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Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Le immagini della fenditura del terreno sempre più lunga, 12 metri, e sempre più larga, 40 centimetri, che ci giungono dal promontorio di Capo Colonna a Crotone ci preoccupano moltissimo. Ci preoccupano perché se è vero che il fenomeno dell’erosione e dei vistosi crolli del promontorio- sul quale sorgono il tempio di Hera Lacinia e l’abitato della colonia romana di Kroton- è noto da molto tempo, è vero, però, che questo fenomeno ha subìto un’accelerazione che sembra essere tutta di natura antropica.

Le caratteristiche geomorfologiche, litologiche, geostrutturali, idrologiche e geotecniche del promontorio determinano, in corrispondenza della falesia, distacchi di blocchi nella placca rigida silico-arenitica e calcarenitica. La suddetta placca poggia su un basamento argilloso molto erodibile per una serie di concause: scadenti caratteristiche geotecniche, sfavorevoli condizioni geostrutturali delle formazioni geologiche, presenza di circolazione idrica sotterranea in periodi piovosi, azioni chimiche dell’acqua marina sulle argille e l’alterazione prodotta da fattori antropici.

Siamo convinti che la circolazione idrica sotterranea, per iniziare, possa essere aumentata a seguito della mancata copertura dei molti scavi, non solo archeologici, che hanno messo allo scoperto le fondamenta dei monumenti, esponendoli agli eventi meteorici, all’erosione e allo slittamento della placca verso il mare.

Già in uno studio del 1998 si sosteneva che le alterazioni antropiche erano attribuibili alle vibrazioni per il passaggio di autoveicoli e alla concentrazione di turisti e pellegrini sul promontorio. Si immagini quante e quali vibrazioni hanno provocato, e provocano, le trivellazioni per la ricerca e l’estrazione del gas praticate, sulla terraferma ed in mare, da decenni per opera dell’Eni.

Allo stato attuale vi sono numerosi pozzi per l’estrazione del gas metano e tre piattaforme di proprietà dell’Eni che si ergono nelle immediate vicinanze dell’area marina protetta più grande d’Europa e di uno dei più importanti siti archeologici della Magna Grecia, il promontorio di Capo Colonna.

Le associazioni culturali di Crotone -come Italia Nostra, il Gak ed altre- cercano, da decenni, di fermare le trivellazioni che l’Eni, nel silenzio di tutte le amministrazioni comunali di Crotone, compie in mare e sulla terraferma a poche centinaia di metri addirittura dal promontorio di Capo Colonna, ma, finora, senza successo.

Si deve rilevare, altresì, che il problema qui esposto non sembra aver avuto sufficiente attenzione da parte della Soprintendenza Abap delle province di Catanzaro e Crotone nonché della direzione dei Musei e dei parchi archeologici di Sibari e Crotone a cui spetterebbe il compito di interrare o proteggere gli scavi effettuati e di tentare di fermare l’erosione e i distacchi mediante, per esempio, la costruzione di scogliere artificiali sotto forma di strutture modulari in cemento armato, posate e accostate sul fondale marino attorno al promontorio e, sul promontorio, di ‘cuciture’ realizzate costruendo reti di pali d’acciaio orizzontali.

I sottoscritti chiedono al Sindaco di Crotone, al presidente della Regione Calabria, al Ministero della Cultura, alla Soprintendenza Abap ed al direttore dei Musei e dei parchi di Sibari e Crotone di provare a far arrestare o, almeno, sospendere le trivellazioni dell’Eni nelle prossimità del promontorio e di provvedere con la massima urgenza alla salvaguardia di uno dei siti archeologici più importanti del Mediterraneo, ricordando che non può esserci valorizzazione senza la tutela dei monumenti o, come si sta rischiando in questo caso, senza i monumenti medesimi che potrebbero finire in mare.

