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L’implosione del Mediterraneo ci riguarda.-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo ci riguarda.-di Tonino Perna

Come calabresi e meridionali assistiamo, angosciati e impotenti, a questo massacro della popolazione civile a Gaza che rischia di coinvolgere altri paesi del Medio Oriente e la stessa Nato, di cui, obtorto collo, facciamo parte. Appare sempre più evidente che Il governo Netanyahu sta portando al suicidio Israele, facendo crescere in tutto il mondo una ondata di sdegno e di proteste che spesso sfociano nel razzismo nei confronti degli ebrei, che in parte rilevante sono le vittime dell’attuale governo israeliano e ne subiscono le conseguenze.

Purtroppo, il conflitto israeliano-palestinese è solo la punta estrema di una propagazione dei conflitti in tutta l’area del Mediterraneo, dalla Libia alla Siria, passando per il Libano, che sta facendo implodere la sponda sud-est del mare nostrum. L’Ue è fuori gioco, come uno spettatore bollito davanti alla Tv. Il governo italiano non ha nemmeno votato la risoluzione Onu per un immediato cessate il fuoco, come hanno fatto Francia, Spagna e Portogallo, non a caso paesi dell’Europa mediterranea che ben capiscono che questa guerra li riguarda da vicino.

Per decenni ci siamo nutriti di retorica sulla nostra comune cultura mediterranea, sul nostro Sud al centro di questo meraviglioso mare, con centinaia di convegni, di associazioni e progetti tra la Ue e i paesi del Mediterraneo. Ma, una politica euro-mediterranea, da parte della Ue e dell’Italia, è scomparsa dalla fine del secolo scorso. L’ultimo atto politico significativo è stata la Conferenza di Barcellona nei giorni 27 e 28 novembre del 1995 in cui ci si è posti il fondamentale obiettivo del raggiungimento della pace e stabilità nell’area mediterranea operando su tre livelli: politico, economico-finanziario e socio-culturale.

Avendo personalmente partecipato con una delegazione del Centro regionale d’intervento per la cooperazione, all’epoca una delle più significative Ong italiane e l’unica che aveva una strategia di cooperazione Sud-Sud, ne ero rimasto entusiasta, per la quantità e qualità dei partecipanti, e perplesso per il prevalere di un approccio neoliberista che puntava ad un libero scambio delle merci e non delle persone, non tenendo conto delle disparità dei soggetti in campo, per cui il free trade favoriva i paesi più forti. Comunque ci aspettavamo che dalle nobili dichiarazioni di principio seguissero fatti concreti.

Come sappiamo le cose sono andate diversamente. L’Ue ha progressivamente spostato il suo asse e il suo sguardo verso est, abbandonando completamente ogni politica o attenzione a quello che avveniva nel Mediterraneo, un’area economica piccola rispetto al mercato mondiale che si formava con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina. In questo secolo la Ue ha fatto anche peggio. Francia e Inghilterra, con il supporto Usa, hanno avuto un ruolo importante e devastante nell’abbattimento del regime di Gheddafi, fomentando una guerra civile che ha portato al collasso un paese che viveva tranquillo anche se sotto una dittatura.

Pochi sanno che il caos e la guerra civile in Libia ha interrotto un rilevante flusso migratorio proveniente dai paesi del Sahel. Circa un milione e mezzo di africani vivevano come immigrati in Libia lavorando nell’edilizia, in agricoltura, nei servizi, nell’industria petrolifera. Questi giovani del Sahel mandavano a casa i loro risparmi, si costruivano la casa o compravano un pezzo di terra, senza dover pagare trafficanti e rischiare di morire nel deserto.
Anche la Siria, che era un paese a reddito medio, assorbiva una parte di manodopera migrante proveniente dal Sudan e altri paesi limitrofi, è entrata dal 2011 in una guerra civile in cui hanno giocato un ruolo diverse potenze straniere (Turchia, Usa, Gran Bretagna, ecc.) .

Infine, il Libano che era chiamato “la Svizzera del Medio Oriente” è oggi al collasso economico (ci vogliono 100mila lire libanesi per un dollaro quando cinque anni fa ce ne volevano due), e tende ad espellere un milione e trecento mila rifugiati siriani e duecento mila palestinesi, dal ‘1948 “ospitati” da questo paese, senza cittadinanza, in attesa del ritorno nella propria terra!

Presto, purtroppo, toccherà alla Tunisia e all’Egitto che stanno attraversando una crisi economica, sociale e politica molto pesante. Possiamo chiamarci fuori da un Mediterraneo che implode? Possiamo pensare che spostando le nostre frontiere nel Nord Africa potremo bloccare la fuga dei disperati, delle vittime di queste guerre fomentate dalle potenze straniere, dai nuovi imperi che sono ritornati sulla scena del mondo?

Come si fa a pensare che il Mezzogiorno possa avere un futuro in questo mare che è diventato un cimitero liquido in mezzo a terre insanguinate e distrutte dove non è più possibile vivere? Come è possibile che il nostro paese con abbia dagli anni ’80 un governo con un straccio di politica mediterranea, che dobbiamo rimpiangere personaggi controversi come Andreotti o Craxi?

da “il Quotidiano del Sud” dell’1 novembre 2023

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

La decisione della Commissione Ue di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per finanziare l’industria bellica, per aumentare lo stock di munizioni, va preso seriamente in considerazione. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, così la giustifica: « Il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro».

È interessante notare che la resilienza, categoria utilizzata finora prevalentemente nel mondo ecologista, ha significato la capacità degli individui di far fronte alle avversità riuscendone rafforzati. In particolare, nel Pnrr aveva finora un approccio che andava nella direzione di mitigazione degli «eventi estremi» con investimenti, dall’agricoltura all’urbanistica, che dovevano fare i conti con il mutamento climatico in atto. Si diceva e si scriveva che bisognava ripensare all’uso dell’acqua dato che dobbiamo fare i conti con lunghi periodi di siccità, così come ridisegnare le città con una maggiore presenza di verde per ridurre le emissioni di CO2. Grazie al commissario Breton apprendiamo che c’è una nuova accezione: la difesa militare fa parte della resilienza in quanto la guerra è diventato un evento naturale e permanente da cui bisogna difendersi.

