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Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Libri e film dei grandi americani del sudovest lo avevano da tempo certificato a suon di fotogrammi e frasi epiche. Ma all’incontrario! Non è un paese per vecchi dicevano, infatti, i terribili fratelli Coen e prima di loro Cormac McCarthy nello scenario apocalittico del New Mexico. L’Italia affronta invece, nel suo piccolo, una crisi demografica profonda, tra l’altro con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra infatti una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, Open Calabria conferma – in un recente e pregevole studio su dati ISTAT – tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Per arrivare alla conclusione che il Sud è un paese per vecchi.

Che cosa ritroviamo nello studio di Open Calabria? Dal 2019 al 2024 la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a poco più di 58 milioni di abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale. Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia.

Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e nella nostra amata Calabria (-3,8%).

La riduzione della popolazione, dice Open, non sarebbe necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età. Emerge che il calo demografico in Italia non è infatti uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre.

In particolare si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%.

Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Insomma il quadro è quello di un paese per vecchi.

Lo spopolamento del Sud risulta poi strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro.

La frattura demografica tra Nord e Sud è, dunque, conclude lo studio Open causa ed effetto di una questione strutturale che inciderà profondamente sulla sostenibilità di tutta l’Italia ma sarà ancora una volta il Sud, e le regioni più marginali come la Calabria, a risentire di queste dinamiche: anzi ne risentono già oggi se si pensa al lento e progressivo allontanamento non solo più dei giovani ma delle stesse famiglie al seguito dei figli spostatisi nel Nord del paese, per studio o lavoro.

Nelle città soprattutto è ormai un fenomeno visibile ad occhio nudo: a passeggio sui corsi centrali dei capoluoghi ci solo anziani e pensionati. Il resto sembra sparito. In realtà non c’è proprio più. Se n’è andato.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 marzo 2025

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

C’è un gran fermento in città intorno ai progetti di costruzione del nuovo ospedale dell’Annunziata di Cosenza. Numerose Associazioni si riuniscono e discutono gli atti e/o le dichiarazioni del Commissario ad Acta per la sanità calabrese, le istituzioni locali si allarmano e aprono contenziosi giudiziari perché nelle scelte vengono ignorate.

Prendo spunto dall’ultimo atto, l’ordinanza della Protezione Civile Nazionale, Ocdpc 1133 del 13 marzo 2025, con la quale viene dichiarata emergenza (Nazionale!) la costruzione di vari ospedali in Calabria e viene assegnato il compito di edificarli al Commissario ad acta per la sanità, Roberto Occhiuto.

A lui viene affidata la gestione dell’intero pacchetto, dalla scelta dei siti, appalti, ecc., fino alla realizzazione dei vari ospedali (Sibaritide, Vibo Valentia, Piana di Gioia Tauro, Locri, il Gom di Reggio Calabria, l’Asp di Reggio Calabria, Cosenza, l’Azienda ospedaliero universitaria di Catanzaro e Asp di Crotone).

Occhiuto il 7 marzo u.s. aveva chiesto al governo di considerare “emergenza da Protezione Civile” la costruzione degli ospedali in Calabria, richiesta immediatamente esaudita con la delibera del Consiglio dei Ministri dello stesso 7 marzo 2025.
Intanto va subito detto che la spesa per la costruzione di quelle strutture sarà superiore a un miliardo e mezzo di euro. Il Commissario ha sollecitato l’ordinanza della Protezione Civile per saltare gli ostacoli: le contestazioni della popolazione (il fermento a cui accennavo in apertura), i contrasti delle amministrazioni locali e i cavilli burocratici.

Infatti, negli atti inerenti questi ospedali ci sono passaggi poco chiari, ad esempio, a Crotone la delibera per il nuovo ospedale è stata fatta da un commissario che era fuori dai termini di scadenza del mandato, a Cosenza Occhiuto indica un sito sgradito alla popolazione e persino contestato dal comune. È di questi giorni, infatti, l’iniziativa del Comune di Cosenza di adire alla magistratura ordinaria contro la linea del Commissario che, senza valide motivazioni, cancella il sito di Vaglio Lise precedentemente scelto per il nuovo ospedale, e indica il sito di Arcavacata.

Il governo e la Protezione Civile hanno accettato la proposta di considerare emergenza la costruzione degli ospedali, per motivi semplici: 1) Ci sono le risorse finanziarie per costruirli e bisogna che vengano gestite da amici e non da eventuali avversari politici. La cifra è considerevole. 2) Le urgenze spesso si creano per opportunità politica, per evitare i controlli o le contestazioni. Qualcuno ricorderà che nel governo Berlusconi venne inserita come emergenza la festa di San Giuseppe da Cupertino (epoca di Bertolaso alla Prociv), nessuno ne spiegò i motivi.

Chiediamoci, però, se la costruzione dei nuovi ospedali sia la terapia giusta che risolverà i problemi della sanità in Calabria. Certamente gli operatori preferiranno lavorare in un ospedale nuovo, con spazi meglio organizzati ed efficaci, piuttosto che nelle vecchie strutture. La buona sanità, però, è principalmente organizzazione e risorse umane.

La mia personale risposta alla domanda è no, soprattutto perché le scelte della logistica vengono effettuate in conflitto con la popolazione e le istituzioni locali.

Bisognerebbe analizzare un secondo punto importante, valido soprattutto per il costruendo ospedale di Cosenza, dove è nata l’esigenza di cliniche universitarie per il Corso di laurea in Medicina.

Per evitare che nasca anche un conflitto tra gli operatori ospedalieri e quelli universitari, le cliniche devono entrare in unica azienda università-ospedale, onde evitare il grave errore commesso a Catanzaro negli anni ’80, quando nacque la Facoltà di Medicina e vennero create due aziende. Iniziò allora, infatti, un conflitto tra le due strutture sanitarie, durato oltre 40 anni e ancora non sopito, che ha danneggiato l’efficienza della sanità nella città.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 febbraio 2025
Foto di djedj da Pixabay

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

Colpisce vedere i sindaci dei comuni di montagna, in fascia tricolore, manifestare davanti alla sede della Direzione dell’ASL in segno di protesta perché sono nell’impossibilità di garantire l’assistenza medica necessaria nei di casi urgenza-emergenza ai cittadini che vivono nei loro comuni.

Avrebbe dovuto essere con loro anche la sindaca di San Giovanni in Fiore, nonché Presidente della Provincia e dell’ANCI regionale, perché nel comune da lei amministrato recentemente s’è verificato un gravissimo episodio di mancata assistenza proprio in emergenza. Non era presente e non ha fatto conoscere la sua opinione.

Il tema più cogente per chi ha la responsabilità organizzativa della sanità, se si vuol davvero migliorare l’assistenza in Calabria, è, al di sopra di tutto, garantire una risposta adeguata alle urgenze-emergenze nel territorio. La popolazione italiana, come tutta quella occidentale, ha un’età media elevata, è sottoposta a un ritmo di vita altissimo e stressante, pertanto le patologie e gli eventi cardio-vascolari sono frequentissimi e insidiosi, si manifestano spesso imprevisti e richiedono risposte tempestive.

