Tag: questione meridionale

Prima il Sud, ma solo a parole.- di Massimo Villone

Prima il Sud, ma solo a parole.- di Massimo Villone

Nel discorso di Conte alle Camere per la fiducia il Mezzogiorno c’è o no? È una domanda ineludibile, perché Conte ha disegnato un percorso e un programma con la dichiarata ambizione di arrivare a fine legislatura. In realtà, è esattamente questa la scommessa politica che ha messo in campo, con l’obiettivo di ampliare la maggioranza. Se il tentativo avrà successo, da qui al 2023 si faranno scelte cruciali per tutto il paese, ed in specie per il Mezzogiorno.

Nella Camera dei deputati Conte ha rivendicato i risultati conseguiti dall’esecutivo. Ma al Sud ha dedicato solo poche parole, sulla fiscalità di vantaggio. A seguito di qualche contestazione venuta nel dibattito, ha poi ripreso il tema nella replica. Ha affermato che il Sud «è in cima alle priorità dell’agenda di Governo», e non per ragioni ideologiche. Solo facendo correre il Sud «potrà correre il Nord e tutta l’Italia».

Sembrerebbe una piena accettazione della tesi per cui far partire il Sud come secondo motore del paese è l’unica vera possibilità di rilanciare l’Italia nel suo complesso. Sulla sponda opposta chi invece vorrebbe rilanciare la sola “locomotiva del Nord”. Fin qui siamo alle parole. Molti un Mezzogiorno in cima alle priorità dell’esecutivo proprio non lo vedono. Ma Conte va oltre. Ci informa che con il Recovery Plan «si concentreranno gli investimenti, secondo alcune stime, le risorse per circa il 50 per cento nel Sud, se consideriamo tutti i progetti che si dispiegano anche in modo trasversale». Richiama anche 15 miliardi per infrastrutture ferroviarie, e 2.3 miliardi specificamente per le infrastrutture in Calabria. Cita il piano Sud 2030 e altre misure, segnalando in particolare che le iscrizioni negli atenei del sud sono aumentate del 7,5%.
Il discorso in Senato è stato un remake di quello della Camera.

Nessuna sostanziale novità. Il punto è che in entrambe le Camere oltre alle generiche affermazioni di principio il premier non è andato. Nessuna indicazione precisa sul come giungere a ridurre o azzerare il divario strutturale che spacca il paese.
Nemmeno sul terreno di diritti fondamentalissimi come la sanità e l’istruzione, in cui la pandemia ha drammaticamente evidenziato diseguaglianze crescenti.
Il punto allora è se sia credibile o no lo scenario delineato da Conte di un Sud in cima alle priorità del governo, e addirittura destinatario di un 50% delle risorse disponibili per il Recovery.

Dalle analisi svolte sulle bozze di piano via via disponibili vengono considerazioni di altro segno. Ricordiamo tutti la lettera dei presidenti delle regioni meridionali a Conte, anche se non è dato sapere se ci sia stato un seguito, o sia rimasta una mossa puramente di teatro per i fan. Come non sappiamo in quale modo Conte giunga alla valutazione di un 50% del Recovery destinato al Sud. Sembra però di poter trarre dal richiamo alla “trasversalità” che si tratti di progetti non specificamente volti al Mezzogiorno, ma all’intero paese. In tal caso, quanti e quali benefici ne verranno alle regioni meridionali rimane da vedere.

Sono già emerse polemiche, ad esempio, sulla effettiva ricaduta di risorse destinate ad agevolazioni per il lavoro nel Sud, e sulla strategia che il Recovery Plan delinea per i porti italiani. Si ritaglia per quelli del Sud un ruolo – ovviamente minore servente alla vocazione turistica del territorio. Conte non ci ha convinto. Bisognerà mantenere alto il livello di attenzione e cercare di incidere qui e ora, nel passaggio parlamentare promesso dal premier. Una volta concluso l’iter con un voto e con l’approvazione Ue, i giochi saranno fatti, e non si potrà correggere in corso d’opera l’errore di oggi. Che dalla parte più forte del paese venisse una pressione per avvantaggiarsi nella destinazione delle risorse Ue era prevedibile.

Ora, la vicepresidente e assessore lombarda Moratti vuole un vantaggio addirittura sui vaccini. Più Pil, più vaccini. E gli altri muoiano in pace. C’è un leghismo genetico che infetta il Dna di una parte del paese. L’abbiamo visto già all’origine dell’autonomia differenziata, quando i famigerati preaccordi del 28 febbraio 2018 tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni avrebbero inteso commisurare il diritto all’assegnazione di risorse pubbliche alla capacità fiscale dei territori. Più ricchezza, più risorse. Il mantra del leghismo. Sarà difficile sconfiggere egoismi territoriali.

da “la Repubblica Napoli” del 20 gennaio 2021
Foto di Ulf-Angela da Pixabay

Dopo la crisi una nuova politica per il Sud.- di Massimo Villone

Dopo la crisi una nuova politica per il Sud.- di Massimo Villone

Sul grande schermo della politica abbiamo visto nella giornata di mercoledì succedersi tutti gli scenari possibili. Al momento, siamo alla crisi che ancora non c’è, perché dimissioni formali dell’esecutivo non sono state presentate. Al tempo stesso, è chiaro che non si può continuare come se nulla fosse accaduto.

Certamente Palazzo Chigi ha commesso degli errori, sui quali ben si poteva chiedere correzioni. Ad esempio, la prima proposta di governance sul Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) – tre ministri, sei supermanager e trecento esperti – sostanzialmente commissariava la stessa maggioranza. Una soluzione inaccettabile, poi cancellata per le pressioni di tutti. Sembra però che la richiesta di Matteo Renzi per un cambio di rotta gli sia alla fine sfuggita di mano. È certo difficile per l’opinione pubblica capire perché si vuole a tutti i costi far cadere un governo mentre si è pronti a votarne i principali provvedimenti. Delle ragioni di quanto è accaduto non appassiona discutere. Importa invece capire su cosa alzare argini a difesa. Il Pnrr rimane una scommessa cruciale per il futuro del paese, e in particolare per il Mezzogiorno.

Questo non cambierà, quali che siano gli esiti del passaggio parlamentare che si mostra al momento probabile, e gli scenari a seguire. Una critica alla prima stesura del Pnrr era che la nuova Italia cui si dichiarava di voler puntare non poteva uscire da un assemblaggio di vecchie carte tirate per l’occasione fuori dai cassetti. In particolare, mancava del tutto l’obiettivo strategico di vedere nel Mezzogiorno il secondo motore dell’economia italiana, da riavviare perché indispensabile per il rilancio del paese nel suo insieme.

Abbiamo invece ascoltato negli ultimi mesi economisti di vaglia – di cui ho dato conto su queste pagine – affermare la incapacità del Sud di trarre vantaggio dall’afflusso di risorse pubbliche.

Argomento decisivamente contrario a un Pnrr attento al rilancio del Mezzogiorno, che può solo avvenire con forti investimenti pubblici. Così diventano invece applicabili al Pnrr tutti i luoghi comuni che erano già stati alla base della spinta per l’autonomia differenziata. E che possono sintetizzarsi nella tesi per cui il bene del paese si trova nel far ripartire la locomotiva del Nord, non nella riduzione del divario Nord – Sud.

Nel dibattito sulle correzioni del Pnrr è emersa un priorità Mezzogiorno. Ma cosa cambia davvero?
Claudio De Vincenti e Stefano Micossi – certo non sospetti di estremismo sudista neoborbonico – notano sul Sole24Ore (12 gennaio) che a infrastrutture e investimenti sulle reti sono destinati solo 28 miliardi. In specie, risultano sacrificati con soli 4 miliardi gli investimenti in logistica e portualità, che “costituiscono la via maestra per consentire all’Italia, e in particolare al Mezzogiorno, di essere protagonista degli scambi europei e mediterranei”.

E certo fa impressione leggere nel Pnrr (pag. 100) che si punta a “una valorizzazione del ruolo dei Porti del Sud Italia nei trasporti infra-mediterranei e per il turismo” (corsivo aggiunto). Mentre si guarda ai porti dell’Alto Tirreno e Alto Adriatico (Trieste e Genova) per i rapporti con l’Europa del Nord. Porti di serie A e di serie B? Si può temere che la priorità per il Sud dichiarata dal Pnrr “trasversale a tutte le missioni” rimanga alla fine un flatus vocis.

Questione di soldi, e non solo. Il Sud come secondo motore in concreto non lo vediamo ancora. Adriano Giannola ( Quotidiano del Sud, 12 gennaio) avverte che con la pandemia si avvicina “un baratro che coinvolge le regioni settentrionali accomunate dalla prospettiva di progressiva meridionalizzazione”. La conferma viene da La Stampa (12 gennaio). Dopo anni di crisi e crescita rallentata “la grande paura del Nord è risvegliarsi alla fine dell’incubo della pandemia e scoprire di non essere più il motore del Paese. E ritrovarsi lontano dalle locomotive d’Europa”.