Battista Sangineto, archeologo, Università della Calabria
Salvatore Settis, archeologo, già rettore Scuola Normale Superiore di Pisa
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Università per stranieri di Siena
Piero Guzzo, archeologo, Accademia Nazionale dei Lincei e I.N.A.S.A.
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già Soprintendenza archeologica Calabria
Roberto Spadea, archeologo, già Soprintendenza archeologica Calabria
Lucia Faedo, archeologa, già Università di Pisa
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Franco Cambi, archeologo, Università di Siena
Maria Cecilia Parra, archeologa, già Università di Pisa
Paul Arthur, archeologo, Università del Salento
Teresa Liguori, professoressa, presidente sezione Italia Nostra Crotone
Anna Rotella, archeologa, vicepresidente sezione Italia Nostra Crotone
Vincenzo Fabiani direttore Gruppo Archeologico Krotoniate
Ferdinando Laghi, medico, consigliere Regione Calabria
Giuseppe Hyeraci, archeologo, Università di Napoli Suor Orsola Benincasa
Maria Cerzoso, archeologa, direttrice Museo dei Brettii e degli Enotri Cosenza
Bernarda Minniti, archeologa, Università di Genova
Fulvia Soffrè, già dir. Ammin., Soprintendenza archeologica della Calabria
Matteo Enìa, antropologo, Sapienza Università di Roma
Chiara Dodero, archeologa, Università di Genova
Anna Murmura, professoressa, presidente ArcheoClub sezione Vibo Valentia
Rocco Gangemi, architetto, delegato Ambiente FAI Calabria

foto da “il Crotonese” del 10 settembre 2024

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

L’editoriale di Massimo Razzi ha avuto il merito di aprire un dibattito sull’unificazione dell’area urbana di Cosenza e sul consenso e sulle criticità che questa operazione comporta, interpretando il suo ruolo di direttore di un giornale regionale nel modo più alto ed esemplare.

Voglio dir subito che le supposte economie di scala e i presunti maggiori finanziamenti che si otterrebbero unificando, solo quantitativamente, i tre o quattro Comuni in una città più grande e popolosa non credo che siano davvero decisivi, ammesso che si concretizzino davvero. Quel che più mi preme è capire se la costituzione di una città unica della Media Valle del Crati possa migliorare lo spazio e la vita dei cittadini che vi abitano.

Credo che non sia possibile progettare l’unificazione -né da un punto di vista urbanistico, né da un punto di vista sociale, economico e culturale-prescindendo da una visione più ampia di quella che si può avere dai singoli campanili. La città dovrebbe esser governata avendo un’idea complessiva di tutta la Media Valle del Crati, di come possa armonicamente svilupparsi, di quali interventi strutturali ed infrastrutturali abbisogna e di quali improrogabili ricuciture e restauri necessiti questo vasto territorio.

L’unificazione, senza un’opera preventiva di armonizzazione e risanamento del paesaggio urbano, servirebbe solo ad aumentare quantitativamente quello che Rem Koohlaas (2001) definisce lo spazio-spazzatura, lo junkspace inutilizzabile dai cittadini, ma, con il tempo, eventualmente edificabile.

Non è discutibile che il centro di questo territorio sia la città di Cosenza perché senza di essa non sarebbe stato storicamente possibile che si sviluppassero gli altri paesi e casali. È evidente che non può che essere Cosenza il centro della conurbazione e che quest’ultima debba chiamarsi nello stesso modo. Cosenza ha, del resto, una antica storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale di questa parte del territorio dei “Brettii” e, più tardi, come colonia augustea e ‘municipium’ è stata il centro dell’”ager Consentinus”, esteso lungo la media valle del Crati.

Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore fino “aujord’hui”, essendo stata la città dell’Accademia cosentina e di Telesio, ma, in particolar modo, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città meridionali, formalmente autonoma e indipendente.

La città è cresciuta, soprattutto nel secondo dopoguerra, per mezzo di apporti di popolazioni provenienti da tutta la provincia. Prendendo in considerazione tutta l’area urbana si è passati, grossomodo, da 40.000 a 110.000-130.000 abitanti in pochi decenni. I cosentini da più di tre generazioni sono, ormai, una esigua minoranza.

Chi scrive è l’esempio archetipico dell’abitante dell’area urbana: nato a Cosenza da un padre sanlucidano e una madre fuscaldese e, appena sposato, andato a risiedere in uno dei quartieri nuovi di Rende. Quando mi si chiede di dove sono rispondo, senza esitazione, che sono cosentino così come la maggior parte dei miei amici e conoscenti che ha, più o meno, la mia stessa storia. I quartieri nuovi di Rende, Castrolibero e, ora, anche Montalto sono abitati da vecchi cosentini, da neo-cosentini e da mai-cosentini che sarebbero diventati neo-cosentini se avessero trovato casa nel territorio del Comune capoluogo.