Purtroppo queste risposte non ci sono e la tempestività fa difetto. L’abbiamo visto nel tragico caso di San Giovanni in Fiore. I sindaci nel Testo Unico degli Enti Locali sono indicati come responsabili della salute dei cittadini, pertanto oggi denunciano a chi è preposto all’organizzazione sanitaria di non essere in grado di rispondere al mandato per quanto concerne le emergenze-urgenze nei comuni montani, considerata l’orografia particolare del territorio, la distanza dal Pronto Soccorso dell’ospedale hub della provincia, il disagio dovuto ai fattori climatici invernali e, soprattutto, perché non ci sono nelle vicinanze punti di soccorso adeguati.

Compete ai responsabili dell’organizzazione sanitaria della provincia e al Commissario Regionale della Sanità mettere quegli amministratori in condizione di esaudire le richieste dei cittadini, anche perché la legge prevede che i dirigenti della sanità consultino i sindaci dei comuni prima di redigere gli atti aziendali. Li hanno consultati? Hanno raccolto i loro suggerimenti?

A fronte di un problema così importante, dopo il tragico episodio di San Giovanni in Fiore, ho letto recentemente una strana iniziativa da parte del dirigente organizzativo: ha ordinato ai medici del Pronto Soccorso della struttura, in caso di chiamate dal territorio, di abbandonare la postazione e salire sull’ambulanza così da medicalizzare il soccorso. Un modo bizzarro, se non quasi disperato (o incompetente?) di affrontare il problema, perché così si lascia sguarnito del medico un importante servizio.

Nessuno, invece, si preoccupa di migliorare il livello di gestione della Centrale Operativa, a cui compete il ruolo d’individuare il grado d’urgenza caso per caso e decidere la medicalizzazione delle ambulanze. Come si può migliorare la sanità in Calabria se non si parte dal sistema organizzativo di base e si forniscono le necessarie garanzie ai cittadini che vivono nei paesi più lontani?

La recente pandemia ha messo a nudo la terribile fragilità organizzativa dell’assistenza d’urgenza nei territori e, infatti, l’Unione Europea ha provveduto a erogare nel PNRR fondi per potenziarla con la creazione delle case di comunità. Non ve n’è ancora traccia, anzi, oggi quasi non se ne parla più e si teme che i fondi erogati vengano distratti per altri obiettivi.

Viene, invece, annunciato l’arruolamento di luminari specialisti che opereranno nell’ospedale hub, e facendo intendere questa operazione come la principale soluzione dei problemi. I dirigenti della sanità e il Commissario Regionale hanno chiesto ai cittadini delle montagne se è prioritario chiamare illustri specialisti, certamente di gran livello professionale, o se è prioritario affrontare l’assistenza sanitaria nel territorio, soprattutto per le urgenze-emergenze?

E non voglio qui affrontare il tema della funzione attuale dei medici di famiglia nel territorio, depauperati di professionalità individuale. Occorrerebbe ampio spazio.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025
Foto di ADMC da Pixabay

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

È encomiabile e di grande interesse l’intervista del Direttore Massimo Razzi al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sui problemi della sanità in Calabria. Ora sappiamo come pensa, e, pertanto, voglio analizzare le inesattezze significative che ha fatto passare, inerenti alcune inefficienze assai evidenti. Provo a schematizzare

1)Sulla mancanza del medico a bordo nelle ambulanze, prendendo spunto dal triste caso accaduto a San Giovanni in Fiore, dice che nelle altre città d’Italia solo nel 23% delle ambulanze c’è il medico a bordo. È una notizia esatta ma fuorviante, e solo un tecnico avrebbe potuto ribattere in quella sede. Di tecnici ce n’era uno solo, il Dottor Miserendino, che era dalla parte del Presidente e non aveva alcun interesse a riprendere il tema.

Nelle città dove il Pronto Soccorso e i dipartimenti Urgenza-Emergenza funzionano, esiste una Centrale Operativa gestita da tecnici di alta formazione in grado di selezionare le risposte alle chiamate e decidere se è necessario il medico a bordo. Noi sappiamo dalla statistica che in oltre il 70% dei casi le chiamate al 118 sono fatte per patologie che non richiedono il medico a bordo e la Centrale Operativa lo comprende al telefono:
a) dalla distanza del paziente da soccorrere dal Pronto Soccorso ospedaliero, che deve essere raggiungibile entro un breve tempo stabilito da parametri;
b) da due o tre domande a chi sta chiamando. Quei tecnici sono in grado di decidere se inviare il medico, che, però, è sempre disponibile.

Le Centrali Operative calabresi hanno questa capacità di selezionare i casi? L’hanno fatto per il caso di San Giovanni in Fiore? È questa la mancanza. Il medico del Pronto Soccorso aveva richiesto l’ambulanza medicalizzata, che non c’era. Occhiuto non ne fa cenno.

2)Il Presidente accusa carenza di medici nelle strutture di Pronto Soccorso e Urgenza. È un problema reale in tutta l’Italia, perché i medici d’urgenza sono pagati poco a fronte delle responsabilità che si assumono e per il lavoro usurante che svolgono. L’intervistatore chiede perché la Regione non paghi di più. Il Presidente risponde che non può, deve rispettare la legge nazionale. È inesatto.

Per la legge Bindi le aziende sanitarie ogni anno dovrebbero predisporre la distribuzione di budget per ogni settore, compreso Emergenza-Urgenza, e questo viene calcolato sulla base dello strumentario necessario, il materiale di consumo e l’organico teorico previsto per il buon funzionamento. In altri termini, se per un settore è previsto un organico di 10 operatori e ce n’è disponibile solo la metà, significa che circa il 50% del budget stabilito non viene speso. Potrebbe essere usato, allora, per pagare di più quelli che lavorano.

3)La legge Bindi consente alle aziende di dividere il budget previsto per gli operatori in una quota di retribuzione base e una quota legata a incentivi. Quest’ultima dovrebbe essere condizionata dalla realizzazione di progetti dettagliati assegnati d’ufficio o scelti dagli operatori stessi. Il Presidente non ha fatto alcun cenno alla rendicontazione degli incentivi, che dovrebbero emergere dai bilanci annuali. Quali incentivi sono stati assegnati? Ci sono i bilanci?

4)Siamo tutti felici se la Calabria esce presto dal Commissariamento, anche se non è prevista l’uscita dal piano di rientro. Il grande problema nasce proprio dal piano di rientro che costringe le aziende a stringere i cordoni della borsa fino a stritolare l’efficienza della sanità. Intanto, l’obiettivo primario dovrebbe essere ridurre l’ospedalizzazione fuori regione e individuare gli strumenti per raggiungere questo fine. Ma osservando come vanno le cose non si uscirà mai dal piano di rientro. Il Presidente non fa alcun accenno all’emigrazione sanitaria anche per patologie di basso profilo, che continua a determinare l’emorragia delle risorse.

5)L’ultimo punto dell’intervista ha lasciato tutti perplessi, il rapporto università ospedale. La Facoltà di Medicina a Cosenza ora esige giustamente la creazione di un policlinico. Il Presidente non spiega come intende affrontare il problema. Individua il Rettore dell’Unical come l’uomo di fiducia col mandato di creare le cliniche. Bisogna allora fare due obiezioni:

a) il Rettore non è un tecnico della sanità, quindi è assolutamente improprio che abbia il mandato di gestire la creazione delle cliniche universitarie. Viene individuato solo come fiduciario del Presidente della Regione, e la cosa si presta a interpretazione politica e/o ispirata a interessi non specificati. L’unico tecnico che avrebbe la competenza per la creazione del policlinico dovrebbe essere il Preside della Facoltà di Medicina. Il Presidente non ne fa cenno.

b) Come vede il Presidente il rapporto Università- Ospedale a Cosenza? Lui certamente sa che quando, negli anni ’80, venne creata la Facoltà di Medicina a Catanzaro, iniziò un duro conflitto tra l’Ospedale e l’Università durato oltre 40 anni, responsabile di inefficienze e di mancato sviluppo di entrambe le aziende.

