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Area dello Stretto.- di Tonino Perna La Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste.

Area dello Stretto.- di Tonino Perna La Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste.

Diciamolo subito: la Calabria è una regione ingovernabile anche perché non esiste. Fu una invenzione istituzionale del 1970 quando vennero istituite le regioni. Da sempre, ed ancora oggi in Sicilia, si dice vado nelle Calabrie. In tutta la letteratura di viaggio, nei vecchi libri di geografia la dizione esatta era: Calabria Citeriore e Calabria Ulteriore. Le due Calabrie separate dall’istmo di Lamezia.

La Calabria Citeriore è, per storia-cultura-tradizioni, molto più vicina alla Campania e Basilicata, ha da sempre risentito dell’egemonia napoletana, mentre la Calabria Ultra è stata storicamente legata alla Sicilia, soprattutto quella parte che si affaccia sullo Stretto di “Scill’è Cariddi”, come lo chiamava Stefano D’Arrigo nel suo celebre romanzo “Horcynus Orca”. Sulla sponda siciliana storicamente Messina è sempre stata legata, sul piano culturale ed economico, a Reggio, a Bagnara, Scilla e Palmi, nonché ai paesi dell’Aspromonte.

Gli scambi di persone e merci tra le due sponde è sempre stato molto intenso fino agli anni ’70 del secolo scorso. Con la nascita delle Regioni la città della Madonna della Lettera ha girato lo sguardo verso Palermo, così come Reggio ha dovuto gioco forza rivolgersi a Catanzaro dove si concentravano le risorse economiche più rilevanti.

A distanza di cinquant’anni è chiaro che bisogna rivedere il modo con cui sono state istituite le Regioni. Intanto, in molti settori vitali –sanità, scuola, Università, trasporti – lo Stato deve riprendere le redini e togliere tutti i poteri che sono stati, grazie anche alla modifica del Titolo V della Costituzione, dati impunemente alle Regioni. E in questo riassetto istituzionale si può prevedere anche un ridisegno delle Regioni.

In quest’ottica si può pensare di accorpare Abbruzzi e Molise, ad esempio, così pure la Calabria Citeriore e la Basilicata, e pensare ad una città metropolitana dello Stretto a cui possano aderire tutti i Comuni limitrofi che ne fanno richiesta. Ad oggi abbiamo due finte città metropolitane in quanto il legislatore ha trasformato, con un colpo di penna (neanche stilografica) due Province in città metropolitane. Un obbrobrio.

Purtroppo, ogni volta che si pensa all’integrazione tra le due città salta fuori dall’armadio lo scheletro del ponte sullo Stretto. Un progetto abortito da molti anni, dove sono stati spesi inutilmente milioni di euro, pur sapendo della sua non fattibilità. Come disse una volta l’ex rettore dell’Università Mediterranea , Alessandro Bianchi, il ponte sullo Stretto ha costituito per decenni un’arma di distrazione di massa. Centinaia di ricercatori, di tecnici, di studiosi sono stati sprecati e avrebbero potuto dare un contributo rilevante in altri campi.

Rilanciare oggi la proposta del ponte sullo Stretto vuol dire prendere ancora una volta in giro i cittadini, anche semplicemente perché il Recovery Fund finanzia solo progetti che debbono essere completati in cinque anni!
Detto questo rimane il problema del collegamento tra le due città metropolitane, le uniche in Italia (e direi nel mondo) che distano solo 12 km, tra i due centri storici , e 3,3 km nel tratto più breve tra Cannitello (Villa S.G.) e Ganzirri (punta estrema della Sicilia verso il continente).

Bisognerebbe potenziare i collegamenti via mare, che sono stati ridotti negli ultimi decenni e pensare a possibili forme istituzionali di unione tra le due città metropolitane. Il mio sogno sarebbe quello della “Regione dello Stretto”, ovvero di due province autonome, sul modello del Trentino Alto Adige. Ma, capisco che si tratta di un sogno.

È necessario comunque pensare a garantire il diritto alla continuità territoriale, come avviene con altre isole del nostro paese, oggi impedito da proibitive tariffe di attraversamento dello Stretto. E poi, in ogni caso, bisognerà trovare delle forme istituzionali idonee a favorire una reale fusione tra le due città della Fata Morgana. O bisogna accontentarsi che si rinnovi questo miracolo della natura che le congiunge attraverso un fenomeno di rifrazione della luce?