Appunto. Bisogna vigilare, e mantenere alta l’asticella del dibattito. La locomotiva del Nord non è bastata finora a frenare il lento declino dello stesso Nord. Ancor meno potrà in futuro. Scommettere oggi sul Sud con il Pnrr è indispensabile, ed è nell’interesse anche del Nord. Questo è il punto che va mantenuto, in qualsiasi scenario.

Lo dice persino Natale Mazzuca, vicepresidente di Confindustria: è tempo di “un’unità vera nella quale il Mezzogiorno deve rappresentare il secondo motore per far ripartire il Paese” ( Mattino, 12 gennaio). Bene. Ma è l’opinione sua, imprenditore calabrese, o il pensiero ufficiale e convinto di Confindustria?

da “Repubblica Napoli” 15 gennaio 2020

Le misure per il Sud spia dello sguardo miope della manovra.- di Alfonso Gianni

Le misure per il Sud spia dello sguardo miope della manovra.- di Alfonso Gianni

Habemus legem. Quella di Bilancio verrà approvata entro la fine dell’anno, malgrado fosse stata presentata in parlamento con inconsueto ritardo, evitando così il temutissimo esercizio provvisorio. Non sarebbe stato un buon biglietto da visita per Bruxelles in attesa dei fondi del Recovery.

Gli esponenti della maggioranza hanno voluto sottolineare che il testo del governo è stato arricchito da una discussione bipartisan in cui finalmente il Parlamento ha potuto dire la sua, dopo un anno passato a convertire decreti del governo e a subire ripetuti voti di fiducia. Vero, ma solo per un ramo del Parlamento. La Camera ha discusso, il Senato ha ratificato. Lo stesso Presidente della Repubblica, che avrebbe secondo la Costituzione un mese per farlo, promulgherà la legge nell’attimo di un sospiro.

In sostanza si è realizzata una sorta di monocameralismo di fatto, distorto e distorcente, oppure, se si preferisce, di un’anticipazione della entrata in vigore della riduzione di un terzo dei parlamentari infierendo particolarmente sul funzionamento del Senato ridotto a un moncherino.

Certo, non viviamo in tempi normali, solo che l’eccezione è diventata regola. E’ un anno che si vive di provvedimenti di natura finanziaria, questo è il nono. E non è finita, poiché oltre al tradizionale Milleproroghe a gennaio andrà in scena un altro scostamento di bilancio per finanziare un nuovo “ristoro”. A dimostrazione della fallacia del pareggio di bilancio inserito a suo tempo in Costituzione.

Secondo l’Istat, rispetto al secondo trimestre 2019 gli occupati sono calati di 841.000 unità, di cui quasi la metà under 35 e ieri l’ufficio studi della Confcommercio ha stimato che il tasso di mortalità delle imprese, rispetto al 2019, risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e più che triplicato per i servizi (dal 5,7% al 17,3%).

Ma guardando l’insieme dei provvedimenti economici lungo l’anno non si scorge che il tentativo di venire incontro all’emergenza.

Difficile non concordare con la tagliente definizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio che definisce questa legge “un coacervo di misure senza disegno”. Ove al tradizionale assalto alla diligenza e alla logica dispensatrice neocorporativa – la pioggia dei bonus, dagli occhiali agli smartphone, alcuni persino più ridicoli che scandalosi – si è aggiunta anche una qualche attenzione ai problemi sociali, tra conferme e novità.

Come i 267 milioni destinati all’assegno di ricollocazione esteso ai disoccupati Naspi e Discoll da oltre 4 mesi e ai cassaintegrati per cessazione di attività; la proroga di 12 settimane di Cig (ma senza oneri per le imprese); le facilitazioni per lo scivolo verso la pensione; la nona salvaguardia per gli esodati; l’istituzione di un fondo di 1 miliardo per il 2021 per l’esonero dai contributi previdenziali per le partite Iva con calo di un terzo del fatturato.

Viene da chiedersi come tra tante provvidenze non sia riuscito a trovare posto il rinvio del taglio del fondo per l’editoria. Domanda retorica, essendo la risposta già nota con la vaga promessa che forse se ne riparlerà nel Milleproroghe.

Mentre per il Sud si ricorre alla solita scelta dello sgravio contributivo per le aziende del 30% fino al 2029. Ma proprio questa norma mostra il fiato corto e lo sguardo miope della manovra. Come diceva lo storico Rosario Romeo la mancata ripresa del Sud – sempre più a fondo in questa crisi – compromette la ripresa nazionale.

Ed è un problema che riguarda i vari sud dell’Europa. Ci penseranno i fondi del Recovery? C’è da dubitarne, visto il modo con cui si stanno preparando i progetti, ostaggio di una lotta scriteriata che vede Renzi protagonista per imporre un Conte ter, ovviamente senza passaggio elettorale che per l’uomo di Rignano sarebbe la disfatta.

Il tema lavoro si riproporrà in termini esplosivi quando finirà il blocco dei licenziamenti il 31 marzo, peraltro già bucherellato da precedenti normative. Lo riconosce lo stesso Conte quando afferma che sulle politiche del lavoro bisogna fare di più e che non si può affrontare l’anno entrante con la legislazione vigente e gli stessi ammortizzatori sociali.

Ma i buoni propositi non fanno una politica. La partita del come utilizzare i fondi europei non si gioca a tavolino, indipendentemente da chi vi è seduto. Senza un conflitto sociale articolato mosso da una proposta alternativa di sviluppo – dalla conversione energetica (ove il tema dell’idrogeno verde è strategico) alla rinascita del Sud, passando per il lavoro e l’universalizzazione del welfare e del reddito di cittadinanza – quella partita è persa.

da “il Manifesto” del 30 dicembre 2020

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Un evento televisivo, domani mattina, alle 7.30, su Raitre: la replica, quarant’anni dopo, di una delle sette puntate di Calabria ’80, la prima, e ultima, ricognizione per immagini sul sistema produttivo calabrese (industria, agricoltura, turismo e terzo settore), che Tonino Perna ed io realizzammo per la Terza Rete calabrese, allora appena nata.
Sabato 2 gennaio, alla stessa ora, la seconda parte.

Avete presente quando di un allievo che “si applica ma non rende”, si dice: è volenteroso, ma non ha le basi? Ecco, le sette puntate di Calabria ’80, ne (ri)vedrete due, di mezz’ora ciascuna su Raitre il 26 dicembre e il 2 gennaio alle 7,30, rappresentarono per me le “basi” di conoscenza e di analisi del territorio che mi furono indispensabili, nei quarant’anni successivi, per raccontare la Calabria, enigmatca e complessa com’è.

Ebbi il privilegio di avere accanto un compagno di avventure funambolico e rigoroso come Tonino Perna, economista e sociologo, che di quel programma fu l’autore (io ne curai la regia), così quei quattro mesi di sopralluoghi, riprese, incontri e interviste on the road per la regione, dal Pollino all’Aspromonte, dal Tirreno allo Jonio, e poi i tre mesi in moviola che seguirono (il programma fu girato in pellicola da un maestro della fotografia che troppo presto ci lasciò, Tonino Arena), furono la mia seconda università, che mi laureò, davvero!, in “Calabriologia”.

Nessuno prima di noi, e prima di Calabria ’80 (e nessuno dopo, devo dire) aveva realizzato una ricognizione per immagini così attenta e capillare del mondo produttivo calabrese, in un momento topico della storia di questa regione, quando erano passati venti anni dal boom economico (dalle nostre parti, in realtà, niente di più che un’eco fievole se n’era sentita) e dieci anni da quel “Pacchetto Colombo” che c’era piovuto addosso per provare a riempire il baratro di ribellione e disperazione che si era aperto coi fatti di Reggio, e che già manifestava inconguenze, sprechi e fallimenti.

Girammo chilometri di strade, paesi, città e campagne, girammo chilometri di pellicola e realizzammo sette puntate di mezz’ora. Due dedicate all’Industria – un po’ di manufatturiero e di agroalimentare ancora “tirava”, in mezzo ad un cimitero, già!, di deserti e di cattedrali -, due all’Agricoltura – sospesa tra eroica primitività e pionieristica innovazione -, due al Turismo – quello “indigeno” all’epoca appena balbettante, più invasivo, invece, quello dei villaggi turistici e grandi gruppi colonizzatori – e una al Terzo Settore, che cominciava, proprio in quegli anni, a coprire, come poteva, vuoti ed emergenze sociali.

