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Lettera aperta al ministro Giuli sul Museo Alarico

Lettera aperta al ministro Giuli sul Museo Alarico

I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto dicendo di voler “imprimere un’accelerazione”, come affermato dall’attuale Sindaco Franz Caruso, alla ripresa dei lavori di costruzione del Museo Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora Direzione generale del Mibac che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza, Mario Pagano.

I sottoscritti chiedono che il MiC per mezzo dei suoi organi centrali, Direzione generale, e periferici, Soprintendenza Abap di Cosenza, impedisca la costruzione di un qualsivoglia manufatto- che, del resto, sarebbe del tutto privo di reperti attribuibili ad Alarico o ai Goti- ai piedi del Centro storico della città di Cosenza che ha già un vincolo diretto e un vincolo paesaggistico sin dal 1969.

Un qualunque edificio costruito in quel luogo con forme, tecniche e materiali moderni sarebbe del tutto fuori contesto rispetto al tessuto architettonico e urbanistico della città antica. Auspichiamo che al posto dell’ormai abbattuto ex Hotel Jolly venga allestito, invece, un giardino pubblico alberato, un luogo destinato alla visione paesaggistica della confluenza dei due fiumi, come è stato già dagli anni ’20 del XX secolo (in foto).

I sottoscritti si chiedono, ancora una volta, cosa spinga anche questa Amministrazione comunale, a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- intitolato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C., secondo un racconto poco attendibile del solo Iordanes, l’apologeta dei Goti vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.

Dal racconto di Iordanes, se pure fosse verificato, si deduce che, a causa dell’accidentale morte del re nei pressi di “Consentia”, centinaia di antichi cosentini furono costretti dai Goti prima a deviare il fiume e, poi, a seppellire Alarico con il bottino frutto del saccheggio di Roma e di tutta l’Italia meridionale. Per evitare di lasciare testimoni ed eventuali, futuri cercatori di tesori, i Goti assassinarono tutti i prigionieri cosentini che avevano partecipato alla sepoltura. Perché, dunque, celebrare Alarico e i Goti che avrebbero trucidato, milleseicento anni or sono, centinaia di progenitori dei cosentini?

I sottoscritti ritengono che l’intitolazione di un museo ad un personaggio storiograficamente controverso e il seduttivo vagheggiamento del ritrovamento di una sepoltura leggendaria, della quale non è stato rinvenuto neanche il più piccolo frammento, siano elementi che concorrono attivamente all’offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia che conduce all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa ed infondata invenzione identitaria.

I sottoscritti ritengono che la costruzione di un Museo Alarico, che non potrebbe contenere nulla che sia materialmente riconducibile ad Alarico o ai Goti, sia non solo storicamente sbagliata e socio-antropologicamente manipolatoria, ma anche umiliante per una città -dal IV sec. a.C. capitale dei Brettii e, poi, importante municipium romano- ed una popolazione che, nel corso dei secoli, hanno saputo esprimere ben altre, e più alte, personalità: Aulo Giano Parrasio, Bernardino Telesio, Sertorio Quattromani, Valentino Gentile, Francesco Saverio Salfi, Giovan Battista Amico, Alfonso Rendano, Pasquale Rossi et cetera.

I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.

I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Alessandro Giuli, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del cadente Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.

Battista Sangineto, archeologo, Unical
Armando Taliano Grasso, archeologo, Unical
Salvatore Settis, archeologo, Accademia dei Lincei
Pier Giovanni Guzzo, archeologo, Accademia dei Lincei
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Univ. Stranieri Siena
Vito Teti, antropologo e scrittore, Unical
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Lucia Faedo, archeologa, Univ. di Pisa
Franco Cambi, archeologo, Univ. di Siena
Alessandra Anselmi, storica dell’arte, Univ. di Bologna
Alberto Ziparo, urbanista, Univ. di Firenze
Roberto Budini Gattai, urbanista, Univ. di Firenze
Tonino Perna, economista, Univ. di Messina
Francesco Raniolo, politologo, Unical
Mariafrancesca D’Agostino, sociologa, Unical
John Trumper, linguista, Unical
Marta Maddalon, linguista, Unical
Enzo Scandurra, urbanista, Univ. La Sapienza Roma
Donatella Loprieno, costituzionalista, Unical
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già funzionario Mibac
Maurizio Pistolesi, archeologo, Cosenza
Pino Ippolito Armino, storico
Annarosa Macrì, giornalista, Cosenza
Paolo Veltri, ingegnere idraulico, Unical
Alessandra Carelli, storica dell’arte, Cosenza
Mauro Minervino, antropologo, Accademia Belle Arti CZ
Teresa Liguori, Consigliere nazionale Italia Nostra
Maria Cristina Lattanzi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Liliana Gissara, Consigliere nazionale Italia Nostra
Laura Comi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Federazione provinciale Rifondazione Comunista Cosenza
USB, Federazione di Cosenza
Associazione La Base, Cosenza
Forum Ambientalista Calabria
Antonio Trimboli, ingegnere, Cosenza
Massimo Ciglio, dirigente scolastico, Cosenza
Ida Selene Broccolo Tommasi, operatrice culturale, Cosenza
Sergio Nucci, medico, Cosenza
Stefano Catanzariti, attivista civico, Cosenza
Sergio Aquino, imprenditore, Cosenza
Ercole Barile, imprenditore, Cosenza
Argia Morcavallo, architetto, Cosenza
Francesco Saccomanno, attivista politico, Cosenza
G. Pino Scaglione, architetto, Univ. di Trento
Monica Nardi, chimica, Università Magna Grecia
Francesco Gaudio, docente, Fermi-Brutium” Cosenza
Angelo Broccolo, medico, Corigliano
Vincenzo Reda, vicepreside Fermi Brutium Cosenza
Emilio Nigro, poeta, Cosenza
Luigi Gallo, docente, Cosenza
Valerio Formisani, medico, Cosenza
Antonio Curcio, bibliotecario, Cosenza
Maria Pia Funaro ingegnere ambientale, Cosenza
Rosanna Tedesco, docente, Liceo Classico Telesio
Giuseppe Bornino docente, Liceo Amantea
Antonio Romeo, docente, Liceo Classico Telesio
Simona Serra, docente, Liceo Fermi
Lisa Sorrentino, cittadina, Cosenza
Franca Garreffa, sociologa, Unical
Pino Scarpelli, cittadino, Cosenza
Maurizio Nuccio, avvocato Cosenza
Giusy Branda, docente ” Scorza” Cosenza
Francesco Cirillo, giornalista e scrittore
Andrea Bevacqua docente, IstC Cosenza
Pierluigi Grottola, docente Convitto Nazionale Telesio
Giorgio Marcello, sociologo, Unical
Eliodoro Loffreda, docente, Liceo Telesio
Giulia Fragale attivista, Cosenza
Francesco Morelli, cittadino, Cosenza
Maria Grazia Francesca Cavaliere, cittadina, Cosenza
Giuseppina Calvelli, cittadina, Cosenza
Patrizia Gallo, dottore commercialista, Cosenza
Sergio Crocco, Associazione Terra di Piero
Giuseppe Cirò, cittadino, Cosenza
Giovanni Sole, storico e antropologo, Unical
Ida Rende, sociologa, Cosenza
Loredana Bruselles, cittadina Cosenza
Massimo Sisca commerciante, Cosenza
Alessandro Iantorno cittadino, Cosenza
Paola Pietramala, matematico, Cosenza
Francesca Canino, giornalista, Cosenza
Eduardo Zumpano, storico, pres. Anppia Cosenza

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Le città sono la rappresentazione materiale dei più importanti conflitti politici, sociali, culturali ed economici del nostro tempo e l’unificazione dell’area urbana di Cosenza è, in Calabria, quella più importante e gravida di significati e interessi politici, economici e sociali.

Da qualche decennio accade che sull’idea di città in troppi si esprimano in libertà tanto da far diventare luogo comune l’idea che la grandezza, la ‘Bigness’ delle città, e delle loro più o meno sterminate periferie-‘sprawl’, garantirebbe alla nostra società, in un mondo di città sempre più grandi e globalizzate, prosperità e benessere. Secondo questa ricetta neoliberista l’agglomerazione urbana farebbe della dimensione in quanto tale (attraverso le economie di scala e gli effetti di rete) un fattore che innescherebbe di per sé il successo delle grandi città.

