattutto con l’impostazione di fondo di queste misure: la circostanza che esse non siano un mero piano di “recupero” dell’Italia com’era; ma un progetto di trasformazione: verso un paese non solo, come si legge nei documenti europei ed italiani, più “verde” e più “digitale”, ma anche meno diseguale: dal punto di vista sociale, generazionale, di genere e territoriale. Le due cose vanno insieme: un paese più inclusivo, meno dispari, è anche un paese che può crescere più e meglio. Sarà essenziale che nei prossimi mesi questa convinzione si affermi sempre più, e che si trasformi in atti concreti. @profgviesti

da “il Mattino” del 25 novembre 2020
Foto di Aleš Kartal da Pixabay

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

Da una recente ricerca della Svimez emerge un dato di grande rilevanza, che potrebbe rappresentare una svolta storica nel rapporto Nord-Sud nel nostro paese. La Svimez, infatti, ha stimato che nell’anno in corso ben 45.000 giovani meridionali a causa della pandemia sono tornati nel Mezzogiorno, continuando a lavorare in smart working. L’inchiesta è stata condotta su un campione rappresentativo di aziende con oltre 250 addetti, ma prendendo in considerazione il resto dei rientrati (comprendendo insegnanti di scuola e Università) sempre la Svimez stima in circa centomila il numero dei giovani rientrati al Sud che lavorano a distanza.

Per richiamare l’attenzione del ministro Provenzano su questo fenomeno (in quel momento soltanto intuito grazie all’iscrizione dei giovani alle liste regionali per entrare in volontaria quarantena) avevamo scritto una lettera aperta che è apparsa sul Manifesto del 21 giugno ed a cui il ministro ha cortesemente risposto. Purtroppo, a tutt’oggi non vediamo una traduzione concreta di quell’appello che mirava a creare un rapporto stretto tra le istituzioni e questi giovani rientrati nel territorio meridionale.

Ma, quello che non hanno fatto decenni di politiche per il Mezzogiorno, più declamate che fattuali, l’ha fatto l’invisibile mister Covid. Improvvisamente, la fuga dei giovani dal Mezzogiorno non solo si è arrestata, ma si è registrato un, inatteso, grande rientro. Ora, si tratterà di capire quanto di questo cambiamento radicale dei flussi migratori nel nostro paese resterà finita la pandemia. E non riguarda solo il Mezzogiorno, ma tutte le aree esterne al core dello sviluppo economico italiano. Anche nel Centro e nel Nord esistono le cosiddette “aree interne” marginalizzate che hanno visto un rientro di giovani dai grandi centri urbani e aree metropolitane.

Insomma, stiamo assistendo ad un insperato riequilibrio che andrebbe analizzato nei dettagli e accompagnato da politiche che lo incentivino, offendo adeguati servizi: sanità efficiente, connessione digitale, animazione culturale, ecc. Questo “new deal” riguarda non solo il governo, ma anche gli enti locali e il sindacato. Il governo potrebbe incentivarlo sgravando gli oneri sociali alle aziende del Nord per ogni lavoratore in southworking. Gli enti locali potrebbero offrire spazi pubblici gratuiti per il cooworking, oltre a migliorare i servizi pubblici e la connessione digitale.

Ci sarebbe da ripensare il contratto di lavoro in questa chiave di riequilibrio territoriale, che potrebbe offrire dei vantaggi alle grandi città, decongestionandole, quanto alle aree marginali, rivitalizzandole, ma anche agli imprenditori (che potrebbero avere dei risparmi, pensiamo per esempio ai buoni pasto, o ai minori spazi da utilizzare) e ai lavoratori che stando al Sud potrebbero risparmiare sul costo dell’abitazione, sul trasporto, sulla cura della casa e dei figli, ecc. Certo, si perderebbe in socialità, e non è cosa di poco conto, ma si potrebbe anche a pensare a periodi in presenza e periodi di lavoro a distanza.

In breve, si apre una nuova stagione del rapporto tra “luoghi e lavori” che da sempre coincidevano, salvo per sparute élite. Per secoli posto di lavoro e abitazione erano necessariamente vicini e duravano, spesso, per tutta una vita. Adesso, entriamo in una nuova fase che la pandemia ha solo accelerato e che ci offre delle opportunità da non perdere, a partire dal Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 24 novembre 2020
Foto di Alexey Györi da Pixabay

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

Tra gli effetti indesiderati della pandemia che continua a sconvolgere la vita quotidiana di miliardi di persone c’è il drammatico restringimento del nostro immaginario. Gran parte dei nostri pensieri è assorbita dall’andamento della malattia e dal corredo di conseguenze che trascina con sé. Problemi economici e sociali di rilevante urgenza scompaiono dalla vista generale e dal pubblico dibattito.

In Italia è il caso di tantissime questioni fra le quali spicca la ventilata riforma fiscale, che solo in questi giorni il presidente del Consiglio Conte ha opportunamente ripescato dall’oblio generale, ponendola come uno degli obiettivi dell’agenda governativa per il 2021.

Torno sul tema perché va richiamata l’attenzione di tutte le forze democratiche. Se vogliamo che la riforma annunciata non si esaurisca in un semplice aggiustamento dell’ordine esistente, è necessaria un’ampia mobilitazione dell’opinione pubblica e soprattutto una spinta sociale nel paese che faccia sentire il suo peso sul Parlamento e sul Governo.

Solo realizzando un ordinamento fiscale coraggiosamente progressivo si abbatte il caposaldo che ha retto le politiche neoliberiste degli ultimi 40 anni: la bassa pressione impositiva sui ceti ricchi e le grandi fortune.
Questa scelta, inaugurata da Thatcher e da Reagan, era sostenuta da una teoria economica che l’aveva nobilitata, quella dell’offerta, la cosiddetta supply side economics.

Secondo questa scuola di pensiero diminuire il carico fiscale ai ceti ricchi avrebbe portato più investimenti, posti di lavoro, maggiore ricchezza generale. Già nel 1998, molto prima della grande crisi del 2008, il premio Nobel Paul Krugman l’aveva definito un “errore economico” di cui “gli eventi hanno dimostrato la falsità”. Mentre il suo connazionale, James Galbraith, che ribattezzò la teoria in supply side failure, cioé fallimento, ha ricordato nel 2009 che i ceti ricchi favoriti dall’allentamento fiscale “hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili”.