Nell’intervista Il Presidente Occhiuto non fa cenno a come sarà impostato questo rapporto, che, invece, è una chiave di volta per risollevare davvero la sanità a Cosenza, dove ci sono già segnali di preoccupazione per il destino dell’Annunziata.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 febbraio 2024

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

L’assegnazione di letti a pagamento al reparto di chirurgia toracica da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza va contro la ripresa della sanità calabrese, che è agli ultimi posti in Italia per la risposta al fabbisogno della popolazione di prestazioni routinarie e specialistiche. Anzi, è una rapina alla sanità pubblica. La spiegazione dei dirigenti dell’Azienda, che per comodo chiamano in causa la legge Bindi, è un balbettio di mala interpretazione della legge stessa. Provo a spiegare la rapina.

Secondo le linee guida nazionali e internazionali della branca specialistica e quelle degli anestesisti e rianimatori sempre coinvolti per necessità, la chirurgia toracica nella maggioranza dei casi richiede assistenza ai pazienti operati nel reparto di terapia intensiva (TI).

Tutti ricordano il serio problema dell’esiguità del numero dei posti letto nelle terapie intensive durante la pandemia del Covid19. E per quanto attiene ai parametri minimi dell’adeguamento alle normative nazionali e ancor più europee in merito al numero di letti di TI, la Calabria era agli ultimi posti nel quadro nazionale.

I parametri minimi europei prevedono che siano attivi 14 letti di TI per ogni 100.000 residenti (in Germania questo parametro è rispettato). In Italia siamo ancora attorno ai 9-10 letti e alcune regioni lentamente si stanno adeguando. In Calabria siamo al di sotto di 7 letti di TI per 100.000 abitanti.

Addirittura durante la pandemia eravamo sotto il 50% dei letti di TI attivi. I parametri richiesti valgono ovunque e non sono assegnati a caso, ma calcolati e codificati per fornire garanzie necessarie a un’assistenza adeguata. Là dove non vengono rispettati, ne scaturisce mala-assistenza che diventa spesso mala-sanità.

L’Azienda Ospedaliera di Cosenza (ospedale Hub della provincia) dovrebbe avere almeno 9-10 letti per ogni 100.000 abitanti residenti, i quali sono complessivamente 750.000. C’è un numero di letti di terapia intensiva e/o sub-intensiva adeguato all’esigenza dell’intero territorio provinciale, assommando a quelli dell’Annunziata anche i sub-intensivi di Castrovillari e Corigliano Rossano? No, non c’è, siamo molto lontani.

Né si può annunciare l’allargamento frettoloso degli spazi e acquisire lo strumentario necessario, perché le terapie intensive non sono limitate alla logistica e agli strumentari, ma per protocollo richiedono un organico medico e infermieristico ultra-specialistico, che non c’è.

La buona assistenza è legata all’adeguamento dell’organico, che impone parametri precisi dettati dalle associazioni nazionali e internazionali degli anestesisti e rianimatori: un medico specialista in rianimazione e TI in turno H24 per non più di 8 pazienti, un infermiere in turno H24 per non più di 2 pazienti.

L’organico attuale in servizio è molto lontano dai parametri richiesti. Per addestrare questi specialisti occorrono anni. È evidente, allora, che se vengono assegnati dei posti-letto (a pagamento) al Reparto di chirurgia toracica, i pazienti che ne fruiranno richiederanno quasi sempre un ricovero in TI, e i pochi letti di TI disponibili verranno sottratti all’attività destinata al servizio pubblico.

Questa manovra ricade inevitabilmente anche sugli altri reparti di chirurgia per gli interventi chirurgici che richiedono assistenza intensiva, allungando, ovviamente, le liste di attesa anche per gli interventi di chirurgia oncologica salvavita

da “il Quotidiano del Sud” del 27 gennaio 2025

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Il governo sta attuando l’eutanasia del sistema sanitario pubblico in Calabria già collassato e moribondo da anni. Occorrerebbero terapie rianimatorie. Ma il Governo, per calcoli cinici, con l’autonomia differenziata delle Regioni, ha deciso di lasciar morire il sistema, fornendo spiegazioni false e ipocrite. È l’ultimo atto di un procedimento durato almeno due decenni. La sanità pubblica in Calabria morirà inevitabilmente se la riforma dovesse entrare in vigore.

Il principio della fine della sanità pubblica calabrese risale all’emanazione delle leggi di riordino del sistema sanitario nazionale, legge 592/92, legge 517/93, e legge 229/99. Vennero definite strategiche e miranti al controllo della spesa pubblica. Imponevano l’obbligo inderogabile del pareggio di bilancio tra entrate e uscite, nonostante si tratti di erogazioni di prestazioni la cui spesa è sostenuta con finanze pubbliche. Quelle leggi imponevano, inoltre, la revisione dei presidi ospedalieri identificando quali tenere attivi e con quali funzioni.

Le Regioni del nord dell’Italia si sono lentamente adeguate, tanto che entro il 2000 quasi tutte si sono avvicinate o hanno raggiunto il pareggio di bilancio. All’epoca, lavoravo in Emilia-Romagna e, in pochi anni, ho assistito al superamento di 32 ospedali in regione, trasformati ad hoc in strutture sanitarie con funzioni diverse.

La Calabria ha sempre avuto carenza di lavoro per i giovani, i quali migravano per la gran parte verso il nord dell’Italia. Quelli che restavano si affidavano agli amici politici locali. Il sistema sanitario è un grande serbatoio di consensi e i politici si battevano per accaparrarsi la gestione delle strutture sanitarie, usate come strumenti di potere, fornendo posti di lavoro, con strettissimo rapporto clientelare.

Fino a pochi anni fa, i dipendenti degli ospedali della Calabria, dalle posizioni apicali e gestionali fino ai ruoli più modesti, venivano assegnati con concorsi pilotati e ciascun dipendente parteneva a questo o quel potente politico, che l’aveva collocato al lavoro.
Le leggi di riordino del sistema sanitario disturbavano i potentati locali perché restringevano il campo d’azione e il numero dei posti da assegnare.

Pertanto, i politici calabresi hanno ritardato il più possibile l’applicazione fomentando i campanilismi locali, e le riforme non sono state completamente attuate e il riordino dei presidi non è mai entrato del tutto a regime. Le leggi prevedevano la trasformazione di 18 ospedali ad altre finalità, modifica mai realizzata completamente. Questo rilievo non significa che io sia d’accordo con la chiusura dei 18 ospedali, spiegherò più avanti come dovrebbero essere utilizzati i presidi territoriali.

Il sistema di arruolamento clientelare degli operatori ha determinato un abbassamento del livello qualitativo delle prestazioni, sul piano tecnico-scientifico e su quello umanitario, dando origine a numerosi episodi di malasanità o mala-amministrazione. Da qui è nato il fenomeno di sfiducia nei confronti della sanità pubblica calabrese che si è pian piano radicato nella società e parallelamente ha favorito lo sviluppo di strutture sanitarie private convenzionate.