Più imparavo – paesaggi, persone, manufatti, belli, brutti o così così – più li sentivo parte della mia storia e del mio vissuto, roba che mi apparteneva, di cui dovevo farmi carico, perché aveva attraversato le speranze, le sofferenze, le sconfitte e la fatica della mia gente.

La Calabria, dove ero nata, ma dove, anche nell’infanzia, avevo vissuto pochissimo, e che avevo lasciato per andare a studiare a Milano, prima di Calabria ’80, come quasi tutti quelli della mia generazione, praticamente non la conoscevo.

Non era allora il luogo “circolare” che è oggi, grazie anche alle università, che hanno rimescolato saperi, amori ed esistenze, ma, assai più di oggi, era arroccato, e frammentato, nei paesi e nei particolarismi, nelle città e nei campanilismi, che si guardavano, a distanza, – anche ora accade, figurarsi quasi mezzo secolo fa – con diffidenza circospetta se non con malcelato razzismo.

Chi viveva a Reggio, per dire, andava più facilmente a Roma (o a Messina) per studio o per compere, piuttosto che a Catanzaro o a Cosenza, e un catanzarese magari andava a teatro al San Carlo di Napoli, ma non al Rendano di Cosenza o al Cilea di Reggio.

Imparai a conoscerla scoprendola, questa regione, con lo sguardo sorpreso della neofita, che, devo dire, non mi ha più abbandonato; scoprendola, imparai ad amarla, e, dopo quarant’anni, di più la amo. Non solo le sue cose e le sue persone belle (quelle son bravi tutti ad amarle); io m’innamorai pure di quelle brutte e di quelle così così. E, amandola, imparai a raccontarla. Ché, senza amore, non si può.

All’inizio degli anni ottanta, il clima culturale del Paese era quello, irripetibile, della riscoperta delle identità locali, delle tradizione e dei dialetti, contro la società di massa. Il regionalismo amministrativo era ancora bambino e quello culturale era frammentato in mille Calabrie, quando la Rai decise di riaccendere le lucciole periferiche che Pasolini piangeva spente per sempre, una per ogni regione, e nacque la Terza Rete decentrata; investì un bel po’ di risorse sui territori e, dal nulla o quasi, impiantò, anche in Calabria, un piccolo centro di produzione, che non solo realizzava e metteva in onda i primi telegiornali, ma anche inchieste, documentari, talk-show, fiction.

A Cosenza fu reclutato un piccolo esercito di operatori dell’informazione (e io tra di loro, e, con molti di loro, rientrai “dal Nord”): giornalisti, registi, operatori di ripresa, tecnici, autisti, elettricisti. Quasi cento ragazzi, età media 25 anni, competenze certe, concorsi “veri”, assunzioni a tempo indeterminato. Ci era richiesta una grande preparazione culturale, ma nessuno di noi aveva mai visto una telecamera, così imparammo a fare la televisione “facendola”, come un bambino impara ad usare un giocattolo giocandoci; l’entusiasmo era alle stelle, alimentato dalla consapevolezza di essere dei pionieri e dalla accoglienza straordinaria dei Calabresi, specialmente quelli delle aree interne: era una festa quando arrivava “la Televisione” in luoghi così “lontani” e dimenticati, in cui magari non c’era neanche il segnale di trasmissione, e che venivano raccontati per la prima volta: persone senza voce che diventavano importanti, luoghi dimenticati a cui si restituiva la memoria…

Calabria ’80 nacque in questo irripetibile clima e, rivederne adesso due mezz’ore (grazie alla pervicacia del Direttore della Sede di Cosenza Demetrio Crucitti) vuol dire ripercorrere un pezzo fondamentale della storia di questa regione, quando tutto pareva dover (ri)nascere, la Regione, l’Università, l’economia…

Il ritmo lentissimo del montaggio (“allora” per percepire un fermo-immagine avevamo bisogno, da telespettatori, di un “tempo”, quattro secondi!, eterno per gli standard frenetici di oggi) vi darà il senso, guardando Calabria ’80, dell’andamento pigro di una storia che, con fatica, con brusche frenate e affannate ripartenze, nonostante tutto, andava allora e ancora, fiaccamente, va.

Buona lenta visione. Sabato 26 dicembre e sabato 2 gennaio, Raitre, ore 7.30. Calabria ’80. Quarant’anni dopo.

dal Quotidiano del Sud del 24 dicembre 2020
foto wikipedia pontile ex Sir

Perché conviene ​difendere i più deboli. -di Gianfranco Viesti.

Perché conviene ​difendere i più deboli. -di Gianfranco Viesti.

Siamo certamente ad un tornante della storia del nostro paese. Questo 2020 ha chiuso un ventennio complessivamente poco felice. Quel che verrà dopo, gli anni Venti, sono ancora avvolti dal mistero, e dal non piccole preoccupazioni. Il futuro del Mezzogiorno, in particolare, è assai incerto: nel bene, e nel male; preoccupazioni e speranze. Riflessioni molto utili per capire un po’ meglio che futuro ci aspetta, e ancor più che futuro più positivo si può costruire, ci vengono dal Rapporto della Svimez, presentato ieri a Roma. Tre grandi temi: i danni certi del covid alla nostra economia e alla nostra società; le caratteristiche della possibile ripresa del 2021; le politiche per costruire scenari più favorevoli.

La conta dei danni è severa. La recessione indotta dalla pandemia farà cadere il PIL italiano di circa dieci punti, ormai lo sappiamo bene. La flessione dell’economia sarà un po’ più intensa nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, ma con uno scarto minimo. La Svimez, formula una domanda a cui non c’è risposta, ma che invita a riflettere su come sono costruite le politiche pubbliche in Italia: “lockdown regionali differenziati in base all’intensità del contagio, anche nella prima fase, avrebbero prodotto effetti economici e sociali diversi”?

Ma ciò che è stato, è stato: e le chiusure hanno prodotto una caduta dell’occupazione molto più forte al Sud: il 4,5% nei primi tre trimestri, il triplo che al Nord; frutto di una struttura dell’occupazione più debole, in cui sono più presenti dipendenti a termine e saltuari, stagionali; di una più vasta presenza di sommerso; di un maggior numero di giovani in cerca del primo lavoro. I giovani e le donne sono stati colpiti, per il tipo di lavori che svolgono, molto più intensamente.

E molto forte rischia di essere l’impatto sugli ancor più giovani: sugli studenti provenienti da famiglie meno agiate e con genitori con più bassi livelli di istruzione, che stanno soffrendo particolarmente la sospensione della didattica in presenza; e che rischiano di subirne un impatto permanente con il rischio di aumento della dispersione scolastica; con conseguenze durature sulle proprie opportunità di vita.

Incrociando le dita, il 2021 potrebbe segnare un significativo rimbalzo: ne abbiamo avuto chiari segnali questa estate; la seconda ondata peggiora il quadro, ma vaccini e fine della pandemia potrebbero innescare una ripresa molto significativa. Ma, nota la Svimez, questa ripresa sarà certamente più sensibile nelle regioni più forti del paese: grazie alla struttura della loro economia, ed in particolare alla presenza di più estese attività manifatturiere, maggiormente in grado di trarre profitto dalla domanda interna ed internazionale.

D’altra parte, è quel che è già avvenuto con la lunga crisi del 2008-14. La previsione, anche tenendo conto degli effetti della Legge di Bilancio (con il provvedimento molto positivo sulla decontribuzione nel Mezzogiorno), è di un +4,7% nel Centro-Nord e di un +1,6% al Sud.

Il covid è crudele: per i suoi tragici effetti sanitari, con i numeri di quanti si sono ammalati e sono morti; e perché i suoi effetti economici colpiscono di più le componenti più deboli della nostra società: da un punto di vista generazionale, di genere e territoriale. Qualitativamente è una crisi più incisiva di quelle precedenti: perché colpisce di più il terziario dell’industria e i lavoratori e le lavoratrici più deboli (ad esempio quelli che non possono lavorare a distanza) più degli altri.

Di qui occorrerà ripartire. E si può farlo, stavolta. Bene essere preoccupati; ma indispensabile nutrire la fiducia. La grande svolta delle politiche europee ci dà la possibilità del Piano per la Nuova Generazione (Png); è bene chiamarlo così, con il suo nome ufficiale (e non “piano di rilancio”) perché rende più chiaro chi devono esserne i principali beneficiari. Piano che si sommerà ad un nuovo ciclo di fondi strutturali.

