Tag: sanità

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Alle regioni l’80% delle risorse. Il Covid misura il fallimento.- di Battista Sangineto

Credo che sia abbastanza chiaro a tutti che, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, la regionalizzazione della sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani di amministratori regionali non solo incapaci di opporre alcun valido contrasto alla diffusione del virus, come è avvenuto con le aperture delle discoteche in Sardegna, ma, ora, devono continuamente ricorrere allo Stato per cavarsi d’impaccio.

La sciagurata modifica del Titolo V, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito il SSN, frantumandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Si pensi solo alla disperante situazione della Calabria che, ad oggi, non ha ancora neanche un Commissario. Questa tragica débâcle dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale, come hanno scritto su questo giornale Pallante e d’Orsi, non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma anche alla utilità delle Regioni che potrebbero essere sostituite, come Ente intermedio, dalle ben più storicamente radicate Province.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le regiones augustee, peraltro, assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà, mentre l’estremo lembo della Penisola era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’.

I criteri augustei per la ripartizione del territorio della Penisola in regiones erano di ordine etnico e politico. Volti a valorizzare le antiche e differenti tradizioni storiche e culturali, ma con il precipuo compito, ideologico, di conferire unitarietà, nell’ambito dell’impero, allo spazio italiano.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano, abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II, nel Sud d’Italia, passando per le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri fino ai vari disegni regionali del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia. Solo con l’Unità d’Italia Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti governativi intermedi, ma che furono usati, invece, solo per meri fini statistici.

L’Assemblea Costituente, nel secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto ad una eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali.

Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese trovandosi all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi spazi politici praticabili.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza, pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali artificiose perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”.

da “il Manifesto” del 19 novenbre 2020
Di Italian region white.svg: Gigillo83derivative work: Kat888 – Italian region white.svg, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10457837

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Il sogno di vedere al lavoro Emergency e le reti sociali calabresi. di Tonino Perna

Un essere invisibile, anzi un non-essere, visto che questo virus a Rna non ha vita autonoma, ha sconvolto economia, società e vita quotidiana di mezzo mondo. Ha abbattuto il muro dell’austerity europea, aprendo una autostrada alla spesa pubblica in disavanzo. Ricordiamoci che ancora a novembre dell’anno scorso il nostro governo discuteva di quale zero virgola si poteva sforare il tetto imposto da Bruxelles.

Sempre lui, mister Covid, ha fatto emergere tutte le contraddizioni del sistema sanitario, non solo in Italia, mettendo a nudo i disastri di un processo di privatizzazione della salute. È difficile oggi, almeno in Europa, contestare il fatto che la salute dei cittadini è un bene comune che deve essere goduto, gratuitamente, da tutti i residenti in un determinato paese.

Il Covid ha fatto saltare le contraddizioni di questo modo di produzione, sia sul piano delle diseguaglianze sociali che territoriali. In Italia, poi, è esploso il conflitto tra Stato e Regioni e la maggioranza dell’opinione pubblica oggi vorrebbe il superamento della disunità d’Italia, provocato dalla Riforma del titolo V della Costituzione che ha dato poteri sproporzionati alle regioni (come ha ben denunciato Massimo Villone su questo giornale).

Infine, in questi mesi di incertezza, confusione istituzionale, panico crescente, gli italiani hanno scoperto che esiste una Regione che non sembra far parte dell’Italia e della Ue. Nell’immaginario prevalente sui mass media si tratta di una terra selvaggia, abitata da criminali senza scrupoli, dove tutto è abbandonato, dalle strutture economiche a quelle sanitarie, fino al dissesto idrogeologico che portò Giustino Fortunato a definirla «sfasciume pendulo sul mare».

Dagli anni ’50 fanalino di coda di tutte le statistiche che riguardano reddito, consumi, occupazione, e ai primissimi posti nella graduatoria mondiale della criminalità organizzata, la Calabria è ormai considerata, anche nella sinistra parlamentare, come una Regione a perdere, dove si possono mandare gli scarti della dirigenza nella pubblica amministrazione. Se in tutta Italia la sanità è stata oggetto di ruberie, malaffare e criminalità organizzata, qui sembra che esista solo questo e non ci siano speranze di cambiamento.

Ma, grazie sempre a mister Covid, sono diventate insostenibili, esplosive, le contraddizioni della gestione politico-amministrativa della sanità in questa Regione. Il governo non può più permettersi di sbagliare ancora una volta mandando commissari alla sanità che sembrano usciti da un circo equestre. I calabresi, ovvero quella minoranza che non si è rassegnata, hanno esultato di gioia alla notizia del premier Conte di inviare Gino Starda, il fondatore di Emergency.

Certo non mancano le voci del campanilismo becero («non abbiamo bisogno di stranieri»). Non sanno di che cosa parlano, o forse lo sanno bene e temono di perdere i benefici che il sistema politico calabrese gli ha da sempre garantito. Val la pena ricordare che Emergency è presente nella piana di Gioia Tauro- Rosarno da più di un decennio, lavorando fianco a fianco con i migranti delle baraccopoli-tendopoli dell’area, privi di protezione sanitaria.

Pochi sanno che Gino Strada e la sua Ong dovunque abbiano operato hanno valorizzato le risorse locali, formato giovani medici e infermieri, reso possibilmente indipendenti dall’aiuto esterno i territori in cui operano. Anche qui in Calabria esiste una società civile organizzata che può dare un importante contributo a Gino Strada e alla sua equipe se decidesse.

C’è un consorzio di oltre settanta associazioni, fondato da Rubens Curia, insieme a Progetto sud (forse la più antica e significativa esperienza meridionale di welfare comunitario) che da anni lotta per ottenere i diritti dei malati, dei diversamente abili, dell’infanzia, ecc. Si tratta di mettere insieme un’esperienza internazionale, come quella di Emergency, con le migliori risorse umane che esistono in Calabria, per ridare a questa terra e ai suoi abitanti la dignità e i diritti che gli spettano. Fateci sognare in tempi di lockdown.

da “il Manifesto” del 17 novembre 2020
foto: Ambulatorio Emergency a Polistena (RC)

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Le tre regioni (Calabria, Puglia, Sicilia) in cui il rapporto fra casi attualmente positivi e popolazione è il più basso d’Italia (monitoraggio Gimbe, al 6 novembre) sono classificate fra le zone “rosse” e “arancioni”. L’apparente contraddizione si comprende guardando ai famosi 21 indicatori elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità: la classificazione dipende da un insieme di variabili, dalla velocità di trasmissione alla capacità di monitoraggio, e di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti.

Ma dipende anche da un elemento fondamentale: la disponibilità di personale e di posti letto. In queste regioni la dimensione del sistema sanitario è nettamente inferiore rispetto al resto del Paese: è questo che contribuisce a determinare le indispensabili misure più restrittive, ma quindi anche a colpire maggiormente le attività economiche. I ristoranti chiudono anche perché gli infermieri e i posti letto sono troppo pochi.

Perché è così? Questa realtà dipende dalla lunga e complessa storia della sanità italiana: e dalle insufficienze e distorsioni del suo governo in alcune regioni, principalmente del Sud; se si vuole difendere il diritto alla salute dei cittadini, non bisogna mai smettere di ricordare le inefficienze delle loro amministrazioni.
Ma dipende anche da oltre un decennio di politiche sanitarie, ed in particolare dai piani di rientro.