È del tutto evidente che il repentino, tumultuoso e disordinato inurbamento ha creato, e crea, notevoli difficoltà identitarie ai cittadini vecchi e nuovi, ma soprattutto ai mai-cosentini. L’unificazione formale dell’area urbana accompagnata da una radicale riprogettazione urbanistica condivisa con i cittadini potrebbe dare, forse, la possibilità che si formi un’identità riconosciuta e riconoscibile per i tanti cittadini che abitano in questo ampio territorio.

La città che vorrei dovrebbe essere costituita da un’area urbana che avesse come centro direzionale, culturale ed identitario Cosenza con il suo Centro storico restaurato e rivitalizzato, il suo Teatro, i suoi Musei, le sue biblioteche, i suoi antichi palazzi, i suoi uffici, le sue vie di negozi, le sue piazze antiche e moderne rivitalizzate.

Vorrei anche che- così come il Centro storico e le colline intorno alla città- tutta l’area otto-novecentesca di Cosenza sia sottoposta a tutela paesaggistica dal Ministero della Cultura e che lo siano pure le due rive del Crati, in tutto il suo percorso urbano, per impedire che si continui a consumare suolo. Sarebbe, inoltre, necessario che scompaiano le ‘perequazioni edilizie’ favorite dall’adottato, ma non ancora approvato, Psc che furbescamente si sostiene essere a “consumo di suolo zero”.

L’area urbana di Cosenza ha già, è vero, nel proprio territorio una città urbanisticamente ben disegnata come quella di Rende Nuova, verdeggiante d’alberi, con i suoi palazzi residenziali e i relativi servizi. Una città che contiene anche un polo propulsivo e innovativo rappresentato dall’Università, ma anche da aziende a tecnologia avanzata, magari spin-off dell’Unical che si sono insediate e che possono insediarsi nella sua zona industriale. Una città che, negli ultimi anni, ha subìto un evidente depauperamento del verde, si pensi ai tagli delle decine e decine di alberi ad alto fusto sani lungo le strade cittadine, e una preoccupante crescita del cemento armato che stava per essere aumentata dal nuovo Psc.

Per realizzare compiutamente ed armonicamente quest’area urbana, però, ci sarebbe bisogno, come “conditio sine qua non”, di porre termine alla colata cementizia che ha inghiottito l’antica campagna ovunque: nei territori di Cosenza, di Rende, di Castrolibero, di Montalto risalendo ad est fino alle pendici della Sila, Rovito, Celico, a sud fino a Donnici, ad Ovest fino a S. Fili.

Una metastasi cementizia che ha lasciato dietro di sé, oltre che una edilizia perlopiù corriva e dimenticabile, una sparsa moltitudine di segmenti residuali che non sono adatti né per l’agricoltura, né per abitarvi, una cementificazione che ha prodotto una terra di nessuno, il “terzo paesaggio” evocato da Gilles Clement (2005). Si poteva realizzare, come ha teorizzato Rem Koolhaas (2020) per l’Olanda, un “intermedi-stan” o terra intermedia, possibilmente alberata, e contemporaneamente provare a fare una paziente e laboriosa opera di rattoppo fra le città e le periferie, le città e le campagne.

Ho già scritto su questo giornale che, secondo gli ultimi dati Istat (2023), la Calabria ha il 42,2% di case vuote e che la cosiddetta area urbana cosentina ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza il 20,7%, Rende il 17%, Montalto Uffugo il 14,4%. In questa area urbana, dunque, se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero ci sono 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole -grazie ai PSC (ora si chiamano così i Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende- colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

L’unificazione di questa area urbana così complessa, frammentata e diseguale da un punto di vista urbanistico, sociale ed economico non può esser fatta, ‘ex abrupto’, per legge, ma dovrebbe essere l’esito finale, di un processo lungo, laborioso e faticoso di armonizzazione frutto, anche, di un raccordo fra tutela paesaggistica e Psc municipali.