La distruzione del sistema fiscale su cui nel Dopoguerra aveva poggiato lo stato sociale è alla base delle inaudite disuguaglianze che lacerano le nostre società, in Italia hanno accresciuto in forme abnormi la ricchezza privata e la povertà pubblica, contribuendo non poco alla crescita del suo debito. Alberto Banti ha appena fornito un quadro ricco di dati su tutto questo che illustra in maniera schiacciante l’andamento delle ricchezze negli ultimi 40 anni connesso ai sistemi fiscali neoliberisti (“La democrazia del followers”, Laterza)

Se vogliamo comprendere le ragioni ultime dell’emarginazione della sanità pubblica, del definanziamento di scuola e università, dell’impoverimento generale dei comuni, della decadenza delle nostre città, dell’assenza di investimenti statali strategici, le dobbiamo cercare in gran parte nel del nostro sistema fiscale.

È davvero avvilente assistere in questi giorni drammatici della vita nazionale allo spettacolo di infermieri e addetti alle pulizie degli ospedali costretti a urlare per le strade la miseria dei loro salari a fronte di lavori massacranti. Mentre sappiamo quante fortune sono ammassate e si vanno ammassando presso tanti settori e ceti, anche in questi mesi che per tanti italiani sono stati di lutti e di angoscia.

Non si capisce, dal momento che nessuna solidarietà viene al paese da tali ambiti, perché il Governo non intervenga con un prelievo d’emergenza finalizzato ai problemi urgenti che incombono. Se non si opera in questi momenti allarmanti della vita nazionale, quando la necessità del sacrificio comune è così evidente, allora quando? Tanti nel Parlamento e forse nel governo non vogliono guastarsela con i potenti che sostengono con discrezione le loro campagne elettorali. Guardano ai personali interessi, fine ultimo del loro agire politico. Sarebbe meglio non dimenticare che quando usciremo dalla pandemia ci attende un debito pubblico gigantesco e senza un sistema fiscale di incisiva progressività il paese tracolla.

Per questo credo che la sinistra e soprattutto le forze sindacali – le uniche organizzazioni che oggi hanno una capacità di mobilitazione popolare – devono guardare a questo passaggio strategico nella vita italiana. La riforma fiscale decide una svolta strutturale nell’assetto economico e sociale del paese. Perciò i sindacati devono muoversi con tutta la loro forza su questo aspetto che non riguarda vertenze e salari.

Mentre noialtri cani sciolti della sinistra, con tutti i mezzi di cui disponiamo, dai giornali alle riviste, dai social alle campagne on line, non dobbiamo dare tregua ai sabotatori nascosti in Parlamento, e mostrare quanto l’ingiustizia fiscale sia alla base del declino recente dell’Italia.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2020
Foto di b0red da Pixabay

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Un essere invisibile, anzi un non-essere, visto che questo virus a Rna non ha vita autonoma, ha sconvolto economia, società e vita quotidiana di mezzo mondo. Ha abbattuto il muro dell’austerity europea, aprendo una autostrada alla spesa pubblica in disavanzo. Ricordiamoci che ancora a novembre dell’anno scorso il nostro governo discuteva di quale zero virgola si poteva sforare il tetto imposto da Bruxelles.

Sempre lui, mister Covid, ha fatto emergere tutte le contraddizioni del sistema sanitario, non solo in Italia, mettendo a nudo i disastri di un processo di privatizzazione della salute. È difficile oggi, almeno in Europa, contestare il fatto che la salute dei cittadini è un bene comune che deve essere goduto, gratuitamente, da tutti i residenti in un determinato paese.

Il Covid ha fatto saltare le contraddizioni di questo modo di produzione, sia sul piano delle diseguaglianze sociali che territoriali. In Italia, poi, è esploso il conflitto tra Stato e Regioni e la maggioranza dell’opinione pubblica oggi vorrebbe il superamento della disunità d’Italia, provocato dalla Riforma del titolo V della Costituzione che ha dato poteri sproporzionati alle regioni (come ha ben denunciato Massimo Villone su questo giornale).

Infine, in questi mesi di incertezza, confusione istituzionale, panico crescente, gli italiani hanno scoperto che esiste una Regione che non sembra far parte dell’Italia e della Ue. Nell’immaginario prevalente sui mass media si tratta di una terra selvaggia, abitata da criminali senza scrupoli, dove tutto è abbandonato, dalle strutture economiche a quelle sanitarie, fino al dissesto idrogeologico che portò Giustino Fortunato a definirla «sfasciume pendulo sul mare».

Dagli anni ’50 fanalino di coda di tutte le statistiche che riguardano reddito, consumi, occupazione, e ai primissimi posti nella graduatoria mondiale della criminalità organizzata, la Calabria è ormai considerata, anche nella sinistra parlamentare, come una Regione a perdere, dove si possono mandare gli scarti della dirigenza nella pubblica amministrazione. Se in tutta Italia la sanità è stata oggetto di ruberie, malaffare e criminalità organizzata, qui sembra che esista solo questo e non ci siano speranze di cambiamento.

Ma, grazie sempre a mister Covid, sono diventate insostenibili, esplosive, le contraddizioni della gestione politico-amministrativa della sanità in questa Regione. Il governo non può più permettersi di sbagliare ancora una volta mandando commissari alla sanità che sembrano usciti da un circo equestre. I calabresi, ovvero quella minoranza che non si è rassegnata, hanno esultato di gioia alla notizia del premier Conte di inviare Gino Starda, il fondatore di Emergency.

Certo non mancano le voci del campanilismo becero («non abbiamo bisogno di stranieri»). Non sanno di che cosa parlano, o forse lo sanno bene e temono di perdere i benefici che il sistema politico calabrese gli ha da sempre garantito. Val la pena ricordare che Emergency è presente nella piana di Gioia Tauro- Rosarno da più di un decennio, lavorando fianco a fianco con i migranti delle baraccopoli-tendopoli dell’area, privi di protezione sanitaria.

Pochi sanno che Gino Strada e la sua Ong dovunque abbiano operato hanno valorizzato le risorse locali, formato giovani medici e infermieri, reso possibilmente indipendenti dall’aiuto esterno i territori in cui operano. Anche qui in Calabria esiste una società civile organizzata che può dare un importante contributo a Gino Strada e alla sua equipe se decidesse.

