A Monterosso Calabro, in provincia di Vibo Valentia, lungo il crinale del Monte Coppari, quattromila faggi d’alto fusto saranno abbattuti, ove non si intervenga, per far posto a sei pale eoliche di 150 metri d’altezza, mentre lo splendido paesaggio del golfo di Squillace rischia di essere irreparabilmente stravolto e deturpato dall’insediamento di una selva di aerogeneratori offshore. Terribili aggressioni – ambientali e non solo- di una inaccettabile speculazione affaristica.
Né vale invocare, a giustificazione di interventi ai quali fortemente si oppongono Associazioni ambientaliste, nazionali e locali, e Comitati sorti per difendere il territorio calabrese da assalti ormai continui, la tesi delle energie rinnovabili, “pulite”, necessarie per bilanciare e sostituire quella da combustibili fossili. La faccenda non è né così lineare, né così semplice.
Basti pensare al fatto che non vi è alcun piano energetico che preveda una progressiva sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili, ma le une si vanno a sommare alle altre in una brutta “addizione”, che nuoce alla Calabria e a chi vi abita.
Nel 2020 la Calabria ha avuto un surplus di produzione energetica del 179,5%. Nello specifico, l’eolico con i suoi 400 impianti, ha contribuito con 2.132 GWh – pari a circa il 13% del totale- alla produzione complessiva calabrese di 16.597 GWh (dati TERNA). Una quantità di molto superiore ai consumi che, invece, negli scorsi anni hanno avuto una tendenza al decremento. Per altro, ad onta della sua “spendibilità” di immagine, anche quella eolica presenta delle criticità che dovrebbero essere conosciute e ben valutate prima della concessione di autorizzazioni, richieste, in realtà, soprattutto per mettere le mani sui ricchi incentivi economici previsti per tali fonti energetiche.
Gli impatti collegati alla presenza di una centrale eolica sono numerosi, non soltanto dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma anche per i rischi per la salute. Senza tacere dei danni che queste iniziative possono determinare alle economie locali. Ad esempio, nei casi di cui si parla, alle attività turistico-escursionistiche del vibonese o dei pescatori del crotonese.
Le dimensioni delle pale eoliche sono andate progressivamente aumentando nel tempo – la torre può essere alta 150 metri e oltre, mentre il diametro disegnato dalle pale rotanti arriva a superare i cento metri.
I luoghi scelti per la collocazione delle turbine sono in genere zone boscose, come i crinali montuosi, o comunque le aree rilevate, più esposti ai venti. Ma per raggiungerle è necessario costruire strade, abbattere alberi, distruggere la vegetazione presente, contribuendo significativamente al consumo di suolo. L’area individuata per il posizionamento di ogni singola pala viene ricoperta da una colata di cemento per ancorare la torre al terreno. C’è poi un altro impatto certamente non trascurabile, rappresentato dalle opere di adduzione dell’energia prodotta agli elettrodotti che devono veicolarla, con l’ulteriore impatto ambientale su flora e fauna, magari in aree protette, come le Zone di Protezione Speciale (ZPS) che andrebbero ben diversamente salvaguardate. Si è anche molto parlato dei danni all’avifauna per gli uccelli colpiti dalle pale rotanti, problema forse enfatizzato in passato, ma comunque presente e da considerare in una valutazione complessiva costi-benefici.
Ci sono poi ulteriori ricadute, questa volta sulla salute umana. Ove la distanza dalle abitazioni non sia sufficiente, il rumore può rivelarsi disturbante e dannoso per la salute, come la “Sindrome da turbina eolica”, caratterizzata da una serie di sintomi (tra cui vertigini, mal di testa, nausea, offuscamento della vista, tachicardia, insonnia, disturbi della libido).
Nel caso le pale rotanti si interpongano tra l’edificio e i raggi del sole, si verifica il cosiddetto “shadow flickering” –letteralmente, ombreggiamento intermittente- a causa della rapida sequenza sole-ombra-sole, determinata dal ruotare delle pale. Inoltre la presenza di una produzione di energia elettrica e il suo conferimento agli elettrodotti di trasporto, genera inevitabilmente campi elettromagnetici (CEM), ben noti determinanti ambientali di salute.