La scelta di indirizzare gli investimenti in questa direzione non viene data come fatto eccezionale ma come risposta «resiliente» ad un mondo che ci minaccia.

Questa scelta di politica economica rende chiaro a tutti verso quale modello di sviluppo ci stiamo incamminando. La mitica crescita economica si basa sempre più sulla produzione di merci a «valore d’uso negativo» per l’uomo e per l’ambiente.

Se facessimo una contabilità qualitativa del Pil scopriremmo che una parte crescente di quella che chiamiamo ricchezza nazionale è legata alla produzione di merci che hanno un impatto negativo sull’ecosistema, sulla salute e benessere delle persone, sulla nostra vita quotidiana. Tutto questo è occultato dentro una bolla di falsificazione della realtà dove prevalgono in maniera ossessiva termini quali «sostenibilità» e «green». È bastata la chiusura dei rifornimenti di gas dalla Russia per fare riaprire centrali a carbone, riprendere le trivellazioni in Europa e nel Sud del mondo, a partire dai Paesi africani, costruire i nuovi rigassificatori, e infine accelerare la corsa agli armamenti, una delle prime cause del disastro ambientale. Insomma, dalla tanto sbandierata «transizione green» stiamo passando velocemente alla «transizione bellica» senza trovare una opposizione significativa. I sindacati dei lavoratori sono sempre più soggetti al ricatto dell’occupazione, per cui hanno scarsa capacità di mettere in discussione cosa produrre, per chi e come.

L’ideologia della crescita infinita, fine a sé stessa, ha impedito a quello che rimane della sinistra europea di analizzare criticamente la qualità di questa crescita monetaria, per giunta drogata da una nuova corsa all’indebitamento.
L’Ue si è ormai completamente adeguata all’american way of war come un dato strutturale e permanente del capitalismo a stelle e strisce.

Siamo entrati ormai a pieno titolo in quello che James ‘O Connor definiva “warfare state” nel famoso saggio “The Fiscal Crisis of the State”, edito a New York esattamente cinquanta anni fa. Ovvero in una Economia di guerra ( War Economy) come la definì Seymour Melman nel 1970, invitandoci a prendere atto che si stava formando un nuovo gruppo dominante, una nuova borghesia definita dai suoi rapporti con i mezzi di distruzione più che dei suoi rapporti con i mezzi di produzione, una borghesia criminale che oggi diventa prevalente.

La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni: la Next Generation Eu, da cui ora invece vengono presi i fondi per finanziare l’industria bellica.

da “il Manifesto” del 5 maggio 2023
Foto di Brett Hondow da Pixabay

La pace possibile, anzi necessaria.-di Piero Bevilacqua

La pace possibile, anzi necessaria.-di Piero Bevilacqua

Due patriarchi della scena intellettuale europea, Jürgen Habermas (94 anni) e Edgar Morin (102), rispettivamente su La Repubblica e la Lettura del Corriere della Sera del 19 febbraio, intervengono con tutto il loro ormai secolare prestigio per lanciare l’allarme sui pericoli mortali in cui la guerra in Ucraina sta trascinando il mondo. E, sia detto per inciso – lo lamenta anche Morin –, paradossalmente la stessa presa di posizione di queste due figure eminenti ci fa accorgere del grande silenzio del mondo intellettuale europeo su questa guerra, l’assenza di voci insistenti e diffuse nel rivendicare la pace.

Habermas nel suo Europei in guerra come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, con il consueto argomentare acuto e concettoso, ma spesso stilisticamente non nitido né coinvolgente, mostra come la Nato e tutto il fronte occidentale impegnato a sostenere l’Ucraina contro l’aggressione russa, con l’espressione-bandiera “L’Ucraina non deve perdere”, non veda il baratro cui questa linea può condurre. Quando si stabilirà che l’Ucraina non ha perso? E quante armi occorre ancora inviare perché questo avvenga? Quante morti e distruzioni gli ucraini dovranno sopportare per soddisfare le finalità strategiche della Nato? E infine a qual punto di non ritorno la continuazione del conflitto può condurre: perché La Russia può infliggere una sconfitta sul campo all’avversario e a quel punto come si risponderà? L’Europa e i Paesi NATO dovranno intervenire direttamente e dare il via alla terza guerra mondiale?

Morin, in un’intervista rilasciata a Nuccio Ordine, Grandi guerre, piccole paci, che prende spunto da una recente pubblicazione dell’infaticabile centenario, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (Raffaello Cortina), ricostruisce con accorata lucidità le tante guerre che ha attraversato da testimone, a partire dalla seconda guerra mondiale. Diversamente da Habermas, Morin ha uno sguardo storico anche sulla guerra in Ucraina. E, pur nella brevità delle risposte alle domande dell’intervistatore, mostra una vasta conoscenza del contesto in cui è maturato il conflitto che oggi coinvolge l’Europa, un’entità sovrastatale nata per impedire che la guerra tornasse a insanguinare le sue terre. Il pensatore francese – a cui non saremo mai abbastanza grati per il contributo che ci ha dato con la sua analisi sulla complessità del mondo vivente nei volumi della Méthode e in innumerevoli scritti – non risparmia critiche ai crimini dell’URSS staliniana e al rinato nazionalismo della Russia di Putin.

E, come ogni buon storico onesto dovrebbe fare, pur prendendo le difese dell’Ucraina aggredita, ribadendo le regole del diritto internazionale, non fa sconti agli USA: alla potenza che ha lungamente perseguito questa guerra, con l’espansione della Nato fin sotto i confini della Russia, armando gli ucraini per spingerli in un conflitto che doveva servire ai suoi disegni di dominio geopolitico. L’“imperialismo americano – dice Morin – s’è manifestato nella storia delle relazioni tra Russia e USA anche dopo la caduta dell’URSS, quando perfino Putin si recò a Berlino per dire ‘Noi siamo europei’ […] Il ruolo di Washington è completamente compromesso: non possiamo dimenticare le bugie di guerra (come in Iraq),la violazione delle leggi internazionali, il sostegno alle dittature sanguinarie in America Latina. Certo: in America c’è la democrazia, in Russia c’è il dispotismo. Ma questo non cancella la sua vocazione imperialista, colonialista e perfino genocida”.