Sarà cruciale che le risorse del PNG siano investite in modo molto attento alla dimensione territoriale: se un terzo andasse al Mezzogiorno (un valore che dovrebbe rappresentare un minimo, da incrementare), potrebbe farne crescere l’economia complessivamente di 5,5 punti nel 2021-24, ci dice la Svimez. Ma soprattutto potrebbe incidere su quelle condizioni strutturali che ne rallentano lo sviluppo; e sulle quali ben poco si è fatto negli ultimi venti anni. Potenziandone le reti urbane e di collegamento, ad esempio; valorizzando le sue attività energetiche, agroindustriali, logistiche; accrescendo fortemente i livelli di formazione e di istruzione tanto dei suoi giovani quanto di coloro che già lavorano. Investimenti pubblici che creano le condizioni anche per investimenti privati.

L’Italia degli anni Venti può essere molto diversa da quella di oggi: in peggio, ma anche in meglio. In questi mesi ci giochiamo molto: con il disegno del PNG e dei suoi progetti; con la capacità di avviare contemporaneamente un ciclo di fondi strutturali molto diverso da quelli del passato.

Ma soprattutto con l’impostazione di fondo di queste misure: la circostanza che esse non siano un mero piano di “recupero” dell’Italia com’era; ma un progetto di trasformazione: verso un paese non solo, come si legge nei documenti europei ed italiani, più “verde” e più “digitale”, ma anche meno diseguale: dal punto di vista sociale, generazionale, di genere e territoriale. Le due cose vanno insieme: un paese più inclusivo, meno dispari, è anche un paese che può crescere più e meglio. Sarà essenziale che nei prossimi mesi questa convinzione si affermi sempre più, e che si trasformi in atti concreti. @profgviesti

da “il Mattino” del 25 novembre 2020
Foto di Aleš Kartal da Pixabay

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

Da una recente ricerca della Svimez emerge un dato di grande rilevanza, che potrebbe rappresentare una svolta storica nel rapporto Nord-Sud nel nostro paese. La Svimez, infatti, ha stimato che nell’anno in corso ben 45.000 giovani meridionali a causa della pandemia sono tornati nel Mezzogiorno, continuando a lavorare in smart working. L’inchiesta è stata condotta su un campione rappresentativo di aziende con oltre 250 addetti, ma prendendo in considerazione il resto dei rientrati (comprendendo insegnanti di scuola e Università) sempre la Svimez stima in circa centomila il numero dei giovani rientrati al Sud che lavorano a distanza.

Per richiamare l’attenzione del ministro Provenzano su questo fenomeno (in quel momento soltanto intuito grazie all’iscrizione dei giovani alle liste regionali per entrare in volontaria quarantena) avevamo scritto una lettera aperta che è apparsa sul Manifesto del 21 giugno ed a cui il ministro ha cortesemente risposto. Purtroppo, a tutt’oggi non vediamo una traduzione concreta di quell’appello che mirava a creare un rapporto stretto tra le istituzioni e questi giovani rientrati nel territorio meridionale.

Ma, quello che non hanno fatto decenni di politiche per il Mezzogiorno, più declamate che fattuali, l’ha fatto l’invisibile mister Covid. Improvvisamente, la fuga dei giovani dal Mezzogiorno non solo si è arrestata, ma si è registrato un, inatteso, grande rientro. Ora, si tratterà di capire quanto di questo cambiamento radicale dei flussi migratori nel nostro paese resterà finita la pandemia. E non riguarda solo il Mezzogiorno, ma tutte le aree esterne al core dello sviluppo economico italiano. Anche nel Centro e nel Nord esistono le cosiddette “aree interne” marginalizzate che hanno visto un rientro di giovani dai grandi centri urbani e aree metropolitane.

Insomma, stiamo assistendo ad un insperato riequilibrio che andrebbe analizzato nei dettagli e accompagnato da politiche che lo incentivino, offendo adeguati servizi: sanità efficiente, connessione digitale, animazione culturale, ecc. Questo “new deal” riguarda non solo il governo, ma anche gli enti locali e il sindacato. Il governo potrebbe incentivarlo sgravando gli oneri sociali alle aziende del Nord per ogni lavoratore in southworking. Gli enti locali potrebbero offrire spazi pubblici gratuiti per il cooworking, oltre a migliorare i servizi pubblici e la connessione digitale.

Ci sarebbe da ripensare il contratto di lavoro in questa chiave di riequilibrio territoriale, che potrebbe offrire dei vantaggi alle grandi città, decongestionandole, quanto alle aree marginali, rivitalizzandole, ma anche agli imprenditori (che potrebbero avere dei risparmi, pensiamo per esempio ai buoni pasto, o ai minori spazi da utilizzare) e ai lavoratori che stando al Sud potrebbero risparmiare sul costo dell’abitazione, sul trasporto, sulla cura della casa e dei figli, ecc. Certo, si perderebbe in socialità, e non è cosa di poco conto, ma si potrebbe anche a pensare a periodi in presenza e periodi di lavoro a distanza.

In breve, si apre una nuova stagione del rapporto tra “luoghi e lavori” che da sempre coincidevano, salvo per sparute élite. Per secoli posto di lavoro e abitazione erano necessariamente vicini e duravano, spesso, per tutta una vita. Adesso, entriamo in una nuova fase che la pandemia ha solo accelerato e che ci offre delle opportunità da non perdere, a partire dal Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 24 novembre 2020
Foto di Alexey Györi da Pixabay

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Credo che sia abbastanza chiaro a tutti che, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, la regionalizzazione della sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani di amministratori regionali non solo incapaci di opporre alcun valido contrasto alla diffusione del virus, come è avvenuto con le aperture delle discoteche in Sardegna, ma, ora, devono continuamente ricorrere allo Stato per cavarsi d’impaccio.

La sciagurata modifica del Titolo V, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito il SSN, frantumandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Si pensi solo alla disperante situazione della Calabria che, ad oggi, non ha ancora neanche un Commissario. Questa tragica débâcle dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale, come hanno scritto su questo giornale Pallante e d’Orsi, non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma anche alla utilità delle Regioni che potrebbero essere sostituite, come Ente intermedio, dalle ben più storicamente radicate Province.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le regiones augustee, peraltro, assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà, mentre l’estremo lembo della Penisola era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’.

I criteri augustei per la ripartizione del territorio della Penisola in regiones erano di ordine etnico e politico. Volti a valorizzare le antiche e differenti tradizioni storiche e culturali, ma con il precipuo compito, ideologico, di conferire unitarietà, nell’ambito dell’impero, allo spazio italiano.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano, abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II, nel Sud d’Italia, passando per le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri fino ai vari disegni regionali del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia. Solo con l’Unità d’Italia Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti governativi intermedi, ma che furono usati, invece, solo per meri fini statistici.

L’Assemblea Costituente, nel secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto ad una eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali.

Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese trovandosi all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi spazi politici praticabili.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza, pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali artificiose perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”.

da “il Manifesto” del 19 novenbre 2020
Di Italian region white.svg: Gigillo83derivative work: Kat888 – Italian region white.svg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10457837

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Le tre regioni (Calabria, Puglia, Sicilia) in cui il rapporto fra casi attualmente positivi e popolazione è il più basso d’Italia (monitoraggio Gimbe, al 6 novembre) sono classificate fra le zone “rosse” e “arancioni”. L’apparente contraddizione si comprende guardando ai famosi 21 indicatori elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità: la classificazione dipende da un insieme di variabili, dalla velocità di trasmissione alla capacità di monitoraggio, e di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti.

Ma dipende anche da un elemento fondamentale: la disponibilità di personale e di posti letto. In queste regioni la dimensione del sistema sanitario è nettamente inferiore rispetto al resto del Paese: è questo che contribuisce a determinare le indispensabili misure più restrittive, ma quindi anche a colpire maggiormente le attività economiche. I ristoranti chiudono anche perché gli infermieri e i posti letto sono troppo pochi.

Perché è così? Questa realtà dipende dalla lunga e complessa storia della sanità italiana: e dalle insufficienze e distorsioni del suo governo in alcune regioni, principalmente del Sud; se si vuole difendere il diritto alla salute dei cittadini, non bisogna mai smettere di ricordare le inefficienze delle loro amministrazioni.
Ma dipende anche da oltre un decennio di politiche sanitarie, ed in particolare dai piani di rientro.

E’ utile comparare l’insieme delle regioni soggette a piani di rientro, includendo dunque anche Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, con le altre; in tempi di polemiche sui dati, ci si può far guidare da un recente rapporto dell’autorevolissimo Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). Che ci dice l’Upb? Che nelle regioni in piano di rientro al 2017 c’erano 81 dipendenti del sistema sanitario ogni diecimila abitanti contro 119 in quelle senza piano; in particolare c’erano 35 infermieri contro 49, in un quadro italiano in cui il rapporto fra infermieri e popolazione è solo i due terzi della media europea.

