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La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

Cosa sia la realtà calabrese è difficile da rendere in poche righe di un articolo o financo in un libro. Ci stiamo provando da anni e oscilliamo sempre su quello che Massimo Razzi definisce ‘il crinale sottilissimo’, cioè quello tra il bene e il male, il bello e il brutto, dove a volte prevale il primo e più spesso il secondo. Poi ci sono però i numeri, impietosi, a darci un senso al racconto (vedi quelli dell’ISTAT su cui ci siamo soffermati sabato scorso, ad esempio).

E numeri, tanti e duri, ci forniscono ora in un nuovo lavoro, assolutamente inedito – e di cui il Quotidiano del Sud può oggi offrire una piccola anteprima – Rosanna Nisticò e Mimmo Cersosimo, in un paper in lavorazione ancora all’Università della Calabria.

Proviamo dunque a riassumere decine e decine di pagine. Il trend recente tra il 2022 e il 2023 mette in luce come il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

La Calabria è tra le sei regioni europee nelle quali l’indicatore è cresciuto, nel biennio in considerazione, di almeno 5 punti percentuali con 41 calabresi su 100 che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella registrata nella Provincia di Bolzano e sette volte più alta rispetto a quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Ancora: la Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6%, a fronte di un calo alquanto generalizzato nel resto delle altre regioni, e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

In questo quadro poco felice ci sono altri calabresi, aggiungono nel paper i due studiosi, che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, i comparaggi, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali.

Non va trascurata l’incidenza dei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello dei cittadini: concentrati, usando le parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative).

Il punto tutto politico alla fine qual è? E’ che a quella Calabria della povertà sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare ma anche perché è la Calabria del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilet gialli né protettori: che non minaccia l’ordine dominante.

Come concludono i due? I partiti-residui continuano così a guardare alla Calabria dei garantiti, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non basta per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”.

Questo politico, dunque, è il versante che dovrebbe dare risposte e da lì si attendono le proposte vere e concrete. Tutto il resto sennò è noia. A proposito di Brunori, Califano e del Festival di Sanremo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 febbraio 2025

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Dal punto di vista giuridico, sorprendono, stando ai virgolettati riportati sui giornali, le parole pronunciate dal neopresidente della Corte costituzionale durante la conferenza stampa del 21 gennaio. Spiegando le ragioni della bocciatura del referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli), il presidente Amoroso avrebbe detto che «la decisione della Corte sulla non ammissibilità del referendum si riferiva alla non chiarezza del quesito, perché l’oggetto del quesito (la legge Calderoli, ndr) è oramai ridimensionato» per via della sentenza dello scorso anno che ne ha sancita la parziale, benché amplissima, incostituzionalità, sicché «ciò che residuava era difficilmente comprensibile dall’elettore».

È difficile nascondere la sensazione di disagio suscitata da tali parole. La decisione circa la idoneità della legge Calderoli a rimanere sottoposta a referendum dopo il suo parziale annullamento da parte della Corte costituzionale spettava, infatti, alla sola Corte di Cassazione, la cui valutazione a favore della idoneità non è suscettibile di revisione da parte della Corte costituzionale.

Quest’ultima avrebbe dovuto limitarsi a valutare il rispetto dei limiti alle iniziative referendarie previsti dall’articolo 75 della Costituzione (esclusione delle leggi di bilancio e tributarie, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di amnistia e indulto) e dalla sua stessa giurisprudenza (a partire dalla sentenza 16 del 1978, che esclude altresì i quesiti referendari disomogenei o vertenti su leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto vincolato). Invece, a quanto pare, il referendum sarebbe stato ritenuto non ammissibile proprio per via del parziale annullamento della legge, operando un irrituale rovesciamento della precedente decisione della Cassazione.

Altrettanto sorprendente è leggere che, con il referendum, «i cittadini sarebbero stati chiamati a votare sull’articolo 116 comma terzo della Costituzione, e cioè sul principio dell’autonomia differenziata, ma questo è contro la Costituzione». Non è così. La Costituzione attribuisce alle regioni la possibilità di chiedere l’autonomia differenziata, ma la decisione se accogliere la richiesta è rimessa allo Stato. L’autonomia differenziata non è un diritto, è una facoltà che lo Stato può decidere di attivare o di non attivare.

Dunque, decidere di eliminare la legge Calderoli, in quanto volta ad agevolare l’esercizio di quella facoltà, non significa affatto pronunciarsi sulla Costituzione, bensì assumere una decisione di principio sull’attivazione o meno della facoltà in questione (il che, peraltro, non impedisce la possibilità di utilizzare direttamente l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, come mostra l’esperienza dei Governi Gentiloni e Conte I).