Né si può non citare un aspetto che, in Calabria, ha toccato livelli inquietanti, quello del malaffare e della infiltrazione criminale e ‘ndranghetista. La storia della produzione energetica dell’eolico calabrese è punteggiata da una lunga teoria di scandali e inchieste della magistratura – da “Eolo” nel 2006, a “Via col vento” del 2019- con indagini che hanno riguardato politici del governo regionale, multinazionali dell’energia e faccendieri vari, che dal grande business dell’eolico (ogni megawatt installato rende almeno 300mila euro l’anno per trenta o anche quarant’anni) hanno tratto enormi vantaggi economici, arrivando a far modificare, per il proprio tornaconto, il Piano Eolico Regionale. Il tutto spesso all’ombra di “famiglie” ‘ndranghetiste che hanno tratto da questo business, che continua senza conoscere crisi, i proventi maggiori.
da il Manifesto del 10 febbraio 2022
Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto
Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.
Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.
Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.
Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.
I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.
In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.
Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.
Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.
Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.
L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.
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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”. (Stefano Mancuso)
II. Gli orti in città.
Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.
Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.
Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.
La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).
Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.
La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.
Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.
Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.
Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.
Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.
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III. Il verde nel Centro storico.
La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.
Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.
Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.
Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.
Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.
Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.
Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.
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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.
Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.
La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto
I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.
La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.
Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.
Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.
Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.
Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.
Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).
Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.
In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.
da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana
Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna
Tra i fattori che hanno provocato l’aumento della temperatura media del nostro pianeta spesso ci si dimentica del ruolo che gioca l’agricoltura/zootecnia industriale nella produzione dei gas serra. Per molto, troppo tempo siamo vissuti con la convinzione che la terra fosse un corpo inerte dove con la chimica si poteva ottenere quello che si voleva, che gli animali da allevamento fossero delle macchine che si potevano perfezionare a volontà per aumentarne l’efficienza.
Tutto il sapere dell’agricoltura contadina è stato scartato come un residuo di un passato pretecnologico. Così gli allevamenti intensivi di migliaia di animali, chiusi in spazi sempre più ristretti, riempiti di ormoni e antibiotici, erano visti come un progresso per l’umanità, perché aumentavano la produzione per unità e ridotto i costi unitari.
Per decenni solo pochi profeti, spesso ignorati, hanno denunciato i danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente di questo modo di produzione. Jeremy Rifkin, prestigioso economista statunitense, aveva denunciato in un suo saggio del 1998 i danni all’ambiente causati dall’industrializzazione della produzione zootecnica, e spinta in avanti dal nostro eccessivo consumo di carne.
Unitamente alla denuncia che da tempo molti studiosi hanno formulato nei confronti dell’agricoltura industriale, per l’uso eccessivo di fertilizzanti che rendono sterili i terreni, per l’inquinamento delle falde acquifere e, last but not least, per i danni alla nostra salute. Questo non significa ritornare alla zappa e alla falce, ma significa fare tesoro di tecniche agricole che rispettino i cicli vitali, che considerano la terra un corpo vivo, con le sue esigenze e i suoi tempi.
La transizione ecologica rivaluta l’agricoltura contadina e gli allevamenti a piccola scala in cui gli animali non vengono rinchiusi in un lager e non si usano sostanze artificiali per aumentarne la produttività. Naturalmente questo significa pagare di più i beni alimentari alla fonte e ridurre i costi dell’intermediazione e distribuzione che oggi assorbe mediamente l’80 per cento del valore.
Vale a dire: è necessario rivedere tutta la filiera agroalimentare con l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori, difendere la biodiversità, ridurre le emissioni di gas serra, dare un “giusto prezzo” ai prodotti delle aziende agricole e condizioni di lavoro e salario dignitosi ai lavoratori. Non si tratta di utopie o di sogni romantici perché esistono tante esperienze sul campo che potremmo raccontare, diverse reti che uniscono braccianti-imprenditori- consumatori in forme diverse e con beneficio di tutti gli attori.
In questa visione la transizione ecologica offre una straordinaria opportunità alla agricoltura calabrese, a quelle piccole aziende agricole e zootecniche che sembravano un residuo del passato, un segno di arretratezza, e invece rappresentano il futuro.