Gli episodi di malasanità a cui ho accennato hanno funzionato da detonatore di un sistema poco trasparente, forse azionato anche da leve nascoste di aziende sanitarie del nord, complici i politici.

La sfiducia verso la le strutture pubbliche ha favorito la sanità privata. Per chiarire meglio questo punto ricordo che un’amministrazione regionale della Calabria avallò l’accreditamento di oltre 160 strutture private negli ultimi due mesi di legislatura, in vista delle elezioni, sottovalutando il necessario accertamento dell’esistenza dei parametri obbligatori previsti dalla legge.

Grazie all’emigrazione dei giovani, quasi ogni famiglia calabrese ha un congiunto o amici che vivono e lavorano nelle regioni del centro-nord. Dal 2000 a oggi, oltre 2 milioni di persone, dei quali 1 milione di giovani, hanno abbandonato il sud dell’Italia. Quindi, se una persona necessita di una prestazione sanitaria, si rivolge alle strutture sanitarie delle regioni del centro-nord tramite i congiunti o amici che là vivono.

Lo conferma il bilancio annuale regionale della sanità: circa il 40% della spesa per prestazioni ospedaliere ai residenti in Calabria sono effettuate in altre regioni, per una somma di circa 300 milioni di euro. Ogni anno la Calabria versa o s’indebita con altre Regioni del centro-nord per la cifra di circa 300 milioni di euro per prestazioni sanitarie.

Ovviamente, nel bilancio della Calabria il debito è considerato spesa, mentre le Regioni creditrici mettono il credito in attivo nel loro bilancio che, così, raggiunge più facilmente il pareggio. È naturale pensare che quelle regioni favoriscano l’emigrazione passiva della sanità calabrese e la sfiducia dei calabresi nella loro struttura sanitaria.

Se consideriamo le spese annuali per prestazioni presso le strutture private, oltre che per ospedali pubblici, aggiunte alle spese annuali per assistenza ospedaliera presso altre regioni, al netto di mala-amministrazione spicciola, di malaffare e sprechi, si capisce perché il debito del sistema sanitario calabrese sia andato fuori controllo e sia quasi impossibile contabilizzarlo.

Le leggi citate prevedevano l’esigenza di riportare il sistema in equilibrio e il Governo dispose il piano di rientro dal debito, affidando la gestione del sistema sanitario calabrese a Commissari nominati dal Ministro della Salute. Dal 2010 al 2021 la sanità calabrese è stata gestita da Commissari tecnici. Da tre anni direttamente dal Governatore.

I Commissari per oltre 11 anni hanno bloccato assunzioni e turn-over del personale: gli operatori pensionati non vengono rimpiazzati, e in pochi anni s’è registrato un gravissimo depauperamento delle risorse umane, a cui s’è aggiunto l’abbandono di molti operatori che dalle strutture pubbliche sono passati al privato o emigrati in altre regioni. In qualche branca il depauperamento dell’organico ha raggiunto livelli quasi incompatibili con il normale funzionamento, ad esempio nella Medicina d’Urgenza e di Pronto Soccorso. Il depauperamento delle risorse umane, di conseguenza, ha incrementato la sfiducia della popolazione, che continua a ricorrere alle regioni del nord per prestazioni sanitarie.

Vediamo ora quale terapia si potrebbe applicare per salvare la moribonda Sanità in Calabria.
La proposta che avanzo qui potrebbe essere adottata non solo dalla Calabria, ma dall’intero Paese. Perché questa sciagurata politica liberista sulla Sanità, riguarda tutti. Mi piace, però, parlare della Calabria, che oggi è la vittima sacrificale di questo sistema.

a)È fondamentale e primario recuperare la medicina del territorio. I medici di medicina generale, oggi in rapporto convenzionale con il Sistema sanitario pubblico, retribuiti, quindi con finanze pubbliche, ma non direttamente dipendenti dalle ASL, svolgono un ruolo che svilisce la professione medica. Sono raramente chiamati a curare in prima persona. Per l’andazzo inveterato, i pazienti si fidano poco, pertanto, anche per piccole prestazioni si rivolgono alle strutture sanitarie pubbliche o direttamente agli specialisti. Il risultato è l’intasamento delle strutture. Eppure è accertato che il 70% delle richieste ai Pronto Soccorso potrebbe essere trattato con successo nel territorio dai Medici di famiglia. Questi potrebbero usare direttamente i Presidi Ospedalieri semi-abbandonati e trattare direttamente i loro pazienti. Ecco, allora, che i presidi ospedalieri quasi abbandonati potrebbero rinascere.

b)I Presidi semi-abbandonati tornerebbero al pieno splendore. D’altra parte, il PNRR ha già previsto una spesa per il recupero della Medicina del territorio sotto la dicitura “Creazione di Case di Comunità”. Le strutture esistono e andrebbero solo incrementate per i territori più periferici.

c)Gli Ospedali Hub vanno ridisegnati sul territorio. In Calabria al momento sono solo 5, uno per provincia. Sono pochi. Considerato il territorio molto vasto e la geografia fisica, ritengo ne occorrano almeno 8.

d)Va rivisto e rimodernato il rapporto con le strutture sanitarie universitarie, che vanno considerate strutture Ospedaliere Hub in un’unica gestione territoriale.

e)Visto che è impossibile portare la Calabria al bilancio col piano di rientro, è necessario cancellare il debito e ripartire da zero.

La rianimazione della moribonda sanità pubblica necessita di una NUOVA RIFORMA che riveda il sistema di arruolamento degli organici, lo schema delle competenze, i rapporti interpersonali e inter-strutture, l’utilizzo dei presidi, i rapporti con l’Università e le Specializzazioni. Così forse si restituisce la fiducia alla popolazione.

C’è la volontà politica? È una domanda alla destra adesso al governo, ma anche alla sinistra, che sull’argomento è balbettante.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 gennaio 2025

Foto di StockSnap da Pixabay

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

Bene ha fatto questo giornale a mettere in discussione la classifica del Sole 24 ore, non per uno spirito campanilistico, ma perché ogni trasformazione della qualità in quantità va osservata criticamente. Le classifiche che riguardano fenomeni qualitativi vanno sempre prese con le pinze, mai come verità scientifiche. Nel caso della qualità della vita diventa ancora più difficile trovare una valutazione oggettiva, dei pesi giusti tra i diversi indicatori, e stabilire quali indicatori siano attendibili e quali no.

Ci sono dei dati incontrovertibili come gli insoluti bancari, la percentuale dl pensionati sulla popolazione e il livello della pensione media, il tasso di fertilità e mortalità, il numero di rapine e furti, di incidenti stradali, di consumi pro-capite, ecc. Altri dati pur essendo importanti sono problematici.

Ad esempio, il reddito pro-capite. Mi viene in mente il caso della Guinea Equatoriale che in base al reddito pro-capite è tra i Paesi più ricchi dell’Africa sub-sahariana, ma se si guarda la distribuzione del reddito, usando l’indice di Gini, allora si scopre che è anche il paese africano con il massimo di diseguaglianza sociale, con la famiglia reale che concentra nelle sue mani maestose quasi il 90 per cento del reddito nazionale.

Così se si guardano i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord Italia ed Europa, si ha un dato che non risponde alla realtà perché molti giovani lasciano la residenza nella terra natìa anche se da diversi anni vivono nel Centro-Nord Italia.