Come non concordare? Ed è necessario essere Edgar Morin per trovare il coraggio di dire queste parole che registrano una realtà universalmente nota non solo agli intellettuali ma ai semplici cittadini ben informati ?

D’altra parte, se la conoscenza storica serve a qualcosa, quella conoscenza che disturba la malafede di tanti giornalisti italiani, la viltà di tanti intellettuali diventati guerrieri col sangue degli ucraini, che cosa ci racconta della vicenda degli ultimi 30 anni? Che la Nato a trazione americana è stato l’agente principale di tutti i conflitti armati che dagli anni ’90 hanno insanguinato il mondo. A partire dalla guerra in Jugoslavia, per passare all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan e a vari altri angoli della Terra. E se non si vuole credere nella storia, perché appartiene al passato, si dia uno sguardo al presente. Gli Stati Uniti che guidano la NATO, la quale è la North Atlantic Treaty Organization, dunque dovrebbe collocarsi nelle regioni dell’Atlantico del nord, possiede 800 basi militari sparse a Nord, a Sud, a Est a Ovest del nostro pianeta. Che cosa rappresentano questi avamposti di guerra se non la prova vivente di un disegno di dominio sul globo, che vuole ripercorrere la storia del ‘900, che rifiuta di riconoscere il protagonismo dei nuovi Stati presenti sulla scena mondiale, che tenta di contrastare, con la supremazia delle armi, un assetto multilaterale dell’ordine internazionale?

Perché dunque dovremmo desiderare che la Nato vinca la guerra contro la Russia? Non è affatto necessario dimenticare che Putin è l’aggressore, violatore del diritto internazionale, per schierarsi contro la Nato. Questa organizzazione militare, che è nata nella guerra fredda, contro il blocco sovietico, crollato nel ’91, e che oggi continua la sua guerra anche con le armi, sta trascinando l’Europa e il mondo in una corsa agli armamenti che sottrae risorse ad ospedali, scuole, territori, infligge danni supplementari al pianeta che sta collassando sotto i colpi del nostro dissennato sviluppo. Mentre l’avvenire luminoso che ci prospetta, dopo l’eventuale sconfitta della Russia, è la guerra contro la Cina.

da “Transform!Italia” del 22 febbraio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di «guerra ibrida». Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi.

Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso.

C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa.

Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario.

Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine.

In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati?

Si può dire con un grande filosofo che «non esistono fatti ma solo interpretazioni», ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida.

Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India.

Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale.

da “il Manifesto” dell’11 gennaio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay

O l’Europa o la Nato, o la pace o la guerra.- di Piero Bevilacqua

O l’Europa o la Nato, o la pace o la guerra.- di Piero Bevilacqua

Come comincia esser noto, la questione ambientale è inseparabile dall’attuale assetto dell’ordine mondiale, dai rapporti e dai conflitti tra gli stati, dalla libertà eslege delle potenze finanziarie private, dallo scatenamento competivo e bellico che oggi domina i rapporti internazionali.I nostri sforzi di contenere il riscaldamento climatico saranno vani se non accompagnati da un progetto di equilibrio multilaterale che metta fine allo sfruttamento selvaggio della della Terra e alle guerre.

Come ha ricordato Luigi Ferrajoli, in Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022), è “del tutto inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità”.

Senza dire che proprio il progredire della distruzione delle risorse naturali, l’abbattimento della foreste, il disseccamento dei fiumi, l’inquinamento dei mari, la perdita di terre fertili tenderà a esacerbare la logica dell’accaparramento selvaggio di ciò che resta da parte dì tutti contro tutti. Per tale ragione il perseguimento della pace, al di là delle sue nobili ragioni ideali, della necessità odierna di porre fine alle sofferenze del popolo ucraino,( e di tanti altri popoli), ai danni inflitti all’economia mondiale, si presenta come una necessità ineludibile per il futuro del pianeta. E non solo per i suoi possibili esiti apocalittici.

Da tempo si conoscono non solo i danni all’ambiente che le battaglie sul campo producono in termini di inquinamento chimico dei suoli e delle acque, incendi di boschi, uccisione di animali selvatici, distruzione di ecosistemi, devastazione dei paesaggi. Ma è la stessa macchina militare che in tempo di pace costituisce una fonte gigantesca di distruzione ecosistemica e di alterazione del clima. In una vasta ricerca a più mani di 12 anni fa (Militarization and the Environment: A Panel Study of Carbon Dioxide Emissions and the Ecological Footprints of Nations, 1970–2000 in Global Environmental Politics 2010) i ricercatori ricordano che per realizzare i test sulle armi i militari usano un’ampia gamma di diluenti, solventi, lubrificanti, sgrassanti, carburanti, pesticidi e propellenti come parte del funzionamento quotidiano e della manutenzione delle attrezzature militari. Di conseguenza, concludono gli autori, “producono la maggior quantità di rifiuti pericolosi al mondo”.

Non è difficile crederlo, visto che gli americani mantengono circa 800 basi militari sparse in 60 paesi nei vari angoli del pianeta. Ma rammentiamo che tali dati non tengono conto del crescente impegno militare USA dell’ultimo dodicennio. Secondo i rapporti del Congressional Reaserch Service, aggiornati al 2021, le operazioni militari effettuate da questo paese tra il 1945 e il 1999, cioè in 54 anni, sono stati 100. Ma tra il 1999 e il 2021, in soli 22 anni, ne sono stati condotti ben 184. Cifre che denunciano il crescente impatto ambientale degli impegni militari statunitensi, ma al tempo stesso una linea di strategia geopolitica che oggi appare in tutto il suo colossale conflitto con le sorti del pianeta. Perché il Paese più ricco della terra che, con il 4% circa della popolazione mondiale, divora il 30% delle risorse ed è il principale agente di alterazione del clima planetario, continua una politica di potenza come a perpetuare l’egemonia del ‘900, in spregio degli interessi universali?