In particolare, la gran parte delle zone interne che non sono state inquinate, che hanno vissuto solo marginalmente l’impatto della chimica sui terreni agricoli, potrebbero uscire dall’abbandono ed essere valorizzate, offrendo prodotti agricoli di prima qualità, con l’utilizzo anche di semi antichi e piante da frutto autoctone, uscendo dalla omologazione attuale dell’offerta di ortaggi e frutta standardizzata.
In questa direzione sarebbe opportuno varare una seconda Riforma Agraria in chiave ecologica, che consenta di mettere a frutto i terreni abbandonati che rappresentano una parte rilevante delle aree collinari, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero anche sul piano idrogeologico. Siamo di fronte ad un bivio. Se non prendiamo adesso la strada giusta non avremo un’altra opportunità.
«Gli immigrati ci rubano il lavoro»: è una delle affermazioni più ricorrenti dei sovranisti nostrani che insinuano fra gli italiani una forma particolarissima di odio fondata sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri operai: questa narrazione, oltre a essere infondata, serve, invece, «a rendere ancora più deboli i braccianti» sfruttati dai caporali e dai padroni e favorisce la lievitazione smisurata dei profitti. Altro che esaltazione del popolo italiano («Prima gli italiani»); si tratta di uno schierarsi esplicito dalla parte del grande capitale nell’ottica della prosecuzione e dell’estensione del dominio delle classi dominanti sui lavoratori italiani.
QUESTA APPENA RIASSUNTA è una delle contronarrazioni presenti nella raccolta “Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche” (a cura di Tiziana Drago, Enzo Scandurra, con Prefazione di Piero Bevilacqua, Castelvecchi, pp. 148, euro 17,50).
Il volume, dedicato a Franco Cassano, è il frutto di un lavoro collettaneo di intellettuali, provenienti da discipline diverse, raccolti intorno al sito dell’Officina dei saperi con l’obiettivo di proporre voci in grado di erigere un argine al dilagante senso comune delle narrazioni false e pericolose (come quella esposta all’inizio), che sono in grado, però, di diventare egemoniche poiché, di fatto, ripropongono quanto scriveva Manzoni nel suo romanzo storico a proposito del rapporto fra buon senso e senso comune: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».
Per sconfiggere la paura del senso comune diffuso, sostenuto da narrazioni che diventano tossiche in quanto producono consenso antidemocratico e conformista, cioè conforme al pensiero neoliberista, e provare a costruirne uno nuovo, sono raccolti testi di Abati, Agostini, Angelucci, Aragno, Bevilacqua, Budini Gattai, Cingari, Drago, Ferri, Fiorentini, Lorenzoni, Marchetti, Masulli, Novelli, Pazzagli, Sangineto, Scandurra, Toscani, Vacchelli, Vavalà, Vitale, Ziparo.
Questi scritti, come fa presente il sottotitolo del libro, si propongono nell’ottica di una critica sociale delle narrazioni, come quella riportata all’inizio. Dalla loro lettura emerge come e quanto il concetto di critica sia usato nell’accezione kantiana del termine, cioè come espressione di giudizi che si contrappongono, in quanto contronarrazioni, alle narrazioni correnti, ricettacolo di falsità e bugie.
«Tutti al centro»: lo spopolamento delle aree interne italiane (60% del territorio) è un fenomeno che non può essere ricondotto a una prosecuzione nel secolo presente di un processo di urbanizzazione iniziato molto prima; è molto di più e ha come prima conseguenza la frattura tra città e campagna.
L’estate appena trascorsa ha visto la realizzazione di alcune lodevoli iniziative in zone interne del nostro paese, nella fattispecie in Abruzzo, con l’obiettivo di «riabilitare i paesi, coltivare le campagne, ricostruire un rapporto equilibrato con la natura». Quindi una contronarrazione operativa che ha messo in discussione, decostruendola, la «metafora sbiadita della stanca modernità del nostro tempo» costituita dal «Tutti al centro».
L’INSIEME delle contronarrazioni costituisce un nucleo di controtendenza nei confronti di una forma egemonica nella quale il capitale, e il suo dominio, ha un ruolo di primo piano. E il capitale, vero convitato di pietra nell’elaborazione dei vari contributi, non è un quid astratto in quanto si concretizza in figure il cui potere, la cui filocrazia determinano l’infuturarsi del rapporto fra gli sfruttati e gli sfruttatori, fra gli oppressi e gli oppressori in forme di ineguaglianza non meno feroci di quelle a cui sono stati sottoposti i subalterni di altre epoche storiche.