E’ utile comparare l’insieme delle regioni soggette a piani di rientro, includendo dunque anche Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, con le altre; in tempi di polemiche sui dati, ci si può far guidare da un recente rapporto dell’autorevolissimo Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). Che ci dice l’Upb? Che nelle regioni in piano di rientro al 2017 c’erano 81 dipendenti del sistema sanitario ogni diecimila abitanti contro 119 in quelle senza piano; in particolare c’erano 35 infermieri contro 49, in un quadro italiano in cui il rapporto fra infermieri e popolazione è solo i due terzi della media europea.

E questo senza considerare le regioni a statuto speciale e le province autonome (nel caso della sanità, la Sicilia non rientra in questo gruppo): un vero mondo a parte, nel quale i dipendenti del servizio sanitario sono quasi il doppio, per abitante, rispetto alle regioni in piani di rientro. Le regioni del Centro-Sud affrontano la pandemia con un numero di posti letto, rispetto alla popolazione, significativamente inferiore rispetto a quelle del Nord; inferiore un terzo rispetto al Trentino Alto-Adige.

Questa situazione è frutto delle scelte di più di un decennio: dal 2008 al 2017 il personale nelle regioni in piano di rientro è diminuito del 16%; è sceso del 2% in quelle senza piano di rientro; è aumentato in quelle autonome. Queste tendenze sono state dovute, appunto, alle regole imposte alle regioni che avevano un forte disavanzo sanitario: spendevano più del finanziamento loro assegnato. Necessario intervenire, in tempi difficili per la finanza pubblica: ma il disavanzo si è praticamente azzerato già nel 2014 e le politiche non sono cambiate.

E le condizioni si sono sempre più divaricate, come ben mostrato in un recentissimo studio di Baraldo, Collaro e Marino pubblicato su lavoce.info. Dettaglio interessante, l’Upb mostra che le regioni e le province autonome avevano un disavanzo “virtuale” (il meccanismo di finanziamento è diverso) di pari dimensione e lo hanno ancora oggi: ma sono un mondo a parte; un mondo di privilegi.

Il disavanzo era dovuto a problemi sensibili nell’organizzazione sanitaria, ma anche ai meccanismi di finanziamento. Il tema è complesso, ma riassumibile in una considerazione: le regole del federalismo fiscale si applicano solo quando convengono ai più forti. Tre esempi.

Il riparto del Fondo Sanitario Nazionale non è legato ad una attenta misura dei “fabbisogni” della popolazione, ma è guidato solo dalla dimensione demografica, in parte “pesata” per l’anzianità: così che la spesa per abitante è in Calabria del 18% inferiore a quella emiliana; del 15% in Campania, del 13% nel Lazio; i dati (Istat) sono del 2018, ma questo accade tutti gli anni. E’ sempre indispensabile ricordarlo (ancora ieri in un’intervista il Presidente della Regione Veneto sosteneva «che è un problema di efficienza e responsabilità non di soldi»).

In secondo luogo, nessuno ha mai provveduto ad una misurazione delle dotazioni strutturali (ospedali, macchinari) delle regioni: eppure esse dovrebbero essere “perequate”, dato che è impossibile avere gli stessi servizi con dotazioni molto dispari. Stime di un istituto specializzato (il Cerm) mostravano al 2010 impressionanti divari; ma la spesa per investimenti pubblici in sanità invece di contribuire a ridurli li ha accresciuti: fra il 2000 e il 2017 gli investimenti nella sanità sono stati pari ogni anno a 22 euro per abitante in Campania e nel Lazio, a 84 in Emilia; a 16 euro per abitante in Calabria contro 184 a Bolzano.

Infine, la necessità di tanti pazienti di spostarsi fra regioni, specie per cure che richiedono dotazioni e specializzazioni avanzate (e che vengono pagate dalle Regioni di provenienza, che così hanno ancora meno risorse), è ormai considerato come un dato fisiologico del sistema, e non come una grave discriminazione da correggere.

Tutti gli italiani dovrebbero avere un eguale diritto alla salute. Sia per motivi di equità, sia per il benessere collettivo. Esso non dovrebbe dipendere né da incapacità politiche regionali (nei confronti delle quali il governo nazionale dovrebbe attivare con incisività ben maggiore i suoi poteri sostitutivi), né dalle regole distorte e incomplete del federalismo fiscale italiano.

E non è un problema locale: la diffusione della pandemia ci ha mostrato in tutta evidenza che la salute è un tema nazionale (europeo), che non conosce confini amministrativi: la disastrosa situazione della sanità calabrese non è solo un problema per gli abitanti di quella regione ma per tutti noi.

E dunque, se davvero vogliamo che l’Italia dopo il covid sia meglio di quella che abbiamo alle spalle, la conclusione è molto semplice: si impongono scelte politiche molto diverse. Il Piano di rilancio e le politiche sanitarie dei prossimi anni non possono che mirare a sanare ingiustizie e squilibri, anche superando incapacità e resistenze degli amministratori regionali.

da “il Messaggero” dell’11 novembre 2020

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, Commissario della Sanità della Regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.

Dal 2010 ad oggi si sono succeduti molti Commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio- hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i Presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali, di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero la Sanità al centro della battaglia politica.

Il 7 dicembre 2018 viene nominato Commissario unico il generale in pensione Saverio Cotticelli, con una delibera del Consiglio dei Ministri del Governo giallo-verde, firmata da Conte, dal ministro della Salute Giulia Grillo (5stelle) e dal ministro delle Finanze Giovanni Tria. Al cambio di colore del Governo, da giallo-verde a giallo-rosso, il Commissario è rimasto al suo posto anche se, come tutti abbiamo potuto finalmente vedere nel corso della trasmissione televisiva “Titolo Quinto” su Rai 3, nulla sapeva della complessa materia sanitaria e nulla faceva, nonostante sia arrivato il peggior flagello dell’ultimo secolo.

La responsabilità del disastro sanitario calabrese ricade tutta sull’ormai ex Commissario ad acta, il generale Cotticelli? La gran parte sicuramente sì, ma una porzione non irrilevante pesa sulla politica e sui politici calabresi degli ultimi decenni e, soprattutto, degli ultimi dieci anni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare, come avviene a seguito dell’esecrabile modifica del Titolo V della Costituzione, il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.

Con il comunicato stampa ufficiale, datato 11 marzo 2020, della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione stessa) la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva …e già domani sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.

I calabresi sanno che nessuna delle promesse fatte in questo comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo di Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in questa sua incredibile sconsideratezza.

Il nuovo Commissario appena nominato dal ministro Speranza, Giuseppe Zuccatelli, pur volendo sorvolare sull’imbarazzante video sull’inutilità delle mascherine, si era già dimostrato, dal dicembre 2019 ad oggi, del tutto inadeguato come Commissario sia dell’Asp di Cosenza, sia delle Aziende ospedaliere ‘Mater Domini’ e ‘Pugliese Ciaccio’ di Catanzaro.

I calabresi vorrebbero un Commissario capace, magari uno dei molti conterranei degni di ricoprire questo ruolo, ma, soprattutto un Commissario che sia solo “straordinario”, solo per questa emergenza “straordinaria”.
Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali.

