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Sì alla separazione delle carriere, no alla responsabilità dei giudici.-di Enzo Paolini

Sì alla separazione delle carriere, no alla responsabilità dei giudici.-di Enzo Paolini

Il dibattito si incentra su tre questioni: a) responsabilità dei giudici, ovvero chi sbaglia paga, come in qualunque attività; b) separazione delle carriere; c) composizione e metodo elettorale del CSM.

Parto dall’ultima, il CSM, previsto in Costituzione come organo di autogoverno con specifica e peculiare competenza sulle carriere e sulle procedure disciplinari. Sta di fatto che in coincidenza con la progressiva e disastrosa perdita di peso e di autorevolezza dei partiti e della conseguente delegittimazione del Parlamento è emersa sempre più la funzione di supplenza e di pregnanza della Magistratura nella amministrazione dello Stato; così il CSM è diventato una sorta di terza Camera con funzioni consultive o interdittive rispetto ad un Parlamento inane, ed ha acquisito un enorme, straripante potere gestendo le nomine dei Magistrati dirigenti dei distretti giudiziari strategici, i potentissimi “apicali”, quelli che dispongono sopra e oltre, o contro, la politica.

E qui sta il problema: la politica, quella squalificata, delegittimata, arruffona, (nel migliore dei casi) e imbrogliona (nel peggiore) che non governa più nelle aule parlamentari, nel modo regolato dalle procedure istituzionali e con le garanzie dei pesi e contrappesi costituzionali, rientra dalla finestra del CSM composto mediante elezioni appaltate a “correnti” alle quali poi rispondono, in tutto e per tutto, gli eletti.

Un chiaro corto circuito per la democrazia ma anche, a pensarci bene, per la amministrazione della Giustizia, quella quotidiana, quella che incontriamo noi cittadini. Esempio: quale giudicante non sarà condizionato nella sua decisione se il PM del processo che sta affrontando è un capo corrente che può decidere il dove, il quando e il come della vita di quel Giudice?

Problema di non poco conto che si ripresenta – sotto altre vesti – anche in relazione al secondo quesito: la separazione delle carriere.
La commistione non è certezza di parzialità ma non è neanche indice di terzietà.

Qui, in questo ibrido, sta il clima che si vive nei Tribunali del Paese e non è un bene per la serenità dei cittadini che vi entrano e per la certezza del diritto o dei diritti che si invocano.

E così si arriva alla prima questione: la attribuzione della responsabilità a chi, sbagliando nello svolgimento del suo lavoro abbia causato ad altri un danno ingiusto. Concetto semplice e lineare valido per tutte le professioni esercitate secondo regole e protocolli conosciuti e riconosciuti. Il Ministro Nordio ha pensato di istituire una “Alta Corte” che, però, non risolve il problema.

Intanto ricordiamo che la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile un quesito referendario sul punto. E bene ha fatto perché – a parte la motivazione tecnica (sarebbe un referendum innovativo e non abrogativo) – la disciplina della responsabilità diretta, non può applicarsi ai Magistrati se si guarda al bene ed alla tenuta di uno Stato democratico.

E ciò per due motivi che spesso sono oscurati dal comprensibilissimo risentimento provocato da palesi ingiustizie o da grossolani, imperdonabili errori.
Il primo: non è vero che lo sbaglio del Magistrato non è sanzionato. Lo è attraverso il regime delle impugnazioni che possono correggere gli errori di ogni tipo commessi nel corso del processo penale o della causa civile. Così come è possibile anche ottenere dallo Stato i risarcimenti dovuti per i casi di danno economico o al bene della vita (ad esempio l’ingiusta detenzione). La responsabilità non può che essere indiretta perché il Magistrato amministra la giustizia non in proprio ma in nome del popolo italiano.-

Il secondo: chi è che stabilisce se il Giudice ha sbagliato? Un altro Giudice, ovviamente. Ma anche questo potrebbe sbagliare nel giudicare il primo. E potrebbe essere accusato di aver commesso uno sbaglio. E chi giudicherebbe in questo caso? Un altro Giudice. Ma anche a questo può essere imputato un grave errore, e così via. Insomma si innesterebbe una spirale di giudizi tale da minare definitivamente la credibilità, l’efficienza e l’equità del sistema giudiziario, a scapito della garanzia e nella serena sicurezza che necessita al cittadino nello svolgimento delle quotidiane attività della vita.

Ovvio che non è in discussione l’ipotesi del dolo o della corruzione, già ampiamente sottoposta alle norme del codice e delle leggi penali applicabili a tutti ed al rispetto delle quali i Magistrati non sono affatto sottratti.

La conclusione di questo ragionamento è che occorre ritornare, in fretta, allo spirito ed alla lettera della Costituzione. Il Magistrato può sbagliare, e se così non fosse, se cioè dovessimo pretendere un giudice infallibile, esente da errori non dovremmo tenere in piedi un sistema che prevede gli annullamenti, le riforme, le revisioni e le cassazioni delle sentenze.

