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Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di D.L. di Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione, oltre che della Sanità (concordo con quanto detto a tal proposito da Enzo Paolini sul Quotidiano del Sud) , di molte materie che riguardano settori fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione (sono d’accordo con le argomentazioni di Filippo Veltri sulla scuola espresse sul Quotidiano del Sud), la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il Patrimonio della cultura ed il paesaggio

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente collegati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli: “L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità”.

Il sunnominato D.L. leghista è dotato di un “Elenco delle materie che, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene modifiche anticostituzionali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico affidandole alle 20 Regioni-staterelli. La potestà legislativa sul paesaggio e sul patrimonio -messa in discussione dal nuovo D.L. art. 117, secondo comma, lettera s – è, ad oggi, prerogativa della Repubblica, del Ministero dei Beni Culturali, non delle Regioni. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del Ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, a partire dal governo Gentiloni, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, in particolar modo la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna di Bonaccini.

Già Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché aveva ben presente che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

In preda ad un delirio secessionista, la Lega e il governo di destra vogliono mettere sotto il controllo politico regionale organi dello Stato che dovrebbero essere terzi. Un delirio assecondato dalla precedente riforma Franceschini (Renzi, del resto, aveva scritto che: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”) che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali dando la stura alla privatizzazione ed alla regionalizzazione del Patrimonio.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, non sarebbero più prerogative dello Stato, ma verrebbero sminuzzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine unitario alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto, per sempre, quello storico tessuto connettivo che tiene insieme il Paese, quel “particolare modo di essere che è l’essenza stessa della nostra personalità”, del nostro essere italiani.

L’eclisse dei valori della Costituzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 marzo 2023
La foto ritrae un gioco ideato dalle Scuole Montessori

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

1. Il disastro di Ischia non deve considerarsi evento eccezionale, legato alla presenza di iper cementificazione abusiva e alle caratteristiche ambientali dell’isola. Tantissimi contesti territoriali di quello che era considerato “il Belpaese” infatti sono destabilizzati da diffusione insediativa, consumo di suolo, urbanizzazione eccessiva spesso autorizzata, che ne hanno stravolto gli ecosistemi ; con degradi e dissesti già gravi, che diventano esiziali per le ricadute della crisi climatica. Gli eventi tragici che si susseguono sempre più ravvicinati inon sembrano però scalfire l’agenda politica : si urla per qualche giorno, poi la transizione ecologica torna ad essere per lo più una chiacchiera.

2. Pochi dati bastano a fornire i contorni del dissesto diffuso da impatti della cementificazione. L’italia dovrebbe avere , considerando abitanti residenti e presenti( compresi neonati e immigrati senza permesso), per fornire comodamente un tetto a tutti, circa 7 miliardi di metri cubi di volumi abitativi. Secondo i datascape ISTAT, se ne è costruito quasi il doppio; con un effetto di clamoroso sfascio economico e ambientale. Il suolo consumato seguita a crescere. Oggi è pari a circa il 10% del territorio nazionale. L’ISPRA ammonisce che tutto ciò significa il 94% dei comuni italiani a rischio frane o alluvioni, con ripartizione pressoché uniforme da nord a sud del Belpaese e 3,5 milioni di famiglie interessate del fenomeno.

L’Osservatorio “Città- Clima” di Legambiente sottolinea ancora gli effetti ormai quotidiani della crisi ecologica, testimoniati dagli “eventi estremi” degli ultimi dodici anni che superano quota 1500, con un incremento del 27% di quest’anno rispetto al precedente. E con crescenti sofferenze dei territori, i cui suoli sono “esasperati e stressati” del succedersi di fenomeni intensi quanto opposti: prolungate ondate di calore e connessa siccità, interrotte da precipitazioni copiose fino alle “bombe d’acqua”.

3. Già una decina di anni fa il MISE- non un centro studi di ecologisti radicali- stimo l’entità della spesa necessaria a mettere in sicurezza il paese dai rischi: sismico , idrogeologico , da incendi , inquinamenti : essa ammontava a ca 190 milardi di Euro. Si proponeva un programma pluriennale con voce permanente in Finanziaria. Renzi da presidente del consiglio sulla base di questo lanciò il programma “Casa Italia”. Che si bloccò e fu dimenticato dopo pochi mesi . Probabilmente quando ci si accorse che servivano soprattutto tanti piccoli progetti “a grana fine ”di ripristino e riterritorializzazione. Non le Grandi Opere dal sicuro effetto politico-mediatico.