Un Presidente ed una Giunta eletti dovranno rispondere agli elettori, mentre i Commissari, come abbiamo sperimentato in questi ultimi 10 anni, non rispondono a nessuno. I cittadini calabresi si aspettano che sia rispettato il diritto alla salute, come recita l’art. 32 della Costituzione, e che questo diritto abbia un identico livello in tutta Italia, compresa questa “inesplorata penisoletta”, come definiva la Calabria Corrado Alvaro, negli anni ‘30.

da “il Manifesto” del 10 novembre 2020
foto: Wikipedia

Il rimpallo che delega e confonde le responsabilità.- di Massimo Villone

Il rimpallo che delega e confonde le responsabilità.- di Massimo Villone

Ormai non passa giorno che non ci presenti lo spettacolo di una rissa tra governi regionali e locali e l’esecutivo nazionale. Da ultimo, Michele Emiliano chiude le scuole in Puglia, seguendo la via già tracciata da De Luca in Campania. Adduce in motivazione l’accertamento – fatto da chi, dove, come? – della scuola come occasione di diffusione del contagio. La ministra Azzolina virtuosamente si infuria. Tentazioni analoghe, secondo le notizia di stampa, in Calabria e in Sicilia.

Ma la palma del migliore pezzo di teatro va alle cd autonomie speciali. Il 17 ottobre, in un esaltante proclama ai cittadini dell’Alto Adige, il presidente provinciale Kompatscher attacca i provvedimenti restrittivi del governo e dichiara: “Nella convinzione che responsabilità e buon senso, nel lungo periodo, funzionino meglio dei divieti, lo scorso maggio in Alto Adige abbiamo deciso di intraprendere con convinzione un nostro proprio percorso”. Melius re perpensa, il 29 ottobre lo stesso presidente dichiara: “Alla luce dell’andamento epidemiologico, la situazione è superata. Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria”. Quindi, seguire le istituzioni italiane, no. Copiare tedeschi e austriaci nel cosiddetto lockdown soft, sì.

Colpisce il tono bellicoso del ministro Boccia, quando dichiara che saranno impugnati gli atti “di tutte le Regioni e le Province Autonome che decideranno di aggirare le disposizioni del Dpcm”, confermando peraltro la possibilità di provvedimenti più restrittivi. Non capisce che non si affronta una pandemia con il fai da te locale. Né a quanto pare è consapevole di essere tra i responsabili della cacofonia politica e istituzionale in atto.

Abbiamo avuto in questo paese una congiunzione perversa tra il tema dell’autonomia differenziata e la crisi covid-19. Sul primo, il ministro ha da subito seguito la linea del “completamento” di un percorso già avviato dal governo gialloverde, che pure aveva suscitato forti perplessità e polemiche. Ho già ripetutamente scritto della debolezza della sua proposta, fondata su una legge-quadro inidonea a fermare le spinte separatiste, e sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni), strumento parimenti inidoneo a garantire eguaglianza in diritti pur fondamentali.

È seguita poi la crisi Covid, con la scelta della concertazione a tutti i costi tra esecutivi, filtrando le decisioni in un labirinto di comitati e conferenze. Ricordiamo le trionfalistiche dichiarazioni di alcuni governatori, all’inizio della cosiddetta fase 2. Rivendicavano a se stessi il merito di avere determinato il ritmo della ri-partenza, e alle regioni di appartenenza l’acquisizione di un decisivo maggiore peso politico e istituzionale. Una evoluzione certificata dallo stesso ministro Boccia il 30 settembre in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali, laddove argomenta che con la crisi pandemica è nato un nuovo regionalismo.

È facile capire che la concertazione a oltranza tra esecutivi ha permesso al governo di non essere l’unico ed esclusivo destinatario di critiche e polemiche. La rinuncia a esercitare il potere sostitutivo di cui pure il governo in principio disponeva ai sensi dell’art. 120 della Costituzione, e il subappalto delle scelte a governatori e sindaci, hanno forse consentito a Palazzo Chigi di non rimanere in solitudine nel mirino di tutti e di galleggiare in acque per qualche verso meno tempestose. Ma in tal modo chi risponde di cosa? Diventa in specie difficile imputare alle autonomie le responsabilità che sicuramente hanno.

Inoltre, quando si tratta di diritti costituzionalmente protetti l’unica scelta giusta è tendere alla massima uniformità possibile. E come non capire che in un contesto di pesantissima crisi economica e sociale il diverso trattamento, se non deriva da regole generali predeterminate, certe e chiare, può apparire discriminatorio e in danno di questo o quel territorio, di questa o quella categoria, e diventare elemento di inaccettabile tensione?

Nell’ultima informativa di Conte alle assemblee abbiamo sentito l’opposizione chiedere a gran voce un voto, rifiutato dalla maggioranza. Ancora un’occasione perduta per cambiare rotta e ridare centralità al parlamento, come luogo appropriato e necessario del confronto su una crisi di eccezionale gravità. Non possiamo rischiare di affondare tutti per far galleggiare qualcuno.

da “il Manifesto” del 30 ottobre 2020

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dalla OMS, nel mese di settembre, come un modello da seguire a livello mondiale? L’Italia che guardava con sufficienza gli altri paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia e già pensava al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles. In meno di due settimane è cambiato tutto.

Gli esperti l’avevano preannunciato questa estate, sia pure con cautela, che una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo…- ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state assolutamente inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo di fronte a una tragedia che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. Insomma, siamo di fronte a quella doppia epidemia lucidamente disegnata da Norma Rangeri nell’editoriale di domenica scorsa.

Se possiamo fare un paragone, fatti i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra economia. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio.

Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione. La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro. Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo.

Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, ecc. un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.

da “il Manifesto” del 28 ottobre 2020
Foto di Sebastian Thöne da Pixabay

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Per la previdibile recrudescenza autunnale dei casi di Covid e le nuove misure di prossima emanazione è utile uno sguardo critico. Le epidemie non sono nuove per l’umanità che convive con malattie infettive da sempre per scelte operate dall’uomo: allevamento animale (morbillo), commerci (peste), guerra (spagnola). La rivoluzione industriale dell’Ottocento modificò l’epidemiologia con comparsa di malattie cronico-degenerative (cuore, polmoni, diabete, tumori) per nocività da lavoro e ambientale, consumi e riduzione di malattie infettive per miglioramento di condizioni di vita nel mondo a capitalismo avanzato (acqua, abitazioni, alimenti, farmaci, vaccini, servizi sanitari).

Nel Sud del mondo le malattie infettive sono ancora un flagello. Il capitale ha avuto interesse a ridurre le malattie infettive interferenti con la produzione ma non le malattie cronico-degenerative: sviluppo in tarda età, non subito mortali, motivo di profitti con farmaci e diagnostica. L’epidemia da Covid nasce da sfruttamento ambientale (megalopoli), salto di specie (pipistrelli) e globalizzazione. Le società industrializzate hanno diminuito prevenzione e controlli, preferendo vaccinazioni e farmaci a più alta redditività di capitale.