E questo senza considerare le regioni a statuto speciale e le province autonome (nel caso della sanità, la Sicilia non rientra in questo gruppo): un vero mondo a parte, nel quale i dipendenti del servizio sanitario sono quasi il doppio, per abitante, rispetto alle regioni in piani di rientro. Le regioni del Centro-Sud affrontano la pandemia con un numero di posti letto, rispetto alla popolazione, significativamente inferiore rispetto a quelle del Nord; inferiore un terzo rispetto al Trentino Alto-Adige.

Questa situazione è frutto delle scelte di più di un decennio: dal 2008 al 2017 il personale nelle regioni in piano di rientro è diminuito del 16%; è sceso del 2% in quelle senza piano di rientro; è aumentato in quelle autonome. Queste tendenze sono state dovute, appunto, alle regole imposte alle regioni che avevano un forte disavanzo sanitario: spendevano più del finanziamento loro assegnato. Necessario intervenire, in tempi difficili per la finanza pubblica: ma il disavanzo si è praticamente azzerato già nel 2014 e le politiche non sono cambiate.

E le condizioni si sono sempre più divaricate, come ben mostrato in un recentissimo studio di Baraldo, Collaro e Marino pubblicato su lavoce.info. Dettaglio interessante, l’Upb mostra che le regioni e le province autonome avevano un disavanzo “virtuale” (il meccanismo di finanziamento è diverso) di pari dimensione e lo hanno ancora oggi: ma sono un mondo a parte; un mondo di privilegi.

Il disavanzo era dovuto a problemi sensibili nell’organizzazione sanitaria, ma anche ai meccanismi di finanziamento. Il tema è complesso, ma riassumibile in una considerazione: le regole del federalismo fiscale si applicano solo quando convengono ai più forti. Tre esempi.

Il riparto del Fondo Sanitario Nazionale non è legato ad una attenta misura dei “fabbisogni” della popolazione, ma è guidato solo dalla dimensione demografica, in parte “pesata” per l’anzianità: così che la spesa per abitante è in Calabria del 18% inferiore a quella emiliana; del 15% in Campania, del 13% nel Lazio; i dati (Istat) sono del 2018, ma questo accade tutti gli anni. E’ sempre indispensabile ricordarlo (ancora ieri in un’intervista il Presidente della Regione Veneto sosteneva «che è un problema di efficienza e responsabilità non di soldi»).

In secondo luogo, nessuno ha mai provveduto ad una misurazione delle dotazioni strutturali (ospedali, macchinari) delle regioni: eppure esse dovrebbero essere “perequate”, dato che è impossibile avere gli stessi servizi con dotazioni molto dispari. Stime di un istituto specializzato (il Cerm) mostravano al 2010 impressionanti divari; ma la spesa per investimenti pubblici in sanità invece di contribuire a ridurli li ha accresciuti: fra il 2000 e il 2017 gli investimenti nella sanità sono stati pari ogni anno a 22 euro per abitante in Campania e nel Lazio, a 84 in Emilia; a 16 euro per abitante in Calabria contro 184 a Bolzano.

Infine, la necessità di tanti pazienti di spostarsi fra regioni, specie per cure che richiedono dotazioni e specializzazioni avanzate (e che vengono pagate dalle Regioni di provenienza, che così hanno ancora meno risorse), è ormai considerato come un dato fisiologico del sistema, e non come una grave discriminazione da correggere.

Tutti gli italiani dovrebbero avere un eguale diritto alla salute. Sia per motivi di equità, sia per il benessere collettivo. Esso non dovrebbe dipendere né da incapacità politiche regionali (nei confronti delle quali il governo nazionale dovrebbe attivare con incisività ben maggiore i suoi poteri sostitutivi), né dalle regole distorte e incomplete del federalismo fiscale italiano.

E non è un problema locale: la diffusione della pandemia ci ha mostrato in tutta evidenza che la salute è un tema nazionale (europeo), che non conosce confini amministrativi: la disastrosa situazione della sanità calabrese non è solo un problema per gli abitanti di quella regione ma per tutti noi.

E dunque, se davvero vogliamo che l’Italia dopo il covid sia meglio di quella che abbiamo alle spalle, la conclusione è molto semplice: si impongono scelte politiche molto diverse. Il Piano di rilancio e le politiche sanitarie dei prossimi anni non possono che mirare a sanare ingiustizie e squilibri, anche superando incapacità e resistenze degli amministratori regionali.

da “il Messaggero” dell’11 novembre 2020

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Da Repubblica del 9 novembre Oscar Giannino ci informa, con un articolo dal titolo «I colpi della pandemia riapriranno le ferite del divario nord-sud», sugli esiti inevitabili della crisi. Il calo del Pil ridurrà le risorse prodotte dal Nord e devolvibili alla perequazione territoriale. Cita di passaggio il recente libro di Giovanardi e Stevanato Autonomia, differenziazione è responsabilità, in cui si legge che il trasferimento di risorse pubbliche al Sud è stato negli anni massiccio, e totalmente fallimentare.

Su una linea analoga si erano espressi il 2 ottobre Galli e Gottardo, autorevoli economisti della Cattolica, con un saggio sull’Osservatorio dei conti pubblici italiani. E già il 4 maggio 2019 Tabellini, ex rettore della Bocconi, in un articolo sul Foglio scriveva : «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli». In tutte queste prospettazioni il tentativo di ridurre il divario Nord-Sud, comportando uno spreco di risorse, reca al paese danno, e non vantaggio. Ne segue il corollario, esplicitato o meno, che è nell’interesse del paese concentrare le risorse disponibili sulla locomotiva del Nord. Meglio per tutti se il divario rimane.

Si rafforza e si manifesta lo schieramento che nega ad un tempo lo scippo di risorse a danno del Sud da parte del Nord, e la riduzione del divario tra le due Italie. È una cannonata contro l’opposta tesi che l’Italia non esce dalla crisi se non rilanciando il Sud come secondo motore produttivo del paese: solo così può essere fermato e invertito il declino che ha devastato il Sud ma ha colpito – sia pure in misura assai minore – anche il Nord. Tesi sostenuta dalla Svimez e da autorevoli economisti, e soprattutto, almeno prima facie, accettata dal governo nelle sue scelte di politica economica e negli orientamenti nella utilizzazione dei fondi Recovery, anche in osservanza delle indicazioni UE.

Le due narrazioni contrapposte trovano aggancio in due serie di dati divergenti, entrambe di matrice pubblica: una, dei Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione, per cui ai cittadini del Nord sono assegnate risorse pubbliche pro capite in misura maggiore che ai cittadini del Sud; l’altra, di provenienza Istat e Bankitalia e ora adottata da Galli e Gottardo e dall’Ocpi, che dice l’esatto contrario. Se fosse una contrapposizione accademica, potremmo non occuparcene. Ma sono ovvie le implicazioni per le scelte di politica economica e gli indirizzi di governo, inclusa la risposta alla crisi Covid.

Il 9 novembre, in un seminario presso la Fondazione Astrid su «Il ruolo del Mezzogiorno per la ripresa», il ministro Provenzano ha dato un’ampia informazione delle iniziative del governo. Nessuno dubita del personale e forte impegno del ministro a favore del Mezzogiorno. Ma può la sua posizione decisivamente orientare le politiche del governo nel suo complesso? Qualche domanda si pone.

Delle due serie di dati contrapposti prima richiamate, quale è adottata da Palazzo Chigi ai fini delle scelte e degli indirizzi di governo? Il ministro Provenzano assume quella dei Conti pubblici territoriali. Ma non sembra, ad esempio, di poter dire lo stesso per il ministro Boccia. Come conciliare con l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud la sua debole proposta di legge-quadro sull’autonomia differenziata, che vuole collegare al bilancio pur essendo tecnicamente inidonea a frenare le pulsioni separatiste? Andrebbe tolta dal tavolo.

Come scommettere sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) come elemento decisivo di equità territoriale, dopo il fallimento del loro equivalente sanitario (Lea) e la conseguente frantumazione del servizio sanitario nazionale? Come assumere le conferenze e la concertazione tra esecutivi come luogo e metodo di un nuovo regionalismo – come suggerisce in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali il 30 settembre – quando l’esperienza passata ne dimostra gli effetti negativi sulla coesione territoriale, e la crisi Covid oggi ne conferma in termini anche più generali le pesanti conseguenze?

Avremo un ritorno della questione meridionale o di quella settentrionale? Lo vedremo sul palcoscenico del dopo Covid, dove si recita a soggetto. Il che può anche andar bene, a meno che gli attori non mostrino di essere – magari con eccezioni lodevoli – guitti di secondo ordine.

da “il Manifesto” dell’11 novembre 2020

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, Commissario della Sanità della Regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.

Dal 2010 ad oggi si sono succeduti molti Commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio- hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i Presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali, di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero la Sanità al centro della battaglia politica.