L’agenda politica infatti ignora quasi completamente tali problemi, aldilà di dichiarazioni e annunci. Come dimostra il PNIAC , Piano Nazionale di Azione Climatica, pronto in bozza fin dal 2016, ma mai approvato. Lo stesso PNRR da questo punto di vista rappresenta un’enorme occasione sprecata; se si pensa che sono destinati al risanamento del territorio appena 4,5 miliardi di Euro, il 2% ca del totale spendibile. Un paradosso a fronte dei 31 miliardi di euro dedicati ad alta velocità e grandi opere ad alto impatto ambientale, che diventano 81 con il Collegato Infrastrutture.

4. Proprio Il PNIAC, insieme al Green Deal europeo e agli SDG (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’UNEP forniscono i criteri per le azioni di risanamento e consolidamento dei territori rispetto alla crisi ambientale. In Italia poi c’è l’ulteriore vantaggio di annoverare nei nostri quadri programmatici ordinari uno strumento già orientato a tutela e riqualificazione, il Piano Paesaggistico. Come previsto dal piano per il clima, i ministeri interessati, specie Ambiente, Cultura e Infrastrutture , di concerto con le Regioni, promuovono “task-force” di risanamento e restauro . Esse possono assumere come Linee Guida per l’azione di medio-lungo periodo proprio i piani Paesaggistici.

L’emergenza climatica – come è evidente in queste ore- richiede però azioni rapide, incisive già subito o nel periodo medio-breve. Per questo bisogna introdurre le strategie recenti, promosse da Green Deal e UNEP , legate ai Programmi di Adattamento Climatico ed ai Progetti di Resilienza, già realizzati in molte grandi città e contesti territoriali internazionali(tra cui Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Singapore), ma solo a Bologna , tra i capoluoghi italiani. Essi sono costituiti da progetti integrati di gestione dei fenomeni legati agli andamenti meteoclimatici di contesto e relative ricadute critiche, già registratesi e prevedibili. La particolarità di tali azioni è che muovono dal “ripristino di ciò che l’ipercementificazioneha distrutto, ovvero l’ecofunzionamento naturale degli habitat”. Il primo elemento di consolidamento di un ambito è l’azione di aggiustamento, restauro degli apparati paesistici. La prima azione urgente in pressoché tutti i 92000 comuni italiani è quella di ripristinare le vie di fuga dell’acqua, nonché la continuità dell’armatura dei collettori idrologici e paesistici. Azioni semplici da fare subito.

5. È necessaria una svolta reale quanto drastica nelle politiche ecologiche e territoriali. Siamo scettici che questo possa accadere per improvvise “illumininazioni” di un ceto Politico-istituzionale bloccato da incapacità e soprattutto interessi sostanzialmente estranei a questi temi. Appare necessaria l’azione diretta, ove possibile, altrimenti di pressione critica sui decisori , di quelle numerosissime soggettività che anche nel Belpaese lavorano ogni giorno per la tutela di ambiente e territorio, ma anche per produrre ricchezza da beni autosostenibili; e costituiscono ormai una realtà economica da decine di miliardi di euro all’anno. La transizione che urge parte da loro.

da “il Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2022

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Malgrado la delusione (per altro prevedibile) per i risultati del G20 sulla questione del contrasto al mutamento climatico, l’Ue prosegue la sua strada e chiede ai paesi membri di dare un maggior impulso agli investimenti green e, più in generale, ad un approccio complessivo al nostro modello di sviluppo.
Uno dei pochi settori dove già si vede la svolta è quello dei trasporti: auto elettriche, treni e navi ad idrogeno, sostituzione progressiva del trasporto merci su gomma con altri vettori con minore impatto ambientale.

Questa accelerazione nel campo dei trasporti è indubbiamente dovuta al fatto che rappresenta per l’industria automobilistica in primis, e per altri settori, una straordinaria domanda in una fase in cui il mercato dei mezzi di trasporto (in particolare delle auto e camion) è entrato in crisi, soprattutto in Occidente. Pertanto, ci piaccia o no, dovremo a breve sostituire le nostre auto che usano combustibili fossili con le auto elettriche, passando per una fase di utilizzo delle auto ibride.