L’Italia taglia la spesa sociosanitaria, per vincoli Ue e fiscal compact in Costituzione, e indebolisce il Servizio Sanitario Nazionale(SSN) con l’idea di «Sistema» (usato da molti al posto di Servizio, erroneo sinonimo teorizzato dal pensiero neoliberale come complementarietà tra SSN pubblico e privato). La spesa sanitaria è il 70% dei bilanci regionali e il personale incide al 60%, settore ad alta intensità di lavoro umano. Qui i tagli: un falso in bilancio, che sposta la spesa da personale a acquisizione di beni e servizi: erogatori privati, esternalizzazioni, convenzioni di medici/pediatri di base, specialisti ambulatoriali, consulenze.

Più del 50%: il privato fa profitti con regole meno severe del pubblico su assunzioni, con ricorso a partite Iva, licenziamenti, riappropiandosi del prelievo fiscale. Le mutue integrative, prospettate in molti CCNL, sottraggono altre risorse con la defiscalizzazione. L’epidemia conferma: privati posti letto Covid, test sierologici e tamponi, Unità domiciliari Covid, precariato. Toscana, Veneto, Lombardia, Le Case della Salute invece inEmilia-Romagna autorizzano tamponi molecolari nel privato. Recovery Fund e Mes al 50% prenderanno queste strade. Una «ri-mutualizzazione» del SSN, che compra prestazioni private a costi elevati e non produce servizi, anche nell’epidemia è subalterno al privato.

Il SSN è impreparato all’epidemia perché, in attesa di vaccino o farmaco, e l’imbuto di tamponi, laboratori, difficoltà al tracciamento dei contatti, che richiede centinaia di operatori, non si è pensato in questi mesi a specifici servizi di prevenzione e cura Covid con organico dedicato, come si fece in passato per l’Aids. Alla morte da Covid si somma anche quella per blocco di attività sanitarie come durante il lockdown. Il SSN deve attrezzarsi a convivere con la pandemia, per non chiudere il Paese, con danni a salute, lavoratori esposti (iniziando con classificare correttamente Covid nel rischio biologico 3, trasmissibile alla popolazione), istruzione e reddito dei cittadini.

Il lavoro agile è un privilegio di classe senza regole che scarica costi sui lavoratori. Serve subito una ripubblicizzazione della sanità con assunzioni sufficienti, concorsi regionali per discipline, graduatorie a scorrimento e re-internalizzazioni, compresa la medicina di base, ripensandone la formazione collocandola in ambito universitario oltre il numero chiuso.

Le Regioni, con tagli di spesa, diventano traduttrici di confuse indicazioni di Governo e Ministero della salute: siamo al regionalismo differenziato anticipato da un governo di centro sinistra con la modifica del titolo V della Costituzione e il Sud al palo con guerra delle ordinanze e costo diverso dei tamponi. Non serve il centralismo, ma un giusto rapporto costituzionale Stato-Regioni-Comuni, negli organismi previsti, per l’ uniformità dei diritti. Il SSN ha poi un vulnus democratico, aggravato dagli accorpamenti di Aziende Sanitarie, Distretti enormi, incapacità dei Comuni di rappresentare le realtà locali nei confronti delle Regioni e direzioni aziendali anacronisticamente simbolo di una verticalizzazione autoritaria.

Decentramento e partecipazione sono negate, erano le bandiere della sinistra che, dopo anni di governo, non può accusare altri. Le Case della salute, che Maccacaro pensò nel 1975 erano realtà partecipative in Usl e Distretti piccoli, riviste nel 2004 dalla Cgil, per una trasformazione della medicina territoriale come presa in carico dei cronici in ASL. Le Case della salute invece in Distretti di grandi dimensioni, presenti in poche Regioni, sono spesso proposte come soluzione a tutto, senza adeguate risorse e progettualità. Ma serve un movimento di lotta a partire dall’epidemia che apra su questo conflitti e vertenze, scuotendo la pigra sinistra.

L’autore è medico-Direttore Distretto ASL Roma e partecipa al Forum per il diritto alla salute- Medicina democratica

da “il Manifesto” del 18 ottobre 2020
Foto di fernando zhiminaicela da Pixabay

Un diario che arriva da lontano a interrogare il nostro presente. -di Laura Marzi La recensione all'ultimo romanzo "Lettere da un altro tempo" di Piero Bevilacqua.

Un diario che arriva da lontano a interrogare il nostro presente. -di Laura Marzi La recensione all'ultimo romanzo "Lettere da un altro tempo" di Piero Bevilacqua.

Le iniziative editoriali e di quotidiani durante il confinamento sono state numerose, inevitabilmente. La necessità di soffermarsi, di riflettere e quindi di scrivere a proposito della segregazione in casa e della pandemia era impellente. La narrativa anche inizia a proporci i primi frutti di quel tempo, ancora attuale e potente l’impressione che quei mesi chiusi in casa hanno lasciato su ognuno di noi.

NEL ROMANZO di Piero Bevilacqua “Lettere da un altro tempo”, edito da Castelvecchi (pp. 128, euro 15), la protagonista è Francesca. Si tratta di una giovane donna alle prese coi suoi studi di letteratura, in particolare una ricerca universitaria sugli arredi nelle opere di Marcel Proust. Nelle prime pagine, in questo romanzo scritto in terza persona, la incontriamo mentre cerca, inutilmente, di concentrarsi su una bibliografia sconfinata degli studi sul grande scrittore francese.

Francesca, però, è preda dell’angoscia: ciò che sta avvenendo intorno a lei, negli ospedali, nelle case di riposo non le dà pace: «erano giorni e giorni, settimane ormai, che i telegiornali della sera aprivano con la notizia di migliaia di contagiati, centinaia di scomparsi, altre centinaia di infermi in rianimazione». Per lei è impossibile concentrarsi e vorrebbe tanto, nel caos della sua libreria, riuscire a scovare dei fumetti, perché è certa che potrebbero garantirle quella dimenticanza di cui ha bisogno. Trova invece una lettera che non sapeva di aver ricevuto, ancora sigillata, che le aveva scritto sua nonna Beatrice, morta ormai da due anni, con cui Francesca aveva sempre avuto un rapporto di affetto e complicità.

RIESCE con molta fortuna, visti i divieti, a soddisfare la richiesta dell’anziana donna: andare a Napoli per recuperare, prima che la casa venga venduta, una scatola con le lettere d’amore e il diario. Rientra quindi a Roma e si immerge nella vita di sua nonna, a Napoli, nel 1939. Sono proprio le lettere che Beatrice e Nino si scambiano per qualche anno e il diario di lei che costituiscono il corpo del romanzo.

In particolare, il racconto epistolare dell’innamoramento di sua nonna per quest’uomo di cui Francesca ignorava l’esistenza e la partenza di lui, disertore, per la Francia, quando l’Italia entra in guerra. In seguito, le pagine di diario di Beatrice che racconta del conflitto a Napoli. Leggiamo dei bombardamenti che in un primo momento risparmiano gli obbiettivi civili e poi di un crescendo di violenza cieca e di orrori, fino alle quattro giornate di Napoli, il primo episodio della Resistenza italiana contro gli invasori tedeschi.

Accanto ai racconti dettagliati degli avvenimenti – Bevilacqua insegna Storia contemporanea – troviamo la distruzione che la guerra generò nelle vita dei due innamorati e della famiglia di Francesca.Questa digressione storica che è poi la materia principale del romanzo ben si inserisce all’interno del presente della narrazione del confinamento e della pandemia di Covid-19, per varie ragioni. Prima di tutto, Francesca ha ereditato da sua nonna la vis polemica, la rabbia contro le ingiustizie dei potenti, come risulta dalle conversazioni telefoniche col compagno Gianni, economista che lavora in un’azienda in Lombardia. In queste occasioni, puntualmente Francesca si scaglia contro gli orrori della società neoliberista.