Per avvicinarsi all’obiettivo e creare una coscienza collettiva, ossia un «nuovo senso comune» che sappia cogliere nell’urgenza della soluzione dei problemi immediati la prospettiva di una nuova dimensione del vivere in comune, quello che Marx definiva «Das Kommunistische Wesen» e Gramsci «vita d’insieme», c’è bisogno di operare nella realizzazione di una nuova volontà collettiva che, una volta, era veicolata dall’opera dei partiti politici (la cui assenza è sottolineata nel volume), ma ora è carente a causa di mancanza di discussione e di confronto e di incapacità di prendere decisioni e assumersi responsabilità.
ANCHE IN QUESTO GLI SCRITTI che compongono il volume si presentano come pars construens rispondendo all’affermazione di Seneca, nella lettera 104 a Lucilio, secondo la quale «Non è perché le cose sono difficili che non le affrontiamo, è perché non le affrontiamo che sono difficili».
Le autrici e gli autori delle varie contronarrazioni affrontano le cose difficili, con l’onestà intellettuale di chi è gramscianamente partigiano, ossia schierato da e con una parte. L’indicazione sembra essere quella di procedere alla ricerca delle strade che più possano avvicinare la democrazia, intesa come pedagogia della solidarietà e nel rispetto del dettato costituzionale, al socialismo come sistema economico-politico in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna si pongano soltanto come elemento di riflessione e di studio su una storia passata.
La fatica del concetto, di cui scriveva il vecchio filosofo, si concretizza nei testi della raccolta laicamente, al di fuori della politica intesa come potere, bensì come discussione libera ed aperta nella polis, alla ricerca di un’alternativa: l’alternativa come contronarrazione rispetto al «non c’è alternativa su cui il capitalismo fonda il suo potere e il suo linguaggio».
da “il Manifesto” del 4 settembre 2021
Incendi e crisi ambientale.- di Alberto ZiparoSalvare il paesaggio e il futuro della Calabria
Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.
In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.
La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.
Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.
Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.
I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.
Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.
Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.
Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.
Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .
E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.
L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.
Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.
Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.
Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.
da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
Foto di ojkumena da Pixabay
I Nuovi Comuni, ente intermedio al posto delle Regioni.-di Arturo Lanzani e Filippo Barbera
Le Regioni italiane sono molto diverse, ci ricorda Piero Bevilacqua nel suo recente articolo (il manifesto, 25 novembre). In questa diversità, hanno una comune “qualità”: sono enti iper-legiferanti, mini-Stati. Le Regioni gestiscono e distribuiscono risorse scarse a gruppi in competizione, a discapito dell’adozione di politiche pubbliche e strategie di interesse collettivo, organizzate per missioni e progetti. All’inadeguatezza delle Regioni si è sommato il fallimento della Legge Del Rio che ha istituito le città metropolitane, Enti di area vasta ma privi di un governo politico. Il sindaco della città metropolitana non è un sindaco: non governa politicamente il territorio di competenza. Non negozia o contratta con l’insieme dei sindaci strategie di sviluppo, infrastrutture connettive e politiche pubbliche.
Le proposte di revisione dell’assetto istituzionale dei poteri locali non mancano. Una proviene dai lavori della società geografica italiana e guarda in una direzione “cantonale”, che si affranchi dalle sirene della finta abolizione delle Provincie – più radicate delle Regioni nella storia e nelle forme di vita del nostro paese – ma lavori per un ridisegno e riduzione del loro numero (una trentina di provincie “rafforzate”) come unico livello di governo, sostitutivo di quello regionale e provinciale. Una sorta di livello intermedio tra Comuni (lasciati però nella loro numerosità e frammentazione) e il livello centrale, le cui funzioni non sono precisamente definite.