C’è un consorzio di oltre settanta associazioni, fondato da Rubens Curia, insieme a Progetto sud (forse la più antica e significativa esperienza meridionale di welfare comunitario) che da anni lotta per ottenere i diritti dei malati, dei diversamente abili, dell’infanzia, ecc. Si tratta di mettere insieme un’esperienza internazionale, come quella di Emergency, con le migliori risorse umane che esistono in Calabria, per ridare a questa terra e ai suoi abitanti la dignità e i diritti che gli spettano. Fateci sognare in tempi di lockdown.

da “il Manifesto” del 17 novembre 2020
foto: Ambulatorio Emergency a Polistena (RC)

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Da Repubblica del 9 novembre Oscar Giannino ci informa, con un articolo dal titolo «I colpi della pandemia riapriranno le ferite del divario nord-sud», sugli esiti inevitabili della crisi. Il calo del Pil ridurrà le risorse prodotte dal Nord e devolvibili alla perequazione territoriale. Cita di passaggio il recente libro di Giovanardi e Stevanato Autonomia, differenziazione è responsabilità, in cui si legge che il trasferimento di risorse pubbliche al Sud è stato negli anni massiccio, e totalmente fallimentare.

Su una linea analoga si erano espressi il 2 ottobre Galli e Gottardo, autorevoli economisti della Cattolica, con un saggio sull’Osservatorio dei conti pubblici italiani. E già il 4 maggio 2019 Tabellini, ex rettore della Bocconi, in un articolo sul Foglio scriveva : «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli». In tutte queste prospettazioni il tentativo di ridurre il divario Nord-Sud, comportando uno spreco di risorse, reca al paese danno, e non vantaggio. Ne segue il corollario, esplicitato o meno, che è nell’interesse del paese concentrare le risorse disponibili sulla locomotiva del Nord. Meglio per tutti se il divario rimane.

Si rafforza e si manifesta lo schieramento che nega ad un tempo lo scippo di risorse a danno del Sud da parte del Nord, e la riduzione del divario tra le due Italie. È una cannonata contro l’opposta tesi che l’Italia non esce dalla crisi se non rilanciando il Sud come secondo motore produttivo del paese: solo così può essere fermato e invertito il declino che ha devastato il Sud ma ha colpito – sia pure in misura assai minore – anche il Nord. Tesi sostenuta dalla Svimez e da autorevoli economisti, e soprattutto, almeno prima facie, accettata dal governo nelle sue scelte di politica economica e negli orientamenti nella utilizzazione dei fondi Recovery, anche in osservanza delle indicazioni UE.

Le due narrazioni contrapposte trovano aggancio in due serie di dati divergenti, entrambe di matrice pubblica: una, dei Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione, per cui ai cittadini del Nord sono assegnate risorse pubbliche pro capite in misura maggiore che ai cittadini del Sud; l’altra, di provenienza Istat e Bankitalia e ora adottata da Galli e Gottardo e dall’Ocpi, che dice l’esatto contrario. Se fosse una contrapposizione accademica, potremmo non occuparcene. Ma sono ovvie le implicazioni per le scelte di politica economica e gli indirizzi di governo, inclusa la risposta alla crisi Covid.

Il 9 novembre, in un seminario presso la Fondazione Astrid su «Il ruolo del Mezzogiorno per la ripresa», il ministro Provenzano ha dato un’ampia informazione delle iniziative del governo. Nessuno dubita del personale e forte impegno del ministro a favore del Mezzogiorno. Ma può la sua posizione decisivamente orientare le politiche del governo nel suo complesso? Qualche domanda si pone.

Delle due serie di dati contrapposti prima richiamate, quale è adottata da Palazzo Chigi ai fini delle scelte e degli indirizzi di governo? Il ministro Provenzano assume quella dei Conti pubblici territoriali. Ma non sembra, ad esempio, di poter dire lo stesso per il ministro Boccia. Come conciliare con l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud la sua debole proposta di legge-quadro sull’autonomia differenziata, che vuole collegare al bilancio pur essendo tecnicamente inidonea a frenare le pulsioni separatiste? Andrebbe tolta dal tavolo.

Come scommettere sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) come elemento decisivo di equità territoriale, dopo il fallimento del loro equivalente sanitario (Lea) e la conseguente frantumazione del servizio sanitario nazionale? Come assumere le conferenze e la concertazione tra esecutivi come luogo e metodo di un nuovo regionalismo – come suggerisce in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali il 30 settembre – quando l’esperienza passata ne dimostra gli effetti negativi sulla coesione territoriale, e la crisi Covid oggi ne conferma in termini anche più generali le pesanti conseguenze?

Avremo un ritorno della questione meridionale o di quella settentrionale? Lo vedremo sul palcoscenico del dopo Covid, dove si recita a soggetto. Il che può anche andar bene, a meno che gli attori non mostrino di essere – magari con eccezioni lodevoli – guitti di secondo ordine.

da “il Manifesto” dell’11 novembre 2020

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Il generale dei carabinieri in pensione, Saverio Cotticelli, nominato commissario della sanità in Calabria dal primo governo Conte, sembra arrivato su quella poltrona da un altro pianeta.

Non sa niente sul piano sanitario anti- Covid, scopre che doveva essere proprio lui e non la Regione, a doverlo costruire. Questa storia, tragicomica, fa riflettere sul ruolo del giornalismo d’inchiesta, lavoro prezioso per tutta la comunità nazionale. Ma, allo stesso tempo, scoperchia negligenze, ritardi, mancanza di controllo. C’è da chiedere al ministro Speranza: a) perché non ha cacciato per tempo questo commissario, b) se esiste un sistema di controllo sull’operato di questi commissari o se, una volta nominati, purché non disturbino il potere romano, possono restare al loro posto. C’è da chiedere ai partiti del centro sinistra, all’opposizione nel Consiglio Regionale della Calabria, come mai non si siano accorti che a capo della sanità c’era questo personaggio inqualificabile, irresponsabile, assolutamente non competente.

Adesso se ne è accorto, grazie al giornalista Walter Molino, anche il premier Conte che ha immediatamente dimesso l’improbabile carabiniere-commissario.

Problema risolto? Assolutamente no. Il commissario Cotticelli deve rispondere penalmente dei gravi danni inferti alla salute dei cittadini calabresi, del danno economico alle imprese e ai lavoratori avendo determinato la dichiarazione di zona rossa per la Calabria, con la sua gravissima omissione di atti d’ufficio. Se un commissario rischia solo il licenziamento si pone un grave problema di discriminazione rispetto agli altri cittadini ed amministratori della res publica che rischiano processi penali e civili per ogni infrazione, sia pure senza scopo di lucro.