Il 7 dicembre 2018 viene nominato Commissario unico il generale in pensione Saverio Cotticelli, con una delibera del Consiglio dei Ministri del Governo giallo-verde, firmata da Conte, dal ministro della Salute Giulia Grillo (5stelle) e dal ministro delle Finanze Giovanni Tria. Al cambio di colore del Governo, da giallo-verde a giallo-rosso, il Commissario è rimasto al suo posto anche se, come tutti abbiamo potuto finalmente vedere nel corso della trasmissione televisiva “Titolo Quinto” su Rai 3, nulla sapeva della complessa materia sanitaria e nulla faceva, nonostante sia arrivato il peggior flagello dell’ultimo secolo.

La responsabilità del disastro sanitario calabrese ricade tutta sull’ormai ex Commissario ad acta, il generale Cotticelli? La gran parte sicuramente sì, ma una porzione non irrilevante pesa sulla politica e sui politici calabresi degli ultimi decenni e, soprattutto, degli ultimi dieci anni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare, come avviene a seguito dell’esecrabile modifica del Titolo V della Costituzione, il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.

Con il comunicato stampa ufficiale, datato 11 marzo 2020, della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione stessa) la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva …e già domani sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.

I calabresi sanno che nessuna delle promesse fatte in questo comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo di Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in questa sua incredibile sconsideratezza.

Il nuovo Commissario appena nominato dal ministro Speranza, Giuseppe Zuccatelli, pur volendo sorvolare sull’imbarazzante video sull’inutilità delle mascherine, si era già dimostrato, dal dicembre 2019 ad oggi, del tutto inadeguato come Commissario sia dell’Asp di Cosenza, sia delle Aziende ospedaliere ‘Mater Domini’ e ‘Pugliese Ciaccio’ di Catanzaro.

I calabresi vorrebbero un Commissario capace, magari uno dei molti conterranei degni di ricoprire questo ruolo, ma, soprattutto un Commissario che sia solo “straordinario”, solo per questa emergenza “straordinaria”.
Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali.

Un Presidente ed una Giunta eletti dovranno rispondere agli elettori, mentre i Commissari, come abbiamo sperimentato in questi ultimi 10 anni, non rispondono a nessuno. I cittadini calabresi si aspettano che sia rispettato il diritto alla salute, come recita l’art. 32 della Costituzione, e che questo diritto abbia un identico livello in tutta Italia, compresa questa “inesplorata penisoletta”, come definiva la Calabria Corrado Alvaro, negli anni ‘30.

da “il Manifesto” del 10 novembre 2020
foto: Wikipedia

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Il generale dei carabinieri in pensione, Saverio Cotticelli, nominato commissario della sanità in Calabria dal primo governo Conte, sembra arrivato su quella poltrona da un altro pianeta.

Non sa niente sul piano sanitario anti- Covid, scopre che doveva essere proprio lui e non la Regione, a doverlo costruire. Questa storia, tragicomica, fa riflettere sul ruolo del giornalismo d’inchiesta, lavoro prezioso per tutta la comunità nazionale. Ma, allo stesso tempo, scoperchia negligenze, ritardi, mancanza di controllo. C’è da chiedere al ministro Speranza: a) perché non ha cacciato per tempo questo commissario, b) se esiste un sistema di controllo sull’operato di questi commissari o se, una volta nominati, purché non disturbino il potere romano, possono restare al loro posto. C’è da chiedere ai partiti del centro sinistra, all’opposizione nel Consiglio Regionale della Calabria, come mai non si siano accorti che a capo della sanità c’era questo personaggio inqualificabile, irresponsabile, assolutamente non competente.

Adesso se ne è accorto, grazie al giornalista Walter Molino, anche il premier Conte che ha immediatamente dimesso l’improbabile carabiniere-commissario.

Problema risolto? Assolutamente no. Il commissario Cotticelli deve rispondere penalmente dei gravi danni inferti alla salute dei cittadini calabresi, del danno economico alle imprese e ai lavoratori avendo determinato la dichiarazione di zona rossa per la Calabria, con la sua gravissima omissione di atti d’ufficio. Se un commissario rischia solo il licenziamento si pone un grave problema di discriminazione rispetto agli altri cittadini ed amministratori della res publica che rischiano processi penali e civili per ogni infrazione, sia pure senza scopo di lucro.

Ancora una domanda inevitabile: vorremmo capire in base a quale valutazione l’ex ministro Giulia Grillo (M5S) abbia scelto, per gestore un settore così delicato e complesso come la sanità calabrese, un generale in pensione. Siccome non credo che l’on Grillo abbia la voglia di rispondere le posso facilitare il compito.

Si nomina un generale dei carabinieri in pensione per gestire la sanità in Calabria, afflitta da debiti-corruzione-malgoverno, perché si riduce la questione sanitaria a questione criminale.

Così come questo governo ha nominato al ministero dell’ambiente un generale delle guardie forestali, come se la complessità dell’ecologia si potesse ridurre alla repressione delle mafie.

Da quando, anni ’90 del secolo scorso, la “questione meridionale” è stata ridotta a “questione criminale”, la Calabria è diventata l’avamposto di questo brand, per cui nessuno batte ciglio se commissariano decine e decine di Comuni, di enti pubblici, fino ad arrivare al sistema sanitario, comprese le Asp, anche loro commissariate.

Per quanto ne sappia non ho mai visto una commissione d’inchiesta insediarsi per monitorare l’operato di un commissario. Conosco commissari che hanno operato bene, e andrebbero premiati, ma quelli che hanno fatto poco e nulla, che hanno bloccato tutto, lasciando morire d’inedia intere città, preso uno stipendio giusto per tenere in caldo una poltrona, nessuno li ha mai giudicati.

da “il Manifesto” dell’8 novembre 2020

Il giochetto autonomista solo quando conviene.-di Gianfranco Viesti

Il giochetto autonomista solo quando conviene.-di Gianfranco Viesti

Le convulse discussioni e decisioni degli ultimi giorni hanno mostrato nuovamente come vi sia in Italia un grande e irrisolto problema di rapporti fra il livello di governo nazionale e quelli regionali. Viviamo un periodo talmente eccezionale, e preoccupante, da imporre a tutti ancor più del solito moderazione nei toni e nelle valutazioni.

Nessuno ha certezze: né sulle dinamiche della pandemia, né sulle modalità più adatte per contenerla: ne è prova l’ampia gamma di misure messe in atto, finora, dai diversi Paesi europei.

Gli italiani appaiono oggi molto più critici di quanto non lo fossero in primavera sull’azione del governo nazionale, specie considerando alcuni dei problemi emersi nelle ultime settimane, come quello del finanziamento per potenziare il trasporto pubblico. Ma allo stesso tempo è evidente come nessun governo europeo sia stato in grado non di evitare ma neanche contenere il dilagare della seconda ondata.

Tutti sono alle prese con dilemmi profondi, fra l’imprescindibile tutela della salute dei cittadini, ed il tentativo di colpire il meno possibile l’economia, già piegata dalla terribile primavera: e quindi di tutelare l’occupazione, il reddito, la sopravvivenza delle piccole imprese, il benessere dei cittadini. Nessuno ha facili ricette: paradossalmente è più facile deliberare una chiusura totale che assumere decisioni più articolate; e paradossalmente è stato più facile farlo in primavera che oggi.

E a questo si aggiunga che conflitti fra le autorità nazionali e quelle regionali e locali non sono certo una prerogativa italiana: sono in corso da tempo, con durezza, in Spagna; hanno richiesto straordinarie doti di mediazione alla Cancelliera Merkel in Germania; caratterizzano persino la Francia, dove alcuni Sindaci si oppongono al Primo Ministro.

Tutto ciò detto, il quadro italiano mostra tensioni e frizioni particolarmente forti; una grande confusione. Alcuni territori hanno ignorato le disposizioni nazionali e attuato norme più lasche. È l’incredibile caso della Provincia di Bolzano che ha ad esempio mantenuto orari di chiusura più ritardati dei ristoranti; sulle televisioni nazionali in quei giorni sono stati trasmessi spot pubblicitari che invitavano ad andare in Alto Adige (non sappiamo se programmati da tempo o al momento).

Salvo poi fare una rapida retromarcia quando il numero dei contagi è passato dai 190 del 28 ottobre ai 547 del giorno 31, raggiungendo un’incidenza, rispetto alla popolazione, doppia rispetto alla già altissima media nazionale. Altre Regioni, come Campania e Puglia, hanno invece proceduto a chiusure drastiche delle scuole, da un giorno all’altro, in assenza di indicazioni nazionali: provocando un impatto molto forte non solo sul sistema dell’istruzione ma anche sulla vita delle famiglie, ed in particolare sulle già molto difficili condizioni delle donne.