Sarebbe meglio che l’unificazione iniziasse, per esempio, con l’Unione dei Comuni sperimentando la gestione unica dei servizi più importanti: i trasporti, la viabilità, i rifiuti, il welfare e la scuola. Si deve, inoltre, tener conto dell’equilibrio finanziario fra i Comuni interessati perché se sappiamo che Rende ha un patrimonio di oltre 250 milioni a fronte di circa 40 di debiti, non sappiamo, invece, a quanto ammonta il patrimonio di Cosenza che ha circa 400 milioni di debiti.

Una fusione come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto costringerebbe i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini:
1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione
2) l’unificazione non può avvenire prima della scadenza del mandato, prefettizio e quindi governativo, dei commissari e prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala renderebbe l’espressione del voto dei cittadini rendesi democraticamente più debole.

Sono i cittadini che devono essere al centro della progettazione della città, sono i cittadini che devono riappropriarsi del diritto alla città (Lefebvre 1968 e Harvey 2012). Il diritto di ripensare la città risponde alla sfida più radicale e democratica: rilanciare la centralità del cittadino assicurando alle nuove generazioni dignità sociale e pieno sviluppo della persona (Settis 2014).

da “il Quotidiano del Sud” del 13 maggio 2024

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

I due Bronzi furono trovati da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, a soli dieci metri di profondità e poi portati in superficie dai sommozzatori dei carabinieri aiutati da decine, centinaia di volontari. La spiaggia bianca di Riace si riempì d’una umanità accaldata e vociante. Li trassero a riva a braccia, li strofinarono per togliere la patina più superficiale, li adagiarono su materassi posati su improvvisate lettighe lignee che trasportarono, accalcandosi gli uni agli altri, come se portassero un loro parente ferito al Pronto soccorso o come se traslassero, in processione, le sacre reliquie di un loro santo.

A fronte di cotanta partecipazione popolare i giornali, come scrive Salvatore Settis, diedero pochissimo spazio al rinvenimento all’inizio: solo un trafiletto e poi, in un crescendo che si è intensificato per mesi, ha occupato sempre più spazio fino ad arrivare alle prime pagine dei giornali e dei telegiornali nazionali.

Un ritrovamento “spaesante” che ha prodotto, e produce ancora, una quantità imprevedibile di turbamenti dell’anima di quanti vengono a trovarsi al loro cospetto. Da quei lontani primi anni ‘70 i due atleti di bronzo -antichi, ma allo stesso tempo “nuovi” perché non più visti da alcuno da due millenni- sono stati un “affaire” non solo archeologico, ma anche antropologico e sociologico, un vero e proprio capitolo del costume italiano.

Un libro -uscito nel 2015 a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis (“Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace”, Donzelli)- aveva ricostruito il clamore che suscitò il ritrovamento dei bronzi e l’uso che se ne fece: reportage televisivi, giornalistici in Italia ed in tutto il mondo, poi, per gli otto anni necessari al primo restauro di Firenze, il silenzio. Silenzio che fu rotto dalla prima apparizione pubblica dei Bronzi, presso il Museo Archeologico di Firenze, in tutto il loro splendore classico. Il risultato fu un afflusso di centinaia di migliaia di visitatori tanto imponente ed entusiasta che i giornali dovettero parlare di un fenomeno collettivo di fascinazione, mai riscontrato prima.

Una reazione impropria e debole ebbero, invece, gli archeologi che, all’epoca, apparivano, ed erano, divisi in due opposte fazioni: gli storici dell’arte e gli archeologi militanti dell’allora nascente “cultura materiale”, ma gli uni e gli altri, secondo Settis, abdicarono alla propria missione civile lasciando il ruolo da protagonista non solo alla folla sulla spiaggia, ma anche alla folla nella mostra e nei musei in cui furono esposti.

Per volontà del presidente Pertini che -dopo Firenze, ma prima che tornassero al Museo di Reggio- volle che fossero esposti al Quirinale dove un’altra immane folla si recò in pellegrinaggio, dando, definitivamente, l’avvio a quel fenomeno delle ‘mostre-evento’ che da allora diventarono, purtroppo, frequentissime. A proposito dell’antico e del suo rapporto con il kitsch, che ne rovescia il senso come in uno specchio deformante, bisogna ricordare che i bronzi sono stati i protagonisti di un profluvio di pubblicità ruspanti o, nella maggior parte dei casi, grottesche.