Ancora una domanda inevitabile: vorremmo capire in base a quale valutazione l’ex ministro Giulia Grillo (M5S) abbia scelto, per gestore un settore così delicato e complesso come la sanità calabrese, un generale in pensione. Siccome non credo che l’on Grillo abbia la voglia di rispondere le posso facilitare il compito.

Si nomina un generale dei carabinieri in pensione per gestire la sanità in Calabria, afflitta da debiti-corruzione-malgoverno, perché si riduce la questione sanitaria a questione criminale.

Così come questo governo ha nominato al ministero dell’ambiente un generale delle guardie forestali, come se la complessità dell’ecologia si potesse ridurre alla repressione delle mafie.

Da quando, anni ’90 del secolo scorso, la “questione meridionale” è stata ridotta a “questione criminale”, la Calabria è diventata l’avamposto di questo brand, per cui nessuno batte ciglio se commissariano decine e decine di Comuni, di enti pubblici, fino ad arrivare al sistema sanitario, comprese le Asp, anche loro commissariate.

Per quanto ne sappia non ho mai visto una commissione d’inchiesta insediarsi per monitorare l’operato di un commissario. Conosco commissari che hanno operato bene, e andrebbero premiati, ma quelli che hanno fatto poco e nulla, che hanno bloccato tutto, lasciando morire d’inedia intere città, preso uno stipendio giusto per tenere in caldo una poltrona, nessuno li ha mai giudicati.

da “il Manifesto” dell’8 novembre 2020

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dalla OMS, nel mese di settembre, come un modello da seguire a livello mondiale? L’Italia che guardava con sufficienza gli altri paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia e già pensava al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles. In meno di due settimane è cambiato tutto.

Gli esperti l’avevano preannunciato questa estate, sia pure con cautela, che una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo…- ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state assolutamente inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo di fronte a una tragedia che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. Insomma, siamo di fronte a quella doppia epidemia lucidamente disegnata da Norma Rangeri nell’editoriale di domenica scorsa.

Se possiamo fare un paragone, fatti i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra economia. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio.

Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione. La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro. Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo.

Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, ecc. un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.

da “il Manifesto” del 28 ottobre 2020
Foto di Sebastian Thöne da Pixabay

I luoghi comuni sul Sud palla al piede e mangiasoldi.- di Massimo Villone

I luoghi comuni sul Sud palla al piede e mangiasoldi.- di Massimo Villone

La crisi sanitaria si intreccia con l’economia, la politica e le istituzioni. L’attenzione è tutta sui conti quotidiani del contagio, ed è comprensibile. Ma altre vicende in atto, oggi in parte oscurate dal fracasso mediatico, peseranno sul paese anche dopo la pandemia.

Il 2 ottobre Galli e Gottardo, economisti della Cattolica e dell’Osservatorio per i conti pubblici italiani (Ocpi), attaccano il Mezzogiorno con un saggio che ho già citato su queste pagine. La tesi di fondo è che la spesa pubblica ha favorito e favorisce il Sud, ma non ne ha risollevato né può risollevarne le sorti, perché il Sud non riesce a beneficiarne per la debolezza delle istituzioni (in ipotesi, inefficienti, clientelari e quant’altro). Cottarelli e Galli ribadiscono la tesi (Domani, 14 ottobre). L’Agenzia per la coesione, voce pubblica e ufficiale, giunge nei Conti pubblici territoriali (Cpt) a conclusioni opposte. È seguita dalla Svimez, da studiosi e commentatori, tra cui io stesso. È censurata dagli economisti Ocpi. Qualcuno sbaglia, o magari imbroglia?

È semplice. Si espungono alcune voci dalla spesa pubblica computabile nel raffronto Nord-Sud, e per magia non è il Nord che scippa al Sud, ma il Sud che scippa al Nord. Ocpi espunge anzitutto società quotate in borsa come Eni, Enel, Poste Italiane e Leonardo, essendo «pressoché inevitabile che la spesa di queste società sia maggiore nelle regioni più ricche, in cui la domanda è più elevata e le opportunità d’affari sono tipicamente maggiori». Una questione esclusivamente di mercato? L’argomento prova troppo. Portandolo fino in fondo, qualunque politica di riequilibrio territoriale sarebbe preclusa a quelle società. Anzi, potrebbero solo dividere ulteriormente il paese. Ma allora come giustificare la presenza pubblica? La sola risposta sarebbe una privatizzazione integrale.

Si espunge poi la spesa pensionistica. Al Nord più lavoro, più reddito, più contributi, più pensioni. È un dato puramente fattuale, non una scelta. Quindi la spesa pensionistica non va conteggiata. Ma le pensioni in atto sono – e saranno per molti anni – basate anche sul metodo retributivo, e quindi almeno in parte a carico della fiscalità generale. Ancora, al Sud la vita costa meno. Dimenticando che i servizi di cui dispone il cittadino del Mezzogiorno sono di gran lunga inferiori. Infine, chiude la partita la debolezza istituzionale, perché in essa si bruciano le risorse pubbliche che non giungeranno mai a migliorare le sorti del Sud. Quindi, sono uno spreco che reca al paese danni, non vantaggi. Concorrono persino ad accrescere il debito pubblico.

Siamo chiari su un punto. Nessuno assolve il ceto politico e le classi dirigenti del Sud, certamente colpevoli. Né si nega la necessità di scelte oculate (come chiedono Drago e Reichlin (Corriere della Sera, 19 ottobre). Ma le false rappresentazioni e i luoghi comuni sul Sud, che sono alla base dell’autonomia differenziata, tali rimangono anche in panni di accademia. Oggettivamente, si spara a chi vorrebbe assumere tra le priorità essenziali per i fondi Ue un favor per il Sud allo scopo di ridurre il divario territoriale. Al tempo stesso, si offre un assist al separatismo dell’autonomia differenziata. Alla fine, secessione dei ricchi e spacchettamento in repubblichette diventano cosa buona e giusta.

E Boccia? Abbiamo già criticato la debolezza della sua proposta, e non ci ripetiamo. Quanto al nuovo regionalismo che predilige, tutto concertazione tra esecutivi e conferenze, è palesemente a rischio di letture strumentali e in malam partem. Vediamo poi commenti per cui il premier Conte vorrebbe evitare scelte impopolari mettendole nelle mani dei governatori, già sicuri di aver guadagnato come categoria un Oscar alla carriera per l’emergenza sanitaria. La sintonia con la strategia Boccia è evidente. Ma l’istinto di sopravvivenza di Conte si traduce in una debolezza di tutte le istituzioni nazionali.