Bisogna porsi tale domanda per rovesciare la narrazione dominante che si è imposta per rappresentare la guerra in Ucraina, e per capire il futuro a cui tendono i gruppi che oggi detengono il potere negli USA. Ormai appare evidente da una consistente letteratura internazionale: la guerra iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa è stata lungamente perseguita dagli americani con una mirata strategia . Oggi persino Angela Merkel ammette che gli accordi di Minsk tra l’Ucraina e la Russia erano solo un pretesto per prendere tempo e consentire a Kiev di completare il suo armamento sostenuto dagli USA (intervista a Die Zeit del 7 dicembre).

Del resto tutta la storia successiva al 1989 non è che una conferma di questo disegno: l’allargamento a est della Nato, l’aver circondato l’ex nemico di basi missilistiche collocate nei paesi confinanti, non rispondeva solo al fine di un’ ovvia espansione della potenza americana, ma era la premessa per un risultato futuro più sostanzioso: muovere guerra alla Russia, senza rischiare troppo e per conto terzi, col sangue altrui. Grazie alle rivalità interetniche e territoriali tra due nazionalismi contrapposti, l’Ucraina offriva l’occasione più propizia. Ricordiamo che quella strategia ha conseguito vari risultati già prima della guerra. Intanto ha impedito una evoluzione in senso democratico della Russia dopo il crollo dell’URSS. Non c’è modo migliore di favorire il consolidamento al potere di un autocrate che minacciare la sicurezza del suo popolo. Putin è in fondo il risultato della politica americana, che aveva bisogno di un nemico, per giunta odiabile come un tiranno, e della incommensurabile pochezza delle élites dirigenti europee, che avevano un interesse enorme ad attrarre la Russia nella propria orbita, non solo economica.

Per capire l’insostenibile politica imperiale degli USA in un mondo di fatto multipolare, occorre tener presente la sua storia. America first non è una novità. Gli Usa hanno messo sempre i propri interessi davanti a qualunque altro valore, a cominciare dalla democrazia di cui si fanno paladini ingannando l’intero Occidente. Basta chiedere alle madri argentine, ai socialisti cileni, a tutti i democratici dell’America Latina. Ma anche il liberalismo è stato subordinato alle convenienze della propria economia. Un grande storico, Paul Bairoch, definiva gli USA “il paese più protezionista della storia”.

Lo mostra ancora Biden con la Inflation Reduction Act in barba a ogni regola di concorrenza. Ma c’è una vicenda recente meno nota che spiega, (ma non giustifica come necessaria), la politica espansionistica americana. Lo illustra una acuta analisi, condotta da un punto di vista cinese, ma su scala mondiale, quella di Qiaio Liang, L’arco dell’impero (Leg edizioni, 2021) curato e con una densa e informatissima prefazione di Fabio Mini. Negli ultimi decenni gli USA hanno perduto le loro manifatture, fonte di ricchezza reale e di occupazione, puntando sull’alta tecnologia, civile e militare e sulla finanza. Il dollaro staccato dall’oro dopo la fine della sua convertibilità, nel 1971, ha portato i gruppi dirigenti americani a fare della stampa di carta verde, insieme alle armi, uno strumento di sfruttamento delle economie altrui.

Sempre più il deficit commerciale è utilizzato per scambiare ricchezza reale da tutti i paesi del mondo in cambio di carta colorata. E la guerra è uno strumento di espansione del potente settore militare-industriale, ma al tempo stesso di dominio politico che legittima il dollaro e di rastrellamento dei capitali. Laddove arriva la guerra, o anche solo tensioni politiche, i soldi volano via, molti capitali americani tornano a casa e altri vengono attratti. E’ quello che stanno facendo gli USA incoraggiando i movimenti separatisti a Taiwan, a Hong Kong, e in varie altre provincie, con le continue esercitazioni militari nel Mar della Cina, con le promesse di Biden di difendere con le armi l’autonomia dell’ l’isola di Taiwan,ecc.

Queste mosse americane verso la Cina continuano dunque il vecchio copione. Lo sfiancamento economico e l’isolamento della Russia (comunque si concluderà la guerra in Ucraina), prelude a una nuova partita di aggressione per mettere nell’angolo il loro più potente concorrente.

Dunque che cosa è accaduto e accadrà all’Europa? Quando sarà terminato lo slancio di solidarietà ( ma anche di stolido bellicismo) nei confronti dell’Ucraina, riusciranno le élites europee a comprendere la trappola in cui sono stati trascinati insieme alla Russia ? L’Europa impoverita, che perde un grande partner economico come la Russia, obbligata ad accrescere le spese militari, con l’Ucraina distrutta, migliaia di militari e di civili uccisi ( e di soldati russi), e una prospettiva prossima di tensioni internazionali e di nuove guerre?

Un futuro di espansione militare che spinge paesi amici e nemici a incrementare gli armamenti e che, come abbiamo visto, infliggono al pianeta danni di prima grandezza anche in tempo di pace. Allora nessuna politica ambientale dell’UE sarà più credibile, nessun Next Generation UE, nessuna Cop avrà più legittimità, se resta in piedi la Nato, strumento di dominio americano e di conflitti perpetui. La sua permanenza non è compatibile con gli interessi dell’Europa e con il futuro stesso dell’umanità.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Solo mettendo insieme i fatti, le scelte compiute in una prospettiva storica, è possibile comprendere la natura di un partito.La vicenda delle forze di centro-sinistra e poi del PD è paradossale: considerati da milioni di italiani una formazione progressita e popolare hanno operato invece come una forza di destra contro la classe operaia e i ceti poveri, contro gli interessi del Paese.