La grandezza delle città avrebbe il vantaggio di trasformare la dimensione stessa in un motore di creatività attraverso la competitività di produttività, di successo e, dunque, di felicità. La ‘Bigness’ e l’urbanizzazione delle campagne circostanti alle città, invece, non è altro che uno dei tanti modi che il neoliberismo ha trovato per estrarre più ricchezza dalle città sempre più grandi trasformando lo spazio in merce e aumentando, per mano della speculazione edilizia, la diseguaglianza sociale ed economica (Settis 2017).

Per mettere le mani sulla città gli speculatori e la politica si affidano agli urbanisti e all’urbanistica che era nata, come disciplina autonoma, durante la rivoluzione industriale con la vocazione di correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. A partire dagli anni ’80 essa ha perduto, però, la sua originaria vocazione riformatrice per diventare, con le sue competenze giuridiche e tecniche, un potente strumento nelle mani dei governanti, amministratori pubblici, immobiliaristi e, persino, finanzieri, per manipolare e condizionare lo sviluppo delle città e il governo del territorio nella direzione della speculazione, dello sviluppo edilizio infinito e incontrollato (Scandurra 2024).

Un sviluppo incontrollato che, per esempio, a Cosenza si manifesta con le demolizioni/ricostruzioni nella porzione nobile della città otto-novecentesca in Via Rivocati, Corso Umberto, via Parisio, (come denunciato dal Coordinamento ‘Diritto alla città’), ma ora anche l’ecomostro di lusso alto più di 15 piani con ben 19.000 mq. di estensione che vorrebbero costruire lungo via Popilia, mentre a Catanzaro è, persino, più evidente perché si vogliono demolire, addirittura, l’ex Convento della Maddalena (XVI sec.) nonché il Convento della Stella (XVI-XVII sec.) e l’ex Convento di S. Agostino (XVI sec.) per ricostruirli, tutti, sotto forma di residenze per militari e per altre destinazioni d’uso (come denunciato da un appello di Italia Nostra).

La questione dello sviluppo infinito non riguarda solo gli specialisti di sviluppo urbano, di geografia economica, di architettura e urbanistica, ma deve riguardare la politica, soprattutto quella di sinistra, perché riguarda l’interesse generale dei cittadini. In un recente studio multidisciplinare pubblicato sul prestigioso “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, alcuni studiosi europei sostengono che “il successo di una città non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (Engelen, Johal, Salento, Williams 2017).

E se la principale caratteristica di una città bella e buona consiste, come credo fermamente, nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi”, bisogna avere, come già proposto da molti urbanisti e studiosi della città negli anni ’70, città più a misura d’uomo, rifacendosi, per esempio, al modello delle piccole e medie città storiche italiane (La Cecla 2015).

Non capisco, dunque, perché la sinistra politica– o quel che ne rimane a Cosenza, Rende e Castrolibero- non si opponga fermamente alla città unica che si presenta come un’annessione di Rende e Castrolibero alla città capoluogo, configurandosi come un’altra, inutile e ingovernabile, “nebulosa urbana” pensata per ridurre ancor di più lo spazio a merce.

Un’annessione, come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto, che costringerebbe, peraltro, i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini: 1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione 2) il referendum ‘decisivo’ non può avvenire prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala -per altri sei mesi, in tutto due lunghissimi anni- renderebbe l’espressione del voto dei suoi cittadini democraticamente più debole.

Per quel che riguarda il potere esercitato dai tre commissari insediatisi nella Casa comunale di Rende si deve lamentare un abbassamento della tensione democratica perché essi non hanno voluto, in nessun modo, tener conto delle molte, e differenti, istanze avanzate dai cittadini e dalle loro associazioni riguardo ad argomenti importanti quali: la radicale decimazione del verde pubblico, la complessiva riduzione dell’illuminazione delle strade, l’insostenibilità delle piste ciclabili sempre deserte, l’affidamento di beni pubblici come parchi, impianti sportivi o mercatali a privati a titolo gratuito o a prezzi risibili, il disturbo della quiete pubblica provocato da circhi con animali esotici e assordanti luna park nel pieno centro della città, nonché la musica ad altissimo volume proveniente da locali e da sedicenti feste durante 3 settimane in un parco pubblico, addirittura patrocinate dai commissari medesimi, la mancata disinfestazione cittadina mentre si diffonde, in provincia di Cosenza, il contagio del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare.

Non sarebbe meglio, forse, continuare ad avere, nell’area urbana cosentina, tre città, due medio-piccole ed una piccola, per poter governare meglio ambiti territoriali a misura d’uomo e a misura delle limitate capacità di governo dimostrate (se si escludono poche lodevoli eccezioni) dalle Amministrazioni comunali? Non sarebbe, forse, meglio avere tre piccole città che facciano insieme scelte e infrastrutture urbanistiche ed abbiano, questo sì, i servizi essenziali unificati: trasporti, spazzatura, mense e viabilità?

Un’opposizione di merito, la mia, dunque e non, come giustamente lamenta il mio amico Enzo Paolini riguardo a quasi tutte quelle fin qui avanzate, di bassa cucina da ‘politique politicienne’.

Il modello al quale bisognerebbe ispirarsi è proprio quello della piccola e media città storica italiana, quella nella quale si va a piedi, si può andare in bicicletta in un reticolo urbano denso e pluristratificato dal punto di vista funzionale, sociale ed economico, con una corposa densità abitativa ed una armoniosa compattezza architettonica che permette tragitti brevi ed elevata funzionalità sociale.

Un modello che non è solo architettonico e urbanistico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di restituire a tutti il ‘diritto alla città’ perché per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi più competitiva e più di successo di altre, ma che sia un luogo nel quale la vita quotidiana sia più gradevole e più equa per coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 ottobre 2024

Foto di ZENON JUSZKIEWICZ da Pixabay

Eolico. Siamo Sindaci o burattini? Si leva la voce dei primi cittadini italiani per una transizione energetica ecologica e democratica

Eolico. Siamo Sindaci o burattini? Si leva la voce dei primi cittadini italiani per una transizione energetica ecologica e democratica

Nel contesto autoritario nazionale e internazionale che si è creato i movimenti finanziari globali ( la cosiddetta “ volontà dei mercati “) determinano le decisioni dei governi e le leggi dei parlamenti. La transizione energetica si è avviata in Italia impedendo alle comunità locali da noi rappresentate di incidere sull’ubicazione degli impianti per la produzione di energia rinnovabile e su altri aspetti connessi, in grado di pregiudicare i già fragili equilibri dell’ambiente di insediamento delle nostre popolazioni.

La nostra osservazione comune è che ci troviamo nello stesso tempo di fronte a un sintomo e a una causa di aggravamento della crisi del sistema democratico. Per scongiurare la sindrome nimby, da tanti commentatori evocata e demonizzata quando danno conto delle diffuse proteste territoriali, la transizione energetica deve essere giusta, incardinata dentro percorsi politici e democratici e non può essere attuata in palese violazione del dettato costituzionale.

Grazie al rinnovato articolo 9 della Carta fondamentale, del patto fondativo che dal 1948 unisce gli italiani, la Repubblica tutela il paesaggio, gli ecosistemi e la biodiversità anche nell’interesse delle future generazioni. Nessun principio costituzionale può essere sacrificato per realizzarne un altro o, men che meno, per perseguire un contingente” prioritario interesse nazionale”: i singoli valori espressi e tutelati dalle disposizioni della Costituzione sono tutti assoluti e dello stesso rango, all’interno di un impianto complessivo orientato a promuovere la dignità della persona umana nel suo contesto ecologico e sociale.

Le leggi vigenti in materia energetica invece puntano a massimizzare i guadagni di un settore economico privato a scapito tra l’altro dei soldi versati al fisco dai cittadini. Noi sindaci chiediamo, interpretando la volontà del tessuto sociale dei luoghi da noi amministrati, che la produzione e la distribuzione dell’energia ridiventino un servizio pubblico essenziale: solo così la produzione energetica da fonti rinnovabili non sarà più insostenibile e non aggredirà il patrio suolo (con la sua funzione di fondamentale regolatore climatico), gli ecosistemi , la biodiversità e il paesaggio.