Sbagliano, certo. Ma non possono essere mai, in nessun caso – salvo per fatti costituenti reato – esposti alla sindacabilità del loro operato da altri che non sia il Giudice della impugnazione.
Perché essi sono sottoposti più degli altri a giudizi sul loro operato.
Per questi motivi – però – occorre che il CSM sia impermeabile da influenze politiche e che le carriere di Giudice e PM siano separate.
Si può fare?

In questo senso va la forte, pressante richiesta di una seria riforma della Giustizia. Che però – ed è qui la considerazione finale – non può che passare per una nuova legge elettorale in senso proporzionale puro, come richiesto dal comitato che ha avviato la raccolta delle firme per un referendum sul punto e che è ispirato alla figura del grande costituzionalista Felice Besostri.

Solo un parlamento autorevole e di veri “eletti” può mettere mano a questa materia incandescente senza bruciarsi o ritrarre la mano.
Il Parlamento attuale è fatto da nominati che la possono solo alzare, la mano. A comando.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 giugno 2024

Il caso Lucano: la legge, la giustizia e l’hubris .-di Sarantis Thanopulos

Il caso Lucano: la legge, la giustizia e l’hubris .-di Sarantis Thanopulos

L’«hubris» è un concetto fondamentale nella definizione della giustizia, mai preso in considerazione dai sistemi giuridici. Per la nota discrepanza tra giustizia e legge.

Nel greco antico il termine indicava la crescita rigogliosa di una pianta che invade e impedisce lo sviluppo delle altre piante. Esso designava metaforicamente l’eccesso di protervia che porta ad oltrepassare la misura.

La legge punisce l’infrazione delle regole, ma non contempla come suo oggetto diretto il superamento del limite. Spesso è essa stessa hubris, specie nei paesi oligarchici, ma anche in quelli democratici. Di ciò è un esempio grave la pena di morte. Nel nostro paese ha superato i limiti etici, nonché quelli stabiliti dalle leggi internazionali di soccorso, la legge Severino.

La giustizia è la forza che si oppone al venir meno del senso della misura. Più grave è il superamento della misura (da sempre legato al diritto di chi è senza scrupoli, del più spietato), più forte è l’opposizione tra il suo autore e la società dei giusti, la comunità della Polis democratica. Giusto e democratico è ciò che si compie con misura, equilibrio secondo le regole che in origine erano quelle della musica, del canto degli uccelli (Monica Ferrando).

Più la legge si allontana dalla giustizia, più è hubris in se stessa. Nessuna logica giuridica la può assolvere del danno che infligge alla natura più intima e inviolabile delle relazioni umane da cui emanano i diritti umani, valori etici al di sopra di ogni altro diritto e di ogni legge. Si tenga presente che sulla giustizia si fonda la sanità psichica collettiva.

Nella condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, il doppio della condanna chiesta dal pubblico ministero, sono molte le cose che non convincono, a partire dalla mancata applicazione del principio del reato continuato (l’infrazione con azioni diverse, volte a realizzare un unico progetto criminoso, di una o più disposizioni di legge) e la contemporanea attribuzione del reato di associazione a delinquere a una persona a cui si riconosce di aver agito senza interesse personale.

Sarà la pubblicazione delle motivazioni della sentenza a rendere più chiaro l’agire dei giudici e saranno i successivi gradi di giudizio a stabilire se essi hanno agito nel rispetto della civiltà giuridica e della legge. Esiste, tuttavia, un punto che fin da ora deve far riflettere: l’uso di un criterio computazionale nella valutazione della pena. Esso introduce una dimensione algoritmica nella gestione del rapporto tra Stato e cittadini che finora si è fatta strada in un paese non propriamente democratico, la Cina.

Un magistrato non applica la legge alla lettera. Basterebbe aver letto Kafka per comprendere che non può pensare da ragioniere. Deve saper valutare le circostanze umane, i fattori sociali, culturali, politici e psicologici di cui la legge non tiene conto. Se si parla di «spirito della legge», è perché nessuna legge è satura e a sé stante. L’ispirazione della sua «interpretazione», che spetta a un soggetto responsabile, è la giustizia, il sapere condiviso su ciò che è umanamente sensato, misurato.

Condannare un uomo dignitoso, incensurato, povero di sostanze materiali a una pena degna di un mafioso è, nella migliore delle ipotesi (in attesa di vedere confermata la validità del dispositivo della sentenza), un eccesso di «accanimento terapeutico», un’ammonizione educativa nei confronti dei cittadini francamente, totalmente fuori luogo.

Sul piano della giustizia, la sentenza nei confronti di Mimmo Lucano è hubris.

I giudizi non devono ergersi al di sopra del senso della misura. Devono valutare in modo equilibrato, sereno. La serenità del giudizio non significa assenza di sofferenza psichica. Tra i servitori della città c’è molto più senso di responsabilità in chi soffre rispetto a chi dimentica la condivisione dei valori universali, convinto di stare bene con la propria coscienza.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021.