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo.- di Guido d’Orsi

La ragionevole follia di mettere fine al regionalismo.- di Guido d’Orsi

Grande è la confusione sotto il cielo d’Italia. Gli organi istituzionali pubblici in forte polemica tra di loro, come e assai più che in primavera, nella prima ondata del virus. Il contagio si diffonde quasi incontrollabile, gli esperti parlano a ruota libera, i tamponi latitano (e si possono fare a pagamento se non vuoi attendere le calende greche), il sistema ospedaliero in crisi, i medici e il personale paramedico chiede soccorso, i ministri a cominciare dal loro coordinatore (il presidente del Consiglio) balbettano, e i sedicenti “governatori” urlano, sgomitano, prima chiedono autonomia decisionale, poi la rigettano sulle spalle del governo – sempre più debole ed esangue, e Conte che ripete “l’obiettivo è arrivare a fine legislatura”.

Il quadro è stato tracciato efficacemente da Francesco Pallante (il manifesto, 8 novembre). Ma davvero si resta basiti davanti allo spettacolo a dir poco inverecondo cui stiamo assistendo, se possibile aggravato dalla sovraesposizione mediatica dei personaggi sulla scena: scienziati, tecnici, amministratori, politici e, immancabile, il corredo dei commentatori professionali da talk show.

Lasciamo stare i casi surreali come quello calabrese, con la doppia nomina di un commissario per la sanità (due personaggi ineffabili, bell’esempio di mancanza di professionalità loro e di totale assenza di serietà del governo); oppure la infame campagna pubblicitaria della Regione Lombardia battezzata con atroce arguzia “The covid dilemma”, che ha lo scopo di scaricare sulla cittadinanza le colossali inefficienze del ceto amministrativo locale e i turpi traffici del presidente Fontana (il manifesto mostra una scritta sovrapposta al volto di una ragazza con la finta domanda: “Indossare la mascherina o indossare il respiratore?”, e la risposta colpevolizzante: “La scelta è tua”); o infine il caso, di cui si sta occupando giustamente la magistratura, della Regione Sardegna, con la riapertura delle discoteche per Ferragosto, e la immediata chiusura finiti i festeggiamenti, ma con lo strascico di contagi procurato.

Al netto di tutto questo, rimane il problema principale che è l’ente Regione. Alla stregua dei fatti, oggi dobbiamo chiederci, seriamente, se l’introduzione della Regione nell’ordinamento della Repubblica non sia stato un errore dei Costituenti. Errore, se tale fu (come ritengo) compiuto in perfetta buona fede, nell’idea che un po’ di decentramento amministrativo sarebbe stata cosa buona e giusta.

E le Regioni, creazioni astratte, prive di un sostrato culturale e di un fondamento storico, si sono rivelate semplicemente centri di distribuzione e distruzione di risorse, senza produrre alcun valore aggiunto alla macchina statale. Ma come ricordava Pallante, i guai sono poi arrivati a valanga, negli ultimi vent’anni, soprattutto gli effetti della manomissione del Titolo V della Carta Costituzionale, e la concessione di poteri enormi all’Ente Regione sulla sanità innanzi tutto, con gli strateghi del cosiddetto Centrosinistra, pronti a gettarsi all’inseguimento della Lega (che allora sbraitava sul “federalismo”) e a sacrificare poteri dello Stato.

Gli effetti eccoli qua. Impotenza dell’ente centrale, contenzioso incessante tra Stato e Regione, inefficienza totale della pubblica amministrazione, crollo del sistema sanitario e crisi di quello scolastico – l’uno e l’altro finora in piedi, benché a mal partito, solo per l’abnegazione del personale – e via seguitando. Allora, perché non prendere il toro per le corna? Lanciamo una campagna per una riforma della Costituzione: stavolta facciamola noi, dal basso, non aspettiamo che arrivino i guastatori, i Renzi, e i Salvini e compagnia cantante: perseguiamo due obiettivi.