Dal punto di vista politico è indubbio che la mancata ammissione del referendum produca il doppio effetto negativo di far venire meno un forte collante tra le opposizioni al governo e di indebolire l’importantissima campagna referendaria che si aprirà in primavera. A beneficiarne non è solo la destra, che rischiava di spaccarsi nelle urne tra favorevoli e contrari all’autonomia, ma anche quella consistente parte del partito democratico che continua a vedere nel regionalismo una risorsa – sia pure trincerandosi dietro l’ambigua formula del regionalismo cooperativo e non competitivo – ed era terrorizzata dall’idea che il referendum sancisse l’esistenza di un diverso orientamento popolare.

C’è, tuttavia, anche un risvolto positivo. Proprio le parole del presidente Amoroso certificano, in via definitiva, che il disegno del regionalismo differenziato è fallito. L’incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Corte costituzionale è così radicale da aver reso politicamente insostenibile la posizione dei pasdaran del regionalismo (sebbene alcuni di loro continuino, incuranti del ridicolo, a tenere la posizione).

È uno straordinario successo per tutti coloro che fin da subito avevano intuito i pericoli dell’autonomia differenziata e si sono battuti contro il tentativo di spezzare l’Italia, costruendo un movimento di opinione che ha dato un contributo decisivo alla difesa dei principi costituzionali di solidarietà, uguaglianza e unità. Paradossalmente, proprio la mancata ammissione del referendum è la più alta certificazione di tale successo. Si tratta ora di mantenere alta l’attenzione, per impedire i colpi di mano che dovessero cercare d’indebolirlo.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2025

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Finanziare il Ponte di Messina e togliere le risorse per completare i lavori sui nodi ferroviari di Reggio Calabria, Catania e Palermo. Soddisfare le velleità e gli interessi che fanno a capo al vicepremier leghista e ministro dei trasporti e non completare le opere la cui mancanza rende faticosa la vita di chi aspetta la velocizzazione della linea tra Catania e Siracusa o il «potenziamento» della linea Sibari-Catanzaro Lido-Lamezia Terme.

Non è un paradosso, è un progetto voluto dal governo Meloni e in particolare dal vicepremier leghista Matteo Salvini. Una volta di più è diventato chiaro quando è passato l’emendamento della Lega alla legge di bilancio che sarà votata venerdì dalla Camera e votata definitivamente dal Senato il 28 o il 29 dicembre. Lungamente annunciato e infine approvato l’altra notte nella commissione Bilancio della Camera, l’emendamento che porta la prima firma del capogruppo leghista Riccardo Molinari aumenterà le risorse per il Ponte sullo Stretto di 1,3 miliardi di euro prendendo le risorse dai Fondi per lo sviluppo e la coesione. Quest’ultimo è stato rifinanziato dalla manovra con 3,88 miliardi, ma quasi la metà di questi soldi sono stati destinati alla mega-opera dedicata al culto di Salvini e al festante codazzo degli interessi che rappresenta.

L’emendamento approvato cambierà sensibilmente la distribuzione dei costi: quelli a carico dello Stato scendono a 6.962 miliardi mentre balzano a 4.600 miliardi i costi sui fondi di coesione delle amministrazioni centrali. Resta il fatto che i fondi di coesione (1,6 miliardi) che avrebbero dovuto essere usati dalle regioni Calabria (1,3 miliardi) e Sicilia (300 milioni) per avere infrastrutture minimamente efficienti sono stati dirottati per costruire un’opera megalomane.

A chi ieri gli ha chiesto dell’aumento delle risorse in più per il Ponte l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini (il Consorzio che farà il Ponte) ha liquidato la faccenda sostenendo «Sono questioni tecniche legate a come il governo stanzia i soldi. Credo siano sistemazioni di ragioneria e non c’è nessuna modifica rispetto a quelli che erano i numeri precedenti, per quanto ne sappia. Chiedete al vicepresidente Salvini se il Ponte si farà. Noi siamo soldati, eseguiamo gli ordini».

Nello stesso emendamento leghista c’è un miliardo in più alla Tav Torino-Lione, più un altro a Ferrovie per le opere del Pnrr. «E neanche un centesimo per le due linee metropolitane di Torino» hanno commentato i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi dei Cinque Stelle.

Per Legambiente il progetto del Ponte sullo Stretto «continua a drenare ingentissime risorse pubbliche». In valori assoluti «i finanziamenti nazionali per il trasporto su ferro e su gomma sono diminuiti da circa 6,2 miliardi del 2009 a 5,2 miliardi nel 2024, ben al di sotto delle necessità e pari a un -36% se si considera l’inflazione degli ultimi 15 anni».