In queste ore, stando a ciò che trapela nelle cronache, molte regioni si oppongono a misure differenziate territorialmente; colpisce la posizione di molti esponenti politici lombardi che sono contrari per principio (oggi come in primavera) a norme più severe nella loro regione, quasi che così si perpetuasse un delitto di «lesa maestà», e non fosse un’esigenza dovuta ai numeri della pandemia. L’aspetto che più sorprende è che una delle regioni che da anni sta facendo una dura battaglia per ottenere l’autonomia differenziata in nome proprio della sua diversità, rifiuti per principio regole diverse in base a condizioni diverse.

Le valutazioni sanitarie sembrano intrecciarsi con esigenze di consenso politico, pure variabili nel tempo: in queste ore sembra che prevalga l’esigenza di non giocare il ruolo di chi prende le decisioni più impopolari. Intendiamoci: sono decisioni difficilissime, e certamente tutti coloro che sono coinvolti sono in buona fede. Ma i cittadini hanno il diritto di sapere chi, e in base a quali criteri, decide su aspetti così importanti delle loro vite.

È indispensabile una riflessione, come si diceva in apertura, sui livelli di governo. Vi è certamente un eccesso di protagonismo delle regioni: il diritto all’istruzione può essere differenziato e limitato in alcuni luoghi e non in altri da decisioni locali? Può il diritto alla libera circolazione dei cittadini essere impedito (come stava per succedere in primavera/estate) da ordinanze regionali? La risposta dovrebbe essere senz’altro negativa.

E appare una certa debolezza del governo centrale, sinora poco capace di prendere decisioni, anche di differenziazione territoriale, ma in base a criteri, numeri, valutazioni condivisi. Ma proprio la pandemia mostra l’importanza del livello nazionale; le regioni non sono monadi isolate: se un veronese va a cena a Bolzano perché lì i ristoranti sono aperti e si infetta, crea un problema sanitario in Veneto.

In questo quadro introdurre ulteriori elementi di differenziazione dei poteri fra le regioni, come richiesto dai sostenitori dell’autonomia regionale differenziata, sembra decisamente la strada sbagliata. Quando usciremo, auspicabilmente non tardi, da questa situazione eccezionale, sarà invece utile fare tesoro di queste esperienze: e disegnare un sistema più chiaro, meglio definito, di poteri e responsabilità, a vantaggio dei cittadini.

da “il Mattino” del 2 novembre 2020

Il rimpallo che delega e confonde le responsabilità.- di Massimo Villone

Il rimpallo che delega e confonde le responsabilità.- di Massimo Villone

Ormai non passa giorno che non ci presenti lo spettacolo di una rissa tra governi regionali e locali e l’esecutivo nazionale. Da ultimo, Michele Emiliano chiude le scuole in Puglia, seguendo la via già tracciata da De Luca in Campania. Adduce in motivazione l’accertamento – fatto da chi, dove, come? – della scuola come occasione di diffusione del contagio. La ministra Azzolina virtuosamente si infuria. Tentazioni analoghe, secondo le notizia di stampa, in Calabria e in Sicilia.

Ma la palma del migliore pezzo di teatro va alle cd autonomie speciali. Il 17 ottobre, in un esaltante proclama ai cittadini dell’Alto Adige, il presidente provinciale Kompatscher attacca i provvedimenti restrittivi del governo e dichiara: “Nella convinzione che responsabilità e buon senso, nel lungo periodo, funzionino meglio dei divieti, lo scorso maggio in Alto Adige abbiamo deciso di intraprendere con convinzione un nostro proprio percorso”. Melius re perpensa, il 29 ottobre lo stesso presidente dichiara: “Alla luce dell’andamento epidemiologico, la situazione è superata. Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria”. Quindi, seguire le istituzioni italiane, no. Copiare tedeschi e austriaci nel cosiddetto lockdown soft, sì.

Colpisce il tono bellicoso del ministro Boccia, quando dichiara che saranno impugnati gli atti “di tutte le Regioni e le Province Autonome che decideranno di aggirare le disposizioni del Dpcm”, confermando peraltro la possibilità di provvedimenti più restrittivi. Non capisce che non si affronta una pandemia con il fai da te locale. Né a quanto pare è consapevole di essere tra i responsabili della cacofonia politica e istituzionale in atto.

Abbiamo avuto in questo paese una congiunzione perversa tra il tema dell’autonomia differenziata e la crisi covid-19. Sul primo, il ministro ha da subito seguito la linea del “completamento” di un percorso già avviato dal governo gialloverde, che pure aveva suscitato forti perplessità e polemiche. Ho già ripetutamente scritto della debolezza della sua proposta, fondata su una legge-quadro inidonea a fermare le spinte separatiste, e sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni), strumento parimenti inidoneo a garantire eguaglianza in diritti pur fondamentali.

È seguita poi la crisi Covid, con la scelta della concertazione a tutti i costi tra esecutivi, filtrando le decisioni in un labirinto di comitati e conferenze. Ricordiamo le trionfalistiche dichiarazioni di alcuni governatori, all’inizio della cosiddetta fase 2. Rivendicavano a se stessi il merito di avere determinato il ritmo della ri-partenza, e alle regioni di appartenenza l’acquisizione di un decisivo maggiore peso politico e istituzionale. Una evoluzione certificata dallo stesso ministro Boccia il 30 settembre in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali, laddove argomenta che con la crisi pandemica è nato un nuovo regionalismo.

È facile capire che la concertazione a oltranza tra esecutivi ha permesso al governo di non essere l’unico ed esclusivo destinatario di critiche e polemiche. La rinuncia a esercitare il potere sostitutivo di cui pure il governo in principio disponeva ai sensi dell’art. 120 della Costituzione, e il subappalto delle scelte a governatori e sindaci, hanno forse consentito a Palazzo Chigi di non rimanere in solitudine nel mirino di tutti e di galleggiare in acque per qualche verso meno tempestose. Ma in tal modo chi risponde di cosa? Diventa in specie difficile imputare alle autonomie le responsabilità che sicuramente hanno.

Inoltre, quando si tratta di diritti costituzionalmente protetti l’unica scelta giusta è tendere alla massima uniformità possibile. E come non capire che in un contesto di pesantissima crisi economica e sociale il diverso trattamento, se non deriva da regole generali predeterminate, certe e chiare, può apparire discriminatorio e in danno di questo o quel territorio, di questa o quella categoria, e diventare elemento di inaccettabile tensione?

Nell’ultima informativa di Conte alle assemblee abbiamo sentito l’opposizione chiedere a gran voce un voto, rifiutato dalla maggioranza. Ancora un’occasione perduta per cambiare rotta e ridare centralità al parlamento, come luogo appropriato e necessario del confronto su una crisi di eccezionale gravità. Non possiamo rischiare di affondare tutti per far galleggiare qualcuno.

da “il Manifesto” del 30 ottobre 2020

A tutta velocità verso l’autonomia differenziata.- di Massimo Villone

A tutta velocità verso l’autonomia differenziata.- di Massimo Villone

La recrudescenza Covid domina la politica e l’informazione, focalizzando l’attenzione sulle cifre della crisi sanitaria e sugli interventi per contenere il contagio. Finirà, speriamo presto. Ma intanto passano in secondo piano questioni urgenti, e destinate a produrre effetti duraturi. Fra queste, i temi delle riforme istituzionali.

Per una parte, e salvo pulsioni di presidenzialismo o di sindaco d’Italia, o di una ennesima “grande” riforma, si tratta di una strategia che non va oltre la riduzione del danno recato all’istituzione parlamento con il taglio, contempla interventi di scarsa efficacia, e sconta tempi non brevi. Solo un tema di peso è immediatamente in agenda, intrecciandosi con la gestione della crisi: l’autonomia differenziata, con la legge-quadro del ministro Boccia tra i collegati alla legge di bilancio, su un binario ad alta velocità.

L’Italia delle repubblichette è in marcia. La crisi Covid ha spostato l’asse politico-istituzionale del paese. Il feudalesimo dei partiti ridotti ad assemblaggi di potentati locali, da tempo in atto, è ora in piena vista. Ne sono riflessi la debole politica istituzionale di Palazzo Chigi, la pressione delle regioni del Nord – sostenuta da un forte schieramento di poteri economici e accademici – per un favor sulle risorse Ue, l’incapacità delle altre regioni di fare squadra e di reagire. Lo prova il 2 ottobre un saggio, in chiave antimeridionale, di Galli e Gottardo, dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani: La mancata convergenza del Mezzogiorno: trasferimenti pubblici, investimenti e qualità delle istituzioni.

Il 30 settembre, in audizione nella Commissione bicamerale per le questioni regionali, il ministro Boccia richiama la sua legge-quadro già nota, solo cancellando il commissario ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni). Non risponde alla censura sulla inidoneità tecnica della legge-quadro a vincolare e limitare intese approvate con la legge rinforzata di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione.