Si ridurrà certamente l’inquinamento nelle città, ma non è detto che si riduca complessivamente se le colonnine elettriche, che sostituiranno gli attuali distributori di benzina e gasolio, saranno alimentate con sistemi convenzionali.

Vale a dire: se la mia auto si ricarica con una corrente elettrica prodotta da una centrale termoelettrica che brucia combustibili fossili, non si è risolto un bel nulla in tema di riduzione della CO2. Anzi si potrebbe aggravare perché c’è da contabilizzare l’inquinamento prodotto nella produzione delle batterie, con la relativa estrazione di minerali preziosi, e in aggiunta si pone un problema di smaltimento di milioni di batterie. Insomma, è chiaro che bisogna fare il massimo sforzo perché le macchine elettriche siano alimentate con le energie rinnovabili.

In Calabria potremmo avere condizioni ideali per far camminare le nostre auto e i mezzi pubblici grazie all’uso di energia solare, eolica, biogas. Anche la presenza di tanti borghi e piccoli centri, di tanti spazi attigui alle abitazioni dove collocare pannelli solari o il mini eolico, facilita l’uso di queste energie e consente alle famiglie un grande risparmio.

Ci sono gli incentivi per ammortizzare parte dell’investimento iniziale, ma finora non si è trovato un antidoto ad un virus che abita le nostre contrade: l’inerzia. Non si capisce perché una città come Reggio Calabria baciata dal sole per una gran parte dell’anno abbia meno della metà dei pannelli solari, termici e fotovoltaici, installati a Bolzano, con centomila abitanti contro i 170mila del capoluogo calabrese! E questo vale per tutta la Calabria con pochissime eccezioni.

Quarant’anni fa quando venivano installati i primi pannelli solari termici a Crotone, pensavamo che questa Regione sarebbe diventata come la California o la Florida, in termini di uso dell’energia solare ed eolica. Non siamo certo all’anno zero ma molta strada deve essere percorsa, e non si può perdere questa ultima occasione che ci offre il Pnrr (Programma nazionale recovery e resilienza).

Bisognerebbe già da questo autunno partire con una campagna di sensibilizzazione e promozione, cominciando dalle scuole medie superiori e dalle Università perché sono i giovani i più aperti alle novità, i più adatti a spingere le proprie famiglie ad investire sul futuro, dotarsi di accumulatori da energie rinnovabili, a cogliere quale grande opportunità economica e ambientale può offrire questo cambiamento.

C’è poi da segnalare una grande novità in questo campo: la nascita delle comunità energetiche nella Ue. Una strada maestra per ricreare vincoli di comunità, risparmio energetico e finanziario. Ma, di questo ne parleremo meglio la prossima volta.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 novembre 2021
Foto di Maria Godfrida da Pixabay

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.

In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.

La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.

Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.

Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.

I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.

Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.

Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.

Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.

Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .

E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.

L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.

Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.

Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.

Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
Foto di ojkumena da Pixabay

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Nel febbraio del 1980 iniziai a girare, in lungo e largo, nella nostra regione con un team di Rai 3 per realizzare un programma che si intitolava “Calabria ‘80” ed aveva l’obiettivo di indagare sulle attività economiche, sociali e culturali della nostra Regione. Soprattutto di guardare al presente puntando alle prospettive future di questa terra, già allora considerata come irrecuperabile da una buona parte della stampa nazionale.

Da nord a sud, da est ad ovest, incontrammo piccoli e medi imprenditori, aziende localizzate in borghi antichi e sconosciuti, monumenti storici e siti archeologici abbandonati (uno per tutti il castello di Roccella dove pascolavano le pecore), scoprimmo attività impensabili (come la coltivazione del riso a Sibari, o la nascita di una azienda “Internet” a Piano Lago), e i primi timidi tentativi di attrarre i turisti in Calabria.