POI, durante il confinamento è stato molto dibattuto il paragone, spesso abusato, tra la pandemia e la guerra: dalle pagine di diario di Beatrice l’orrore del conflitto mondiale esplode con chiarezza.
Ciò non toglie che la narrazione parallela dei due momenti storici induca a una riflessione aperta sul presente, specie a partire dalla lettura delle pagine finali del diario di Beatrice.

Infine, la lingua merita attenzione, soprattutto il lessico. Bevilacqua fa uso di parole precise, quelle che molto spesso non vengono più utilizzate: «sferragliando»; «smanducando»; «sgrumulando», dando alla scrittura un’impronta inconfondibile.

da il “Manifesto” del 28.8.20

Il modello lombardo non sia la base della nuova Sanità.- di Gianfranco Viesti

Il modello lombardo non sia la base della nuova Sanità.- di Gianfranco Viesti

Lo si sente spesso dire. Anche ieri dal premier: avviamo la ripresa non per tornare a come eravamo ma per costruire progressivamente un Paese migliore. Giustissimo. Ma questa affermazione va poi sistematicamente calata nella realtà e precisata. Un ambito nel quale ha un valore molto forte è quello della sanità.

Proviamo ad abbandonare un clima nel quale si pensa che la questione sia delimitata dai confini regionali, e ci si continua a vantare di vere e presunte superiorità – un altro esempio lo abbiamo avuto ieri – di un sistema territoriale rispetto agli altri; come se questo garantisse dei confini in casi come quello che stiamo vivendo; come se pretese virtù non fossero state messe a durissima prova proprio dal corso degli eventi di questi mesi.

Torniamo a ragionare di Servizio Sanitario Nazionale, per tutti gli italiani; e di come quello di domani può e deve essere diverso da quello di ieri. Lo si può fare su base documentale seria, chiara. Proprio l’altro giorno l’Istat, nel suo Rapporto Annuale 2020, ci ha fornito molti elementi, utili per la loro precisione e per l’autorevolezza della fonte. Un istituto di statistica che, è bene ricordarlo, non si limita a fornirci numeri ma ormai li accompagna da molti anni con analisi molto ben approfondite e articolate.

Quali sono i punti principali di questo confronto fra ieri e domani? Possono emergere con chiarezza proprio ripercorrendo il Rapporto. E dunque, un sistema sanitario troppo poco finanziato; e troppo incentrato sull’assistenza ospedaliera e con un presidio del territorio troppo debole. Nell’insieme spendiamo per la sanità il 6,5% del Pil contro il 9,3% della Germania e il 9,3% della Francia; ma sull’assistenza territoriale spendiamo meno della Germania (1,2% contro 2,9%) e degli altri migliori paesi europei.

Un sistema sanitario in cui la spesa per investimenti è caduta dai 2,4 miliardi del 2013 a 1,4 nel 2018; con una conseguenza grave per la tutela della nostra salute: l’obsolescenza delle apparecchiature, «un parco tecnologico non sempre al passo con l’innovazione».

Ancora, un sistema nel quale le risorse umane, soprattutto infermieristiche, si sono troppo ridotte: abbiamo 350 mila infermieri, circa la metà rispetto a Germania e Francia. E risorse umane, anche fra i medici, che stanno pericolosamente invecchiando e che vanno rimpiazzate con attenzione.

Una sanità, e questo è ben noto, con troppe e crescenti disparità territoriali. Già la spesa pro-capite varia dai 2.085 euro dell’Emilia-Romagna ai 1.705 della Calabria, seguendo la struttura della popolazione per età, ma trascurando gli effetti della povertà e dei minori livelli di istruzione sulla salute. Con 296 posti letto per abitante, sempre in Calabria, contro i quasi 400 del Trentino-Alto Adige. E così le dotazioni e la capacità di fornire proprio quella cruciale assistenza territoriale: i casi trattati di assistenza domiciliare integrata vanno dagli oltre 3 mila (per 100 mila abitanti) in Veneto, Emilia-Romagna e Toscana a meno della metà in grandi regioni quali Lombardia, Lazio, Campania.

Tendenza all’approfondimento dei divari, che potrebbe proiettarsi nel futuro: nelle regioni del Centro-Sud sottoposte ai piani di rientro, ci dice l’Istat, «gli interventi messi in campo per l’abbattimento del deficit potrebbero ridurre, nel medio-lungo periodo, la capacità di assistere la popolazione in maniera adeguata».

Infine, sistemi molto diversi anche per il rapporto pubblico-privato; i posti letto in strutture private sono oltre un terzo del totale in Lombardia, il 10% in Veneto; e con una spesa privata delle famiglie, che lega troppo strettamente la salute alla situazione economica, che è ormai arrivata al 23% del totale. E che è rilevantissima, e discriminante, in particolare in alcuni casi, come nella farmaceutica o nella spesa destinata ad apparecchiature terapeutiche.

Questo era il Servizio Sanitario Nazionale prima dell’emergenza Covid-19, per usare il titolo del capitolo del Rapporto Istat dal quale si sono presi tutti i dati citati. E’ a vantaggio di tutti gli italiani la possibilità che quello che avremo fra tre o cinque anni possa esserne progressivamente diverso in molti cruciali aspetti: dai divari sociali a quelli territoriali, dall’organizzazione assistenziale alla disponibilità di nuovo personale giovane.

Certo, bisognerà fare i conti con quel che ci potremo permettere: ma non è solo questione di spendere di più ma anche diversamente e meglio. E soprattutto di pensare che stiamo parlando di un grande investimento sul nostro benessere, sulla nostra salute; e, come abbiamo imparato dalla terribile pandemia, anche sulla nostra economia, nell’evitare i danni più atroci di eventi negativi sulle persone e sulle loro attività economiche.

Meno autocelebrazioni, meno liste di viziosi e virtuosi e più riflessioni su come costruire il Servizio Sanitario Nazionale del dopo. Così il futuro può cominciare ad essere diverso dal passato.

da “il Messaggero”, 8 luglio 2020

Foto di Sasin Tipchai da Pixabay

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Il presidente Santelli ha emanato, nel corso della tarda serata di mercoledì, un’ordinanza che, a dispetto dei suoi precedenti proclami e provvedimenti reclusorî, riapre a moltissime attività e a molti spostamenti, in barba alle raccomandazioni degli epidemiologi e in spregio alle norme del DPCM.

Quello stesso Presidente che non ha ancora detto ai calabresi: quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale all’inizio della pandemia; quanti guariti ci sono per ricoverati; quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio; quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria; se sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio ; se sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione; se e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita per i tamponi e per l’esame sierologico.

Il Presidente che aveva negato con tutte le forze il ritorno, fino a ieri, dei calabresi che studiavano o che lavoravano in altre regioni, nella notte di mercoledì ha emanato una ordinanza con la quale si è premurata che, con i primi due articoli del provvedimento, fossero consentiti gli sport extra-comunali e gli spostamenti per raggiungere le imbarcazioni di proprietà (da diporto) da sottoporre a manutenzione e riparazione, ma, per carità, una sola volta al giorno.