Una proposta meritoria, ma con scarse probabilità di trovare ascolto politico. Chi mai si mobiliterebbe in questa direzione? Con quali alleanze? Una seconda proposta, di chi scrive, è quella di ritenere che nella storia d’Italia contino solo i Comuni come altra gamba del livello nazionale, anzi che debba contare un “Nuovo Comune” che si vorrebbe rafforzare nella sua funzioni politica e istituzionale – ma non tanto con l’illusione leaderista dell’elezione diretta del sindaco – ma articolandolo, da un lato in N “tipi di città” – maturate attorno ai legami di storici distretti industriali, di valle (spesso riproducendo le forme di coesione delle più felici comunità montane gravitanti su centri o conurbazioni di valle o pedemontane), di costa attorno urbanizzazioni interconnesse, di distretti rurali o di campagna urbanizzata con più tradizionale gravitazione su una città media, ma anche più originalmente “città” unificate da un tratto profondo comune dell’ambiente e del paesaggio che si è fatto fattore identitario e di sviluppo-secondo principi plurali e aggregativi, capaci di dare luogo a 500-1.000 città per l’intero paese.
Dall’altro, articolando queste N città in Municipi, calibrati in un intervallo compreso tra i 3.000-50.000 abitanti, corrispondenti ai vecchi Comuni a suddivisioni di quelli più grandi e ad aggregazioni di quelli più piccoli. Questi “Nuovi Comuni” dovrebbero quindi essere articolati in due livelli: al primo livello, strutture territoriali esito di variegati processi ecologico-sociali che diventano a loro volta strutturanti le stesse pratiche sociali e dinamismi ecologici, si organizzerebbero le tecno-strutture e le istituzioni culturali che sono indispensabile supporto di qualsiasi politica e progetto e si svilupperebbero alcune politiche sistemiche (usi del suolo, mobilità, reti verdi); il secondo livello, maggiormente riconfigurabile nei suoi stessi confini alla luce di progettualità e visioni complesse di medio e breve periodo, diventerebbe presidio ed espressione delle forme di cittadinanza attiva, ambito della redistribuzione dei poteri e dei saperi, con il compito di rinforzare e curare la capacità di “voce” e “azione” di persone, associazioni e corpi intermedi. Questo “Nuovo Comune” sarebbe così il luogo di incontro generativo delle due istanze, delle città e dei municipi, così come lo strumento per costruire visioni di futuro condivise.
Questa proposta avrebbe qualche probabilità in più di trovare ascolto politico, perché potrebbe essere presentata come una riforma e un rilancio del “municipalismo virtuoso” contro la “burocratizzazione regionale”: una riforma che spinge ad aggregarsi superando particolarismi strumentali, incapaci di affrontare i problemi che interessano la vita quotidiana delle persone, senza cancellare identità locali che rimangono sentite e capisaldi di ogni forma di civismo. I “nemici” qui sarebbero ben identificabili nei governatori regionali e nei sindaci delle grandi città, una lotta ancora impari che richiederebbe una alleanza con la classe dirigente nazionale per uno Stato che riconosca il policentrismo come tratto unificante e si faccia carico – dal centro – sia di strategie-missioni territoriali relative a cinque grandi questioni nazionali.
Tre almeno parzialmente riconosciute e relative allo sviluppo del mezzogiorno, alla riorganizzazione degli ambiti metropolitani-grandi città del paese e alla promozione dello sviluppo e alla garanzia dei fondamentali diritti di cittadinanza per le aree interne. Due invece di nuova concettualizzazione ma egualmente urgenti e relative, al riordino del territorio costiero con il suo enorme carico insediativo e a fronte degli effetti del cambiamento climatico e alla sempre più urgente riconversione ecologico-ambientale della dinamica, ma poco vivibile e salubre, pianura padana. Sia di strategie più specifiche relative ai bacini fluviali, alle aree sismiche, ai sistemi di mobilità sovraregionali e ai rapporti di scambio e di flussi tra territori metro-montani e metro-rurali (nord-ovest, nord-est, arco ligure, dorsale adriatica, etc.) Una alleanza che, dall’alto e dal basso, provi a imporre al Paese un nuovo assetto dei livelli di governo coerenti con il policentrismo del Paese, non basato sulla facile e inutile indignazione che ha portato alla cancellazione degli enti intermedi e all’istituzione di enti territoriali privi di guida politica.
da “il Manifesto” del 2 dicembre 2020
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