Provocarono anche un turbamento erotico perché nella loro fulgente nudità vennero riconosciuti e usati, da quella che ora si chiamerebbe bolla mediatica, come portatori di una potenza sessuale quasi indistinta sia verso le donne, sia verso gli uomini, come è testimoniato dalle decine di pubblicità e copertine di giornali, dibattiti sulla sessualità e, persino, dalla pubblicazione di fumetti pornografici.

In un’epoca nella quale i media erano già capaci di omogeneizzare qualsivoglia notizia e di porgerla alle masse depotenziata da ogni valore intrinseco è venuto facile alla classe dirigente della regione nella quale erano stati rinvenuti e poi musealizzati, “calabresizzare” le statue.

Se è vero che ricordando il passato gli uomini lo ricreano attribuendogli un senso che è in relazione alla loro idea del presente e che i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono oggi, i calabresi, in maggioranza, l’hanno fatto accettando, passivamente e mimeticamente, la titolarità identitaria di magnogreci. I bronzi da Riace nobilitano e, per ellissi di attribuzione, inverano, più di ogni altra cosa, questa identificazione che ha disseccato, malauguratamente, tutte le altre radici del nostro passato storico.

L’uso del passato è una materia pericolosa che va trattata con accortezza perché è molto facile che sia manipolata dalla classe dirigente per trarne vantaggi politici, economici e di consenso sociale.

Basti pensare, per esempio, alla grottesca vicenda del Museo del saccheggiatore di Roma Alarico che, nonostante sia stato bloccato nel 2018 da un intervento della Direzione generale dell’allora Ministero dei beni culturali, viene ora riproposto dall’Amministrazione del Comune di Cosenza in carica che aveva assicurato, in campagna elettorale, di non volerne sapere di un altro Museo virtuale ai piedi del Centro storico.

La “calabresizzazione” dei Bronzi dovrebbe comportare, insieme all’autoidentificazione magnogreca, anche una gelosa e, ormai, identitaria tutela materiale e immateriale delle due statue da parte dei calabresi, oltre che dell’autorità preposta che -nella persona del direttore del Museo, Fabrizio Sudano- si è già tempestivamente espressa affermando che l’immagine è stata usata senza autorizzazione dal ‘comunicatore’ del generale Vannacci. Ha ragione Giuseppe Smorto nel dire che bisognerebbe che l’immagine dei Bronzi fosse tutelata anche da tutti i calabresi come quella dell’amatissimo, dai senesi e pure da me, Palio di Siena.

Le eredità storiche bisogna meritarsele, non sono acquisite una volta per sempre, bisogna saperle tutelare, curare, nutrire e noi calabresi dobbiamo imparare ad esserne degni.

da”il Quotidiano del Sud” del 20 aprile 2024

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di disegno di legge del ministro Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione di 23 materie alcune delle quali, per prima la Sanità, riguardano aspetti fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione, la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il patrimonio della cultura ed il paesaggio. Il sentirsi italiani, il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese si basa sulla consapevolezza di essere i custodi di un patrimonio culturale unitario che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano e che non ha eguali al mondo.

Perché, come scrive Salvatore Settis: “…La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima.”

Il Dl leghista è dotato di un “Elenco delle materie che possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene (art. 117, secondo comma, lettera s) modifiche sostanziali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico, ora in capo alla Repubblica, affidandole alle 20 Regioni che diventerebbero veri e propri staterelli. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione – voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001 – la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono sciaguratamente diventate oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia-Romagna di Bonaccini. Le tre Regioni avevano chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.

Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato comunista costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché sapeva bene che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

Se dovessero passare le modifiche anticostituzionali ed antiunitarie proposte, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, verrebbero polverizzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine organico alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto il tessuto storico e sentimentale che tiene insieme il Paese, quel “nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima”, quel nostro sentirsi ed essere italiani.

da “il Manifesto” del 4 aprile 2023