Ancora più difficile è la valutazione della qualità della vita che è strettamente legata alla percezione dei cittadini, ed è il frutto di diversi fattori che entrano in gioco. E un po’ come la felicità. Mi fanno sorridere le classifiche sulla “felicità nei diversi Paesi del mondo” che sono basati su risposte campionarie sulla percezione della felicità. Niente di più etereo.

Certo, siamo tutti gli italiani molto più felici dei palestinesi o sudanesi o congolesi che sono tragicamente travolti dalle guerre in corso. Né d’altra parte la felicità è legata alla crescita economica o al livello del Pil: sono più felici gli statunitensi o i messicani? Secondo queste classifiche internazionali sono i messicani che, malgrado livelli notevoli di povertà ed emarginazione, sanno godersi di più le poche cose materiali che gli offre la vita. Sarà!?

Tornando alla vivibilità delle province italiane la controclassifica che è stata pubblicata su questo quotidiano alla vigilia di Natale mette nelle prime dieci province tutte città del Centro-Nord di piccola-media dimensione. Devo dire che questa è la percezione che abbiamo avuto, chi scrive con Pino Ippolito, nel nostro “Viaggio in Italia”.

E’ un fatto che la qualità della vita nelle grandi città, che troviamo agli ultimi posti della controclassifica, è oggi entrata in crisi: affitti insostenibili, overturismo, microcriminalità, inquinamento, anomia (già denunciata da Emile Durkheim alla fine dell’XIX secolo), ecc. Eppure molti giovani meridionali quando devono scegliere una università preferiscono quelle delle grandi città anche se il costo della vita è più alto, i disagi maggiori, ma ci sono molte altre occasioni di svago e opportunità culturali e lavorative che compensano.

Viceversa, un anziano con una pensione minima o bassa vive meglio in un paesino dell’Aspromonte che in una periferia di una metropoli dove rimane confinato nella sua solitudine, privo di quelle relazioni amicali e parentali che ancora riscaldano le vene nei piccoli centri quando non vengono abbandonati.

Quindi quando parliamo di qualità della vita nelle città dovremmo costruire, su base campionaria, diverse classifiche in base al dato anagrafico, alla classe sociale, al livello culturale di una determinata popolazione. Sarebbe auspicabile un lavoro del genere anche se è probabilmente insufficiente a modificare il nostro immaginario. Infatti, è determinante la narrazione che ne fanno i media. In questo Milano è bravissima.

Continua a presentarsi al mondo come la città della moda, delle innovazioni tecnologiche, della finanza e della cultura. Tutto vero. Ma esiste anche una gran parte della popolazione che fa fatica a trovare un lavoro non precario, a guadagnare per consentire una vita dignitosa, che vive in anonime periferie con la paura del vicino di casa, dell’immigrato, delle bande giovanili. Su questa paura diffusa tra i ceti popolari l’attuale governo ha costruito la sua larga base elettorale riuscendo a costruire un immaginario che non ha niente a che fare con la realtà.

Pochi sanno che l’Italia, insieme alla Grecia, è il Paese con la più bassa percentuale di omicidi, che il Paese che accoglie più immigrati in percentuale della popolazione è la Germania, seguita da Francia, Grecia (sic!) ed altri Paesi del Nord Europa. Invece i mass media ci parlano di “invasione” e di un Europa che ci lascia soli di fronte a questo arrivo dei barbari. Pochi mass media raccontano la verità: la gran parte degli immigrati che arrivano in Italia transitano nei paesi del Centro-Nord Europa.

Lo stesso, fatti dovuti distinguo, vale per la Calabria. Mettendo il Sole 24 ore la Calabria agli ultimi posti della classifica nazionale sulla qualità della vita nelle province, non fa che confermare un immaginario, basato in parte sui dati di fatto e in parte su un pregiudizio. Per onestà intellettuale bisognerebbe parlare di “percezione della qualità della vita” e non di un dato scientifico, intervistando con un campione stratificato, per età, sesso e classe sociale, i cittadini delle diverse province italiane.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 dicembre 2024

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Finanziare il Ponte di Messina e togliere le risorse per completare i lavori sui nodi ferroviari di Reggio Calabria, Catania e Palermo. Soddisfare le velleità e gli interessi che fanno a capo al vicepremier leghista e ministro dei trasporti e non completare le opere la cui mancanza rende faticosa la vita di chi aspetta la velocizzazione della linea tra Catania e Siracusa o il «potenziamento» della linea Sibari-Catanzaro Lido-Lamezia Terme.

Non è un paradosso, è un progetto voluto dal governo Meloni e in particolare dal vicepremier leghista Matteo Salvini. Una volta di più è diventato chiaro quando è passato l’emendamento della Lega alla legge di bilancio che sarà votata venerdì dalla Camera e votata definitivamente dal Senato il 28 o il 29 dicembre. Lungamente annunciato e infine approvato l’altra notte nella commissione Bilancio della Camera, l’emendamento che porta la prima firma del capogruppo leghista Riccardo Molinari aumenterà le risorse per il Ponte sullo Stretto di 1,3 miliardi di euro prendendo le risorse dai Fondi per lo sviluppo e la coesione. Quest’ultimo è stato rifinanziato dalla manovra con 3,88 miliardi, ma quasi la metà di questi soldi sono stati destinati alla mega-opera dedicata al culto di Salvini e al festante codazzo degli interessi che rappresenta.

L’emendamento approvato cambierà sensibilmente la distribuzione dei costi: quelli a carico dello Stato scendono a 6.962 miliardi mentre balzano a 4.600 miliardi i costi sui fondi di coesione delle amministrazioni centrali. Resta il fatto che i fondi di coesione (1,6 miliardi) che avrebbero dovuto essere usati dalle regioni Calabria (1,3 miliardi) e Sicilia (300 milioni) per avere infrastrutture minimamente efficienti sono stati dirottati per costruire un’opera megalomane.

A chi ieri gli ha chiesto dell’aumento delle risorse in più per il Ponte l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini (il Consorzio che farà il Ponte) ha liquidato la faccenda sostenendo «Sono questioni tecniche legate a come il governo stanzia i soldi. Credo siano sistemazioni di ragioneria e non c’è nessuna modifica rispetto a quelli che erano i numeri precedenti, per quanto ne sappia. Chiedete al vicepresidente Salvini se il Ponte si farà. Noi siamo soldati, eseguiamo gli ordini».

Nello stesso emendamento leghista c’è un miliardo in più alla Tav Torino-Lione, più un altro a Ferrovie per le opere del Pnrr. «E neanche un centesimo per le due linee metropolitane di Torino» hanno commentato i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi dei Cinque Stelle.

Per Legambiente il progetto del Ponte sullo Stretto «continua a drenare ingentissime risorse pubbliche». In valori assoluti «i finanziamenti nazionali per il trasporto su ferro e su gomma sono diminuiti da circa 6,2 miliardi del 2009 a 5,2 miliardi nel 2024, ben al di sotto delle necessità e pari a un -36% se si considera l’inflazione degli ultimi 15 anni».

«Come mai per quello i soldi si trovano, mentre per pensioni, sanità, trasporto pubblico non si trovano e anzi i fondi sono stati tagliati? Si vergognino» ha detto Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra. «Il Fondo di sviluppo e coesione dovrebbe essere usato per le infrastrutture davvero urgenti per il Sud, ma viene usato come un bancomat qualunque – ha osservato Pietro Lorefice (M5S) – Ricordo che altre risorse erano state drenate dall’ex “superministro” Fitto per tappare i buchi da lui stesso aperti nel Pnrr, con un taglio di interventi che ha fatto male a paese».