Essi hanno impresso una torsione autoritaria alle nostre istituzioni e svuotato in punti fondamentali la Costituzione.
A partire dalla legge 1999,n,1 (governo D’Alema) il Presidente della Giunta Regionale viene eletto a suffragio
universale, creando cosi un presidenzialismo territoriale, che non ha contrappesi, perché l’opposizione è privata di poteri. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, votata dalla maggioranza di centro-sinistra viene avviato il federalismo fiscale il cui principio di fondo è che ogni regione ha diritto a usare per sé la ricchezza che
produce.

E’ il principio che apre la strada al regionalismo differenziato, voluto dalla Lega, che distrugge la solidarietà tra i
territori, mettendoli in competizione e dissolvendo di fatto lo Stato unitario. Nel 2011 il PD vota l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio limitando costituzionalmente la possibilità dello Stato di aiutare i cittadini più deboli.

A partire dal Pacchetto Treu, assando per il Job’s Act del governo Renzi, sono stati smantellati i diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotta e fatto dilagare i lavori precari. Con la Buona scuola si completa l’aziendalizzazione
della scuola, trasformando la formazione in apprendistato, mai agendo per recuperare i miliardi sottratti dai governi precedenti.

Senza contare i governi dell’Ulivo, il PD è stato al governo per 10 anni e oggi siamo l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%.’ Secondo la relazione dell l’INPS del luglio 2022, il 28% dei lavoratori non arriva a guadagnare 9 euro l’ora lordi. Oggi i poveri assoluti sono oltre 5 milioni e quelli relativi oltre i 7. Un paese lacerato dalle disuguaglianze con una moltitudine di poveri e un pugno
di ricchi che diventano sempre più ricchi. Nonostante questo il PD ha votato a favore della decisione di portare al 2% del PIL la spesa in armamenti e continua ad appoggiare la guerra in Ucraina.

Ma i governi nazionali e locali del PD infliggono danni anche all’ambiente. L’ultimo Rapporto nazionale ISPRA denuncia che negli ultimi 10 anni abbiamo perso 19 ettari di suolo al giorno, per effetto di cementificazione.

Nonostante questo disastroso bilancio, in cui abbiamo segnalato solo alcune voci, il PD continua a fare le Feste
dell’Unità come se fosse il vecchio PCI. E’ un inganno, il trucco che ha permesso ai governi,con o senza il PD, di varare leggi impopolari neutralizzando ogni opposizione sociale.Il fatto che esso abbia sostenuto battaglie a favore dei diritti civili non ne cambia la natura: in Europa le destre liberali lo fanno da tempo.

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Di pochi giorni fa la notizia che il governo indiano bloccava l’export di grano, poi ridimensionata accettando di far passare l’export già passato, al 14 maggio, alle procedure doganali. Malgrado l’India non sia tra i primi dieci paesi esportatori di grano, è il secondo produttore al mondo di frumento dopo la Cina, che soddisfa essenzialmente il mercato interno.

Con questa mossa il governo del presidente Modi avrebbe voluto assicurarsi che il grano prodotto nel subcontinente indiano restasse all’interno del paese, evitando che l’alto prezzo del cereale favorisse l’export a danno della popolazione più povera. Misura eminentemente politica perché le “guerre per il pane” stanno per ritornare all’ordine del giorno.

I primi paesi importatori al mondo, sono anche paesi, sovrappopolati, con una parte rilevante dei cittadini sotto la soglia della povertà o bordenline. E sono nell’ordine: Egitto (che importa mediamente 12 milioni di tn annue), Indonesia, Algeria, Turchia, Brasile. I primi quattro paesi sono nel Mediterraneo, a cui va aggiunta anche la Tunisia non in termini quantitativi ma relativi, dove anche in tempi recenti sono scoppiate le rivolte per il pane e complessivamente importano ogni anno qualcosa come 37-38 milioni di tn. di grano tenero.

Per inciso, il grano duro, che viene usato per la pasta, rappresenta solo il 5% del mercato mondiale del frumento e viene prodotto in pochi paesi, soprattutto nel Mediterraneo e in Canada, con l’Italia come primo produttore al mondo, ed anche primo importatore data la sua specializzazione nel settore.

Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale. Stesso discorso, in parte, vale per il mais, usato prevalentemente per gli allevamenti zootecnici. In questo caso l’Ucraina ha un peso rilevante, rappresentando il 15 % dell’export mondiale, e la Ue è uno dei principali importatori di mais, soprattutto per la domanda proveniente dagli allevamenti industriali, disallineati rispetto alle risorse agricole del territorio in cui operano.

Stiamo tornando, senza accorgercene, ai tempi delle città-Stato in Grecia, in cui Solone proibì l’export dei beni alimentari, ad eccezione dell’olio d’oliva, ritenendoli come una riserva strategica in caso di guerra. E la Ue che fa in questo nuovo scenario?

E’ il principale esportatore di grano al mondo, con circa 33 milioni di tn, ma è anche un importatore per circa 7 milioni di tn. Dato che è un esportatore netto potrebbe battersi per porre un tetto al prezzo del grano e sostenere, anche con un contributo proprio, il prezzo all’esportazione per i paesi del Mediterraneo più minacciati da questa nuova situazione. La pace si conquista prima che scoppi un conflitto o che un paese precipiti nel baratro di una guerra civile.

È arrivato il tempo in cui la Ue potrebbe pensare seriamente ad un Mercato Comune Mediterraneo con una strategia di integrazione delle economie della sponda Nord e Sud-est, partendo dall’energia e dai beni alimentari, e varando una intelligente politica di accoglienza e gestione dei flussi migratori. Dobbiamo prendere atto che questa guerra, ancor più della pandemia, ha dato un colpo pesante alla globalizzazione capitalistica, alla creazione di un mercato unico mondiale.

La lotta fra gli imperi, richiamata da chi scrive prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sta ridisegnando le mappe dei diversi mercati “interni” in cui il “prezzo politico” diventa prevalente rispetto a quello economico. Ma, questo processo di de-globalizzazione è anche una occasione storica per ripensare alle politiche economiche in campo energetico e agro-alimentare. In particolare, è arrivato il momento di rivedere radicalmente la P.A.C. (Politica Agricola Comunitaria) che ha privilegiato grandi aziende ad alto consumo energetico e impatto ambientale a favore di una agricoltura contadina, l’unica in grado di proteggere la biodiversità e l’autosufficienza di un territorio.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
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Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Da oltre un mese l’Italia è sotto assedio. Il popolo ucraino, cui va tutta la nostra incondizionata solidarietà, è martoriato dalle bombe russe, noi dalla propaganda di un sistema informativo unilaterale e totalitario.