Girammo per cinque mesi da febbraio a maggio, con l’occhio attento di Tonino Arena, indimenticabile fotografo e prezioso cineoperatore, producendo decine di chilometri di pellicola che poi, con la regia di Annarosa Macrì, montammo nel mese di agosto in una piccola stanza della Rai di Cosenza. Ricordo ancora la quantità di granite che prendevo ogni giorno per vincere un caldo infernale, e lo stress nel decidere i tagli con la forbice della pellicola, il punto giusto, con la paura di sbagliare e perdere un fotogramma definitivamente. Grazie alla competenza, intelligenza e granitica costanza di Annarosa portammo a termine l’operazione in quattro giorni. Alla fine ne ricavammo sette puntate che andarono in onda tra ottobre e novembre del 1980: due dedicate all’industria, due all’agricoltura, una al turismo, una alle cooperative e al Terzo Settore, last but not least alla cultura.

Oggi, dopo quarant’anni, rivedere queste immagini può risultare un utile esercizio per capire cosa è cambiato e cosa è rimasto, dove ci sono stati miglioramenti e dove invece abbiamo solo rimpianti. Una cosa è certa: prenderemo coscienza che la storia non viaggia in linea retta, che il cambiamento c’è stato, in chiaro scuro, con netti miglioramenti in diversi campi, industria-agricoltura-turismo, e peggioramenti nel paesaggio che scriteriate colate di cemento hanno deturpato e nelle relazioni umane, dove si è persa quella gratuità che ci caratterizzava in passato.
Forse, da questa comparazione ne ricaveremo una iniezione di fiducia in noi stessi, in un momento come questo in cui ne abbiamo tanto bisogno. Questo è l’augurio che faccio ai calabresi e a me stesso.
RAI 3 sabato 26 Gennaio e sabato 2 Gennaio ore 7,30.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 dicembre 2020

I delicati metabolismi che definiscono lo spazio in cui viviamo.-di Piero Bevilacqua

I delicati metabolismi che definiscono lo spazio in cui viviamo.-di Piero Bevilacqua

Prendendo a prestito due sintagmi del pensiero filosofico (Il principio speranza di Ernest Bloch e Il principio responsabilità di Hans Jonas) Alberto Magnaghi ha appena pubblicato un ponderoso volume, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, pp. 336, euro 30) che si presenta come il suo opus magnum, la summa delle ricerche e riflessioni di una vita.

Magnaghi dedica da decenni la sua acribia di studioso a questi temi, accompagnando la ricerca con l’impegno di organizzatore culturale, fondando e promuovendo un originale consesso di saperi multidisciplinari, La società dei territorialisti, con un proprio organo, Scienze del territorio, alimentato da annuali convegni tematici. Al tempo stesso ha affiancato a tali impegni la redazione di progetti pubblici importanti, come il Piano paesaggistico e territoriale della Toscana e quello della Puglia, insieme ad Angela Barbanente.

MAGNAGHI ha le idee teoricamente ineccepibili su ciò che significa territorio. Esso non è la natura sia pure violata dalla civiltà industriale, da riportare alle sue condizioni primigenie, ma «un neo ecosistema vivente», il frutto di una lunga storia delle popolazioni che hanno plasmato il loro habitat secondo bisogni e culture locali. «Città, colline terrazzate, campagne lavorate, infrastrutture, boschi coltivati hanno metabolismi che si trasformano nelle successive civilizzazioni, ma pur sempre metabolismi che connotano le strutture viventi». Solo afferrando tale realtà, evitando illusioni ingegneristiche di riparazione dei guasti, o sogni di palingenesi ecologiche, si imbocca la strada giusta per un opera di cura del territorio devastato dallo sviluppo.

LA STRADA, secondo Magnaghi «è quella di attivare prioritariamente, soprattutto a livello locale processi di crescita della coscienza di luogo, ripartendo dalla necessità di riappropriarsi dei saperi e delle capacità riproduttive dei propri ambienti di vita e di lavoro». Facendo leva sulla coscienza identitaria delle popolazioni, occorre avviare «una nuova civilizzazione antropica che riattivi i processi coevolutivi interrotti dalla civiltà delle macchine industriale e digitale». Nel progetto di Magnaghi non solo si ambisce a contrastare dal basso «i processi di eterodirezione della globalizzazione economica», ma si vuole perfino evitare il concorso dello stato nello sforzo di ricostruzione di un rapporto autoriproduttivo tra comunità e habitat.