Con i rimanenti articoli, invece, dà il via libera all’apertura di bar, pasticcerie, pizzerie e ristoranti che servano all’aperto e di tutti i negozi di fiori e sementi, anche ambulanti. I calabresi, dunque, avranno la possibilità di mangiare una pizza all’aperto, magari dopo aver passato un paio di mani di antivegetativo alla carena della barca e comprato un mazzo di fiori alle fidanzate che non vedevano un paio di mesi. Non potranno, però, fare un’ecografia e le analisi del sangue in un laboratorio o farsi operare d’ernia addominale in una clinica, perché l’attività degli Ospedali è limitata alle urgenze indifferibili.

L’ordinanza della Santelli e l’occupazione del Senato da parte dei leghisti fanno parte, è evidente, di una ben orchestrata manovra politica tesa a mettere in crisi l’azione del Governo in uno dei momenti più difficili del nostro Paese, dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Jole Santelli avrebbe dovuto, e dovrebbe, occuparsi di intervenire sulle disastrose condizioni in cui versa la Sanità calabrese, predisponendo piani sanitari, implementando le scarsissime dotazioni, strutturali e di personale sanitario, dei nostri Ospedali e della medicina del territorio per affrontare, con meno terrore, il lungo periodo nel quale dovremo convivere con il virus, invece di compiere spericolate fughe in avanti con una del tutto improvvida riapertura.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

L’isolamento è un’arma scarica. -di Battista Sangineto

Il presidente della Regione Santelli ha deciso di impedire alle Asp di fornire le notizie riguardanti l’epidemia in corso, in ordine sparso, ma di raccoglierle e darle per mezzo di un unico bollettino emanato dalla Regione Calabria. La decisione, per quanto dal tenore un po’ troppo autoritario, non mi ha irritato più di tanto perché l’ho attribuita ad una necessità di coordinamento e di validazione delle notizie. Non accetto, però, la totale assenza di informazioni riguardanti lo stato, già poco rassicurante in tempi normali, della Sanità calabrese alle prese con la pandemia.

Al netto della sempre più incomprensibile ed inquietante vicenda della RSA di Torano, potrei, potremmo tutti noi calabresi, sapere quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale? Quanti guariti ci sono per ricoverati? Corrisponde al vero che, come ha scritto “la Repubblica”, il contagiato numero 1, il sessantenne di Cetraro, è morto dopo 40 giorni di degenza solo perché non è arrivato in tempo un pacemaker? Quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio? Quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria?

Sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio e, se sì, in quali territori? Sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione? Sono state attivate, come in Emilia-Romagna, sinergie con il privato per il prelievo e le analisi dei tamponi e, in seguito, del sangue, atteso che, purtroppo, lo Stato non ha strutture sufficienti per farlo? Sono state realizzate residenze per tutti quei sanitari in prima linea che non vogliono contagiare la propria famiglia tornando a casa, per convalescenti ancora infetti e per contagiati asintomatici? Quanti tamponi sono stati eseguiti e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita?

La Regione Calabria ha preparato un programma di prelievo sierologico, quando ce ne sarà uno definitivamente approvato? Sono state create residenze per la quarantena dei poveri calabresi emigrati che sono stati licenziati dalle aziende del nord o che hanno perso un lavoro precario o in nero e che non possono nemmeno tornare a casa, come hanno testimoniato le molte disperate lettere meritoriamente raccolte da Annarosa Macrì nella sua rubrica, su questo giornale?

Se si fosse voluto esser coerenti con l’autocertificazione di calabresi accoglienti che ricevono “l’altro” sempre con un mitopoietico “trasite, favorite…”, non si sarebbe dovuta levare, dai social, quella canea contro gli sconsiderati untori che tornavano dal nord a infettare la Calabria, ma si sarebbero studiate delle strategie per far trascorrere loro una quarantena in sicurezza nei tantissimi alberghi vuoti della nostra Regione. Possiamo ancora farli tornare, questi poveri disoccupati, studenti, precari e lavoratori in nero che non reggono più, economicamente e sentimentalmente, questa lontananza.

Non sembrerebbe esistere, dunque, alcun “modello Calabria” perché le uniche misure adottate contro la pandemia sono quelle dell’isolamento fisico che sembrerebbero, qui, più efficaci che altrove a causa della bassa e lasca densità abitativa e della consapevolezza, terrorizzante, di risiedere in una regione particolarmente arretrata da un punto di vista sanitario.

Il presidente Santelli, la sua giunta, il suo Comitato tecnico-scientifico, il direttore della Protezione civile hanno una strategia o, almeno, un programma per la cosiddetta Fase 2, quella nella quale, a partire dal 4 maggio, si dovrebbe iniziare a “riaprire” le attività? Se la risposta alle domande che ho fatto sopra sarà negativa o dubitativa, credo che saremo davvero nei guai perché quando il Governo disporrà una riapertura, anche parziale, non si potrà più opporre una ordinanza di “chiusura” della sola Calabria, intanto perché, come ha già scritto Sabino Cassese a proposito delle molte ordinanze regionali e nazionali di queste ultime settimane, potrebbe essere anticostituzionale e poi perché non può durare per sempre. Presidente Santelli, per favore, non si faccia trovare con in mano solo l’arma dell’isolamento, potrebbe essere scarica.

da “il Quotidiano del Sud”. 20 aprile 2020

Foto di Jeff Balbalosa da Pixabay

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

Se c’è una cosa che gli eventi di questi giorni fanno emergere in maniera chiara è la conferma dello spessore della visione politica che, nella seconda metà del Novecento, ha prodotto un sistema sanitario solidaristico ed universale e cioè assistenza e cure per tutti, senza alcuna distinzione sociale e senza oneri perché finanziate dalla fiscalità generale. Il servizio sanitario pubblico Italiano nel quale chi ha di più garantisce – attraverso una tassazione proporzionalmente progressiva – lo stesso servizio a chi ha di meno o non ha niente.

Al netto di lacune ed insufficienze – di cui diremo dopo -l’emergenza non ha fatto differenze tra classi o tra chi ha possibilità economiche maggiori di altri.

E ciò introduce alcuni temi che trovano in Calabria il loro esempio paradigmatico.

Il primo: la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico. Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Vediamo in questi giorni il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni. Un danno che viene contenuto solo dalla solidità strutturale del sistema e dalla straordinaria abnegazione degli operatori sanitari.

Il diritto alla salute è previsto nella Costituzione, all’art. 32, mentre in nessuna parte della Carta sta il richiamo ad un primato dei conti pubblici. Ed è bene che in un momento come questo l’abbia detto -esplicitamente – il presidente del consiglio, perché il fatto che tutto, anche i principi costituzionali ,la sanità in primis,siano trattati come merci è una vergogna che non deve più sentirsi.

Diritti costosi,ed infatti previsti a carico dello Stato ,perché i ricavi da essi prodotti non sono inscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto ,essendo fatti di cultura ,senso civico, ,conoscenze, benessere,in un ideale -ma ben percepibile -bilancio istituzionale e politico.