Il Ponte di Messina «è un’opera perfettamente inutile, imposta per la vanagloria politica di Salvini – ha detto Pasquale Tridico (Cinque Stelle) – per mantenere equilibri fragili all’interno del governo Meloni, che considera il Mezzogiorno un mero serbatoio di voti».

Sul Ponte c’è stata una polemica a un question time alla Camera, tra il ministro Gilberto Pichetto Fratin e Bonelli (Avs). Il primo si è difeso dalle critiche di avere fatto «nomine politiche» nella commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale «che è indipendente». Per Bonelli ha «detto il falso» ed è «commissariato da Salvini. State utilizzando i fondi pubblici per foraggiare imprese che non hanno il progetto tecnico validato da nessun organismo dello Stato».

da “il Manifesto” del 17 dicembre 2024

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

La proposta di legge numero 1309 -votata il 21 novembre scorso alla Camera da Pd, Iv, Azione, +Europa e destra- è in discussione, in questi giorni, alla commissione ambiente del Senato e dovrebbe essere votata in aula nelle prossime settimane. Si tratterebbe di un’”interpretazione autentica” delle principali leggi urbanistiche e, sostanzialmente, estende il modo di costruire usato a Milano negli ultimi dieci anni a tutto il Paese.

È stata chiamata “Salva-Milano” ed è la risposta politica alle indagini giudiziarie sull’urbanistica milanese. Nata come un condono per sanare le irregolarità del passato, il “Decreto del Fare” n. 69/2013 del governo Letta, è stata ora trasformata in provvedimento “di interpretazione autentica” che, se approvato definitivamente, imporrà come legge -in tutta Italia e per sempre- la pratica urbanistica seguita a Milano, annullando, in sostanza, le disposizioni che impongono la pianificazione attuativa delle città, a garanzia dei servizi dovuti a tutti i cittadini.

Una pratica, quella milanese, che, del resto, è già stata messa in atto in tutta la Calabria e, in particolare, a Cosenza dove si stanno demolendo piccoli e medi caseggiati per ricostruirvi, al loro posto, enormi e altissimi palazzi in aree già densamente urbanizzate e, spesso, di pregio storico e architettonico.

Questa proposta di legge cambierà radicalmente in peggio il futuro delle nostre città, rendendole sempre più cementificate e più diseguali. Toglierà ai Consigli comunali il potere di controllare che i costruttori e i fondi immobiliari facciano l’interesse pubblico e cioè realizzino, insieme ai nuovi palazzi, anche i necessari servizi per la città: edilizia sociale, parcheggi, marciapiedi, giardini, piste ciclabili, parchi, scuole, biblioteche et cetera.

Grazie a questa proposta di legge -come scrivono i 140 studiosi che hanno firmato una lettera-appello per fermarla- lo spazio urbano sarà occupato da edifici senza un disegno unitario, senza un piano, senza una visione di città, se non quella dei costruttori, degli speculatori edilizi e dei fondi immobiliari. Verrà ampliata a dismisura la categoria della ristrutturazione edilizia, nella quale rientreranno, a maggior ragione, le ri-costruzioni senza alcun rapporto formale e volumetrico con quanto demolito.

In tal modo le demolizioni/ricostruzioni avranno, rispetto alle costruzioni ex novo, oneri concessori molto ridotti perché eseguite in aree già urbanizzate e, di conseguenza, l’enorme risparmio dei costruttori si tradurrà in una drastica riduzione delle entrate e, quindi, delle disponibilità finanziarie dei Comuni per la realizzazione della parte pubblica delle città.

Se dovesse passare questa legge, l’ormai desemantizzata “rigenerazione urbana” si potrà praticare liberamente senza un piano e con oneri ridotti nelle aree già infrastrutturate mentre tutti i cittadini sanno quanto verde, quanti parcheggi, quanta edilizia sociale e quanti servizi come acqua e raccolta dei rifiuti scarseggino, proprio lì dove la città già esiste, soprattutto al Sud ed in Calabria.
La densificazione urbanistica, del resto, fa inevitabilmente salire la domanda di servizi per la cittadinanza e molte città, in particolare quelle meridionali, non se lo possono materialmente permettere già ora.

Questa legge, insomma, impedirà definitivamente, soprattutto nel Mezzogiorno, di promuovere politiche di vera rigenerazione e riqualificazione delle nostre città e delle periferie, ridurrà il verde e i servizi, innescherà dinamiche finanziarie che aumenteranno i prezzi dell’abitare e accresceranno le disuguaglianze nelle nostre città.

Questo provvedimento imporrebbe in tutta Italia un modello neoliberista che vede il pubblico cedere la pianificazione urbana al privato in un momento nel quale le città hanno un estremo bisogno di una strategia pubblica di governo per far riacquistare ai cittadini un indispensabile diritto alla città.

Altro che fusioni di città, bisognerebbe iniziare a fare piani urbanistici davvero a ‘cemento zero’, senza alcuna ‘perequazione urbanistica’, senza nessuna demolizione/ricostruzione con variazione di forme e aumenti di volumetrie, ma con la, vera, ristrutturazione degli antichi edifici dei Centri storici e degli edifici moderni in rovina o fuori norma. Il Consiglio comunale di Cosenza, per esempio, potrebbe fermare l’approvazione del Psc adottato dalla precedente amministrazione e provare a modificarne l’impianto adeguandosi, alla lettera, alle prescrizioni europee del ‘consumo di suolo zero’ e, magari, potrebbe provare ad armonizzarlo con quello, già esistente, di Castrolibero e, soprattutto, con un nuovo Psc che il prossimo Consiglio comunale di Rende appronterà e approverà, da qui a qualche mese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

Per quasi un trentennio l’aeroporto dello Stretto ha vissuto una fase di progressivo abbandono, di riduzione di voli e passeggeri, di declino che sembrava inarrestabile. Ancora all’inizio di quest’anno erano rimasti due collegamenti, per Milano e Roma, ad orari spesso poco praticabili.

Insomma, un aeroporto sempre più marginale, che serviva ormai una strettissima utenza del Comune capoluogo, destinato a chiudere battenti per la sua insostenibilità economica. Improvvisamente, grazie all’accordo con Ryanair promosso dal presidente Occhiuto, l’aeroporto dello Stretto ha ritrovato la sua identità, la sua ragion d’essere iniziale.

Dopo trent’anni sono ritornati i messinesi, e non solo i cittadini del capoluogo, ma un’importante fetta della fascia tirrenica. E sono tornati anche gli abitanti dei Comuni della provincia reggina che ormai da molti anni avevano preso l’abitudine di andare a Lamezia. In breve: questo aeroporto non è stato per caso denominato “Aeroporto dello Stretto” perché il suo naturale bacino di utenza comprende una buona parte delle due città metropolitane, Reggio e Messina, con un potenziale di clienti tra gli ottocentomila e un milione di persone.

Già da questa estate, il collegamento dell’Aeroporto dello Stretto con diverse città italiane ed europee, ha fatto registrare un inedito flusso turistico che ha cambiato l’atmosfera sonnolenta della città dei Bronzi. Un boom turistico che non si era mai visto prima, con alberghi e B&B che sono rimasti stracolmi per tutti i mesi estivi.

Ma, anche per gli abitanti dello Stretto si è aperta la possibilità di raggiungere altre città italiane ed europee in poco tempo e a prezzi abbordabili, una occasione di crescita civile e culturale.