Solo enti pubblici collettivi, rappresentando l’interesse generale, potranno dedicarsi all’indispensabile passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili con interventi finalizzati alla riduzione degli sprechi energetici e all’utilizzazione in via primaria di suoli già consumati in tutta la nazione per l’ubicazione degli impianti (9000 chilometri quadrati secondo l’ ISPRA, una superficie grande quanto l’Umbria occupata da infrastrutture dismesse, capannoni agricoli e industriali, cave e miniere in disuso etc. , grazie alla quale si potrebbero abbondantemente superare gli 80 GigaWatt da raggiungere entro il 2030 ) .

I territori sono prima di tutto gli ambienti vitali di chi li abita, e non possono trasformarsi in zone di sacrificio assegnate alla monocultura energetica: devono essere vissuti dagli allevatori, dagli agricoltori, dagli apicoltori, da chi costruisce giorno per giorno un rapporto spirituale ed emotivo con il paesaggio, dagli operatori turistici, dai pescatori, insomma da tutte le categorie che noi rappresentiamo.

La crisi ecologica deve essere un’occasione per passare a una fase più avanzata della civiltà umana, per uscire tutti insieme da un dramma con un cambiamento di rotta, non un’ulteriore opportunità di guadagno per pochi nel solco già tracciato da un’economia anti ecologica, votata alla distruzione della vita e della bellezza del mondo.

Giulio Santopolo, sindaco di Petrizzi ( Catanzaro) ;
Michele Conía, sindaco di Cinquefrondi ( Reggio Calabria) e consigliere della Città
Metropolitana di Reggio Calabria ;
Giuseppe Cusato, sindaco di Agnana Calabra ( Reggio Calabria) ;
Luca Alessandro, sindaco di Polìa ( Vibo Valentia) ;
Domenico Stranieri, sindaco di Sant’Agata del Bianco (Reggio Calabria) ;
Angelo D’Angelis, sindaco di Serrata (Reggio Calabria) ;
Maurizio Onnis , sindaco di Villanovaforru (Sud Sardegna) ;
Mario Gentile, sindaco di Stalettì (Catanzaro) ;
DoNicolaenico Penna, sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) ;
Michele Tripodi, sindaco di Polistena (Reggio Calabria) ;
Giacomo Lombardo, sindaco di Ostana (Cuneo ) ;
Giuseppe Alfarano, sindaco di Camini (Reggio Calabria) ;
Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano ( Milano ) e consigliere
Metropolitano della città di Milano ;
Daniela Arfuso , sindaco di Cardeto (Reggio Calabria)
Luca Lepore, sindaco di Aiello ( Cosenza )
Nicola Fiorita, sindaco di Catanzaro
Antonio Lampasi, sindaco di Monterosso Calabro (Vibo Valentia)
Rossana Tassone. Sindaco di Brognaturo ( Vibo Valentia)
Danilo Staglianó , sindaco di Cardinale ( Catanzaro )
Alfredo Barillari, sindaco di Serra San Bruno ( Vibo Valentia)
Mimmo Donato, sindaco di Chiaravalle centrale ( Catanzaro )
Raffaella Perri, sindaco di Decollatura ( Catanzaro)

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Il movimento contro le pale eoliche che offendono il paesaggio, ha avuto ed ha un notevole consenso tra le associazioni ambientaliste del Mezzogiorno, in particolar modo in Calabria e Sardegna. Il motivo principale dell’opposizione alle grandi pale eoliche è il paesaggio. Un bene immateriale importante che deve essere preso in considerazione senza ignorare quello che dovrebbe essere il principale obiettivo degli ambientalisti: la salvaguardia del pianeta, e quindi della nostra vita, dagli effetti perversi dell’inquinamento della terra, dei mari, dei fiumi, laghi e il moltiplicarsi degli “eventi estremi”.

Non possiamo non chiederci: perché non c’è questo tipo di mobilitazione per l’aumento della C02 legata all’uso dei combustibili fossili che sta sconvolgendo l’ecosistema? Perché non ci si mobilita per la plastica che ha invaso il pianeta e che ormai ha riempito i nostri mari, gli oceani, entrando nella catena alimentare? La Commissione Ue aveva cercato di far passare un provvedimento per mettere lo stop alla produzione di plastica, ma il governo italiano si è opposto perché deve salvaguardare la nostra industria degli imballaggi e confezioni in plastica di cui ci vantiamo di essere i primi in Europa.

E ancora, perché non ci si mobilia contro i tanti enti locali, scuole, che hanno installato i pannelli solari e non li hanno mai collegati? La Calabria è piena di pannelli solari abbandonati da enti pubblici per il menefreghismo che li contraddistingue.
Vogliamo renderci conto che stiamo andando velocemente verso la catastrofe ambientale?! I radicali cambiamenti climatici che nella storia della Terra richiedevano secoli se non millenni adesso avvengono in poche decine di anni.

Ne abbiamo mille prove ma facciamo finta di niente perché la nostra unica e vera preoccupazione è la crescita economica misurata da un indicatore, il Pil, che da tempo tanti contestano ma senza incidere su questo mito del nostro tempo che trasforma in ricchezza monetaria la distruzione ambientale (basti pensare solo al fatto che una parte del commercio delle droghe contribuisce ad accrescere il Pil, quanto gli incidenti stradali, ecc.).

Tra i mille segnali di un cambiamento climatico accelerato vorrei citarne uno che è poco conosciuto. Riguarda l’acqua del mare dello Stretto di Messina, da secoli la più gelida tra tutte le acque che bagnano la nostra penisola per via delle impetuose correnti che risalgono, a causa di una montagna che attraversa questo tratto di mare, da una profondità di 2000 metri (di fronte a Taormina) ad una profondità di 90 metri (tra Scilla e Cariddi). In breve l’acqua gelida degli abissi risale in superficie.

Bene, negli ultimi due anni gli abitanti dello Stretto hanno riscontrato con meraviglia che l’acqua di questo mare è aumentata incredibilmente di diversi gradi. Secondo il Diving Center di Scilla, che da trent’anni fa il monitoraggio della temperatura dell’acqua nell’area di sua competenza siamo di fronte ad un fenomeno inspiegabile, visto il vistoso cambiamento e il breve tempo in cui si è registrato.

Cosa vogliamo di più per capire che ci sono delle priorità e che non c’è più tempo da perdere. Certo, ogni regione dovrebbe avere un piano energetico particolareggiato che indichi priorità, luoghi, modalità di installazione impianti di energia rinnovabile. Questa dovrebbe essere una battaglia di civiltà che dovrebbe impegnare tutti, uscendo ognuno dal proprio giardinetto e guardando non il proprio dito, ma la luna che abbiamo di fronte.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 settembre 2024
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Nel ribadire il nostro consenso per il vincolo da Voi recentemente proposto per la parte otto-novecentesca della città di Cosenza (in rosso nella TAV. I), noi Coordinamento ‘Diritto alla città’ riteniamo, altresì, che tale proposta si possa, e si debba, estendere e completare per mezzo di un vincolo storico, artistico e archeologico ai sensi del Dlg. 42/2002, art. 10, comprendendo, come già in precedenza richiesto e proposto con apposita planimetria (in blu nella TAV. I), anche un’altra area avente caratteristiche di tutela di rilievo paesaggistico ex Dlg. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi nel corso degli ultimi cento anni.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento dell’area per la quale necessita della tutela paesaggistica, per i motivi esposti e in seguito ulteriormente approfonditi nel presente testo, perimetra:
Il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio.

Prosegue lungo tale arteria in continuazione per risalire su via Cesare Marini, fino all’incrocio con Corso Giuseppe Mazzini.
Risale su tale arteria per giungere a Piazza Carlo Bilotti fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri.
Da tale traversa scende verso Est fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini per poi proseguire in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.
Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato (TAV. I).