Sono in campo letture alternative dell’Italia che verrà. Le truppe sono schierate. Si coglie la vacuità e in qualche punto la pericolosità della proposta riformatrice in giallorosso, dal taglio del parlamento ai correttivi di là da venire. Mentre a destra avanza un progetto ben più concreto e condiviso di frammentazione in chiave di autonomia differenziata bilanciata dal presidenzialismo. Bisogna vigilare e resistere. Ogni passo ci allontanerebbe dalla Costituzione e dalla Repubblica una e indivisibile.

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

“Ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro”, scrive papa Francesco ad avvio della sua enciclica ‘Fratelli tutti’, esprimendo un’impressione che domina oggi l’immaginario collettivo. Negli ultimi tre decenni si è aperto il vaso di Pandora da cui sono usciti odi e fanatismi dimenticati, l’individualismo sfrenato ha disfatto il tessuto delle relazioni umane, la competizione è diventata la regola di ogni rapporto fra le persone come fra i gruppi e gli stati, i conflitti politici e le dispute territoriali si trasformano in guerre sanguinose.

Ma come poteva essere diversamente? Sono trent’anni che le classi dirigenti, gli uomini politici, gli intellettuali, i media assediano giorno dopo giorno la nostra mente con un unico e ossessivo messaggio: occorre crescere, incrementare la produttività, rendere il sistema competitivo, il lavoro flessibile, accettare la sfida della globalizzazione, ecc. Poteva un dominio così esteso e durevole del pensiero unico sulle nostre società restare senza effetti sul fondo antropologico delle culture collettive, delle psicologie, dell’etica e del comportamento dei singoli come degli stati?

Ho sempre osservato con stupore la suprema indifferenza per gli esiti sociali, umani, morali (di quelli ambientali sarebbe pretendere troppo) con cui gli economisti di tutte le tendenze, anche progressisti, dettano le loro prescrizioni a sostegno della crescita. Ricordo qui per brevità il caso degli economisti agrari.

Non c’è un loro manuale che non prescriva oggi la formazione di aziende di grandi dimensioni, le monoculture, la crescita della produttività del lavoro attraverso le macchine, la proiezione verso i grandi mercati, l’abbassamento costante dei costi e quindi la competitività del prezzo dei prodotti.

Ma queste prescrizioni hanno come effetto la scomparsa degli uomini dalle campagne, e dunque la perdita di tanti territori che rimangono senza presidi, una agricoltura inquinante che produce in eccesso e impoverisce la fertilità dei suoli, la grande massa dei produttori strangolati dalla grande distribuzione, la rinascita in grande stile di un fenomeno scomparso: la schiavitù bracciantile nelle grandi aziende.

E tuttavia sarebbe fuorviante pensare che il ritorno indietro della storia sia un rinculo generale. Per il capitalismo in questi decenni non si è verificato alcun regresso. Forse che sono diminuite le ricchezze di tanti singoli magnati, e delle imprese? Non abbiamo continue notizie dell’ abnorme concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi? Non sappiamo che si sono formati colossi multinazionali che hanno un bilancio paragonabile a quello di uno stato?

In realtà il mondo a totale dominio capitalistico è andato avanti, e indietro sono tornate le classi lavoratrici, gli ultimi della Terra. Regredite sono le coperture del welfare, le sicurezze e stabilità di un tempo, e dunque anche i rapporti umani, avvelenati dalla precarietà, da una ideologia della corsa continua, della guerra economica tra stati.

La violenza diffusa e la conclamata decadenza morale che segna oggi la condizione umana, descritta con tanto coraggio da papa Francesco, sono l’esito di questo radicale dominio capitalistico, del venire meno di un efficace contrasto politico su scala globale, dell affermarsi della sua intima logica predatoria.

Si è consumato infatti un mutamento storico che è stato percepito in vario modo ma che segna un passaggio d’epoca: le società sono diventate un modo di produzione. Il modo di produzione capitalistico, sempre più privo di freni e mediazioni. La crisalide del capitale, motore segreto della società, ha rotto l’involucro e si è fatta suo corpo.
E’ questa indispensabile lettura che consente di afferrare alla radice i fenomeni in atto e di poter almeno immaginare le strategie di contrasto. Il capitalismo sta abbattendo tutte le mediazioni, quelle statuali e politiche, come quelle culturali.

Si è creduto a lungo che Silvio Berlusconi fosse un’anomalia “mediterranea”, ma oggi Trump ci mostra che il nostro ex presidente del Consiglio era un fenomeno d’avanguardia del capitalismo, non un suo residuo di arretratezza. Oggi è nello stato più potente del mondo che questo modo di produzione, in alcune sue espressioni più aggressive, ha piegato le mediazioni politiche dell’ordinamento liberale agli interessi di un magnate. Anche lo svuotamento dei partiti politici, il loro divenire semplici agenti del mercato elettorale si inscrive in questo processo di fagocitamento di tutte le espressioni della società civile dentro le logiche di un modo di produzione.

E oggi appaiono in tutta la loro nefasta erroneità le politiche europee e italiane di adattamento della scuola e dell’Università ai bisogni della crescita, il loro asservimento a criteri aziendali, la mortificazione del processo formativo ridotto ad apprendistato di mestieri e professioni. I nostri governanti devono sapere che queste politiche concorrono al declino morale, all’indifferenza, all’egoismo, all’odio per gli altri che compone oggi l’informe impasto della società rappresentata da ‘Fratelli tutti’.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2020
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Si torna a parlare di autonomia regionale differenziata; cioè delle richieste di alcune delle amministrazioni regionali di avere poteri più estesi, con le relative risorse finanziarie, rispetto alla situazione attuale. È bene ricordarlo: non di autonomia regionale; ma di autonomia regionale differenziata.

Nella discussione degli ultimi tempi sembrano mancare riflessioni, e proposte, su un fondamentale interrogativo: quali poteri e in quali materie sarebbe opportuno concedere a quali regioni?

La discussione su questo tema è resa difficile da due circostanze. In primo luogo, quelle che per prime e con maggiore enfasi hanno fatto richiesta di maggiori competenze, e continuano a chiederle (e cioè Veneto e Lombardia, e pur con alcune differenze, l’Emilia-Romagna) hanno proposto che fossero loro attribuiti maggiori poteri in tutti gli ambiti in cui ciò è teoricamente possibile in base all’articolo 116 della Costituzione, così come riformato nel 2001.

Le richieste coprono praticamente tutti gli ambiti dell’intervento pubblico, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’energia, all’ambiente, alle politiche industriali e molto altro ancora. Hanno chiesto, cioè, con una scelta dall’evidente significato politico, il massimo possibile.