Il secondo tema, conseguenziale: lo Stato deve mettere a disposizione i fondi necessari per far fronte ai fabbisogni e laddove sono riscontrati deficit di bilancio nel settore – come in Calabria – si devono individuare e tagliare gli sprechi,perseguendo e sanzionando i responsabili ed i ladri, e non limitare le prestazioni con la politica mercantilistica dei budget o “ acquisti di prestazioni” ( terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello Stato,cioè di un loro diritto) che,inevitabilmente,provoca aumento della lista d’attesa ed emigrazione sanitaria.

I commissariamenti, è dimostrato, non servono a niente, men che meno ad abbattere il debito, anzi lo aumentano. Servono, eccome,a creare un centro di potere permanente ed estraneo al circuito democratico espropriando la responsabilità del governo della sanità che spetta al governo ed all’assemblea regionali.

Il terzo tema: la rete ospedaliera. In Calabria, da dieci anni gli unici (asseriti) rimedi al deficit sono stati – per decisione di boiardi e generali in pensione nominati commissari – la chiusura di ospedali in zone disagiate, il blocco delle assunzioni e i tagli delle risorse. Il tutto senza alcuna azione di rigenerazione complessiva come avrebbe potuto essere quella di potenziare i servizi territoriali, la specialistica ambulatoriale, l’urgenza emergenza, iDEA. Come se la creazione di un ospedale hub si possa fare per decreto e non in seguito alla elaborazione ed implementazione di un progetto. Eppure è così, così è stato .

Il quarto tema, i privati. Se ne è avuto un coinvolgimento modesto in questa fase di crisi, perchè per anni si è alimentato un sistema in cui le strutture serie e di eccellenza sono state mortificate con riduzione di posti letto e tagli lineari lasciando ingrassare le nicchie dei profittatori. Eppure in teoria il sistema è semplice. Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano pubblica e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici ed organizzativi degli ospedali pubblici . Esse devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme.

Se ben guidata da una classe dirigente seria ed all’altezza del compito sarebbe una integrazione virtuosa che inevitabilmente farebbe aumentare la qualità e diminuire i costi per la comunità. Ma questa è roba per la Politica con la P maiuscola, non per i viceré mandati dai capibastone a rastrellare qualche milione sul fondo destinato alla tutela della salute di cittadini, come avviene da dieci anni in Calabria nella indifferenza della quasi totalità dei parlamentari calabresi nominati dagli stessi capibastone. La lezione di questi giorni è dura ma forse può servire per chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire.

L’ultimo tema è l’indicazione pratica che ci viene dai difficili giorni che stiamo vivendo: la salute dei cittadini di una nazione non può essere regionalizzata. Ai problemi portati dal virus si sono aggiunti i disagi derivanti dai comportamenti dagli atteggiamenti e dalle disposizioni diverse della politica locale.

Noi lo diciamo da anni, ma ora il re e’ nudo: la tutela della salute e’ un diritto fondamentale garantito ad ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri per poter assicurare benessere e dunque efficienza ,efficacia ai cittadini che così possono produrre cultura idee,formazione ,e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita ,giusta ed equilibrata del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve e’questa :sostenere la scuola,tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Dunque, occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.

Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla sciagurata idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, in presenza di un fenomeno come quello del potenziale contagio definito per “focolai”, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

Si tocca con mano, oggi, si avverte chiaramente sulla pelle ,e non nelle parole di un talk show, che i diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.

Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

da il Quotidiano del Sud, 12 aprile 2020

Pandemia e animali, i focolai degli allevamenti industriali.- di Piero Bevilacqua

Pandemia e animali, i focolai degli allevamenti industriali.- di Piero Bevilacqua

Come per la Sars, esplosa in Cina a inizio millennio, il contatto con gli animali selvatici sembra sia all’origine della malattia che attacca i polmoni. Dovremo perciò evitare in avvenire le pratiche e le occasioni che portano ad avere rapporti con tali creature.

Raccomandazioni ormai ovvie. Ma basta questo? Noi dimentichiamo che proprio in casa nostra, non nella giungla amazzonica o nelle campagne della Cina, coltiviamo focolai di malattie potenzialmente epidemiche. Chi si ricorda delle epidemie legate agli allevamenti intensivi europei, come l’ Encefalopatia Spongiforme Bovina (Bse), quella prodotta dalla Salmonella DT104, dall’Escheria coli 0157, ecc.?

Andrebbe ricordato che l’industrializzazione degli allevamenti, che ha consentito la produzione e il consumo di massa di carne nelle società affluenti, è stata pagata con una vera e propria esplosione delle malattie tra gli stessi animali. Esemplare la testimonianza di un autorevole veterinario, Giovanni Ballarini: “Le malattie dei polli, che superficialmente mi erano state insegnate all ‘Università, si potevano contare sulle dita di una mano: dopo solo dieci anni erano diventate quasi una disciplina e si andavano”frantumando” in una complessa varietà di patologie, ognuna tipica di una determinata tecnologia di allevamento, tipo di alimentazione, razza e varietà di animale” (L’animale tecnologico 1986).

Malattie degli animali che si manifestavano e restavano nelle aziende, ma che potevano anche dilagare all’esterno in forme impreviste. Lo stesso Ballarini, in un testo del 1979, Animali e pascoli perduti, metteva in guardia dal pericolo dell’allevamento intensivo dei bovini, che definiva una vera e propria bomba biologica. Nelle nuove stalle il continuo ricambio dei vitelli per le necessità della produzione industriale di carne, comporta l’immissione continua di nuovi capi, provenienti da ogni angolo del mondo. Una novità rispetto a tutta la precedente storia degli allevamenti, che porta dentro le stalle, con le bestie, nuovi batteri, insetti, virus.

E’ vero, che ieri e ancor più oggi, gli animali sono sottoposti ad accurata disinfezione, ambienti sono sterilizzati. Ma è proprio l’intervento di queste molecole chimiche di contrasto, ricordava sempre Ballarini, che può indurre qualche batterio o virus, capace di resistere ai trattamenti attraverso una mutazione genetica, a diffondersi nell’ambiente umano. Il fatto che non accada di frequente, che, ad esempio, tante malattie, come il temibile Circovirus suino, rimanga confinato ai maiali, si deve al caso e comunque a ragioni che la scienza – onnipotente solo nell’immaginazione degli ingenui – non conosce sino in fondo.

Del resto, si deve solo al caso se i cittadini europei sono scampati a un vero e proprio sterminio di massa. E’ il rischio che abbiamo corso, e per un momento temuto da alcuni scienziati: la possibilità che il prione, dell’encefalite bovina, potesse insediarsi nel sistema ghiandolare delle mucche, e quindi trasmettersi con il latte all’uomo. Che cosa, se non il caso, ha voluto che quel batterio killer restasse confinato nel cervello dei bovini?

Tuttavia la causalità con cui il Covid 19 dai pipistrelli è passato all’uomo non è della stessa natura di quella dipendente dal contesto degli allevamenti intensivi. Questi ultimi costituiscono una strategia economica delle imprese dell’agrobusiness per fare della produzione di cibo una lucrosa fonte di profitti. E occorre rammentare che questo sistema di produzione oggi appare per più versi insostenibile. Gli animali allevati nel mondo, passati da poco più di 7 miliardi del 1970 a oltre 24 miliardi del 2011(dati FAO), oggi sono forse raddoppiati.