Scommette sui Lep, senza peraltro rilevare che nella sanità, dove già ci sono (Lea, livelli essenziali di assistenza), non hanno impedito che il servizio sanitario nazionale fosse ridotto a mera etichetta, con il fondamentalissimo diritto alla salute garantito in modo assolutamente diseguale. E senza considerare che i Lep non si opporrebbero di per sé alla regionalizzazione integrale di servizi e infrastrutture materiali e immateriali essenziali per l’unità del paese.

Lamenta la conflittualità tra s
tato e regioni, censurando l’eccessiva propensione dello stato a impugnative inammissibili o infondate (categorie invero non cumulabili), senza chiedersi se non ci sia piuttosto da riscrivere almeno in parte il Titolo V della Costituzione. Teorizza invece che dalla crisi è emerso un nuovo regionalismo, centrato sulle conferenze e sulla concertazione tra esecutivi, destinato a consolidarsi. Senza cogliere che il modello, scelto dal governo, ha prodotto e in prospettiva potrebbe solo accrescere l’emarginazione del parlamento, e male si inserisce nell’impianto costituzionale.

In tale contesto l’autonomia differenziata è utile e pronta all’uso. Non allontana l’Italia delle repubblichette l’audizione di Bonaccini – che riteniamo stia tuttora studiando come segretario Pd – il 6 ottobre nella stessa Commissione bicamerale. Sollecita fortemente una rapida intesa con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, respinge qualunque ipotesi di ricentralizzare la sanità e ribadisce che l’autonomia differenziata emiliano-romagnola è cosa buona e giusta.

Ci permettiamo di dubitarne, confortati dal deputato Piastra (Lega) che lo ringrazia per “avere dimostrato la sua volontà politica di sostenere, in quanto presidente della Regione Emilia-Romagna, i governatori della Lega in questa battaglia importante per chiedere più poteri allo Stato centrale”. Inoltre, insiste ancora che l’Emilia-Romagna non chiede un euro in più. Dimenticando le prove – che Galli e Gottardo cercano invano di confutare – di una spesa pubblica sbilanciata a favore del Nord. Forse ritiene che bastino i Lep, su cui insiste molto.

Magari pensa che così la manciata di euro destinata per asili nido a Reggio Calabria si avvicinerà ai milioni assegnati a Reggio Emilia. Ma se la memoria non ci inganna, al momento gli asili nido non sono materia Lep. E allora lasciamo tutto com’è?

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2020

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Autonomia per pochi. L’azzardo di trasferire più poteri ai governatori.- di Gianfranco Viesti

Si torna a parlare di autonomia regionale differenziata; cioè delle richieste di alcune delle amministrazioni regionali di avere poteri più estesi, con le relative risorse finanziarie, rispetto alla situazione attuale. È bene ricordarlo: non di autonomia regionale; ma di autonomia regionale differenziata.

Nella discussione degli ultimi tempi sembrano mancare riflessioni, e proposte, su un fondamentale interrogativo: quali poteri e in quali materie sarebbe opportuno concedere a quali regioni?

La discussione su questo tema è resa difficile da due circostanze. In primo luogo, quelle che per prime e con maggiore enfasi hanno fatto richiesta di maggiori competenze, e continuano a chiederle (e cioè Veneto e Lombardia, e pur con alcune differenze, l’Emilia-Romagna) hanno proposto che fossero loro attribuiti maggiori poteri in tutti gli ambiti in cui ciò è teoricamente possibile in base all’articolo 116 della Costituzione, così come riformato nel 2001.

Le richieste coprono praticamente tutti gli ambiti dell’intervento pubblico, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’energia, all’ambiente, alle politiche industriali e molto altro ancora. Hanno chiesto, cioè, con una scelta dall’evidente significato politico, il massimo possibile.

In secondo luogo, da parte di tutte le Amministrazioni Regionali (non solo delle tre citate) c’è un evidente, diffuso, favore, ad ottenere nuove competenze, con le relative risorse, perché ciò aumenta il loro potere di gestione e di intermediazione, il loro peso politico. Altre si sono infatti accodate alle prime.

Tuttavia, non si tratta di una richiesta di aumentare le competenze di tutte le regioni. Sarebbe del tutto lecita, naturalmente; ma dovrebbe seguire un iter giuridico e politico completamente diverso. E chissà quale sarebbe a riguardo l’opinione degli italiani; specie dopo che la crisi del coronavirus ha mostrato e sta mostrando l’importanza fondamentale di regole e indirizzi nazionali, validi per tutti, anche in ambiti già fortemente regionalizzati come quello sanitario. Ciascuna regione sta chiedendo di ricevere maggiori competenze per se stessa, indipendentemente dalle altre.

In base a quali valutazioni dovrebbe essere opportuno spostare quella specifica competenza dal livello nazionale a quella specifica regione? Perché, ad esempio, il Veneto (e non le altre regioni italiane) dovrebbe acquisire dallo Stato maggiori poteri (e risorse) in ambito infrastrutturale? Per quanto paradossale possa sembrare, negli articolati documenti che in particolare le tre citate Regioni hanno messo a punto a sostegno delle proprie richieste non c’è mai una risposta precisa a questa domanda.

Spesso ci si limita a sostenere che l’amministrazione regionale è più efficiente di quella nazionale oggi competente. Ma, a parte che si tratta di auto-valutazioni piuttosto discutibili, e quantomeno da sottoporre a verifica indipendente (ancor più dopo le vicende lombarde di quest’anno), non pare un criterio sufficiente.

Bisognerebbe dimostrare i vantaggi per i cittadini di questa nuova organizzazione. Ad esempio sarebbe meglio per studenti e famiglie che (come richiesto da Lombardia e Veneto) gli insegnanti delle scuole fossero selezionati su base regionale e non nazionale, e che fossero dipendenti dall’Assessorato e non dal Ministero? Ma questo non basta. Perché spostando una competenza dal governo centrale ad un governo regionale bisogna capire cosa potrebbe accadere a tutti gli altri cittadini italiani; questo, anche indipendentemente da qualsiasi considerazione di natura finanziaria.

La scuola italiana funzionerebbe meglio se gli insegnanti di alcune regioni fossero (come oggi) dipendenti del Ministero, e quindi ad esempio con la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro, mentre in alcuni casi il loro status sarebbe diverso e la loro mobilità governata da regole specifiche, diverse da regione a regione? Che cosa succederebbe al sistema infrastrutturale nazionale, alle grandi reti, se alcune parti di esse finissero nelle potestà regionali, e fossero governate con regole diverse da caso a caso?

Si dice: nelle infinite richieste ve ne sono diverse che potrebbero comportare uno snellimento e una semplificazione delle procedure amministrative, a vantaggio dei cittadini e delle imprese. Come detto, la loro estensione è straordinariamente ampia: la legge approvata a riguardo dal Consiglio regionale del Veneto il 15.11.2017 consta di ben 66 articoli! È del tutto possibile che alcune delle richieste di carattere amministrativo possano essere opportune. Ma allora la domanda è: se spostare alle regioni il tale procedimento è chiaramente un bene, perché farlo solo per alcune e non per tutte?

Si ricade, insomma, ancora una volta sulla questione di fondo: non si sta discutendo di formulare nell’intero Paese il quadro dei livelli di governo, alla luce dell’esperienza dei venti anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Come sarebbe opportuno. Ma a patto di prevedere un ampliamento dei poteri regionali in alcuni casi ed una loro riduzione in altri, e di sancire con chiarezza la necessità di regole e principi nazionali di fondo in tutti gli ambiti più importanti.

Si sta discutendo di autonomia regionale differenziata: più poteri e risorse in alcuni territori ma non in altri. È per questo motivo di fondo che questo processo appare potenzialmente pericoloso. Se si vuole migliorare il funzionamento dell’intero Paese, sarebbe ora di ripensare, come appena si diceva, all’equilibrio fra centro e regioni nel suo insieme, in tutti gli ambiti. E di avviare parallelamente quel cammino previsto dalla legge 42 sin dal 2009 di profondo ridisegno delle regole di allocazione a tutte le regioni delle risorse finanziarie correnti, per esercitare i loro poteri, e di risorse finanziarie aggiuntive (ad alcune) per colmare i propri deficit infrastrutturali.

C’è un drammatico bisogno di rendere l’Italia un Paese più giusto ed efficiente; ancora più alla luce della terribile pandemia e di ciò che potrà scaturirne. Per farlo bisogna tornare a discutere a fondo di politica; di regole e criteri generali. Non disegnare scorciatoie straordinarie per alcuni.

da “il Messaggero” del 10 settembre 2020