I nostri media infliggono una grave ferita alla democrazia italiana. E’ evidente che questa schiacciante attenzione alla tragedia ucraina ha diversi scopi. Essa cancella le gravi responsabilità dell’Europa, che negli ultimi 30 anni ha affidato la propria politica estera alla Nato a guida Usa, assecondandola in tutte le guerre condotte nei vari angoli del pianeta.

Oggi la guerra ce l’abbiamo in casa, gli Usa sono lontani, ma è l’Europa a sostenere i contraccolpi delle sanzioni, i costi dell’accoglienza, il flagello dell’inflazione. Ma Tv e grande stampa vogliono far dimenticare agli italiani i problemi irrisolti della sanità pubblica, dopo due anni di devastazione pandemica, della scuola dove gli studenti possono morire per incidenti sul lavoro, del Mezzogiorno dilaniato dalla disoccupazione di massa, della corruzione e del prosperare indisturbato delle mafie. Mentre contribuiscono a mettere da parte i programmi di transizione ecologica, a cedere alle lobbies dell’energia fossile. Ma lo scopo principale è ora far digerire agli italiani la proposta di portare al 2% del nostro Pil la spesa in armamenti.

Rimanere nel cono d’ombra della Nato, vale a dire piegarsi alla pretesa degli Usa di restare l’unica superpotenza del globo, è un errore strategico mortale: significa accettare un progetto di guerra perpetua, e soprattutto rinunciare a un ordine mondiale fondato sulla pace, il multilateralismo e la cooperazione fra gli stati.

Di fronte alle minacce del riscaldamento climatico e dell’esaurimento delle risorse, accrescere gli armamenti, alimentare i conflitti, è un delitto contro l’umanità, una corsa deliberata verso l’abisso.

Di fronte a questa prospettiva, alle forze politiche e di governo che sono diventate un unico raggruppamento di centro, impegnati a difendere il proprio recinto elettorale e dunque lo status quo, l’immobilismo che trascina il Paese nel declino, appare drammaticamente urgente intraprendere una iniziativa politica.

E’ necessario muoversi contro la guerra e per un accordo tra le parti. Ma occorre avviare con urgenza un percorso di confronto tra le forze democratiche e progressiste, in grado di dar voce ai bisogni dei cittadini e una speranza ai giovani.

Servono a questo scopo forze sociali e culturali che si mettano al servizio di un compito preciso, testimoniato anche da altri gruppi che hanno già intrapreso questo percorso. Scandagliare il territorio italiano, nella sua varietà policentrica, per far emergere i problemi veri del Paese e delle persone: dalla sanità alla scuola e alla ricerca, dalla questione del salario minimo al lavoro delle partite iva, dalla riforma del welfare ai temi di genere, dall’autonomia differenziata alla transizione ecologica, dall’economia della cittadinanza alla lotta alle rendite, senza mai dimenticare che operiamo in un pianeta in pericolo.

Un percorso che dia voce ai soggetti marginalizzati, a chi non ha voce e potere ma solo bisogni insoddisfatti, se non prospettive di una vita spezzata. Una voce che rimetta senza indugio al centro della sua azione le disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento; e che torni a parlare di giustizia fiscale e ambientale, di rafforzamento dell’occupazione pubblica, di diseguaglianze e povertà, di un nuovo stato sociale, di spiazzamento delle posizioni di rendita, sia private che pubbliche.

Pensiamo a un rivolo che si accresce via via, raccogliendo affluenti dai vari punti delle Penisola, dai sindaci, dagli insegnanti, dagli operai, dai sindacalisti, dai semplici cittadini, alle organizzazioni delle cittadinanza attiva, dai militanti dei tanti collettivi politici e culturali, al mondo delle imprese a impatto sociale.

L’esito di questo percorso dovrebbe portare anche all’individuazione di nuove figure, nuovi candidati e candidate che nutrano il rinnovamento del ceto politico. Una nuova politica culturale mobilitante, per ottenere degli effetti, richiede nuove persone che si vogliano sperimentare in progetti e azioni collettive.

Pensiamo di chiedere questo sforzo generoso d’avanguardia intellettuale a persone con esperienza politica e militanza a favore delle donne, come Laura Marchetti e Tiziana Drago, a insegnanti che da anni si battono per una scuola democratica e contro l’autonomia differenziata, come Renata Puleo, a docenti universitari impegnati nel dibattito pubblico come Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni e Rossano Pazzagli, a uomini politici di lunga esperienza, ma fuori dai partiti, come Luigi De Magistris, insieme a tanti altri che qui non è possibile menzionare.

Questo movimento dovrebbe anzitutto individuare un certo numero di proposte concrete e operative, all’altezza della radicalità delle sfide che si devono oggi affrontare, mettendo al centro i bisogni delle persone, la loro vita quotidiana e capacità di aspirare a un futuro migliore.

L’esito di questo confronto articolato e diffuso dovrebbe concretizzarsi nella grammatica minima per costruire – insieme agli altri soggetti del “Paese vivo” che si stanno orientando nella stessa direzione – una aggregazione plurale ma con un indirizzo chiaro.

In un Paese con un astensionismo al 40% e un’offerta politica ormai schiacciata verso il centro-destra, occorre restituire rappresentanza a una domanda di democrazia sostanziale e di sinistra che ha ormai perso la voce perfino per potersi lamentare. Occorre elaborare al più presto un programma in pochi punti a cui lavorare nei prossimi mesi.