Certo, vanno superati alcuni punti critici che riguardano il collegamento con Messina e quello con i paesi della provincia reggina. Sul primo si è fatto qualche passo avanti ma si può ancora migliorare, mentre rimane fortemente critica la connessione con i Comuni della provincia reggina data la disastrosa situazione dei collegamenti con mezzi pubblici (treni e bus).

Sulla tratta ferroviaria della costa jonica è meglio non parlarne, ma anche i bus privati che debbono fare tante soste impiegano un tempo incredibile per collegare l’aeroporto dello Stretto alla Locride. I miliardi, che questo governo vuole sprecare per un’opera inutile e dannosa come il Ponte sullo Stretto, dovrebbero essere impiegati per risolvere gli atavici problemi del trasporto pubblico in Calabria e Sicilia.

Se governasse il Partito del Buon Senso da tempo si sarebbe agito in questa direzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 14 novembre 2024

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

La legge di bilancio comporterà nel triennio prossimo un taglio agli enti locali di 4 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi colpiranno i Comuni. Contemporaneamente nel prossimo triennio verranno meno i fondi del Pnrr, e si passerà alla fase di restituzione dei 90 miliardi prestati dalla Commissione europea all’Italia che vanno a sommarsi al già pesante debito pubblico.

Allo stesso tempo il quadro internazionale non promette niente di buono con una netta divisione del mercato mondiale in due blocchi sempre più in rotta di collisione. Insomma, è finito il tempo delle vacche grasse e sta per iniziare un lungo periodo di vacche magre. A farne le spese saranno innanzitutto i Comuni e chi li amministra che dovrà far fronte alle proteste dei cittadini che verranno penalizzati da questi tagli.

Il direttore Massimo Razzi in un suo recente editoriale aveva posto con chiarezza il nodo politico da affrontare domandandosi: chi vorrà fare il sindaco nel prossimo futuro? Anche il sottoscritto, scusate l’autocitazione, ha scritto un saggio “Le città ingovernabili” (Città del sole ed. 2016) partendo da alcuni casi concreti. Poi, la pandemia, che ha rilanciato il ruolo dei sindaci e messo in secondo piano il deficit comunale e le varie inefficienze, e successivamente il Pnrr che ha riempito il budget degli enti locali, hanno fatto dimenticare la crisi strutturale di molti enti locali soprattutto nel Mezzogiorno.

Si tratta, infatti, di una crisi strutturale che deriva da tre fattori. Il primo è legato ai debiti degli enti locali che sono cresciuti negli ultimi decenni in tutto il mondo (in Cina, per esempio, in maniera esponenziale). Il secondo ad una legge che impone il pareggio di bilancio in alcuni servizi (come la raccolta rifiuti) e costringe i Comuni in deficit a portare le imposte locali al massimo con gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie a reddito medio-basso.

Infine, la recessione economica che finora è stata occultata grazie a una pioggia di miliardi e che dal prossimo anno emergerà chiaramente mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Sinergicamente questi tre fattori portano a un risentimento popolare, una rabbia che spesso si scarica sul primo cittadino, anche su chi ci mette l’anima per la propria città.

Se questi elementi accumunano diversi Paesi occidentali, e non solo, lo specifico del caso italiano è che abbiamo un debito pubblico pari a oltre il 140 per cento del Pil che comporta un esborso di quasi 100 miliardi l’anno per pagare gli interessi. Una cifra enorme di cui beneficia la rendita finanziaria e non gli investimenti, di cui hanno goduto finora i rentiers e le banche, ma che sta diventando insostenibile.

Da qui la necessità di ridurre il nostro debito pubblico, che non è un capriccio dei burocrati di Bruxelles ma una necessità se vogliamo trovare le risorse necessarie a mantenere il nostro welfare. Purtroppo, tutte le forze politiche hanno finora criticato l’austerity come una mannaia impostaci dai falchi di Bruxelles, mentre la vera domanda è: “quale austerità” praticare, chi deve pagare la riduzione del debito pubblico?

Con questa manovra finanziaria per il 2025 si potevano colpire gli extraprofitti delle banche (che arriveranno quest’anno a circa 20 miliardi), mentre il governo ha scelto di colpire le Università, la scuola e la sanità. Alle banche ha chiesto solo un timido anticipo su tasse future da pagare, in modo da poter dire alla popolazione, ignara di partite di giro, che anche le banche sono state colpite come nel programma del governo e uno dei cavalli di battaglia della Premier. Purtroppo, anche l’opposizione si limita a criticare questa linea di politica economica senza però indicare con coraggio chi dovrebbe essere tassato e chi dovrebbe avere dallo Stato maggiori sussidi, salari e benefici.

Pochi sanno che nei Paesi della Ue la spesa pubblica rappresenta tra il 45 e il 50 per cento del Pil determinando pesantemente nelle fasi recessive una ripartizione tra salari e profitti nella distribuzione del Reddito nazionale. Qualcuno potrebbe anche pensare che una linea di demarcazione tra Destra e Sinistra dovrebbe passare da una netta scelta nelle voci di spesa e entrata dello Stato, dove si capisce quali ceti e classi sociali si vogliono privilegiare o colpire. E magari la cosiddetta Sinistra potrebbe ricordarsi che era nata e fondata sul principio della giustizia sociale, e non solo quando si sta all’opposizione.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 ottobre 2024
Foto di xiaoou dong da Pixabay

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Il mio amico e collega catanzarese Sergio Dragone (ma per tanti anni al lavoro a Cosenza nel Giornale di Calabria diretto da Piero Ardenti) non ha avuto dubbi: lui se potesse – ha scritto- voterebbe no. Io invece, potendo, voterò proprio NO a quel referendum che forse – come dicono in molti -non servirà a nulla, essendo già tutto deciso a tavolino con una procedura arruffona, senza senso e tutta piegata a logiche di potere.

Ma voglio proprio vedere se e come si andrà avanti egualmente se tra un mese e mezzo arriverà una valanga di NO da Cosenza, Rende e Castrolibero! Io intanto vi dico il mio NO in maniera molto semplice e poco intellettualistica se volete e poco politica: voterò NO perché non si cancellano identità, storia, radici, appartenenza in questo modo pasticciato, accelerato, senza un vero coinvolgimento dei cittadini e nemmeno delle istituzioni dei tre comuni.

Senza soprattutto un dibattito che vada a vedere quello che già c’è da decenni e che potrebbe, può, andare avanti e anzi rafforzarsi senza appunto distruggere secoli di storia. Se è vero che Cosenza Rende e Castrolibero sono infatti ormai un’unica cosa dal punto di vista urbanistico e logistico il lavoro da fare sarebbe magari quello di una definitiva unificazione dei servizi primari, un abbattimento dei costi di gestione e altre utility come oggi si chiamano.

Ma non vado avanti su questo terreno perché altri molto più competenti di me in materia di urbanistica lo stanno scrivendo da anni, per ultimo Battista Sangineto su questo giornale.https://www.osservatoriodelsud.it/2024/10/03/altro-fusione-meglio-tre-citta-piccole-misura-duomo-battista-sangineto/

Oltre c’è però il cuore, il senso profondo cioè di una comunità che non può e non deve essere cancellato e mischiato. Questo discorso vale ovviamente per tutte e tre le comunità ma per me cosentino nativo della Massa ancor di più forse. Cioè del cuore vecchio e antico della città, che mi sentirei storpiato in una ammucchiata improvvisa.