Si ribadisce che tutta l’area delle due rive del fiume Crati è interessata da rinvenimenti archeologici (TAV. II con relativo elenco), come dimostrato anche dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia, posto a Nord-Est del Centro commerciale “I due Fiumi” nelle dirette adiacenze. È molto probabile che in tale area, a partire dal Centro storico e procedendo in direzione Nord, sia stato posto il tracciato della via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Si deve ricordare, per sovrappiù, che la denominazione per tale importante asse stradale nella toponomastica cittadina di Via Popilia, in sostituzione di Via Milano, fu assegnata con Delibera del Consiglio Comunale del 20 gennaio 1955 e successiva approvazione prefettizia del 12 Marzo 1955: “Nulla osta sentita la Soprintendenza ai Monumenti ed alle Gallerie della Calabria” (Allegata Delibera Consiliare), proprio all’arteria viaria che correva parallela alla riva sinistra del Crati costituente, quest’ultima, l’area più vicina alla tumultuosa urbanizzazione del secondo dopoguerra.

Tale denominazione, documenta che negli amministratori di più di 70 anni or sono era viva e percepita come profondamente identitaria la tradizione storica bimillenaria dell’antica via consolare che, secondo gli scrittori antichi e gli studiosi moderni e contemporanei, affiancava la riva sinistra del Crati.

Del resto, come puntualmente dimostra la planimetria (TAV. II) dei rinvenimenti archeologici effettuati dall’inizio del XX secolo e fino ai giorni nostri (A. B. Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie, XXXVII , 2014 (2016), pp. 157-182.), tutta l’area è potenzialmente interessata da siti archeologici che necessitano non solo di adeguata protezione e tutela paesaggistica, ma anche di tutela archeologica diretta.
I siti e le segnalazioni di rinvenimenti archeologici nell’area sulla riva sinistra del Crati, in accordo con la numerazione della planimetria allegata (TAV. II), sono i seguenti:

2 = Località: SAN DOMENICO – VIA PIANA (attuale via S. Quattromani), probabile necropoli di epoca ellenistica;
12 = EX STAZIONE FF.SS. (attuale P.zza Mancini), presenza di tombe risalenti all’epoca romana;
13 = RIVOCATI, Edoardo Galli segnalava, in più punti, avanzi di strutture antiche;
22 = PIAZZA RIFORMA, durante i lavori di spianamento della strada, che conduce al convento dei Padri Riformati e prosegue nella zona di Cardopiano, vennero ritrovati pavimenti in mosaico. Anche nell’area del primitivo sito delle monache di S. Chiara venne dissotterrato un monumento;
25 = PIAZZA XX SETTEMBRE, Resti di tombe e di un’epigrafe sepolcrale;
26 = VIA MONTESANTO, durante la costruzione di alcuni edifici, ancora esistenti, vennero rinvenute, in corrispondenza di palazzo Cipparrone, alcune tombe databili al II a.C.;
27 = CORSO MAZZINI, durante la costruzione della Banca Commerciale, emerse del materiale archeologico costituito da: laterizi, monete e numerosi oggetti di uso comune di epoca ellenistica e romana;
28 = PETRARA (attuale area p. Mancini – via Catanzaro), furono rinvenuti resti di tombe, a sinistra del Crati, con probabile presenza di un anfiteatro;
29 = LOC. “CANNUZZE”, rinvenimento di una brocchetta del tipo “oinophoros” databile alla fine del III d.C. (ora al Museo dei Brettii e degli Enotri), alla confluenza del torrente Rovella con il Crati. Nella stessa località vennero ritrovati, inoltre, un contenitore di bronzo e un oggetto chirurgico, forse un bisturi, sempre in bronzo;
30 = RIFORMA – CARDOPIANO, nei primi anni del ‘900 il Galli afferma che in questa area (Riforma- Cardopiano) venne ritrovato un miliario in frantumi, oggi disperso;
32 = COLLINA DI MOJO (o Moio), nel 1933, durante i lavori per la costruzione dell’attuale Ospedale Civile dell’Annunziata, vennero ritrovate delle tombe, circa 70, appartenenti ad una necropoli di età brettia (IV – III a.C.).
(Si rimanda alla Tav. II – siti archeologici con legenda completa sui ritrovamenti).

Avendo le indagini archeologiche, condotte in Italia e nel bacino del Mediterraneo, dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei riteniamo che sia del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area già sopra descritta.

Si ricorda che, secondo le norme Dlg. 42/2004 e s.m.i. art. 10, in casi di questa natura e rilevanza è necessario effettuare ricerche di archeologia preventiva (D. Lgs. 50/2016, art. 25) su entrambe le rive del Crati in occasione di ristrutturazioni edilizie, di costruzioni ex novo di edifici, nonché di infrastrutture e sottoservizi pubblici e privati. Il tutto per evitare che beni archeologici possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione (Dlg. 42/2004 e S.M.I., art. 20, c. 1).

Nel complesso il sistema edilizio della città appare ancora in parte conservato, seppur fortemente condizionato in quest’area da interventi di trasformazione che ne hanno totalmente modificato la consistenza compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee. Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità delle aree già sottoposte a tutela paesaggistica.

Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana, architettonica e paesaggistica del contesto.
Tale condizione discende dal riconoscimento di notevole interesse pubblico di entrambe le aree, sia quella da Voi proposta e sia questa che comprende le rive del Crati, aventi come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie avviate sin dall’antichità romana.

Pertanto, si ribadisce che, per i motivi esposti si debba estendere all’area richiamata e perimetrata, riportata nella Tav. I, le caratteristiche di tutela di interesse paesaggistico ex D.lgs. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi.

Coordinamento ‘Diritto alla città’

No all’ondata edilizia speculativa a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

No all’ondata edilizia speculativa a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Il coordinamento “Diritto alla Città” (un insieme di associazioni cosentine, di cittadini, di soggetti formali ed informali) rivendica da tempo il diritto di contribuire alle decisioni riguardanti la città e il quartiere in cui vivono per salvaguardare il patrimonio territoriale inteso come bene comune, e più volte hanno espresso una domanda di nuove forme di democrazia partecipativa.

Soprattutto ha denunciato con forza i rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta su Cosenza negli ultimi anni e anche più recentemente: demolizione di edifici storici come quello primo-novecentesco di piazza Santa Teresa, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati ecc., inutili per la collettività. L’edificazione sulle rive del Crati sarà, a termine di legge, oggetto delle nostre osservazioni al vincolo paesaggistico della Soprintendenza che riteniamo, come avevamo già proposto, debba essere esteso ad entrambe le rive del fiume suddetto.

Decisioni di politiche urbanistiche di piccolo cabotaggio, meramente distruttive, avvolte da una inestricabile ragnatela di omissioni, sparizioni di atti, rimandi a presunte altre responsabilità, sempre eterodirette, comunque prese dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute, costituenti in ogni caso il prodotto di logiche di sviluppo cittadino fondate sulla produzione di profitto, sul calcolo utilitaristico, di interessi privatissimi e inconfessabili, sulla mancanza di qualsiasi idea di comunità locale.

Prendiamo il caso del nuovo PSC – Piano Strutturale Comunale, peraltro parzialmente pubblicato solo dopo nostre formali richieste, che, nonostante alcuni buoni propositi, appare in realtà il contenitore della precedente Amministrazione contenente i vecchi progetti che erano molto diversi tra loro (aumenti di volumetria e consumo di suolo, ristrutturazione di edifici e piazze, arredi urbani, i soliti e ormai irrispettosi murales sulle case popolari) e elaborati secondo una concezione che vede la nostra città solo come fonte di rendita e profitto dimenticandosi che Cosenza è un luogo abitato da uomini e donne, espressione di bisogni e relazioni.

Ci sarebbero oggi tutti gli elementi- politici, culturali, di innovazione economica, di composizione sociale (la città negli ultimi 10 anni è totalmente cambiata) per dare il via ad un’ampia e pubblica discussione tra cittadini, associazioni e istituzioni su come vivere tutti meglio a Cosenza. Avviare i laboratori di quartiere (come formalmente da noi chiesto e come obbligatorio per legge) sarebbe un guadagno per tutti: incontro tra le forme autonome di autorganizzazione dei cittadini e le esigenze dell’amministrazione, spostamenti in basso dei poteri e dei processi decisionali (è o non è una giunta di centrosinistra?), favorire l’affermarsi di un’idea di una città che abbia in mente la cura e la crescita di tutta la comunità locale e non solo dei soggetti economici privati.