«Come mai per quello i soldi si trovano, mentre per pensioni, sanità, trasporto pubblico non si trovano e anzi i fondi sono stati tagliati? Si vergognino» ha detto Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra. «Il Fondo di sviluppo e coesione dovrebbe essere usato per le infrastrutture davvero urgenti per il Sud, ma viene usato come un bancomat qualunque – ha osservato Pietro Lorefice (M5S) – Ricordo che altre risorse erano state drenate dall’ex “superministro” Fitto per tappare i buchi da lui stesso aperti nel Pnrr, con un taglio di interventi che ha fatto male a paese».

Il Ponte di Messina «è un’opera perfettamente inutile, imposta per la vanagloria politica di Salvini – ha detto Pasquale Tridico (Cinque Stelle) – per mantenere equilibri fragili all’interno del governo Meloni, che considera il Mezzogiorno un mero serbatoio di voti».

Sul Ponte c’è stata una polemica a un question time alla Camera, tra il ministro Gilberto Pichetto Fratin e Bonelli (Avs). Il primo si è difeso dalle critiche di avere fatto «nomine politiche» nella commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale «che è indipendente». Per Bonelli ha «detto il falso» ed è «commissariato da Salvini. State utilizzando i fondi pubblici per foraggiare imprese che non hanno il progetto tecnico validato da nessun organismo dello Stato».

da “il Manifesto” del 17 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Molte importanti vicende relative all’autonomia differenziata sono state e continuano a essere caratterizzate dal segreto: per i suoi promotori è opportuno che i cittadini non siano informati (se non a cose fatte), di quel che si viene decidendo. È quel che è successo con la lista delle 500 funzioni trasferibili alle Regioni, prodotta da Calderoli e mai resa pubblica. È quel che continua a succedere riguardo ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni): si tratta dei diritti che devono essere garantiti, con apposite risorse, a tutti gli italiani, ovunque vivano. Quante risorse? Dove? Tema caldo, come si vede anche dalle recenti prese di posizione di Forza Italia. La questione è complicatissima, ma il suo senso profondo dovrebbe essere chiaro.

Il Clep è un importante Comitato guidato da Sabino Cassese, che dopo iniziali posizioni molto preoccupate è divenuto uno dei principali sostenitori del progetto leghista di differenziazione, fatto proprio dall’intero governo. Il Clep ha compiuto una ricognizione legislativa dei Lep. Lo ha fatto, come ha tenuto a scrivere l’ex governatore Visco prima di lasciare la carica, “in termini troppo generici”. E non per quelli relativi alle materie già di competenza regionale, che dovrebbero essere il punto di partenza dei meccanismi finanziari validi per tutti; solo di quelli relativi alle materie che le regioni “secessioniste” pretendono che lo Stato ceda loro. Ora si tratta di associare a questi diritti numeri precisi: il fabbisogno finanziario.

Punto cruciale: più basso è, più resta lo status quo (a danno dei cittadini delle regioni più deboli) e si giustifica la pretesa del governo di non stanziare risorse aggiuntive. Per definire i principi su cui basarsi per i conti è stata nominata da Cassese una Commissione di dodici esperti. Praticamente tutti sostenitori dell’autonomia differenziata. Il presidente, un ex deputato veneto del Pd (Stradiotto) che lavora da tempo sul federalismo fiscale: anche nel periodo in cui fu deciso che laddove non c’erano asili nido, il fabbisogno era conseguentemente pari a zero.

E che le donne si sarebbero dovute arrangiare. Fra gli altri, la potente presidente (D’Orlando) della importantissima Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctes, di cui si dirà fra un attimo), fino a poco fa consulente di Zaia; un docente (Giovanardi) che è tuttora contemporaneamente consulente di Zaia e componente della Ctes; un altro (Guzzetta) determinatissimo sostenitore della “secessione dei ricchi” e già consulente della Lombardia. L’elenco potrebbe continuare, includendo alcuni esponenti meridionali assai contigui al governo, fra cui l’onnipresente presidente dell’Anvur, Uricchio.

Cassese ha convocato per il 25 settembre una riunione del Clep per approvare il documento predisposto dai 12: che nonostante l’avversione di alcuni suoi componenti per la discussione pubblica è stato possibile visionare. Un documento snello ma politicamente esplosivo; in esso si sostiene che i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”.