Non sono un urbanista nè un esperto di logistica (lo ripeto fino alla noia) e nemmeno uno dei tanti politici di professione che oggi sono per il sì e domani cambiano idea (o viceversa ma il risultato alla fine è lo stesso), ma il mio NO è solo di cuore, di sentimento e di amore.

Troppo poco? Troppo sentimentale? Troppo antico? Troppo antistorico? Sarà tutto questo forse ma una città e una comunità se non vivono anche di quelle cose di che cosa vivono? Che cosa saranno? Che ci saranno oltre i palazzi che già oggi uniscono Cosenza Rende e Castrolibero ? Che ci sarà dentro quei palazzi e dentro quelle case? Pensiamoci un attimo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 ottobre 2024

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Le città sono la rappresentazione materiale dei più importanti conflitti politici, sociali, culturali ed economici del nostro tempo e l’unificazione dell’area urbana di Cosenza è, in Calabria, quella più importante e gravida di significati e interessi politici, economici e sociali.

Da qualche decennio accade che sull’idea di città in troppi si esprimano in libertà tanto da far diventare luogo comune l’idea che la grandezza, la ‘Bigness’ delle città, e delle loro più o meno sterminate periferie-‘sprawl’, garantirebbe alla nostra società, in un mondo di città sempre più grandi e globalizzate, prosperità e benessere. Secondo questa ricetta neoliberista l’agglomerazione urbana farebbe della dimensione in quanto tale (attraverso le economie di scala e gli effetti di rete) un fattore che innescherebbe di per sé il successo delle grandi città.

La grandezza delle città avrebbe il vantaggio di trasformare la dimensione stessa in un motore di creatività attraverso la competitività di produttività, di successo e, dunque, di felicità. La ‘Bigness’ e l’urbanizzazione delle campagne circostanti alle città, invece, non è altro che uno dei tanti modi che il neoliberismo ha trovato per estrarre più ricchezza dalle città sempre più grandi trasformando lo spazio in merce e aumentando, per mano della speculazione edilizia, la diseguaglianza sociale ed economica (Settis 2017).

Per mettere le mani sulla città gli speculatori e la politica si affidano agli urbanisti e all’urbanistica che era nata, come disciplina autonoma, durante la rivoluzione industriale con la vocazione di correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. A partire dagli anni ’80 essa ha perduto, però, la sua originaria vocazione riformatrice per diventare, con le sue competenze giuridiche e tecniche, un potente strumento nelle mani dei governanti, amministratori pubblici, immobiliaristi e, persino, finanzieri, per manipolare e condizionare lo sviluppo delle città e il governo del territorio nella direzione della speculazione, dello sviluppo edilizio infinito e incontrollato (Scandurra 2024).

Un sviluppo incontrollato che, per esempio, a Cosenza si manifesta con le demolizioni/ricostruzioni nella porzione nobile della città otto-novecentesca in Via Rivocati, Corso Umberto, via Parisio, (come denunciato dal Coordinamento ‘Diritto alla città’), ma ora anche l’ecomostro di lusso alto più di 15 piani con ben 19.000 mq. di estensione che vorrebbero costruire lungo via Popilia, mentre a Catanzaro è, persino, più evidente perché si vogliono demolire, addirittura, l’ex Convento della Maddalena (XVI sec.) nonché il Convento della Stella (XVI-XVII sec.) e l’ex Convento di S. Agostino (XVI sec.) per ricostruirli, tutti, sotto forma di residenze per militari e per altre destinazioni d’uso (come denunciato da un appello di Italia Nostra).

La questione dello sviluppo infinito non riguarda solo gli specialisti di sviluppo urbano, di geografia economica, di architettura e urbanistica, ma deve riguardare la politica, soprattutto quella di sinistra, perché riguarda l’interesse generale dei cittadini. In un recente studio multidisciplinare pubblicato sul prestigioso “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, alcuni studiosi europei sostengono che “il successo di una città non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (Engelen, Johal, Salento, Williams 2017).

E se la principale caratteristica di una città bella e buona consiste, come credo fermamente, nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi”, bisogna avere, come già proposto da molti urbanisti e studiosi della città negli anni ’70, città più a misura d’uomo, rifacendosi, per esempio, al modello delle piccole e medie città storiche italiane (La Cecla 2015).

Non capisco, dunque, perché la sinistra politica– o quel che ne rimane a Cosenza, Rende e Castrolibero- non si opponga fermamente alla città unica che si presenta come un’annessione di Rende e Castrolibero alla città capoluogo, configurandosi come un’altra, inutile e ingovernabile, “nebulosa urbana” pensata per ridurre ancor di più lo spazio a merce.

Un’annessione, come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto, che costringerebbe, peraltro, i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini: 1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione 2) il referendum ‘decisivo’ non può avvenire prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala -per altri sei mesi, in tutto due lunghissimi anni- renderebbe l’espressione del voto dei suoi cittadini democraticamente più debole.

Per quel che riguarda il potere esercitato dai tre commissari insediatisi nella Casa comunale di Rende si deve lamentare un abbassamento della tensione democratica perché essi non hanno voluto, in nessun modo, tener conto delle molte, e differenti, istanze avanzate dai cittadini e dalle loro associazioni riguardo ad argomenti importanti quali: la radicale decimazione del verde pubblico, la complessiva riduzione dell’illuminazione delle strade, l’insostenibilità delle piste ciclabili sempre deserte, l’affidamento di beni pubblici come parchi, impianti sportivi o mercatali a privati a titolo gratuito o a prezzi risibili, il disturbo della quiete pubblica provocato da circhi con animali esotici e assordanti luna park nel pieno centro della città, nonché la musica ad altissimo volume proveniente da locali e da sedicenti feste durante 3 settimane in un parco pubblico, addirittura patrocinate dai commissari medesimi, la mancata disinfestazione cittadina mentre si diffonde, in provincia di Cosenza, il contagio del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare.

Non sarebbe meglio, forse, continuare ad avere, nell’area urbana cosentina, tre città, due medio-piccole ed una piccola, per poter governare meglio ambiti territoriali a misura d’uomo e a misura delle limitate capacità di governo dimostrate (se si escludono poche lodevoli eccezioni) dalle Amministrazioni comunali? Non sarebbe, forse, meglio avere tre piccole città che facciano insieme scelte e infrastrutture urbanistiche ed abbiano, questo sì, i servizi essenziali unificati: trasporti, spazzatura, mense e viabilità?

Un’opposizione di merito, la mia, dunque e non, come giustamente lamenta il mio amico Enzo Paolini riguardo a quasi tutte quelle fin qui avanzate, di bassa cucina da ‘politique politicienne’.

Il modello al quale bisognerebbe ispirarsi è proprio quello della piccola e media città storica italiana, quella nella quale si va a piedi, si può andare in bicicletta in un reticolo urbano denso e pluristratificato dal punto di vista funzionale, sociale ed economico, con una corposa densità abitativa ed una armoniosa compattezza architettonica che permette tragitti brevi ed elevata funzionalità sociale.

Un modello che non è solo architettonico e urbanistico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di restituire a tutti il ‘diritto alla città’ perché per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi più competitiva e più di successo di altre, ma che sia un luogo nel quale la vita quotidiana sia più gradevole e più equa per coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 ottobre 2024

Foto di ZENON JUSZKIEWICZ da Pixabay