Egli rifiuta il modello inaugurato nel 1933 dal governo Roosevelt con la Tennessee Valley Authority, che risanò una vasta area degradata, ma propone «un autoinvestimento sociale da parte di sistemi socioeconomici locali e delle loro grandi e inesplorate energie latenti». Per attuare una tale strategia l’autore propone una movimento di contro esodo da attuarsi attraverso il «ritorno alla terra», il «ritorno all’urbanità», cioè a una vita urbana vivibile, il «riabitare la montagna» e infine «il ritorno a sistemi socio-economici locali».

IL TESTO SI COMPONE di vari altri temi, contiene un capitolo di voci per «un dizionario territorialista», il disegno teorico di una «bioregione urbana», il progetto di un governo del territorio bioregionale attraverso una rete di città solidali, e altri motivi affini. Ma il cuore del suo argomentare e direi della sua cultura territorialista, nei fondamenti concettuali e nelle proiezioni operative, è in sintesi quello che abbiamo appena riassunto.

In tutta onestà si deve confessare che si resta abbagliati dalla coerenza e dall’equilibrio di tutti gli elementi architettonici di questo castello di cristallo. È un edificio elegante messo su con materiali creati dallo stesso autore, una sorta di neolingua in cui incasella la realtà teorizzata dentro i cassetti di una grande piramide classificatoria.

MA L’EDIFICO è ancora completamente vuoto. Magnaghi l’ha costruito con generosa creatività in attesa che esso venga riempito di vita reale e che questa si svolga secondo le prescrizioni da lui elaborate. Si fa infatti fatica a trovare in questo libro, dietro le parole, ad esempio dietro il termine territorio, una realtà geografica determinata, luoghi storicamente riconoscibili, realtà sociali, comunità viventi nelle loro reali condizioni.

Allorché, ad esempio, Magnagni tratta di ritorno alla terra, di questa c’è solo la parola. Non si intravedono ambiti materiali, superfici agricole, colture, forme dei campi, organizzazione del lavoro, tipi di abitati, popolazioni. In effetti Magnaghi preferisce, coerentemente, il regno dell’astrazione. Ma questo lo porta a omissioni gravi.

MANCA NEL LIBRO un minimo cenno alla Pac europea (la Politica agricola comune), una possibile grande leva per cambiare la sorte dei contadini e dunque delle economie locali e che oggi sta riconfermando la sua vecchia ratio industrialista. Ma non è omissione, è coerenza. L’autore rifiuta ogni intervento dello stato, figuriamoci quello delle istituzioni europee. Occorre agire dal basso, far leva solo sui luoghi, sulle loro «grandi e inesplorate energie latenti».

da “il Manifesto” del 2 dicembre 2020

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Cari amici di Catanzaro,
poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, pur non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione.

Una premessa.

Benché sempre più coperto di cemento e di asfalto, che hanno cancellato, negli ultimi anni, tante campagne e terre incolte, il territtorio del comune di Catanzaro, esteso per poco più di 11 mila ettari, conserva ancora la metà della sua superficie occupata dall’agricoltura. Ospita al suo interno circa 900 aziende che producono prodotti agricoli. A questa informazione occorre aggiungere un altro dato poco noto, che riguarda l’intera regione.

La Calabria è una delle regioni, se non in assoluto la regione più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia. Il che significa decine, talora centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, ecc. Da questo sintetico quadro ci si aspetterebbe che nella città di Catanzaro tutte le mense scolastiche, gli ospedali, i dispensatori automatici degli uffici, fossero costantemente riforniti (anche attingendo alle campagne della provincia) da frutta fresca o trasformata, da succhi di frutta e spremute di vario genere, provenienti da agricoltura biologica o biodinamica.

Così come, almeno d’estate, quando la frutta abbonda di solito nei nostri mercati e mercatini, dovrebbe essere normale avere a disposizione decine di varietà di pesche, di susine, di uva, di fichi.

Invece è noto che niente o quasi niente accade di tutto questo. Poche scuole riescono a rifornirsi di frutta biologica durante l’anno. E d’estate è sempre più raro mangiare frutta prodotta nel nostro territorio o per lo meno in Calabria. Quel che abbonda è merce industriale, pochissime varietà, generalmente scadenti e di scarsa sapidità. Un paio di varietà di fichi del nostro territorio, (quando ne esistono centinaia) e la solita uva da tavola, buona certamente, ma limitata a un paio di varietà,Italia e Regina.