Dunque, i fabbisogni (e quindi i diritti) vanno differenziati. Innanzitutto, in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, e cioè il supposto diverso costo della vita: dato che al Sud la vita costa meno, gli stipendi possono essere più bassi, e quindi il servizio deve costare meno; bastano meno soldi. Magari bastano già quelli che ci sono, e il governo fa tombola. Poi vanno differenziati in base alle dinamiche demografiche. Possibile interpretazione: dato che al Sud nascono meno bambini, perché spendere per gli asili nido? Invertendo la logica socioeconomica e politica, dato che la bassa natalità è anche conseguenza della relativa carenza di servizi. Chissà come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. E c’è poi un jolly: le “caratteristiche dei diversi territori”.

In base a questi principi, la Ctes presieduta dall’ex consulente di Zaia, di cui si diceva, farà i calcoli: con metodologie estremamente complesse, sensibili ai criteri di partenza (specie se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere). I suoi numeri, i fabbisogni finanziari, saranno impossibili da ricostruire e quindi da discutere. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovranno passivamente accettarli, perché prodotti dagli “esperti”.

Un processo pericolosissimo, sul quale sarebbe opportuna una attenzione assai maggiore dei parlamentari di opposizione. È la politica, e non dodici “esperti”, che deve definire alla luce del sole i criteri di calcolo: e questo prima che i dati vengano prodotti. È indispensabile un aperto dibattito pubblico. Non ne va solo della “secessione dei ricchi”, ma delle stesse modalità di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2024

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Dire no al regionalismo differenziato si deve, e opporsi allo scellerato progetto che sta prendendo corpo per iniziativa del governo e segnatamente della Lega di Salvini è un atto che si deve perseguire non soltanto da parte dei cittadini del sud ma di coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia intera.

Dire no significa mobilitarsi nelle piazze, sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo, far sentire al palazzo che i problemi del mezzogiorno e del paese sono un unicum, che sarebbe un errore gravissimo puntare sullo spaccottamento piuttosto che sul riequilibrio.

Un riequilibrio cui si rinuncio allorché ormai quasi venticinque anni fa il governo di centrosinistra modificò il Titolo V della Costituzione-da lì è partito tutto, è bene ricordare-investendo nell’operoso nord e lasciando alla deriva il sud in perenne sofferenza: l’eufemismo più in voga era ‘in ritardo di sviluppo’.

La questione meridionale, il dualismo fra le parti simmetriche del paese venivano risolte in maniera tranchant, semplicemente eliminando uno dei corni del dilemma, quello più fragile.

Il dibattito che si è sviluppato da allora ha risparmiato poche pieghe delle tante che rivestono l’affaire: mettere alla prova il sud, i LEP, i servizi essenziali, era meglio non fare L’Unità d’Italia, con i Borboni si stava meglio, facciamola dal sud, la secessione. Perché un dibattito c’è stato, e c’è, anche nelle regioni meridionali, e anche con evidenti distinguo nelle forze politiche, a cominciare dalla moderata Forza Italia che mostra di non gradire. Un dibattito che però si sviluppa esclusivamente sul versante difensivo e d’opposizione al disegno di Salvini, come se conservare lo status quo fosse la soluzione.

Invece no, non è la soluzione perché è sotto gli occhi di tutti la divaricazione sempre più stridente fra allocazione delle risorse, disponibilità di servizi, occasioni di lavoro, efficienza delle prestazioni, capacità di spesa, treni che partono con direzioni e versi privilegiati se non esclusivi.

Perché il sud è rimasto indietro, c’è stato chi documenti alla mano ha indicato d’indagare sulla inadeguatezza delle classi dirigenti a sud di Roma: se per un periodo la tesi ha mostrato la sua fondatezza non di meno la parzialità della diagnosi balza comunque agli occhi con l’incalzare degli eventi. Non già per assolvere l’indifendibile ma per assegnare a un intero sistema ruoli e responsabilità che non possono che essere collettivi, plurali bisogna dire che un impegno diffuso e costante è ciò che attende la comunità politica e civile, culturale ed economica delle regioni del sud.

Perché è dal sud, se si vuol dare per davvero il segno della credibilità della svolta, che si deve dare inizio a ridisegnare funzioni e attribuzioni, assegnare equilibri e risorse, secondo un assetto della macchina pubblica che non nasconda zone d’ombra, riconosca limiti e introduca correttivi secondo criteri di equità e di merito, in uno Stato del terzo millennio.

Può partire dal sud un ragionamento siffatto, ci sono da noi intelligenze e passioni capaci di mostrare la via, con spirito unitario e non subalterno, propositivo e non rivendicazionistico?