Obiettivo minimo cancellazione delle modifiche al Titolo V del 2001, con recupero allo Stato di funzioni delegate alle Regioni; e se vogliamo esagerare diamoci come obiettivo massimo l’eliminazione dell’Ente Regione, e invece, piuttosto, rivitializziamo le Province, che d’altronde, nella storia d’Italia hanno un’antica e nobile tradizione, a differenza delle Regioni. E hanno una dimensione che effettivamente può avvicinare l’istituzione alla cittadinanza. Restituiamo loro competenze e prerogative, con juicio, naturalmente. Per porre fine al cosiddetto “regionalismo”, alla destrutturazione della Repubblica, alla distruzione della stessa unità nazionale.
Vogliamo tentare questa ragionevole follia?

da “il Manifesto” del 13 novembre 2020

Non repubbliche marinare ma repubblichette.- di Massimo Villone. Referendum. Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori

Non repubbliche marinare ma repubblichette.- di Massimo Villone. Referendum. Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori

Toti ci informa che: se il paese è ripartito, «è soprattutto merito delle Regioni che si sono prese le responsabilità di scrivere le linee guida»; non c’è nessuna emergenza, e il parere del Comitato tecnico scientifico (Cts) si spiega perché deve «anche ribadire la sua esistenza in vita»; «il governo non ha cercato alcun dialogo alla faccia delle competenze e dell’autonomia.

È già sgradevole per la nostra Costituzione scritta ma anche per quella materiale che si è formata nella gestione del virus»; in materie di potestà concorrente la concertazione è necessaria, e nella specie si sarebbe dovuto avere il parere del Cts, una conferenza Stato-regioni, e infine una decisione collegiale.

Bisogna dire a Toti che il ruolo delle regioni, probabilmente abnorme, nella gestione dell’emergenza è venuto dalle scelte di Conte e del governo, che hanno scelto la via dei Dpcm, dei comitati tecnici, delle cabine di regia e delle conferenze. Avrebbero probabilmente fatto meglio a costruire un percorso meno affollato e più centrato sul parlamento.

Ci sono stati elementi di debolezza di Palazzo Chigi, che non sono certo la nuova costituzione materiale che dice Toti, ma solo una errata politica istituzionale, con momenti di appeasement verso i governatori. Che però non hanno, né possono avere, il ruolo di rappresentanza generale che per Toti dovrebbero assumere. Sono poco rappresentativi persino per il territorio che governano, visto il modello istituzionale e i sistemi elettorali regionali. E comunque una concertazione fra esecutivi non esaurisce la domanda di capacità rappresentativa e di governo che solo istituzioni genuinamente nazionali possono assicurare.

Le conferenze sono luoghi – tra l’altro poco o nulla trasparenti – sensibili alle assonanze / divergenze delle maggioranze tra centro e periferia, in cui storicamente hanno prevalso gli interessi dei territori più forti. Vanno ripensate. Ma qui cogliamo un pericolo che emerge dal confronto sul taglio dei parlamentari e sulla legge elettorale.

Il taglio di per sé indebolisce il parlamento, come abbiamo argomentato su queste pagine. Voci anche insospettabili parlano ora di un pericolo per la democrazia. Parallelamente, è certo che il danno, da grave che è comunque, diventa devastante se non: a) si adotta una legge elettorale proporzionale con recupero nazionale dei resti, e b) si cancella la base regionale per l’elezione del senato. Una strategia di riduzione (parziale) del danno.

Italia viva ha invertito la rotta rispetto all’accordo sul proporzionale stipulato con la nascita del governo perché evidentemente Renzi ha smesso di sperare in una crescita dei consensi.

Per una piccola forza politica è ovviamente meglio un maggioritario in cui portare i voti decisivi per la vittoria di una coalizione, piuttosto che un proporzionale commisurato ai consensi effettivi. In soldoni, col maggioritario si vale il 3%, e si contratta per il doppio dei posti. Al momento, la strategia di riduzione del danno si mostra impervia.

Un esito negativo porterebbe a una devastane caduta di rappresentatività delle Camere, in perfetta e perversa sinergia con l’aspirazione a una rappresentanza generale del paese da parte dei governatori. La conferenza Stato-regioni diventerebbe di fatto una terza camera para-legislativa, chiamata a dare il disco verde alle politiche nazionali che fossero nell’agenda di governo.