Primi firmatari

Piero Bevilacqua, Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni, Guido Ortona, Domenico De Masi, Ginevra Bompiani, Piero Caprari, Tiziana Drago, Maurizio Fabbri, Marina Leone, Ernesto Longobardi, Antonio Castronovi, Gaetano Lamanna, Vezio De Lucia, Enzo Scandurra, Domenico Cersosimo, Giuseppe Giuliano, Battista Sangineto, Ignazio Masulli, Salvatore Romeo Bufalo, Andrea Battinelli, Giuseppe Aragno, Laura Marchetti, Eugenio Occhini, Franco Trane, Renata Puleo, Raul Mordenti, Paolo Favilli, Pino Ippolito, Lucinia Speciale, Franco Santopolo, Sergio Simonazzi, Franca Grasselli, Pietro Soldini, Armando Vitale, Gregorio De Paola, Alberto Ziparo, Umberto Ursetta, Roberto Scognamillo, Luigi Vavalà, Mario Fiorentini, Roberto Musacchio, Amalia Collisani, Franco Novelli, Rossano Pazzagli, Rita Castellani, Salvatore Cingari, Vera Pegna, Gloria Sirianni, Dino Greco, Pierluigi Panici, Sandro De Toni, Umberto Carbone, Marcello Paolozza, Franco Blandi, Gianni Principe, Tiziana Colluto, Franco Toscani, Sonia Marzetti, Paolo Cagna Ninchi, Giuseppe Panuccio, Bruna De Andreis, Isabella Temperelli, Roberto Giordano, Susanna Crostella, Emilia Galtieri, Fabio Marcelli, Vito Teti, Ferdinando Laghi, Maurizio Pelliccia, Marco Cordella, Mara Rossetti, Alessandro Renzi, Marco Tassarotti, Riccardo Tranquilli, Laura Ceccarelli, Carla Grandi, Vincenzo Benessere, Nunzia Di Maria, Massimo Arcangeli, Eduardo Cimmino, Marina Castagneto, Daniela Lourdes Falanga, Ileana Capurro, Salvatore Panico, Franco Arminio, Agnese Palma, Enza Talciani, Gianfranco Argentero, Rodolfo Cilloco, Leonardo De Angelis, Enrico Chiavini, Franco Lufani, Luca Fontana, Giuseppe De Gregori, Piero De Luca.

https://ilmanifesto.it/ridiamo-la-parola-ai-cittadini-italiani

Il bellicismo suicida degli italiani.- di Piero Bevilacqua

Il bellicismo suicida degli italiani.- di Piero Bevilacqua

Ho dovuto leggere un paio di volte l’articolo di Andrea Carugati (Il manifesto, 17/2) che informava dell’ordine del giorno votato con maggioranza piena alla Camera al fine di “avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del Pil”. Si tratta di passare dagli attuali 25 miliardi di spese militari all’anno (68 milioni di € al giorno) a 38 miliardi (104 milioni al giorno). Ho dovuto rileggere il testo anche per persuadermi che era stato votato non solo dal PD, ma anche da LEU, con l’opposizione di Fratoianni, i gruppi di ManifestA, di Alternativa e i Verdi.

E’ davvero difficile non rimanere sbalorditi di fronte all’infantilismo bellicista del ceto politico italiano, gonfiato da una campagna mediatica attiva 24 ore su 24, che non si era mai vista nella storia della Repubblica. Una fanfara propagandistica così totalitaria e faziosa da guastare perfino il dolore per la martoriata popolazione ucraina che sopporta la sciagura per niente mediatica della guerra.

Il servilismo filo-atlantico non aveva mai toccato queste vette e si fa fatica a capire perché. Certo l’Italia ha subito per quasi quattro secoli il dominio dello straniero e si comprende che è nei cromosomi delle sue classi dirigenti l’attitudine alla subordinazione. Ma ora continuare a piegare la testa agli ordini della Nato a guida USA equivale a una cecità suicida di portata strategica così evidente da sbalordire.

Siamo con ogni evidenza di fronte a una incapacità dell’Italia e dell’Europa di far valere i propri interessi, che sono interessi di pace, ma che ora arriva all’autopunizione. I governi europei hanno avuto una grande occasione all’indomani del crollo dell’URSS, potevano essere i protagonisti di un nuovo ordine mondiale multipolare, attirando nella propria orbita la Russia, costringendo gli USA ad accettare la fine della guerra fredda e ridimensionare la Nato, prendendo atto dei nuovi grandi attori che entravano in scena: Cina,India Brasile.

E’ singolare come si dimentica che gli USA per tutti gli anni ’90 e oltre hanno fatto affari con la Cina, che comprava a getto continuo titoli dell’ingente debito pubblico americano e spediva merci a buon mercato alimentando l’perconsumo interno e tenendo a bada l’inflazione. Quindi la Cina non poteva essere un nemico. Il fantasma della guerra fredda bisogna rimetterlo in piedi altrove. L’espansione a Est della Nato che insidiava gli interessi dell’Europa non è stata minimamente contrastata dai governi del Vecchio Continente, anzi hanno sempre accettato la versione americana in ogni conflitto locale, imponendo sanzioni che ci danneggiavano, ignorando per pochezza politica le necessità di sicurezza della Russia, uscita umiliata dalla disfatta del ’91.

E’ evidente che l’Unione Europea, diretta da ragionieri ingobbiti sui calcoli finanziari per realizzare l’austerità economica, non ha mai alzato gli occhi sullo scenario internazionale degi ultimi 30 anni, se non per ubbidire alla Nato e infilarsi in tutte le sue guerre per trarre qualche piccolo vantaggio.Priva di ogni visione strategica, ora che si ritrova la guerra in casa manda strepiti infantili e rispolvera toni bellicistici d’antan. Ascoltare gli impegni di riarmo del cancelliere Scholtz evoca le pagine più buie segnate dalla Germania nel ‘900.

Quanto a noi italiani, che avremmo un potere contrattuale enorme nei confronti degli USA, con la Penisola diventata una partaerei americana nel cuore del Mediterraneo, trascuriamo che la nostra appartenenza all’Allenza ci costringere da decenni a stare su vari fronti di guerra, in violazione della Costituzione, a dilapidare somme ingenti in armamenti: nel 2021 il nostro governo ha programmato 12 miliardi di nuove spese. Risorse che potremmo spendere per vaccinare i poveri lasciati senza cure nei vari angoli del mondo anziché bombardarli.

