Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna
La legge di bilancio comporterà nel triennio prossimo un taglio agli enti locali di 4 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi colpiranno i Comuni. Contemporaneamente nel prossimo triennio verranno meno i fondi del Pnrr, e si passerà alla fase di restituzione dei 90 miliardi prestati dalla Commissione europea all’Italia che vanno a sommarsi al già pesante debito pubblico.
Allo stesso tempo il quadro internazionale non promette niente di buono con una netta divisione del mercato mondiale in due blocchi sempre più in rotta di collisione. Insomma, è finito il tempo delle vacche grasse e sta per iniziare un lungo periodo di vacche magre. A farne le spese saranno innanzitutto i Comuni e chi li amministra che dovrà far fronte alle proteste dei cittadini che verranno penalizzati da questi tagli.
Il direttore Massimo Razzi in un suo recente editoriale aveva posto con chiarezza il nodo politico da affrontare domandandosi: chi vorrà fare il sindaco nel prossimo futuro? Anche il sottoscritto, scusate l’autocitazione, ha scritto un saggio “Le città ingovernabili” (Città del sole ed. 2016) partendo da alcuni casi concreti. Poi, la pandemia, che ha rilanciato il ruolo dei sindaci e messo in secondo piano il deficit comunale e le varie inefficienze, e successivamente il Pnrr che ha riempito il budget degli enti locali, hanno fatto dimenticare la crisi strutturale di molti enti locali soprattutto nel Mezzogiorno.
Si tratta, infatti, di una crisi strutturale che deriva da tre fattori. Il primo è legato ai debiti degli enti locali che sono cresciuti negli ultimi decenni in tutto il mondo (in Cina, per esempio, in maniera esponenziale). Il secondo ad una legge che impone il pareggio di bilancio in alcuni servizi (come la raccolta rifiuti) e costringe i Comuni in deficit a portare le imposte locali al massimo con gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie a reddito medio-basso.
Infine, la recessione economica che finora è stata occultata grazie a una pioggia di miliardi e che dal prossimo anno emergerà chiaramente mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Sinergicamente questi tre fattori portano a un risentimento popolare, una rabbia che spesso si scarica sul primo cittadino, anche su chi ci mette l’anima per la propria città.
Se questi elementi accumunano diversi Paesi occidentali, e non solo, lo specifico del caso italiano è che abbiamo un debito pubblico pari a oltre il 140 per cento del Pil che comporta un esborso di quasi 100 miliardi l’anno per pagare gli interessi. Una cifra enorme di cui beneficia la rendita finanziaria e non gli investimenti, di cui hanno goduto finora i rentiers e le banche, ma che sta diventando insostenibile.
Da qui la necessità di ridurre il nostro debito pubblico, che non è un capriccio dei burocrati di Bruxelles ma una necessità se vogliamo trovare le risorse necessarie a mantenere il nostro welfare. Purtroppo, tutte le forze politiche hanno finora criticato l’austerity come una mannaia impostaci dai falchi di Bruxelles, mentre la vera domanda è: “quale austerità” praticare, chi deve pagare la riduzione del debito pubblico?
Con questa manovra finanziaria per il 2025 si potevano colpire gli extraprofitti delle banche (che arriveranno quest’anno a circa 20 miliardi), mentre il governo ha scelto di colpire le Università, la scuola e la sanità. Alle banche ha chiesto solo un timido anticipo su tasse future da pagare, in modo da poter dire alla popolazione, ignara di partite di giro, che anche le banche sono state colpite come nel programma del governo e uno dei cavalli di battaglia della Premier. Purtroppo, anche l’opposizione si limita a criticare questa linea di politica economica senza però indicare con coraggio chi dovrebbe essere tassato e chi dovrebbe avere dallo Stato maggiori sussidi, salari e benefici.
Pochi sanno che nei Paesi della Ue la spesa pubblica rappresenta tra il 45 e il 50 per cento del Pil determinando pesantemente nelle fasi recessive una ripartizione tra salari e profitti nella distribuzione del Reddito nazionale. Qualcuno potrebbe anche pensare che una linea di demarcazione tra Destra e Sinistra dovrebbe passare da una netta scelta nelle voci di spesa e entrata dello Stato, dove si capisce quali ceti e classi sociali si vogliono privilegiare o colpire. E magari la cosiddetta Sinistra potrebbe ricordarsi che era nata e fondata sul principio della giustizia sociale, e non solo quando si sta all’opposizione.
da “il Quotidiano del Sud” del 29 ottobre 2024
Foto di xiaoou dong da Pixabay