Il Sindaco, invece, ha scelto la strada del rifiuto del dialogo: è chiaro che il modello Caruso, nonostante il suo programma elettorale, è quello secondo cui i politici decidono e i cittadini tacciono. Ne è riprova il fatto che pur essendo scaduto il termine previsto dalla legge, nessuna risposta ci è pervenuta alla nostra richiesta di accesso agli atti relativa all’abbattimento di un edificio su Corso Umberto (ma poi, se questa ennesima per noi scriteriata edificazione in atto ha le carte in regola perché, allora, non concedere l’accesso agli atti, peraltro non negabile per legge. Forse perché non segue, davvero, nemmeno i criteri di legge oltre che quelli del buon senso e del rispetto della collettività?).

Eppure eravamo stati lieti delle dichiarazioni dell’assessore Incarnato di impedire la costruzione di nuovi ecomostri anche alla luce dell’apposizione del vincolo paesaggistico e alla dichiarazione di “notevole interesse pubblico” dell’area 8/900esca cosentina fortemente perseguito nei mesi scorsi dal Coordinamento, e di avviare un percorso di confronto e di interlocuzione con le Soprintendenze e gli Ordini degli Architetti e degli Ingegneri. Ma evidentemente vale il detto “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. D’altra parte una piccola e civile richiesta di accesso civico, che in qualsiasi altra città del mondo occidentale sarebbe stata prontamente evasa, alle nostre latitudini diventa l’ennesimo episodio di scostumatezza civica, di arroganza e mal governo.

È quasi certo che il PSC alla fine sarà ratificato secondo quanto pattuito fra poteri forti e che su Corso Umberto sorgerà l’ennesimo ecomostro. Ciononostante chiediamo ancora e con più forza l’istituzione dei laboratori di quartiere e chiediamo all’assessore Incarnato e al Sindaco di includere nel costituendo tavolo tecnico-istituzionale anche la parte sociale (nello specifico il Coordinamento): riqualificare fisicamente il quartiere senza mettere in campo azioni interdisciplinari e senza coinvolgere gli abitanti sarebbe, con tutta evidenza, un’ipocrisia.

Questo modello, deliberare senza ascoltare, consultare e, tantomeno, conoscere, sopprimere le legittime istanze delle associazioni culturali dei cittadini, non ci piace perché non è democratico.

Per ultimo: non sempre chi vince ha ragione e soprattutto non sarà la mancata risposta ad una più che legittima richiesta di accesso agli atti a far cambiare le nostre idee e fermare le nostre azioni. Siamo più che convinti che un’altra città, un altro modo di stare insieme è possibile, e sappiamo che bisogna costruirlo giorno dopo giorno, nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nelle case delle culture, nelle ludoteche, nelle città dei ragazzi, dal basso. Offriamo collaborazione: fare e agire insieme e tramite ciò realizzare una città migliore per sé e per gli altri, un modo per affermare il sacrosanto diritto dei cosentini alla partecipazione attiva alla vita cittadina, al rispetto delle regole, alla bellezza e alla felicità.

Chiudiamo intanto con qualche domanda diretta al Sindaco Caruso e all’assessore Incarnato:
– come mai non avete istituito i laboratori di quartiere malgrado sia obbligatorio per legge e malgrado ve lo abbiamo chiesto formalmente già da circa 4 mesi?
– come mai non consentite l’accesso agli atti per un semplice titolo edilizio di una palazzina realizzata da un privato che utilizza fondi pubblici?
– come mai vi preoccupate di assegnare incarichi retribuiti per studiare come riqualificare il centro storico e ignorate la presenza delle associazioni di quartiere che offrono collaborazione senza aggravio di costi per il Comune?

Cosenza, 25 luglio 2024 Coordinamento ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Una nuova violenza alla qualità della vita della nostra città si sta consumando in questi giorni, in queste ore. È infatti in corso l’abbattimento di un edificio su Corso Umberto nel quartiere storico Riforma – Rivocati (il caso vuole iniziato nella distrazione generale di un fine settimana) probabilmente per fare posto ad un altro ecomostro, come i due già esistenti, in sfregio a qualsiasi idea urbanistica e a qualsiasi senso del decoro e della bellezza.

Per avere notizie sulle procedure che hanno portato all’abbattimento dell’edificio, abbiamo già inviato una richiesta di accesso agli atti alle autorità competenti e ci auguriamo che siano accertate regolarità, trasparenza e legittimità. Su quanto invece dovrà sorgere vogliamo esercitare tutto il nostro potere di cittadini e abitanti preoccupati: visti i precedenti, come sarà riempito quel vuoto?

Chiediamo alla politica, alle associazioni che hanno ottenuto importanti e legittimi finanziamenti per la rigenerazione del quartiere, in particolare al nostro Sindaco che recentemente ha dichiarato che “sta prendendo forma la città bella e armonica che ho promesso” di farci capire, di prendere posizione, di mettere in campo tutte le azioni a tutela dalla collettività, compresa la richiesta di parere alla Soprintendenza, affinché non venga realizzato un altro ecomostro come quelli già esistenti nell’area ma edifici che rispettino le leggi cogenti in materia di urbanistica, sicurezza e efficientamento energetico.

E chiediamo pure al presidente dell’ANCE (associazione costruttori) di Cosenza di responsabilizzare tutti gli attori della filiera edilizia per preservare il tessuto urbano ereditato e veicolare il concetto che fare profitto in edilizia si concilia soltanto con il massimo sforzo in termini di qualità del costruito, generando pure benessere per tutti, piuttosto che realizzando palazzoni deformi e totalmente decontestualizzati.

Allo stesso modo invitiamo i presidenti degli Ordini Provinciali degli Ingegneri e degli Architetti di Cosenza a far rispettare i principi cardine dei rispettivi Codici Deontologici che prevedono doveri e responsabilità (di ingegneri, architetti, paesaggisti) nei confronti della collettività, dell’ambiente e del benessere delle persone.

Vogliamo evidenziare l’importanza della qualità architettonica e dell’inserimento del nuovo nel contesto del paesaggio urbano, aspetto, questo, decisamente trascurato nei due casi di edifici abnormi di recente costruzione, e ciò malgrado siano sorti in un’area di valenza storica largamente riconosciuta, non a caso oggetto di recente approvazione del vincolo paesaggistico.

Il Coordinamento Diritto alla Città rivendica l’adozione di ogni provvedimento di legge finalizzato alla massima tutela della qualità del costruito da parte degli Enti preposti, ricordando che ogni nuovo ecomostro deturpa per sempre la città. Siamo ancora in tempo per arrestare l’ennesimo obbrobrio, è il momento di dire basta agli ecomostri a Cosenza.

Comunicato stampa del
COORDINAMENTO ‘DIRITTO ALLA CITTA’

AUSER TERRITORIALE COSENZA ETS
CIROMA
CIVICA AMICA APS
CONFEDERAZIONE ITALIANA GENERALE LAVORATORI (CGIL) di COSENZA
LA BASE
PRENDOCASA
RI-FORMAP APS
RIFORMA – RIVOCATI APS
UNIONE SINDACALE di BASE (USB) FEDERAZIONE di COSENZA

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

L’editoriale di Massimo Razzi ha avuto il merito di aprire un dibattito sull’unificazione dell’area urbana di Cosenza e sul consenso e sulle criticità che questa operazione comporta, interpretando il suo ruolo di direttore di un giornale regionale nel modo più alto ed esemplare.

Voglio dir subito che le supposte economie di scala e i presunti maggiori finanziamenti che si otterrebbero unificando, solo quantitativamente, i tre o quattro Comuni in una città più grande e popolosa non credo che siano davvero decisivi, ammesso che si concretizzino davvero. Quel che più mi preme è capire se la costituzione di una città unica della Media Valle del Crati possa migliorare lo spazio e la vita dei cittadini che vi abitano.