Provare a misurarsi in tale impresa val la pena, altrimenti sarà il cartello del no a vincere ancora una volta, o il perpetuarsi dell’eterno pantano.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 settembre 2024

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Poi dici che il turismo va male, che la Calabria è abbandonata, che le cose vanno male etc etc. Poi tenti una narrazione un po’ diversa , meno catastrofica e un tantino più ottimistica. Ma poi ti imbatti in una notizia peraltro un po’ datata anche ma di cui nessuno parla nella vergogna più assoluta e allora ti cadono le braccia e dici: nooo! Dal 22 al 25 luglio cancellati tutti i treni in partenza ed in arrivo dalla Calabria per una interruzione nel tratto Sapri-Battipaglia.

Sono settimane che è accaduto un incidente e i disagi sono pesantissimi per pendolari, turisti etc. Il tutto nel silenzio assoluto di istituzioni nazionali e regionali che promuovono stratosferici risultati per export e turismo. La verità è quella che ha ben riassunto il segretario regionale della Cgil angelo sposato, l’unico che abbia detto una cosa. “Ci troviamo ancora una volta una Calabria isolata e con costi proibitivi per i voli in entrata ed uscita.

Il tema della mobilità, della sanità, delle politiche ambientali, non sono un affare privato, sono i cardini del sistema pubblico di una regione e di un Paese.Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, già in passato interpellato sul tema dei servizi e delle tariffe, intervenga su Rfi e Trenitalia per capire quello che sta succedendo e poi spieghi ai cittadini calabresi che fine hanno fatto i fondi del Pnrr per l’alta velocità in Calabria”.

Potremmo finirla qui e invocare pietà per noi tutti, dimenticati da dio e dagli uomini sulle cose più semplici. Ancora una volta ci viene in aiuto il grande poeta Franco califano: tutto il resto è noia.

da “il Quotiando del Sud” del 20 luglio 2024

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

Per il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, la strada sull’autonomia differenziata si fa sempre piu’ stretta, tra alleati interni e opposizioni. Da un lato Occhiuto ribadisce le perplessità sui modi e sui tempi dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e per ultimo al consiglio nazionale di Forza Italia ha usato parole nette. «Il ddl Calderoli, purtroppo, è arrivato all’ok finale delle Camere senza che contemporaneamente sia giunto al traguardo anche il superamento della spesa storica.

Spero che Forza Italia, così come ha sempre detto il nostro leader Antonio Tajani, metta al centro della sua azione proprio il superamento delle differenze territoriali, archiviando definitivamente la spesa storica a favore dei fabbisogni standard. Il mio auspicio è che Forza Italia non voti in Consiglio dei ministri e in Parlamento alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep, e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud».

Forza Italia ha anche dato vita all’Osservatorio sull’Autonomia differenziata costituito dai massimi responsabili istituzionali e politici del movimento, il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, il sottosegretario all’Economia Sandra Savino, i presidenti delle Regioni di Forza Italia, i capigruppo alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo, i vice segretari nazionali, e una selezionato gruppo di tecnici, economisti e studiosi, che avrà il preciso compito di vigilare sugli effetti pratici dell’attuazione della legge, che deve valorizzare tutte le regioni, con particolare attenzione a non penalizzare il Sud.

Ma ci sono precise puntualizzazioni. «E’ un Osservatorio – ha detto subito la Casellati – che deve solo monitorare questo processo, perché noi abbiamo una legge cornice e adesso c’è tutto il procedimento da mettere in atto, che va dalla definizione dei Lep agli accordi tra lo Stato e le Regioni».

Dell’Osservatorio dunque fa parte anche, nella duplice veste di presidente di Regione e vicesegretario nazionale di Forza Italia, anche il governatore calabrese Roberto Occhiuto. Secondo diversi analisti politici, in realtà, la nascita dell’Osservatorio sarebbe stata dettata dalla necessità per Foza Italia e il suo leader nazionale Tajani di venire incontro alle richieste dei governatori forzisti nelle regioni del Sud, tra cui Occhiuto e il lucano Vito Bardi, che hanno manifestato molte preoccupazioni per le ricadute territoriali del Ddl Calderoli, entrando in rotta di collisione anche con la Lega.

Ma questa strada e’ stretta assai. L’ex Governatore Agazio Loiero, ad esempio, non gliel’ha certo mandato a dire ad Occhiuto. Loiero infatti definisce «tardive» le critiche dell’attuale presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, al Ddl Calderoli’’ ed ha dato un consiglio al governatore: «Può accodarsi alle cinque Regioni del centrosinistra che presentano ricorso e che presentano due ricorsi, uno di abrogazione totale e uno di abrogazione parziale. Si accodi a queste regioni e lui diventa un alfiere, un difensore del proprio territorio, che viene sempre prima del partito e della coalizione».