In secondo luogo, da parte di tutte le Amministrazioni Regionali (non solo delle tre citate) c’è un evidente, diffuso, favore, ad ottenere nuove competenze, con le relative risorse, perché ciò aumenta il loro potere di gestione e di intermediazione, il loro peso politico. Altre si sono infatti accodate alle prime.

Tuttavia, non si tratta di una richiesta di aumentare le competenze di tutte le regioni. Sarebbe del tutto lecita, naturalmente; ma dovrebbe seguire un iter giuridico e politico completamente diverso. E chissà quale sarebbe a riguardo l’opinione degli italiani; specie dopo che la crisi del coronavirus ha mostrato e sta mostrando l’importanza fondamentale di regole e indirizzi nazionali, validi per tutti, anche in ambiti già fortemente regionalizzati come quello sanitario. Ciascuna regione sta chiedendo di ricevere maggiori competenze per se stessa, indipendentemente dalle altre.

In base a quali valutazioni dovrebbe essere opportuno spostare quella specifica competenza dal livello nazionale a quella specifica regione? Perché, ad esempio, il Veneto (e non le altre regioni italiane) dovrebbe acquisire dallo Stato maggiori poteri (e risorse) in ambito infrastrutturale? Per quanto paradossale possa sembrare, negli articolati documenti che in particolare le tre citate Regioni hanno messo a punto a sostegno delle proprie richieste non c’è mai una risposta precisa a questa domanda.

Spesso ci si limita a sostenere che l’amministrazione regionale è più efficiente di quella nazionale oggi competente. Ma, a parte che si tratta di auto-valutazioni piuttosto discutibili, e quantomeno da sottoporre a verifica indipendente (ancor più dopo le vicende lombarde di quest’anno), non pare un criterio sufficiente.

Bisognerebbe dimostrare i vantaggi per i cittadini di questa nuova organizzazione. Ad esempio sarebbe meglio per studenti e famiglie che (come richiesto da Lombardia e Veneto) gli insegnanti delle scuole fossero selezionati su base regionale e non nazionale, e che fossero dipendenti dall’Assessorato e non dal Ministero? Ma questo non basta. Perché spostando una competenza dal governo centrale ad un governo regionale bisogna capire cosa potrebbe accadere a tutti gli altri cittadini italiani; questo, anche indipendentemente da qualsiasi considerazione di natura finanziaria.

La scuola italiana funzionerebbe meglio se gli insegnanti di alcune regioni fossero (come oggi) dipendenti del Ministero, e quindi ad esempio con la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro, mentre in alcuni casi il loro status sarebbe diverso e la loro mobilità governata da regole specifiche, diverse da regione a regione? Che cosa succederebbe al sistema infrastrutturale nazionale, alle grandi reti, se alcune parti di esse finissero nelle potestà regionali, e fossero governate con regole diverse da caso a caso?

Si dice: nelle infinite richieste ve ne sono diverse che potrebbero comportare uno snellimento e una semplificazione delle procedure amministrative, a vantaggio dei cittadini e delle imprese. Come detto, la loro estensione è straordinariamente ampia: la legge approvata a riguardo dal Consiglio regionale del Veneto il 15.11.2017 consta di ben 66 articoli! È del tutto possibile che alcune delle richieste di carattere amministrativo possano essere opportune. Ma allora la domanda è: se spostare alle regioni il tale procedimento è chiaramente un bene, perché farlo solo per alcune e non per tutte?

Si ricade, insomma, ancora una volta sulla questione di fondo: non si sta discutendo di formulare nell’intero Paese il quadro dei livelli di governo, alla luce dell’esperienza dei venti anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Come sarebbe opportuno. Ma a patto di prevedere un ampliamento dei poteri regionali in alcuni casi ed una loro riduzione in altri, e di sancire con chiarezza la necessità di regole e principi nazionali di fondo in tutti gli ambiti più importanti.

Si sta discutendo di autonomia regionale differenziata: più poteri e risorse in alcuni territori ma non in altri. È per questo motivo di fondo che questo processo appare potenzialmente pericoloso. Se si vuole migliorare il funzionamento dell’intero Paese, sarebbe ora di ripensare, come appena si diceva, all’equilibrio fra centro e regioni nel suo insieme, in tutti gli ambiti. E di avviare parallelamente quel cammino previsto dalla legge 42 sin dal 2009 di profondo ridisegno delle regole di allocazione a tutte le regioni delle risorse finanziarie correnti, per esercitare i loro poteri, e di risorse finanziarie aggiuntive (ad alcune) per colmare i propri deficit infrastrutturali.

C’è un drammatico bisogno di rendere l’Italia un Paese più giusto ed efficiente; ancora più alla luce della terribile pandemia e di ciò che potrà scaturirne. Per farlo bisogna tornare a discutere a fondo di politica; di regole e criteri generali. Non disegnare scorciatoie straordinarie per alcuni.

da “il Messaggero” del 10 settembre 2020

Le troppe, confuse voci di governo e governatori.-di Massimo Villone

Le troppe, confuse voci di governo e governatori.-di Massimo Villone

È mancato due volte, martedì, il numero legale alla Camera. Dato l’argomento in discussione – comunicazioni del ministro Speranza sul contenimento del virus – una vicenda non banale. Incidente di percorso, o fibrillazioni nella maggioranza? Vedremo. Il voto amministrativo e i ballottaggi hanno rinsaldato Palazzo Chigi. Paradossalmente, la recrudescenza della crisi Covid aiuta, distogliendo l’attenzione dall’emergenza economica e sociale, che invece è già ora, e sarà, il vero punto focale.

Le domande di fondo restano le stesse: quale progetto di paese? Chi decide, come e dove? Come si distribuiscono le risorse Ue? A Bari, alla Fiera del Levante, il premier Conte ha sottolineato l’attenzione per il Mezzogiorno, affermando che “l’Italia intera può recuperare la visione e lo status di potenza economica e industriale del passato se si riparte soprattutto dalle regioni del Sud”.

Ha esaltato le risorse Ue come “opportunità per ricucire il paese”. Per la sede, scontiamo un minimo di dolus bonus. Il 29 settembre a Roma, assemblea di Confindustria, Conte ha richiamato il Sud solo per difendere la fiscalità di vantaggio introdotta. Tuttavia il Nord “non potrà mai crescere in modo sostenuto se non crescerà insieme al Sud e al resto dell’Italia”.