Qualcuno mangia più la nostra superba uva Zibibbo? Riuscite ancora ad assaggiare una delle nostre pesche, succose e gustose di un tempo? O le antiche, sode e saporite Percoche? Solo pesche belle a vedersi, ma senza sapore. In genere vengono dall’Emilia e dirò più avanti come sono prodotte.

A me è accaduto d’inverno, alcuni anni fa (mi auguro che nel frattempo la situazione sia cambiata) di chiedere in più occasoni, in vari bar della città, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere dal cameriere con una domanda: “Fanta?”.
Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta. Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto industriale di una multinazionale. E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza “coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura.

Noi non riusciamo a produrre ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico, culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per la salute. Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.

In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione.Per ottenere tale risultato gli imprenditori, poco tempo prima della raccolta, spruzzano sulle piante dei preparati con ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.

Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per la nostra salute? Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale.Nel 2006 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia scriveva “…A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali, la nostra antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo sempre più esposti alle malattie degenerative…”

Un polo agricolo e scientifico

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda più generalmente le nostre campagne? Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di appassionare i catanzaresi ed entusiasmare i nostri giovani più intraprendenti. La condizione preliminare di questa inversione è un mutamento culturale.

Occorre guardare al territorio non più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati altrove), ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

Qui vi risparmio tutti i problemi di cui soffre l’agricoltura calabrese, meridionale e italiana per responsabilità della Politica Agraria Comune. Cercherò di mostrare quel che è possibile fare anche nelle presenti condizioni. E il punto di partenza del progetto è un luogo dove si scontrano le due contrapposte visioni del territorio: quella che lo vuole utilizzare per costruire edifici e quella che vuole farne leva di economie, di attività agricole e artigianali. E dunque quale punto di partenza più importante per sfidare una vecchia cultura e imporre una nuova visione di economia, dell’area di Giovino?

L’area di questo quartiere nei pressi di Catanzaro Lido, caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio.

A Giovino potrebbe nascere un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi. Non si creda che sia un’operazione del tutto nuova.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito, anni fa, il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Ricordo che anche in Calabria esiste un “parco” costituito dalle varietà di una sola pianta: un ciliegeto nel quale alcuni agronomi, tra cui Antonio Scalise e Franco Santopolo, hanno raccolto decine di varietà antiche di nostri ciliegi che ora crescono nelle campagne di Zagarise. In questo stesso comune è stata realizzata una piantagione di varietà di peri, meli e susine tradizionali. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia, da Paolo Belloni. Qui, questo solitario amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud.Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante.La nuova agricoltura non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni d’Europa, nomerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee, fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne.

Ma in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa trasformazione dei prodotti (vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc), ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per i portatori di handicap, ecc. L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini, protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione, conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio.E questa è una battaglia in corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico straordinario.Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia, soprattutto, l’alimentazione.

Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non chimici. Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa, sesamo, malva, melagrane, ecc.

Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di possibilità di occupazione e di reddito.
Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione artigianale dei prodotti.

Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione, in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Va da sé che dove possibile, soprattutto nelle aree poco suscettibili ad uso agricolo, occorrerebbe impiantare pannelli fotovoltaici, per rendere il distretto potenzialmente autosufficiente per i suoi bisogni energetici. Così come è giusto immaginare spazi per il tempo libero, sport all’area aperta, giochi per bambini. Il diletto dei cittadini deve avere i suoi diritti a pari titolo dell’economia.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifca con i Paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.

Cari catanzaresi,
come sapete, nel territorio di Giovino il Comune di Catanzaro intende avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali. Dunque nuovo cemento e asfalto, che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilita del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare. Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma.

E’ evidente, dunque, che quello del Comune è un progetto vecchio, che dilapida in modo irreversibilie il patrimonio delle nostre terre fertili superstiti, e, anziché creare nuove economie, nuovi posti di lavoro, pietrifica i pochi capitali esistenti. Vi ricordo che oggi voi godete degli spazi e del verde del Parco della Biodiversità, perché quell’area non è stata destinata a edifici, altrimenti oggi questo patrimonio collettivo sarebbe cancellato. Lasciare ai figli e ai nipoti pietre, al posto di terre fertili, a me francamente pare un progetto insensato, ingiusto e sbagliato, contro cui ribellarsi.

foto tratta dal sito fb “Dune di Giovino-Ultima spiaggia”.