Ovviamente piu’ drastico il segretario del Pd Nicola Irto: «Serve una battaglia meridionalista e da sud, serve una battaglia calabrese. Sono inaccettabili e anche un po’ ridicole le giravolte di Occhiuto, che prima vota la legge che poi contesta’’.
Insomma Occhiuto e’ stretto ed alla fine una posizione netta e chiara dovra’ pure assumerla: o sarà ligio alla disciplina del suo partito o sceglie il mare aperto della battaglia meridionalista. Restiamo in attesa di capire.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 luglio 2024

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio.

In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.

Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali?

Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.

Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.

Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite.

Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.

Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su

da “il Manifesto” del 29 giugno 2024

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

L’avevo previsto e l’ho scritto: Forza Italia non può accettare supinamente la legge che vara l’Autonomia Differenziata. La sua base elettorale, le Regioni che governa, sono tutte nel Sud. D’altra parte non può, e non vuole, uscire dal governo, far cadere questa solida maggioranza di destra, rischiando di restare in mezzo al guado, non più alleata con la Destra-destra, ma neanche accolta dal Centro Sinistra.

In mezzo alla corrente si rischia di scomparire, di essere travolti se non si trova una via d’uscita. Probabilmente, Forza Italia potrà uscirne da questa imbarazzante situazione sperando di mettere bastoni burocratici alla implementazione di questa legge “spacca Italia”. Ma, si tratta di tattica, di prendere tempo mentre avanza la richiesta di austerità da parte della Ue, finisce la sbornia del Pnrr, la droga del 110 per cento, e bisognerà restituire la parte di prestito contratto che va ad aggiungersi ad un debito pubblico insostenibile.

Con una recessione alle porte, sperando che i sempre più preoccupanti venti di guerra non ci travolgano prima, l’Autonomia Differenziata rappresenta il colpo finale, la mannaia che taglierà la testa a chiunque pensi di governare le regioni meridionali.

Di fronte a questa sfida di portata storica le popolazioni del Mezzogiorno, in misura crescente, stanno prendendo coscienza che è necessaria una mobilitazione, scendere in piazza e partecipare in massa alla raccolta firme per il referendum. Ma, attenzione, a non creare, nei fatti, una Lega Sud contro il Nord che ci porterebbe a sbattere contro un muro. Intanto il Nord non è un blocco omogeneo, ma esistono forti differenze al suo interno.

Per esempio, la Liguria è una regione che riceve dallo Stato più di quanto versi attraverso le imposte, circa il 13% del suo budget scomparirebbe con l’Autonomia Differenziata (A.D.). ma anche regioni del Nord a Statuto speciale, come il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, avrebbero solo da perdere dalla A.D. , visto che lo Stato contribuisce in maniera importante, soprattutto in Valle d’Aosta, a mantenere il livello attuale di reddito e consumi.

Naturalmente stessa sorte toccherebbe alle regioni autonome del Sud, Sicilia e Sardegna, malgrado rassicurazioni varie da parte del governo. E non a caso, al di là del colore politico, governatori delle due isole maggiori hanno apertamente espresso il proprio dissenso.

Pertanto, c’è un lavoro determinante da portare avanti. Fare conoscere, con numeri alla mano, l’impatto sulle singole regioni che l’A.D. comporterà se non viene fermata prima. Ci sono poi singole categorie che non accettano di essere frantumate, parcellizzate, come ad esempio i Vigili del Fuoco che hanno già espresso in Veneto la loro contrarietà alla A.D. Così come tra gli insegnanti che non accettano una regionalizzazione dei programmi scolastici per diverse ragioni, sia didattiche, sia di mobilità territoriale, sia di qualità dei programmi.

Credo che si arriverà, con i Consigli regionali o con la raccolta firme, ad un referendum per abrogare questa legge. La risposta del governo Meloni sarà quella di usare l’arma più semplice ed efficace per vincere: chiedere agli italiani di non andare a votare. Dato che per essere valido un referendum abrogativo deve far registrare oltre il 50 per cento di votanti tra gli aventi diritto, basterà che gli elettori della Destra si astengono per perdere anche se i Sì raggiungessero il 100 per cento. Quindi bisogna evitare che passi come una ennesima sfida meloniana: o con me o contro di me. Ovvero: après moi le déluge.