Vanno in questo senso i rumors secondo cui nell’ambito dei festeggiamenti del cinquantenario del regionalismo sarebbe presentato un documento che chiede un nuovo «patto» tra Stato e Regioni. Patto tra chi, e per cosa? No, grazie. È passato il tempo delle Repubbliche marinare, e speriamo non venga mai quello delle repubblichette.

La costituzione materiale nata col virus che piace a Toti richiede un vaccino urgente. Vogliamo un paese unito e forte, in cui non accada che passando un confine regionale qualcuno si debba alzare e scendere dal treno, perché ogni territorio decide per sé. Capiamo che, come dice Toti del Cts, i governatori devono giustificare la propria esistenza in vita. Ma non esagerino.

da “il Manifesto” del 5 agosto 2020
Foto di Mapswire da Pixabay

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

Spero che ora, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, sia chiaro a tutti che aver concesso la regionalizzazione della Sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani degli amministratori delle Regioni che, com’è evidente, non solo sono stati incapaci di opporre il primo contrasto al virus come avrebbero dovuto e potuto, ma, ora, si rivolgono allo Stato per ogni ulteriore esigenza dei cittadini che amministrano.

La sciagurata modifica del Titolo V del 2001, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito moltissimo il Sistema Sanitario Nazionale spezzettandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Questa occasione dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma alla reale utilità delle Regioni. L’esperimento delle Regioni è luttuosamente fallito e si deve tornare all’assetto politico-amministrativo, storicamente fondato, dell’Italia che era costituito dal rapporto istituzionale che Province e Comuni avevano con il Governo centrale.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le ‘regiones’ augustee assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà.

L’estremo lembo della Penisola, per fare un altro esempio, era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’. I criteri utilizzati da Augusto per la ripartizione del territorio della Penisola in ‘regiones’ erano soprattutto di ordine etnico e politico, tenendo in considerazione la valorizzazione di tradizioni storiche e culturali, ma è ancora più probabile che le ‘regiones’ fossero solo “circoscrizioni elettorali” utili, anche, per la realizzazione del ‘census’, operazione accessoria al progetto augusteo di modifica del sistema di tassazione.

Le ‘regiones’, comunque, non avevano alcuna competenza di amministrazione della giustizia, di esercizio della fiscalità, di reclutamento o di leva obbligatoria. La suddivisione di Augusto aveva il compito, ideologico, di conferire centralità e unitarietà nell’ambito dell’assetto geografico-politico dell’impero, allo spazio italiano, pur nella diversità delle sue componenti etnico-territoriali: etruschi, latini, italici etc. Esattamente il contrario di uno spezzettamento in tante regioni, insomma.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II nel Sud d’Italia, poi le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri, fino ai vari disegni regionali di epoca rinascimentale del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni sempre di tipo storico-culturale del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia.

Solo con l’Unità d’Italia due patrioti appassionati di statistica, Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti intermedi per il governo della nazione, ma che, invece, continuarono a servire solo per ‘meri’ fini statistici, ossia per raggruppare e dare senso geografico ai dati forniti dai servizi di rilevazione del Regno appena costituito.

L’Assemblea Costituente, nell’immediato secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto all’eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali. Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di Autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò: quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese e si ritrovarono all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi – almeno a livello regionale – possibili spazi politici nuovi. Le Regioni nascono, dunque, solo con la Costituzione emanata nel 1948, ma fino al 1970 non è esistito alcun potere regionale.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità regionale che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali fittizie perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”. Dopo questa tragica ‘débâcle’ sarebbe ora di iniziare a pensare di abolire le Regioni, inutili e corrotti carrozzoni, ridare forza ai Comuni e ripristinare, come ente territoriale di maggiore prossimità ai cittadini, le Province.

È, forse, pleonastico scrivere che, se si dovesse stilare un calendario, la Calabria dovrebbe essere la prima regione ad essere abolita, non solo e non tanto per le cose che si son viste a proposito della Sanità in una recente trasmissione televisiva, ma per l’evidente, verificata, quarantennale incapacità e inanità di questo Ente, chiunque l’abbia governato, ad affrontare tutte le competenze che ad esso sono state assegnate.