A Roma e Bari si intravede la tesi – copyright Svimez e altri – che nel Sud va avviato il secondo motore del paese. Il 15 settembre il ministro Gualtieri, nelle commissioni riunite bilancio e finanze della Camera, ha implicitamente riconosciuto che le risorse Ue per l’Italia sono correlate al ritardo del Sud. Che dunque – aggiungiamo – ha particolare titolo a beneficiarne. Ma è un indirizzo che non troviamo scritto in chiaro nella Nota di aggiornamento al Def (Nadef) appena pubblicata.

Dunque, si cambia o no rotta rispetto alla strategia di staccare e far correre la locomotiva del Nord, come avrebbero voluto i fautori dell’autonomia differenziata separatista? Forse. In ogni caso, con due interrogativi.

Il primo è sulla coerenza e adeguatezza della strategia operativa. La raccolta indifferenziata di circa 600 progetti da parte di amministrazioni di ogni livello – ora a quanto pare ridotti a un centinaio dal comitato interministeriale (Ciae) – non favorisce chiare priorità e un’idea di paese. Il secondo viene dall’autonomia differenziata. Come interagisce con il piano di recupero e la destinazione delle risorse Ue?

Il 30 settembre nella Commissione per le questioni regionali il ministro Boccia insiste sui Lep, sulla legge-quadro da lui proposta, sulla concertazione tra esecutivi. E a quanto risulta la legge-quadro è inserita tra i collegati alla Nadef, su un binario parlamentare veloce. Gli aspiranti separatisti festeggiano (Corriere del Veneto Venezia-Mestre, 7 ottobre).

È una strategia di cui abbiamo già criticato la debolezza verso la bulimia competenziale del separatismo nordista. Che ne pensa il ministro Boccia del (fallito) tentativo targato Pd di devolvere al Veneto per via di emendamento i servizi ferroviari interregionali da Bologna al Brennero (Giornale di Vicenza, 7 ottobre)? Si spacchetta l’Italia un pezzetto alla volta? Né la legge quadro bloccherebbe la conflittuale cacofonia politica e istituzionale evidenziata dal Covid, e da ultimo ribadita da Zaia (Corriere della Sera, 7 ottobre). Né ancora favorirebbe strategie nazionali di “ricucitura del paese” in settori cruciali: sanità, scuola, infrastrutture, ambiente.

A Bari, alla Fiera, Emiliano ci informa che proprio sui Lep c’è stata una rottura Nord-Sud: “ … insieme ad altre regioni del Sud, abbiamo deciso di non partecipare al tavolo della Conferenza Stato-Regioni che sembrava aver definito, nell’esclusivo interesse del Nord, la questione dell’autonomia e, conseguentemente dei Lep”. Nel modello conferenze gli interessi dei più forti hanno storicamente prevalso, e possono sempre prevalere.

In ogni caso, vittima designata è il parlamento, in prospettiva ridotto a recettore di scelte fatte altrove. E preoccupa che Conte a Bari per i progetti e i fondi Ue annunci strutture ad hoc al fine di “monitorare efficacemente e di realizzare nei tempi certi i progetti programmati”. Sarebbe il caso che tra le tante semplificazioni il governo ne praticasse subito una, su se stesso. Magari parlando un medesimo linguaggio.

da “il Manifesto” dell’8 ottobre 2020

Sud, quante fake news dai Borbone in avanti.- di Alessandro Barbero Prefazione al libro di Marco Esposito "Fake Sud".

Sud, quante fake news dai Borbone in avanti.- di Alessandro Barbero Prefazione al libro di Marco Esposito "Fake Sud".

Fake Sud l’ho divorato da cima a fondo con grande piacere, e dunque sono ben contento di condividere le mie sensazioni con chi si appresta a seguire lo stesso percorso. Questo è un libro che entro una cornice unitaria analizza due argomenti molto diversi, che hanno beninteso un nesso, ma anche una eterogeneità irriducibile; a cui però io, che faccio lo storico, sono forse troppo sensibile.

L’autore Marco Esposito è convinto che siano due facce della stessa medaglia o, per usare la sua immagine, due oscillazioni opposte d’un pendolo: pregiudizi contro il Sud, e fake news neoborboniche a favore del Sud; e s’impegna a smontare gli uni e le altre. A me colpisce di più il fatto che dei pregiudizi contro il Sud, tema che occupa i primi due terzi del libro, l’autore non si limita a dimostrare l’infondatezza.

Nel farlo, invece, imbastisce una formidabile analisi delle scelte politiche degli ultimi anni, e una critica argomentatissima agli effetti perniciosi del federalismo all’italiana.

I primi cinque capitoli, continuazione ideale del suo precedente Zero al Sud, rappresentano un’inchiesta di straordinaria efficacia che offre uno sguardo inedito, e drammatico, sul gioco degli interessi politici e dei meccanismi decisionali nell’Italia di oggi. Per me, che vivo queste cose da cittadino qualunque, informato, come quasi tutti, solo a metà e perlopiù poco interessato a saperne di più (anche se la mia regione, il Piemonte, come rivela Marco assomiglia più a quelle del Sud penalizzate da certe scelte, che non al felice e magico Nordest), questa prima parte di Fake Sud è stata davvero una lettura rivelatrice.

Gli ultimi tre capitoli sono invece dedicati a un fenomeno che conosco meglio, e che certo rappresenta una risposta alla situazione messa in luce nella prima parte, ma è in sé di natura profondamente diversa. È un fenomeno politico solo in modo tangenziale, in quanto spesso recepito in delibere di organi amministrativi locali, ma privo delle colossali ricadute a livello decisionale, di politica sociale ed economica, con cui ci siamo confrontati nelle prime due parti: è un fenomeno le cui ricadute sono tutte a livello di mentalità e di (invenzione della) memoria collettiva.

Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo a partire dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno borbonico e dell’Unità d’Italia. Qui, la gratitudine con cui ho letto i primi cinque capitoli in verità si smorza; perché a me non può non sembrare troppo timida la critica di Marco (…) e troppo compiacente la sua trattazione della tragicommedia dei cosiddetti primati delle Due Sicilie.

Ecco, scrivo quest’ultima frase e mi sorprendo a chiedermi: ma perché ce l’hai così tanto proprio con i primati delle Due Sicilie? Non è forse vero che parecchi di quei primati sono autentici, e che Marco ha ragione di sottolinearlo nel momento in cui garbatamente rileva l’insussistenza di altri? Provo a capire perché proprio questa faccenda dei primati mi fa infuriare, e chissà che non ne esca una chiave di lettura più generale di questi tre ultimi capitoli. Prima di tutto, è per il partito preso.