Innanzitutto, bisognerà convincere dell’utilità del voto quel 50 per cento di elettori che negli ultimi anni non hanno partecipato alle elezioni politiche e amministrative. Compito non facile ma non impossibile se le argomentazioni saranno convincenti, basate su dati e non su slogan o invettive, salvo il richiamo all’Unità del nostro paese che questa legge mette seriamente in crisi, facendo aumentare in maniera insostenibile le disparità territoriali. Anche dentro il mondo elettorale dei FdI ci sono e ci saranno coloro che non vogliono che questo partito ( condizionato dal baratto con la Lega “ io ti do l’A.D. e tu mi dai il premierato”), si trasformi in Brandelli d’Italia, secondo l’efficace espressione della Elly Schlein.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 giugno 2024

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata siamo in una terra di mezzo. La legge Calderoli ha stabilito una procedura per giungere alla devoluzione delle materie alle Regioni che le richiedono. La strada è spianata, restano le intese per completare l’opera.

Sarà così raggiunto un traguardo storico irreversibile. Non spetterà più allo Stato salvaguardare i diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, ma alle singole Regioni in base ai negoziati definiti separatamente con il governo. Sarà la fine della solidarietà nazionale e di ogni idea di Paese unitario.

Un esito posto al riparo anche da eventuali ripensamenti: le intese, che verranno definite dal governo in carica e dall’attuale ministro per le autonomie, verranno approvate da un parlamento silente a maggioranza assoluta e non potranno neppure essere sottoposte a referendum abrogativo. In vigore per l’eternità, nonostante l’ipocrita previsione di una durata decennale delle intese (e poi che succede se non c’è il consenso della regione a recedere?). Tutto è ormai pronto perché si cambi volto alla Repubblica.

Che fare per impedire quest’esito annunciato? Qualcosa si può ancor tentare, ma è necessario attivarsi subito e avere ben presente virtù e limiti entro cui si può operare. Sono misure che sono state discusse più volte da questo giornale, ma è bene ricordarle.

LA PRIMA PAROLA spetta alle Regioni. Esse possono portare la legge appena votata difronte alla Consulta. Basta che una regione eserciti quel diritto che l’articolo 127 della Costituzione gli attribuisce. In questo articolo si stabilisce che entro 60 giorni dalla pubblicazione di una legge le Regioni possono promuovere una questione di legittimità per lesioni della propria sfera di competenza. Sino ad ora abbiamo sentito molti presidenti, soprattutto di Regioni meridionali, alcuni anche di destra, denunciare i rischi che l’adozione delle intese produrrebbero sulla stabilità del Paese. Ora hanno la possibilità di far valere le loro ragioni difronte alla Consulta.

Una verifica sul punto mi sembrerebbe doverosa e persino rispettosa dei reciproci ruoli dello Stato e delle Regioni. Sarebbe invece pessimo il segnale se non ci fossero questi ricorsi. Perché si dimostrerebbe che i rappresentanti istituzionali non sono in grado di reagire facendo invece prevalere calcoli politici o (nel caso delle regioni attualmente governate dalla destra) fedeltà di maggioranza. Una dimostrazione di come l’autonomia regionale abbia operato nel profondo.

Quale sarà l’esito del ricorso, cosa deciderà la Consulta, non può essere detto. Per ora si tratta di far valere tutte le ragioni che determinerebbero violazioni di articoli e principi costituzionali a partire da quello d’eguaglianza e la ritenuta lesione dei diritti fondamentali nelle diverse parti del territorio nazionale. Poi la parola passerà alla Corte.

La seconda strada che è possibile percorrere è quella della richiesta di abrogare la legge appena approvata per via referendaria. Non è una via alternativa alla prima, semmai complementare. Non riguarda la illegittimità costituzionale della legge Calderoli, ma il merito politico. Può essere attivato da 500mila elettori o da cinque consigli regionali. Anche in questo caso sarebbe fisiologico che una legge tanto controversa e contrastata da vasti settori dell’opinione pubblica provocasse l’attivazione di quello strumento di partecipazione che la Costituzione mette a disposizione: il referendum, appunto.

Vedo che l’intera opposizione, finalmente unita, afferma di voler precorrere questa strada. Bene, una reazione decisa. Qual è lo scandalo se chi non ama una legge così importante vuole sottoporla al giudizio popolare? Anche in questo caso potrebbe dirsi: se non in questo caso, quando?

da “il Manifesto” del 25 giugno 2024

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Che cosa è successo ieri con la definitiva approvazione della legge sull’autonomia differenziata? Da un punto di vista giuridico ben poco. Non è stato concesso alcun potere. Per quello, bisognerà attendere la firma, e poi la ratifica, di intese fra lo Stato e ciascuna regione. Il confronto politico, delle idee, si sposta quindi sul piano della conoscenza e della discussione di quei contenuti. Tra l’altro, essendo quella approvata una legge ordinaria, qualsiasi sua disposizione può essere modificata da una norma successiva. La battaglia è ancora lunga.

