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Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Cari amici di Catanzaro,
poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, pur non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione.

Una premessa.

Benché sempre più coperto di cemento e di asfalto, che hanno cancellato, negli ultimi anni, tante campagne e terre incolte, il territtorio del comune di Catanzaro, esteso per poco più di 11 mila ettari, conserva ancora la metà della sua superficie occupata dall’agricoltura. Ospita al suo interno circa 900 aziende che producono prodotti agricoli. A questa informazione occorre aggiungere un altro dato poco noto, che riguarda l’intera regione.

La Calabria è una delle regioni, se non in assoluto la regione più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia. Il che significa decine, talora centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, ecc. Da questo sintetico quadro ci si aspetterebbe che nella città di Catanzaro tutte le mense scolastiche, gli ospedali, i dispensatori automatici degli uffici, fossero costantemente riforniti (anche attingendo alle campagne della provincia) da frutta fresca o trasformata, da succhi di frutta e spremute di vario genere, provenienti da agricoltura biologica o biodinamica.

Così come, almeno d’estate, quando la frutta abbonda di solito nei nostri mercati e mercatini, dovrebbe essere normale avere a disposizione decine di varietà di pesche, di susine, di uva, di fichi.

Invece è noto che niente o quasi niente accade di tutto questo. Poche scuole riescono a rifornirsi di frutta biologica durante l’anno. E d’estate è sempre più raro mangiare frutta prodotta nel nostro territorio o per lo meno in Calabria. Quel che abbonda è merce industriale, pochissime varietà, generalmente scadenti e di scarsa sapidità. Un paio di varietà di fichi del nostro territorio, (quando ne esistono centinaia) e la solita uva da tavola, buona certamente, ma limitata a un paio di varietà,Italia e Regina.

Qualcuno mangia più la nostra superba uva Zibibbo? Riuscite ancora ad assaggiare una delle nostre pesche, succose e gustose di un tempo? O le antiche, sode e saporite Percoche? Solo pesche belle a vedersi, ma senza sapore. In genere vengono dall’Emilia e dirò più avanti come sono prodotte.

A me è accaduto d’inverno, alcuni anni fa (mi auguro che nel frattempo la situazione sia cambiata) di chiedere in più occasoni, in vari bar della città, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere dal cameriere con una domanda: “Fanta?”.
Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta. Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto industriale di una multinazionale. E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza “coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura.

Noi non riusciamo a produrre ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico, culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per la salute. Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.

In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione.Per ottenere tale risultato gli imprenditori, poco tempo prima della raccolta, spruzzano sulle piante dei preparati con ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.

Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per la nostra salute? Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale.Nel 2006 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia scriveva “…A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali, la nostra antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo sempre più esposti alle malattie degenerative…”

Un polo agricolo e scientifico

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda più generalmente le nostre campagne? Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di appassionare i catanzaresi ed entusiasmare i nostri giovani più intraprendenti. La condizione preliminare di questa inversione è un mutamento culturale.

Occorre guardare al territorio non più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati altrove), ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

Qui vi risparmio tutti i problemi di cui soffre l’agricoltura calabrese, meridionale e italiana per responsabilità della Politica Agraria Comune. Cercherò di mostrare quel che è possibile fare anche nelle presenti condizioni. E il punto di partenza del progetto è un luogo dove si scontrano le due contrapposte visioni del territorio: quella che lo vuole utilizzare per costruire edifici e quella che vuole farne leva di economie, di attività agricole e artigianali. E dunque quale punto di partenza più importante per sfidare una vecchia cultura e imporre una nuova visione di economia, dell’area di Giovino?

L’area di questo quartiere nei pressi di Catanzaro Lido, caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio.

A Giovino potrebbe nascere un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi. Non si creda che sia un’operazione del tutto nuova.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito, anni fa, il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Ricordo che anche in Calabria esiste un “parco” costituito dalle varietà di una sola pianta: un ciliegeto nel quale alcuni agronomi, tra cui Antonio Scalise e Franco Santopolo, hanno raccolto decine di varietà antiche di nostri ciliegi che ora crescono nelle campagne di Zagarise. In questo stesso comune è stata realizzata una piantagione di varietà di peri, meli e susine tradizionali. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia, da Paolo Belloni. Qui, questo solitario amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud.Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante.La nuova agricoltura non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni d’Europa, nomerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee, fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne.

Ma in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa trasformazione dei prodotti (vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc), ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per i portatori di handicap, ecc. L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini, protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione, conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio.E questa è una battaglia in corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico straordinario.Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia, soprattutto, l’alimentazione.

Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non chimici. Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa, sesamo, malva, melagrane, ecc.

Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di possibilità di occupazione e di reddito.
Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione artigianale dei prodotti.

Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione, in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Va da sé che dove possibile, soprattutto nelle aree poco suscettibili ad uso agricolo, occorrerebbe impiantare pannelli fotovoltaici, per rendere il distretto potenzialmente autosufficiente per i suoi bisogni energetici. Così come è giusto immaginare spazi per il tempo libero, sport all’area aperta, giochi per bambini. Il diletto dei cittadini deve avere i suoi diritti a pari titolo dell’economia.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifca con i Paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.

Cari catanzaresi,
come sapete, nel territorio di Giovino il Comune di Catanzaro intende avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali. Dunque nuovo cemento e asfalto, che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilita del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare. Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma.

E’ evidente, dunque, che quello del Comune è un progetto vecchio, che dilapida in modo irreversibilie il patrimonio delle nostre terre fertili superstiti, e, anziché creare nuove economie, nuovi posti di lavoro, pietrifica i pochi capitali esistenti. Vi ricordo che oggi voi godete degli spazi e del verde del Parco della Biodiversità, perché quell’area non è stata destinata a edifici, altrimenti oggi questo patrimonio collettivo sarebbe cancellato. Lasciare ai figli e ai nipoti pietre, al posto di terre fertili, a me francamente pare un progetto insensato, ingiusto e sbagliato, contro cui ribellarsi.

foto tratta dal sito fb “Dune di Giovino-Ultima spiaggia”.