Se tanti di quei primati sono dimostrabilmente falsi, vuol dire che anche chi li ha messi in elenco poteva verificarlo, e invece non lo ha fatto. Io sono uno storico e so che fare delle affermazioni sulla base di un partito preso, rifiutandosi di verificare gli argomenti in senso contrario, è una cattiva azione e produce sempre risultati bacati.

Ma qui non si tratta di accertare dettagli di interesse puramente erudito, per cui la colpa resterebbe limitata all’ambito della deontologia professionale; si tratta invece di influenzare la mentalità collettiva nel nostro paese e di accendere passioni violente sulla base di informazioni false. Altrove ho scritto che si tratta di un fine immondo, e Marco non è d’accordo; ha ragione lui e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi. Ma il fine, per me, non giustifica mai i mezzi (…).

In questo orizzonte anche “Terroni” di Pino Aprile non è più soltanto una cattiva azione, come è, indiscutibilmente, se letto con gli occhi dello storico, ma diviene un intervento importante su cui è difficile dare un giudizio negativo, perché suscita comunque reazioni necessarie e mobilita coscienze che bisognava svegliare, e pazienza se lo storico si dispiace che per far questo si sia dovuta violentare proprio la storia.

Io, si capisce, non potrò mai seguire Marco Esposito su questa strada, ma posso accettare che il mio sia solo un punto di vista e che ce ne siano altri possibili; anche questa è una cosa che ho imparato leggendo il suo libro. Vorrà dire che, se un giorno mi scoccerò di rodermi il fegato per i primati delle Due Sicilie, scriverò io un libro per fargli le bucce, e chiederò a Marco di farmi la prefazione.

da “il Mattino” del 4 ottobre 2020.

Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico. -di Piero Bevilacqua

Il silenzio dell’università e le responsabilità del ceto politico. -di Piero Bevilacqua

Un sovrumano silenzio e una profondissima quiete gravano sulla vita dell’Università italiana e il fatto che il ministro che la governa sia un ex rettore, un uomo che viene da quel mondo, non sembra cambiare le cose. La nostra Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, non c’è più. E non l’ha uccisa il Covid 19, ma un insieme di processi e di scelte, che l’hanno radicalmente trasformata.

È antropologicamente cambiato il corpo dei docenti. Da 10-15 anni ha lasciato l’insegnamento un’ampia schiera, quella che potremmo chiamare la generazione dei maestri. Studiosi che dagli anni ’50 in poi hanno portato, accanto ai saperi delle loro discipline, un grande afflato civile, legato alle sorti del paese. È poi seguita un’altra generazione di insegnanti, quelli che da studenti hanno attraversato l’esperienza del ’68 e comunque si sono formati nell’Italia dei conflitti sociali e delle grandi manifestazioni di massa.

Oggi, nella fascia alta dei docenti, dominano figure anche scientificamente attrezzate, ma che vivono il proprio lavoro come un ritaglio specialistico, finalizzato a dei risultati da certificare presso agenzie di controllo. Sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, soffocati da compiti organizzativi mutevoli, spesso di difficile comprensione, da pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni che sottraggono tempo alla ricerca e a un insegnamento non di routine. È comprensibile che questi docenti non abbiano molti legami con la vita politica e culturale della società.

Più in basso lavorano le figure dei ricercatori, che devono attraversare un lungo purgatorio di precarietà, impegnati non a realizzare ricerche fondative per il proprio profilo di studiosi, ma per produrre quanto più possibile titoli – anzi “prodotti” come vengono definiti con gergo di fabbrica- per salire la scala della carriera accademica.

Qui, al gravissimo scadimento scientifico e culturale, che dà luogo a pubblicazioni seriali di brevi articoli e saggi di scarso valore, si accompagna una subalternità politica dei giovani ricercatori. Grazie alla riforma Gelmini queste figure, oggi come nel peggiore passato, debbono la propria possibilità di carriera alla fedeltà ai professori ordinari, e soprattutto alla propria latenza politica, al loro carrieristico conformismo.

Infine un altro grande mutamento ha cambiato i connotati degli studenti. In linea di massima – e questo appare in maniera parossistica nelle Facoltà umanistiche – non studiano per un itinerario formativo, ma vanno a caccia di crediti da mettere insieme secondo una disposizione cumulativa, finalizzata ai risultati, che distrugge alla radice lo studio quale esperienza di riflessione. I ragazzi oggi non ascoltano lezioni, ma corrono da una cattedra all’altra a raccattare punteggi. E occorre ricordare che mai una generazione era stata così tenacemente avversata, come quella dei nostri ragazzi, ai quali viene impedito di proseguire negli studi con ogni mezzo, dal numero chiuso in tante facoltà all’aumento delle tasse universitarie.

Da questo mondo regredito, schiacciato sotto il peso di una ideologia produttivistica che soffoca ogni visione generale, incatenato alla precarietà, non può più venire alcun moto di ribellione, né tanto meno un conato di revisione dello status quo. È necessario che a intervenire sia dunque il ceto politico di governo e lo deve fare al più presto, anche perché molti miglioramenti sono possibili senza esborsi finanziari.

È necessario abolire l’Anvur e i suoi criteri di valutazione industriale della ricerca, cancellare i crediti a partire dal lemma finanziario che li designa, rivedere il 3 più 2 e i percorsi delle lauree brevi, riformare i criteri dell’accesso alla docenza, bandendo la precarietà che è il vessillo funesto dell’ideologia neoliberistica, la pestilenza culturale universale da cui dipendono i fallimenti a catena del nostro tempo.

Nell’Università è urgente un’opera demolitrice di delegificazione. Liberiamo i docenti da compiti inutili di controllo produttivistico. Ma forniamo anche risorse per fare accedere una nuova leva di docenti, che ha accumulato studi ed esperienze e vive ai margini.

Nel momento in cui l’Ue rivede alcuni dei suoi erronei fondamenti costitutivi, occorre ricordarsi che l’Università è una loro vittima, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna”. Non avrei tante speranze, tuttavia, in queste possibilità, se non fosse che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha annunziato un convegno internazionale sul nuovo umanesimo. Dopo decenni di emarginazione dei saperi umanistici dalle nostre università e dalla considerazione pubblica, questa è una novità che sorprende e che ci da qualche speranza.

da “il Manifesto” del 2 ottobre 2020
Foto di Frits de Jong da Pixabay