Ma sono stati raggiunti almeno tre importanti obiettivi. Il primo è la rinnovata coesione nella maggioranza, a qualsiasi condizione. Anche a costo di approvare una norma, che deriva dall’antica predicazione leghista, che può disarticolare lo Stato e trasformare l’Italia in un Paese arlecchino. Che cozza frontalmente con la cultura politica di Fratelli d’Italia: girano in Rete le bellicose dichiarazioni di Giorgia Meloni del dicembre 2014, con le quali presentava la sua riforma costituzionale per abolire le regioni, fonte a suo dire di ogni spreco. Oggi le trasforma in Stati-regione dall’ampia sovranità. Una maggioranza che preoccupa: per tanti motivi ma anche perché è disposta a compiere qualsiasi scelta pur di restare al potere.

Il secondo è l’auto-mortificazione del Parlamento. I deputati di maggioranza, con questa legge, hanno deciso di privarsi del diritto-dovere di discutere a fondo i contenuti delle intese, cioè di riflettere su quali poteri, a oggi incardinati nel legislativo nazionale, saranno ceduti. Con un anticipo del premierato, scegliere che cosa e quanto concedere lo decide la presidente del Consiglio; a deputati e senatori spetterà, al termine del percorso un voto di mera ratifica; di giubilante approvazione delle scelte del capo. Così, con queste tristi pagine di storia parlamentare potrebbero avere fine il Servizio sanitario nazionale, la scuola pubblica unitaria, il sistema delle infrastrutture e dell’energia.

Il terzo è che si fornisce un’arma di propaganda. Si dice: con questa legge saranno garantite pari condizioni nei servizi nel Mezzogiorno grazie ai famosi Lep. Che sia una bufala, nonostante le predicazioni di Sabino Cassese è facile intuirlo: chi potrebbe mai ragionevolmente pensare che Luca Zaia e Attilio Fontana abbiano fatto questa lunga lotta per far arrivare più risorse al Sud? Come è evidente da tutti i documenti, l’obiettivo è esattamente il contrario: trattenerne il più possibile nei propri confini. Questo si otterrà grazie a una percentuale garantita del prelievo fiscale nazionale che rimarrà in regione (la “compartecipazione”).

Altro che responsabilizzazione delle classi dirigenti. Un bengodi. Lo Stato, cattivo, tassa; la Regione, buona, spende, senza vincoli di destinazione. Quanto ai Lep, abbiamo un impegno con l’Unione europea a stabilirli, e a mettere a regime tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, nel Pnrr. Richiedono comunque risorse che non ci sono. Ma a ogni buon conto, il governo ha pensato bene di nominare presidente della commissione tecnica che dovrà fare i conti, una consulente ufficiale della Regione Veneto. Non si sa mai.

E ora? La strada per i sostenitori della secessione dei ricchi si è fatta più agevole, ma è ancora lunga. Per chi vuole opporsi, ci sono più piani. Il primo è quello della mobilitazione politico-culturale generale su questa assurda idea di Paese arlecchinesco. Coinvolgendo i cittadini, del Sud e del Nord. Cercando di far pagare un prezzo politico elevato a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. Nel Mezzogiorno ci sono possibilità, come mostrano le posizioni molto perplesse del presidente forzista della Calabria, ma questo va fatto anche e soprattutto nelle città del Nord, finora troppo distratte.

Il secondo, è quello di marcare stretto il governo sui possibili contenuti delle intese, che inizialmente possono riguardare solo alcune materie (cosiddette non-Lep). C’è certamente una trattativa regioni-ministeri in corso, di cui Parlamento e cittadini non sanno nulla. E allora chiedere alla presidente: se questo cambiamento fa così bene all’Italia, perché ne nascondete gli effettivi contenuti? Parliamo della follia di spezzettare la Protezione civile, ad esempio?

Infine, come ricorda Massimo Villone, c’è la possibilità dei ricorsi in via principale di alcune regioni (auspicabilmente del Nord e del Sud) alla Corte Costituzionale. Assai meno importante la strada referendaria, per i suoi tempi e contenuti (anche se si abolisse questa legge le intese successive resterebbero valide).

Insomma, il 19 giugno non resterà nella memoria della Repubblica come una giornata felice. Ma tempo e modo per contrastare la secessione dei ricchi ancora ci sono.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 giugno 2024

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo?

Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori.
Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024