Ci chiediamo: di fronte a queste scelte che senso ha aver varato il PNRR-Next Generation UE? Siamo mobilitati per cambiare il nostro modello di sviluppo, approntare risposte al ricaldamento climatico, affrontare quella che si presenta come la più imprevedibilie delle sfide che l’umanità abbia mai avuto di fronte, e noi dobbiamo inseguire le ambizioni geopolitiche degli USA?

Sappiamo, tuttavia, che appena si troverà una soluzione alla guerra e la polvere propagandistica si depositerà al suolo, anche noi che scriviamo e discutiamo vedremo quel che già vedono milioni di Italiani: un paese sempre più povero, devastato dalla pandemia, dai fallimenti a catena di piccole imprese ed esercizi commerciali, e ora dall’inflazione crescente e da tutti gli effetti di ritorno delle sanzioni alla Russia, con un Mezzogiorno flagellato dalla disoccupazione, un debito pubblico ingigantito che i ragionieri dell’UE ben presto ci rammenteranno. E tutti i partiti della Repubblica sono concordi nel portare al 2% del Pil le spese militari?

Stile di vita e industria bellica Usa nello scenario ambientale post-Covid.- di Piero Bevilacqua

Stile di vita e industria bellica Usa nello scenario ambientale post-Covid.- di Piero Bevilacqua

La dimensione mondiale della pandemia prefigura oggi uno scenario ingannevole rispetto ai problemi che gli Stati dovranno affrontare allorché si presenteranno, con la loro drammatica urgenza, i nodi inaggirabili del collasso ambientale. Oggi abbiamo di fronte un nemico comune e questo rende più facile l’unità di intenti – in questo caso la ricerca di un vaccino – ma in futuro non sarà così.

La catastrofe ambientale cui andiamo incontro per effetto del caos climatico non avrà le fattezze di un nemico invisibile che ci accomunerà nella lotta per fronteggiarlo. Ma avrà forme ben più complesse e soprattutto dinamiche tendenti a dividere e perfino a contrapporre i comportamenti dei vari governi nazionali.

La catastrofe ambientale verosimilmente si presenterà come sommersione di vaste zone terrestri, desertificazione, riduzione dei corsi fluviali e degli specchi lacustri, diminuzione delle terre fertili, di estati roventi, perdita di raccolti, alluvioni, scarsità di materie prime. Quando questo scenario ambientale apparirà in tutta la sua cogenza sarà difficile, stante l’attuale ordine mondiale, immaginare una risposta concorde e unitaria da parte dei singoli Stati.

L’equilibrio, fondato sulla competizione più sfrenata, che ha disseminato la Terra di focolai di guerra, non può affrontare le emergenze ambientali con spirito cooperativo e solidale come si può affrontare una pandemia. E’ drammaticamente realistico immaginare che il venir meno di risorse fondamentali per mantenere gli standard economici dei vari paesi, acuirà i termini della competizione, con possibilità di conflitti armati dagli esiti imprevedibili.

Dobbiamo rammentare quanto è già avvenuto, prova sperimentale di quel che potrà succedere con ben altri esiti. Vale ricordare con quale espressione George W.Bush si smarcò dagli obblighi del Protocollo di Kyoto: ”Lo stile di vita americano non è negoziabile”. Ebbene, questo voleva significare che un paese con il 4% della popolazione mondiale, ma che consuma il 30% delle risorse del pianeta, si rifiutava di condividere le responsabilità collettive delle scelte che il riscaldamento climatico imponeva a tutti. Ma tale posizione di Bush, reiterata di recente in forme più aggressive e grottesche da Donald Trump, deve indurre a una riflessione sul ruolo degli Stati Uniti nello scenario mondiale.

Gli Usa sono un Paese che ha subìto negli ultimi 30 anni una rottura dei suoi equilibri interni e internazionali. Con il crollo dell’Urss, i suoi gruppi dirigenti hanno perso il nemico storico, un pilastro fondamentale per il loro dominio sull’Occidente. Il ruolo di contenitore del comunismo aveva fornito uno strumento egemonico impareggiabile sia per il consenso interno, che per imporre modelli culturali nel resto del mondo e possibilità di ingerenza in territori lontani come il Mediterraneo e il Medio Oriente.

Ora, è esattamente questo squilibrio destabilizzante, che mostra quanto profondamente sia diviso al suo interno il paese America, e la spasmodica ricerca dei suoi gruppi dirigenti di un nuovo nemico che autorizzi la continuità della sua politica imperiale e recuperi il consenso sul fronte interno. Non è tutto. Nella politica internazionale degli Usa un ruolo rilevante lo svolge il Pentagono ovvero la più grande fabbrica d’armi del pianeta. Un’industria che rappresenta una delle componenti del suo sviluppo economico: indirettamente per la supremazia militare che assicura e per gli incrementi del Pil. E questo non da oggi appartiene alla consapevolezza strategica dei gruppi dirigenti.

Già nel 1950, nell’amministrazione Truman « si teorizzava non solo la piena compatibilità tra burro e cannoni, welfare state e warfare state, ma la loro stretta interdipendenza: la crescita dei secondi avrebbe alimentato quella del primo, in una spirale virtuosa potenzialmene illimitata».(M.Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, Laterza). Dunque lo “stile di vita americano” è sostenuto anche dal successo dell’industria militare, grazie a un numero crescente di conflitti armati per il mondo.

È la continuità sostanziale della politica militare Usa, resa possibile dalla Nato, sopravvivenza della guerra fredda, a cui l’Europa continua a restare asservita. I 70 milioni di cittadini che hanno eletto Trump saranno disposti a rinunciare all”America first”? Che cosa aspetta l’Ue a staccarsi dalla Nato e favorire un assetto più equilibrato dei poteri mondiali, unica condizione per evitare che la lotta per accaparrarsi i beni scarsi della Terra si trasformi nell’ultima delle guerre?

da “il Manifesto” del 16 novembre 2020
Foto di David Mark da Pixabay