Un numero comunque enorme, che già nel 2006 occupava per il “pascolo” il 26% della superficie terrestre, richiedendo l’occupazione di un altro 33% dei terreni agricoli per la produzione di mangimi. Cosi mentre nei luoghi in cui gli animali risiedono vengono inquinati con i liquami vasti tratti di territorio, le acque profonde e di superficie, liberando nell’aria metano e altri gas serra, nelle vaste pianure del Brasile, dell’Argentina, degli Usa, la superficie agricola è occupata da monoculture industriali di mais e soia ogm, che sottrae terre ai contadini e inquina il suolo. (A.Y.Hoekstra, The water footprint of modern consumer society, 2013).

In questo momento siamo allarmati dalla pandemia del Covid 19. Ma quanto accade oggi non ci deve far dimenticare che la nostra società poggia su un sistema di produzione del cibo gravido di rischi futuri.

A questo sistema è poi legata, una malattia non contagiosa, ma che negli anni, con gradualità, si è diffusa come una pandemia mortale: il cancro. Se si pensa con disincanto a questo aspetto, si comprende quanto i cittadini europei possono fare per cambiare le cose: sia mutando il proprio stile alimentare, sia lottando contro la politica agricola dell’Ue, che finanzia l’agricoltura inquinante e lascia le briciole ai contadini e agli agricoltori biologici.

il Manifesto, 7 aprile 2020
foto:©Ingimage

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

È giunta l’ora di abolire le regioni. – di Battista Sangineto da "Il Quotidiano del Sud"

Spero che ora, alla tragica luce dell’apocalisse sanitaria in corso, sia chiaro a tutti che aver concesso la regionalizzazione della Sanità è stato un terribile errore. La gestione del Servizio sanitario è nelle mani degli amministratori delle Regioni che, com’è evidente, non solo sono stati incapaci di opporre il primo contrasto al virus come avrebbero dovuto e potuto, ma, ora, si rivolgono allo Stato per ogni ulteriore esigenza dei cittadini che amministrano.

La sciagurata modifica del Titolo V del 2001, non solo non ha reso più efficienti e responsabili i governi locali, ma ha approfondito le differenze fra nord e sud ed ha indebolito moltissimo il Sistema Sanitario Nazionale spezzettandolo in venti centri di spesa, di inefficienza e di corruzione.

Questa occasione dovrebbe dare modo di ripensare in maniera radicale non solo alla regionalizzazione della Sanità, ma alla reale utilità delle Regioni. L’esperimento delle Regioni è luttuosamente fallito e si deve tornare all’assetto politico-amministrativo, storicamente fondato, dell’Italia che era costituito dal rapporto istituzionale che Province e Comuni avevano con il Governo centrale.

La prima e, fino al 1948, ultima idea di dividere l’Italia in regioni, del resto, fu di Augusto che, nel 7 d.C., suddivise il territorio della Penisola in undici aree, indicate con i numeri, prima ancora che con i nomi. Le ‘regiones’ augustee assomigliavano pochissimo a quelle attuali tanto che, per esempio, a nord del Po ne esistevano solo due, la IX a ovest e la X a est, con l’attuale Lombardia divisa a metà.

L’estremo lembo della Penisola, per fare un altro esempio, era accorpato in un’unica regione, la III, ‘Lucania et Bruttii’. I criteri utilizzati da Augusto per la ripartizione del territorio della Penisola in ‘regiones’ erano soprattutto di ordine etnico e politico, tenendo in considerazione la valorizzazione di tradizioni storiche e culturali, ma è ancora più probabile che le ‘regiones’ fossero solo “circoscrizioni elettorali” utili, anche, per la realizzazione del ‘census’, operazione accessoria al progetto augusteo di modifica del sistema di tassazione.

Le ‘regiones’, comunque, non avevano alcuna competenza di amministrazione della giustizia, di esercizio della fiscalità, di reclutamento o di leva obbligatoria. La suddivisione di Augusto aveva il compito, ideologico, di conferire centralità e unitarietà nell’ambito dell’assetto geografico-politico dell’impero, allo spazio italiano, pur nella diversità delle sue componenti etnico-territoriali: etruschi, latini, italici etc. Esattamente il contrario di uno spezzettamento in tante regioni, insomma.

Dopo la fine del mondo antico ed il disfacimento dell’ordinamento romano abbiamo notizia delle regioni solo a partire dalla Costituzione di Melfi (1231) di Federico II nel Sud d’Italia, poi le regioni linguistiche-culturali di Dante Alighieri, fino ai vari disegni regionali di epoca rinascimentale del Biondo e dell’Alberti; per arrivare, infine, ai disegni sempre di tipo storico-culturale del XVIII secolo e ai “dipartimenti” introdotti negli Stati “napoleonici” in Italia.

Solo con l’Unità d’Italia due patrioti appassionati di statistica, Cesare Correnti e Pietro Maestri, disegnarono, nel 1864, la suddivisione in 14 ‘compartimenti’ che avrebbero voluto far diventare Enti intermedi per il governo della nazione, ma che, invece, continuarono a servire solo per ‘meri’ fini statistici, ossia per raggruppare e dare senso geografico ai dati forniti dai servizi di rilevazione del Regno appena costituito.

L’Assemblea Costituente, nell’immediato secondo dopoguerra, riprese l’idea regionalista, soprattutto sturziana, che fu portata avanti, riassumendo e semplificando, soprattutto dalla Democrazia Cristiana, in funzione di garanzia rispetto all’eventuale vittoria delle sinistre alle elezioni nazionali. Erano sostanzialmente contrarie al regionalismo le sinistre e anche le forze laiche e liberali, mentre c’era un partito, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia che, dopo aver fomentato disordini e rivolte armate nell’isola, ottenne una forma molto larga di Autonomia nella Carta costituzionale.

La situazione mutò: quando, dopo il 1948, le sinistre furono escluse dal governo del Paese e si ritrovarono all’opposizione, esse si spostarono su posizioni regionaliste al fine di garantirsi – almeno a livello regionale – possibili spazi politici nuovi. Le Regioni nascono, dunque, solo con la Costituzione emanata nel 1948, ma fino al 1970 non è esistito alcun potere regionale.

È, ormai, del tutto evidente a chicchessia che l’Italia dei venti ‘governatorati’ non è, per nulla, preferibile all’Italia unita soprattutto per quel che riguarda la Sanità regionale che oggi mostra, con mortale crudezza, tutta la sua inadeguatezza ed insufficienza pur avendo assorbito quasi l’80% delle risorse economiche destinate alle Regioni.

Esse non hanno alcuna ragione storicamente fondata di esistere, sono entità territoriali fittizie perché, come diceva Lucio Gambi, “…le nostre regioni storiche costituzionali sono ripartizioni statistiche riverniciate di nome”. Dopo questa tragica ‘débâcle’ sarebbe ora di iniziare a pensare di abolire le Regioni, inutili e corrotti carrozzoni, ridare forza ai Comuni e ripristinare, come ente territoriale di maggiore prossimità ai cittadini, le Province.

È, forse, pleonastico scrivere che, se si dovesse stilare un calendario, la Calabria dovrebbe essere la prima regione ad essere abolita, non solo e non tanto per le cose che si son viste a proposito della Sanità in una recente trasmissione televisiva, ma per l’evidente, verificata, quarantennale incapacità e inanità di questo Ente, chiunque l’abbia governato, ad affrontare tutte le competenze che ad esso sono state assegnate.