Credo che non sia possibile progettare l’unificazione -né da un punto di vista urbanistico, né da un punto di vista sociale, economico e culturale-prescindendo da una visione più ampia di quella che si può avere dai singoli campanili. La città dovrebbe esser governata avendo un’idea complessiva di tutta la Media Valle del Crati, di come possa armonicamente svilupparsi, di quali interventi strutturali ed infrastrutturali abbisogna e di quali improrogabili ricuciture e restauri necessiti questo vasto territorio.

L’unificazione, senza un’opera preventiva di armonizzazione e risanamento del paesaggio urbano, servirebbe solo ad aumentare quantitativamente quello che Rem Koohlaas (2001) definisce lo spazio-spazzatura, lo junkspace inutilizzabile dai cittadini, ma, con il tempo, eventualmente edificabile.

Non è discutibile che il centro di questo territorio sia la città di Cosenza perché senza di essa non sarebbe stato storicamente possibile che si sviluppassero gli altri paesi e casali. È evidente che non può che essere Cosenza il centro della conurbazione e che quest’ultima debba chiamarsi nello stesso modo. Cosenza ha, del resto, una antica storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale di questa parte del territorio dei “Brettii” e, più tardi, come colonia augustea e ‘municipium’ è stata il centro dell’”ager Consentinus”, esteso lungo la media valle del Crati.

Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore fino “aujord’hui”, essendo stata la città dell’Accademia cosentina e di Telesio, ma, in particolar modo, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città meridionali, formalmente autonoma e indipendente.

La città è cresciuta, soprattutto nel secondo dopoguerra, per mezzo di apporti di popolazioni provenienti da tutta la provincia. Prendendo in considerazione tutta l’area urbana si è passati, grossomodo, da 40.000 a 110.000-130.000 abitanti in pochi decenni. I cosentini da più di tre generazioni sono, ormai, una esigua minoranza.

Chi scrive è l’esempio archetipico dell’abitante dell’area urbana: nato a Cosenza da un padre sanlucidano e una madre fuscaldese e, appena sposato, andato a risiedere in uno dei quartieri nuovi di Rende. Quando mi si chiede di dove sono rispondo, senza esitazione, che sono cosentino così come la maggior parte dei miei amici e conoscenti che ha, più o meno, la mia stessa storia. I quartieri nuovi di Rende, Castrolibero e, ora, anche Montalto sono abitati da vecchi cosentini, da neo-cosentini e da mai-cosentini che sarebbero diventati neo-cosentini se avessero trovato casa nel territorio del Comune capoluogo.

È del tutto evidente che il repentino, tumultuoso e disordinato inurbamento ha creato, e crea, notevoli difficoltà identitarie ai cittadini vecchi e nuovi, ma soprattutto ai mai-cosentini. L’unificazione formale dell’area urbana accompagnata da una radicale riprogettazione urbanistica condivisa con i cittadini potrebbe dare, forse, la possibilità che si formi un’identità riconosciuta e riconoscibile per i tanti cittadini che abitano in questo ampio territorio.

La città che vorrei dovrebbe essere costituita da un’area urbana che avesse come centro direzionale, culturale ed identitario Cosenza con il suo Centro storico restaurato e rivitalizzato, il suo Teatro, i suoi Musei, le sue biblioteche, i suoi antichi palazzi, i suoi uffici, le sue vie di negozi, le sue piazze antiche e moderne rivitalizzate.

Vorrei anche che- così come il Centro storico e le colline intorno alla città- tutta l’area otto-novecentesca di Cosenza sia sottoposta a tutela paesaggistica dal Ministero della Cultura e che lo siano pure le due rive del Crati, in tutto il suo percorso urbano, per impedire che si continui a consumare suolo. Sarebbe, inoltre, necessario che scompaiano le ‘perequazioni edilizie’ favorite dall’adottato, ma non ancora approvato, Psc che furbescamente si sostiene essere a “consumo di suolo zero”.

L’area urbana di Cosenza ha già, è vero, nel proprio territorio una città urbanisticamente ben disegnata come quella di Rende Nuova, verdeggiante d’alberi, con i suoi palazzi residenziali e i relativi servizi. Una città che contiene anche un polo propulsivo e innovativo rappresentato dall’Università, ma anche da aziende a tecnologia avanzata, magari spin-off dell’Unical che si sono insediate e che possono insediarsi nella sua zona industriale. Una città che, negli ultimi anni, ha subìto un evidente depauperamento del verde, si pensi ai tagli delle decine e decine di alberi ad alto fusto sani lungo le strade cittadine, e una preoccupante crescita del cemento armato che stava per essere aumentata dal nuovo Psc.

Per realizzare compiutamente ed armonicamente quest’area urbana, però, ci sarebbe bisogno, come “conditio sine qua non”, di porre termine alla colata cementizia che ha inghiottito l’antica campagna ovunque: nei territori di Cosenza, di Rende, di Castrolibero, di Montalto risalendo ad est fino alle pendici della Sila, Rovito, Celico, a sud fino a Donnici, ad Ovest fino a S. Fili.

Una metastasi cementizia che ha lasciato dietro di sé, oltre che una edilizia perlopiù corriva e dimenticabile, una sparsa moltitudine di segmenti residuali che non sono adatti né per l’agricoltura, né per abitarvi, una cementificazione che ha prodotto una terra di nessuno, il “terzo paesaggio” evocato da Gilles Clement (2005). Si poteva realizzare, come ha teorizzato Rem Koolhaas (2020) per l’Olanda, un “intermedi-stan” o terra intermedia, possibilmente alberata, e contemporaneamente provare a fare una paziente e laboriosa opera di rattoppo fra le città e le periferie, le città e le campagne.

Ho già scritto su questo giornale che, secondo gli ultimi dati Istat (2023), la Calabria ha il 42,2% di case vuote e che la cosiddetta area urbana cosentina ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza il 20,7%, Rende il 17%, Montalto Uffugo il 14,4%. In questa area urbana, dunque, se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero ci sono 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole -grazie ai PSC (ora si chiamano così i Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende- colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

L’unificazione di questa area urbana così complessa, frammentata e diseguale da un punto di vista urbanistico, sociale ed economico non può esser fatta, ‘ex abrupto’, per legge, ma dovrebbe essere l’esito finale, di un processo lungo, laborioso e faticoso di armonizzazione frutto, anche, di un raccordo fra tutela paesaggistica e Psc municipali.

Sarebbe meglio che l’unificazione iniziasse, per esempio, con l’Unione dei Comuni sperimentando la gestione unica dei servizi più importanti: i trasporti, la viabilità, i rifiuti, il welfare e la scuola. Si deve, inoltre, tener conto dell’equilibrio finanziario fra i Comuni interessati perché se sappiamo che Rende ha un patrimonio di oltre 250 milioni a fronte di circa 40 di debiti, non sappiamo, invece, a quanto ammonta il patrimonio di Cosenza che ha circa 400 milioni di debiti.

Una fusione come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto costringerebbe i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini:
1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione
2) l’unificazione non può avvenire prima della scadenza del mandato, prefettizio e quindi governativo, dei commissari e prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala renderebbe l’espressione del voto dei cittadini rendesi democraticamente più debole.

Sono i cittadini che devono essere al centro della progettazione della città, sono i cittadini che devono riappropriarsi del diritto alla città (Lefebvre 1968 e Harvey 2012). Il diritto di ripensare la città risponde alla sfida più radicale e democratica: rilanciare la centralità del cittadino assicurando alle nuove generazioni dignità sociale e pieno sviluppo della persona (Settis 2014).

da “il Quotidiano del Sud” del 13 maggio 2024

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.

Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.

Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.

Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).

Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.

Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.

E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.

Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.

Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.

Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.

Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.

L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.

Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.

Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.

S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.

Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.

Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.

Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.

Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.

Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.

Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.

L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.

L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.

Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.

Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.

Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.

Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.

Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.

La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.

Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.

Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.

L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.

A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.

Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.

Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.

Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.

Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.

Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024

Fermate quella scure sui grandi Pini di Rende.-di Battista Sangineto

Fermate quella scure sui grandi Pini di Rende.-di Battista Sangineto

Mi tocca scrivere di nuovo a proposito dell’imminente abbattimento di grandi alberi a Rende perché, come ha già denunciato la sezione rendese della Lipu, è comparsa una locandina -affissa per conto dei Commissari del Comune di Rende – nella quale si avvisano i cittadini che, in attuazione di una delibera approvata dalla precedente Giunta, nei prossimi giorni verranno tagliati i pini piantati più di 60 anni fa sui due lati di Via Don Minzoni.
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Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o domestici, alcuni ormai centenari, che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo -che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto.

La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato. La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini domestici e/o marittimi e i Pini d’Aleppo.

Tutti i suddetti alberi non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati, come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, nell’estate scorsa, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni e si vuole procedere, ora, ad altri devastanti tagli?

Al posto dei Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera della precedente Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento (ci metteranno alcuni decenni prima di raggiungere la frondosità dei Pini) – a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro.

Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vorranno sospendere i tagli di via Don Minzoni e, anche, vigilare sulla celere e appropriata ripiantumazione dei lecci al posto dei Pini già tagliati, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi nella scorsa estate e dopo le reazioni di sconcerto che, subito, si sono levate alla notizia della ripresa degli prossimi ingiustificati tagli.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi”.
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Non si possono e non si devono più tagliare alberi nelle città, perché sono le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo- che formano le “isole di calore” (UHI, Urban Heat Island) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

da “il Quotidiano del Sud” del 19 gennaio 2024

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il “Quotidiano del Sud” ha avviato un importante dibattito sull’uso dell’energia eolica che spero continui e coinvolga anche chi ha ruoli di governo del territorio. La questione delle energie rinnovabili è una cosa seria, ma spesso viene affrontata superficialmente e con categorie ideologiche. Tra i contributi più interessanti c’è stato quello del Prof. Ferdinando Laghi, consigliere regionale e vicepresidente dell’Associazione Medici per l’Ambiente. Il contributo di Ferdinando laghi è prezioso perché pone una questione di metodo.

Ogni fonte di energia, infatti, ha i suoi vantaggi e svantaggi rispetto all’ambiente e non va vista in assoluto ma relativamente ad altre fonti energetiche e al territorio che viene coinvolto. I pannelli solari, ad esempio, sono un’ottima fonte di energia rinnovabile, ma nessuno si sognerebbe di metterli sul Colosseo o sulla Cattedrale di Gerace o la Cattolica di Stilo. Invece, purtroppo, per sfruttare gli incentivi diverse imprese agricole li hanno impiantati su terreni agricoli togliendo spazio alla produzione di beni vitali per l’alimentazione umana ed animale.

Lo stesso approccio problematico, ma non preconcetto, bisogna avere rispetto alla installazione di pale eoliche, entrando nello specifico di singoli interventi. Intanto va ricordato che esistono pale eoliche di diverse dimensioni e forme, così come esistono condizioni climatiche che rendono antieconomica questa fonte (ad esempio nel Nord Italia) per la scarsa frequenza di venti con un minimo di intensità. Va quindi utilizzato, per un periodo congruo, un anemometro prima di installare una pala eolica. In secondo luogo va scelta con cura la localizzazione tenendo presente l’impatto acustico, i campi elettromagnetici, l’incidenza sul paesaggio, la vicinanza di insediamenti umani.

Chi scrive, quando era presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, ha promosso la prima installazione di un parco eolico in Calabria, costituendo una società denominata Eolo 21 con la partecipazione dei Comuni aspromontani interessati. Per scegliere la localizzazione sono stati consultati, fra gli altri, il WWF, la Lipu, la Facoltà di Ingegneria di Roma La Sapienza, e naturalmente l’amministrazione comunale coinvolta nella scelta. Abbiamo costituito una società a maggioranza pubblica affinché i Comuni, oltre ad essere protagonisti nella localizzazione di eventuali impianti eolici, ne traessero anche un maggior vantaggio economico rispetto a quanto normalmente offre il privato.

Infine, credo che vada fatta chiarezza sulla presunta autosufficienza energetica della Calabria. E’ vero che questa regione è esportatrice netta di energia ma lo fa grazie agli impianti termoelettrici presenti, mentre la produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico e solare) coprono circa i tre quarti del fabbisogno. Per arrivare all’autosufficienza energetica “pulita” e rendere veramente green questa regione dovremmo cominciare, come suggerisce Ferdinando Laghi, a spegnere progressivamente le centrali termoelettriche mentre aumentiamo la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Facendola finita con inerzie e sprechi, a partire dal completamento di opere rimaste inspiegabilmente sospese, come le previste centrali idroelettriche che dovevano entrare in funzione collegandole alla diga sul Metramo e a quella sul Menta. Per non parlare delle Comunità energetiche che si stanno diffondendo in tutto il Nord Italia dove le condizioni climatiche non solo favorevoli e stentano a partire nella nostra regione. D’altra parte è noto il paradosso: ci sono più pannelli solari per abitante a Bolzano che a Reggio Calabria.

Se si puntasse seriamente ad una vera transizione energetica in Calabria, si potrebbe non solo vivere meglio con minore inquinamento, ma anche rivendicare a livello nazionale ed europeo questo contributo alla riduzione della CO2. Con un programma che utilizzasse veramente questa grande risorsa ci sarebbe una rilevante ricaduta in termini di lavoro qualificato, di riduzione della bolletta elettrica per famiglie e enti pubblici.
Cosa ci manca?

da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2023.

C’era una volta un bel Castello.-di Battista Sangineto

C’era una volta un bel Castello.-di Battista Sangineto

“L’intellettuale è colui il quale si occupa di ciò che non lo riguarda. Non è uno specialista, che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista…”(J.P. Sartre). Ciò premesso, ora voglio raccontarvi una storia.

C’era una volta un bel Castello che dominava, dall’alto, la città adagiata sul fianco della collina affacciata sulla vallata del fiume più grande della regione. Il Castello era, come si conviene ad ogni edificio del suo genere, maestoso e minaccioso: aveva le sue altissime e inaccessibili mura, le sue torri ai quattro lati (una era però crollata nei secoli), le sue sale lussuose e i suoi alloggiamenti militari, la sua Piazza d’Armi e tutto, tutto quello che ne faceva proprio un bel Castello.

Il Castello, come la città, era antico, talmente antico che, probabilmente, le sue fondamenta e molte delle pietre e dei conci di cui era composto risalivano a quattro secoli prima della nascita di Cristo. Il Castello aveva avuto, come la città ai suoi piedi, una vita lunga, complicata e segnata dalle vicende storiche; una vita durante la quale aveva subìto demolizioni e ricostruzioni, rifacimenti e riusi, superfetazioni e restauri che ne avevano, inevitabilmente, trasformato, ma non trasfigurato il volto: era, fino a pochi anni or sono, il Castello di Cosenza. Oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndello,/oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndà!

Un bel Castello che ora, però, non c’è più a causa dei “restauri” effettuati: è stato trasformato in una piattaforma dilancio per un improbabile Sputnik-ascensore a sezione quadrata che, tozzo e incongruo, svetta, quasi al centro del monumento, come il manufatto più alto dell’intera città. Uno Sputnik, dall’anima metallica rivestita da pannelli tinteggiati di beige, che sembra in procinto di essere lanciato nello spazio profondo. La tragedia consiste nella consapevolezza non solo che alla guida del missile non c’è Gagarin, ma soprattutto che, purtroppo, rimarrà ben piantato a terra, all’interno e al centro di quel che rimane della settecentesca residenza dell’Arcivescovo. Non si poteva costruirlo, per esempio, al posto della torre sud-ovest che è mancante o, perlomeno, in prossimità di quest’ultima, tanto più che sarebbe stato appoggiato a murature ben più tarde e corrive?

Se lo Sputnik-ascensore appare come il corpo estraneo più evidente rispetto al complesso monumentale, ancor più, se possibile, dissonante e invasiva è la copertura a piramidi, realizzate con costolature in vetro e acciaio, che copre, opprimendola, la Sala d’Armi che, da tempo immemorabile, era priva di tetto. Come nel caso di Piazzetta Toscano, la copertura, ancorata per mezzo di staffe e putrelle profondamente inserite nei muri e poi cementate, interviene in maniera irreversibile sulle murature antiche al fine, in questo caso, di creare un solo, inutile, ambiente coperto.

Si è voluto approntare una voliera per ricoverare eventuali, smarriti, discendenti dei falchi così cari a Federico II di Svevia o, come sembra più probabile, si è voluto allestire una sala per “sponsali”, avendo provveduto a pavimentarla con levigate lastre di pietra di San Lucido? E ancora, le obbligatorie, per legge, rampe di accesso dall’esterno bisognava necessariamente costruirle lasciando a vista la muratura rustica, in pietre di varie dimensioni, come se fosse il muro di cinta di una villetta al mare? E che dire degli improbabili infissi, in metallo brunito, di porte e finestre?

Da archeologo, e da stratigrafo degli elevati che insegna e lavora presso l’Unical, mi chiedo, inoltre, se sia mai stata condotta una propedeutica analisi storica, architettonica ed archeologica di un così importante, articolato e pluristratificato monumento. Mi chiedo anche se la società che si è aggiudicata l’appalto di restauro del Castello, abbia elaborato e fornito una relazione sui risultati di una eventuale indagine archeologica. Scavo archeologico che si rendeva indispensabile per confermare o smentire le ipotesi storico-archeologiche più accreditate che individuano in quel luogo il sito della prima fortificazione dei “Brettii”, nel IV secolo a.C. Sono state trovate tracce della roccaforte bruzia e di quella, successiva, romana della cui presenza ci testimoniano, indirettamente, le fonti letterarie greche e latine? È stata datata, sulla base delle stratigrafie archeologiche, la fondazione, nelle sue forme attuali, del Castello?

È stata eseguita un’analisi dell’intero sistema murario per mezzo di analisi condotte, si fanno regolarmente all’Unical, con strumenti diagnostici avanzati? È stata fatta una previsione e, di conseguenza, un’attuazione degli interventi consolidativi necessari, atteso che il monumento presenta numerosi problemi statici? In quale modo la società aggiudicataria del già discusso appalto di gestione del Castello riuscirà a valorizzarlo, senza questi indispensabili dati storici? Oppure si da già per scontato che la valorizzazione si ridurrà all’organizzazione di feste e di happy hour “nella splendida cornice del Castello svevo di Cosenza”? Tutte queste domande hanno come destinatari anche la competente Soprintendenza BAP e l’allora Direzione Regionale BB.CC.

Mentre si riapriva il Castello, dotato di bar e divanetti bianchi disseminati nell’antica Piazza d’Armi, il centro storico continuava ad implodere, a scomparire, tanto che la sera stessa dell’inaugurazione è venuto giù un altro importante brandello architettonico della nostra storia in Via Abate Salfi, vicino alla “Ficuzza”. Credo che non si possa più sopportare un simile degrado delle forme architettoniche e urbanistiche, ma anche delle forme sociali e culturali storicamente depositatesi nel centro storico di Cosenza.

Cari concittadini bisogna cambiar radicalmente pagina, bisogna che ci si risvegli e che come cittadini, come popolo di questa città si abbia, tutti insieme, come principale obiettivo e alta ambizione il restauro ed il recupero pieno del nostro centro storico. Il popolo di questa città deve prendersi la responsabilità di immaginare e portare a termine un ambizioso e poderoso progetto di restauro strutturale che riporti alla vita la Cosenza storica che dovrebbe e che dovrà rappresentare il volto e la traduzione in pietra e mattoni proprio del popolo che la abita, la conserva e la trasforma.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 giugno 2015
foto di Battista Sangineto

Il premio a Iannelli, una vita in difesa dei beni culturali.-di Battista Sangineto Un'archeologa al servizio dello Stato.

Il premio a Iannelli, una vita in difesa dei beni culturali.-di Battista Sangineto Un'archeologa al servizio dello Stato.

Pochi giorni fa Maria Teresa (Silvana) Iannelli, già funzionario della Soprintendenza Archeologica della Calabria, è stata insignita del prestigioso “Premio Nazionale Umberto Zanotti Bianco”, giunto alla XXII edizione, con la motivazione: “per la sua attività di espropri, controllo capillare delle attività di scavo, apposizione di vincoli, realizzazione di nuovi parchi archeologici a Rosarno e a Vibo Valentia e per la direzione di vari musei del territorio, tutti presidi di legalità in un territorio esposto ad infiltrazioni della criminalità organizzata”.

Proprio riguardo alle infiltrazioni della ‘ndrangheta, mi preme ricordare il giudizio che, nel dicembre 2021, il maggiore Francesco Manzone, già in servizio al Ros di Catanzaro, dà -come riportano le cronache del dibattimento giudiziario del processo Rinascita Scott- di Silvana Iannelli, sul suo operato come funzionario archeologo della Soprintendenza: “…è stato un osso duro, che faceva il suo lavoro e che rappresentava un problema per lui (l’indagato Giovanni Giamborino, presunto ‘factotum’ del presunto superboss Luigi Mancuso, ndr.) apparentemente insormontabile per la costruzione di un immobile a Vibo Valentia…Per superare il vincolo archeologico – spiega l’ufficiale dell’Arma – Giamborino coprì la strada romana, vincolata, facendola scomparire sotto una gettata di cemento…”.

Il Premio nazionale di “Italia Nostra” intitolato a “Umberto Zanotti Bianco” fu istituito nel 1964 per onorare la memoria e l’attività del fondatore e primo presidente dell’Associazione. Negli anni ha inteso di segnalare all’attenzione pubblica l’operato di personalità distintesi nel campo della difesa del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale. Vale la pena ricordare che Umberto Zanotti Bianco, non ancora ventenne, accorse tra i primi in Calabria per portare soccorso alle vittime del catastrofico sisma abbattutosi il 28 dicembre 1908 sulle due città dello Stretto di Messina. A seguito di quella immane tragedia si diede a un lavoro di inchiesta e denunzia dei mali endemici del Sud (indigenza, disoccupazione, criminalità, analfabetismo, emigrazione) che la calamità aveva riportato al centro del dibattito nazionale. Si dedicò alla fondazione di asili, scuole, biblioteche, cooperative et cetera.

Promosse nel 1921 la società Magna Grecia che, sotto la presidenza dell’archeologo trentino Paolo Orsi sino al 1935, poi sotto la sua, condusse molti scavi fra i quali quello di Sibari. Fu anche presidente dell’associazione “Italia nostra”, per la tutela del patrimonio artistico e naturale, nonché fu il principale promotore dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi). Tra gli scritti meridionalistici di Zanotti Bianco si ricordano “Il martirio della scuola in Calabria”(1925); “Inchiesta sulla Basilicata”(1926); “Tra la perduta gente”(1959). Diresse la rivista di studi storici e archeologici l’”Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, fondato da Paolo Orsi nel 1931.

Silvana Iannelli, calabrese di Locri, è autrice di una vasta e ricca bibliografia scientifica riguardante scavi da lei diretti a Vibo Valentia, Pizzo e Monasterace. Autrice di ricognizioni topografiche di paesaggi antichi come l’agro di Hipponion-Vibo Valentia e quello della Locride, è stata anche fondatrice e curatrice di Musei archeologici come, fra gli altri, quelli di Vibo Valentia e di Monasterace. Si citano, insieme a decine di articoli in volumi e riviste archeologiche, i volumi: “Hipponion-Vibo Valentia: documentazione archeologica e organizzazione del territorio” (1989); “Kaulonia I” (1989); “I volti della città. Hipponion, Monsleonis, Vibo Valentia” (2014); “Eroi, Miti e Cunti della Calabria greca” (2022).

Ho l’onore di lavorare con Silvana da quasi quarant’anni e conosco la sua determinazione e la sua fedeltà allo Stato ed ai principi costituzionali contenuti nell’articolo 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), nell’articolo 54 (“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”) e nell’articolo 98 (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”).
Ecco, Silvana, è stata, ora è a riposo, un pubblico impiegato, all’esclusivo servizio della Repubblica, che ha adempiuto alle sue funzioni pubbliche di tutelare il Patrimonio storico e artistico del nostro Paese con disciplina e onore.
Né più, né meno.
Sono davvero molto orgoglioso di essere un suo collega, ma, ancor di più, di essere suo amico.

da “il Quotidiano del Sud” dell’1 dicembre 2023.